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La più bella delle Numenoreane. Miriel

Care lettrici, cari lettori,
nell’articolo pubblicato in questa settimana, avrei iniziato a trascrivere il racconto de «Il Marinaio e la Grande Battaglia», che conclude il mio Ciclo del Marinaio. Non potevo, però, non lasciare spazio alla prima illustrazione a colori dei personaggi dei miei racconti: per questo primo esperimento in tale verso, indeciso com’ero tra Miriel ed Erfea, ho optato per la principessa numenoreana, che Tolkien descrisse come la più bella delle figlie degli Uomini della sua epoca. Lascio a voi commenti e osservazioni: personalmente ho trovato questa illustrazione stupenda, sia per la ricchezza dei dettagli, che per la bellezza struggente che la mano sapiente di Livia De Simone ha saputo tratteggiare e colorare.
Vi suggerisco di visitare il suo sito http://www.liviadesimone.com/, perché contiene una nutrita sezione di immagini a tema tolkieniano (tra le quali una menzione speciale merita una stupenda Galadriel, un soggetto, a mio parere, molto difficile da ritrarre).
Concludo il mio articolo presentandovi un altro brano tratto dal racconto che (provvisoriamente) ho intitolato «Il racconto della Rosa e del Mare» e che narra dell’adolescenza di Miriel e dei segreti che ne condizionarono l’esistenza. Se volete leggere (o rileggere) il principio di questo nuovo racconto, vi rimando qui.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«L’uomo era stato presente alla nascita dell’ultimo erede della gloriosa casata degli Hyarrostar, discendente del figlio minore di Elros Tar-Minyatur: aveva riposto grandi speranze nel giovane Erfea, ché lo riteneva uno dei migliori Uomini del suo tempo, nonostante un’ombra gravasse sul suo destino ed egli fosse scarsamente considerato a corte, ché era ostile al partito dei Fedeli del Re e non si piegava alla loro volontà, né alle loro leggi, disprezzandole e, per tale ragione, divenendo a sua volta oggetto di maldicenze ed ingiurie. Nella sua lungimiranza, tuttavia, non avrebbe osato immaginare quale sarebbe stata la sua reazione dinanzi alla figlia che quel pomeriggio gli aveva inviato, ed ora il resoconto di quell’incontro lo rasserenava; non che egli avesse avuto altra scelta, dopotutto. Aveva profonda convinzione, infatti, che Miriel presto o tardi avrebbe desiderato conoscere qualcuno della sua età, che potesse mostrarle amicizia e rispetto: né avrebbe trovato queste caratteristiche in alcuno della sua famiglia, i cui membri, per la maggior parte, erano servi del sovrano ed ostili a quanti avversavano il suo credo. Quanto agli altri principi di sangue, valevano le medesime considerazioni espresse sulla propria famiglia: non poteva fare affidamento su nessuno di loro, ché essi si erano dimostrati in passato ostili alla sua persona o alle sue convinzioni; e tuttavia, Erfea non era stato l’unico sul quale l’uomo aveva posto il suo sguardo lungimirante e indagatore. Vi era stato un tempo, infatti, nel quale aveva preso in grande considerazione Arthol, principe del Mittelmar: era un giovane Uomo dall’aspetto vigoroso, dal viso severo e dal linguaggio forbito; tuttavia, tosto l’aveva escluso dalle sue riflessioni, ché si era accorto essere presente nel suo animo una grande ambizione che, temeva, avrebbe finito col distruggere la sua esistenza e quella delle persone a lui più vicine. Considerazioni diverse, e tuttavia caratterizzate dalla medesima triste ritrosia, inoltre, l’Uomo aveva espresso su Brethil; anch’egli era un principe ostile ai Numenoreani del Re, eppure si rammaricava di non poter posare su di lui il suo benevolo sguardo, ché sapeva essere tale giovane ostile al destino che un giorno ancora lontano avrebbe plasmato con tutta la sua preponderante forza l’esistenza della sua unica figlia.

“Il vostro sembiante era lieto, fino a qualche istante or sono – la cristallina voce di sua figlia interruppe così le sue meditazioni. – Mi è parso di scorgere un’ombra sul vostro volto, come l’atavica paura di una condanna alla quale voi avete opposto da molti anni un secco diniego”. “Non vi è nulla che mi turbi – così le rispose il padre – a meno che io non debba temere di posare il mio sguardo ove l’Ombra è più penetrante. Eppure – concluse rivolgendo il suo sguardo verso l’Occidente – perché mai queste preoccupazioni? La Tenebra non è ancora calata sul Menelterma”. Gli ultimi raggi morenti del pallido sole primaverile lambivano ancora le pendici delle dimore signorili che si ergevano, simili a torri algide che mai luce estiva avrebbe potuto riscaldare, lungo le pendici del monte, lontano dalla capitale Armenelos, ove il fetore e l’inganno regnavano sovrani. Egli attese l’ultimo saluto del Sole, infine così congedò sua figlia: «Ebbene, ho ascoltato le parole che la tua bocca ha pronunciato e non ho ignorato i sentimenti che invano reprimi nel tuo animo; possano esserti di conforto, quando l’inganno verrà svelato”. Furente, la fanciulla levò di scatto la sua esile figura: per lungo tempo i suoi chiari occhi sostennero il suo sguardo, infine, stanca per quel confronto, volle congedarsi, non prima, tuttavia, di avergli rivolto un’ultima volta la parola: «Sei sovrano fra gli Uomini e ogni tuo desiderio è legge; io, però, non accetterò, supina, che altri debba decidere il mio Fato. Ho agito sotto un tuo comando e vorrei che tu esprimessi gratitudine per il mio gesto; se, tuttavia, la gioia che provo per questo incontro a lungo concertato è superiore a quella che una figlia ossequiente dovrebbe provare nei confronti del proprio padre, ebbene, lascia che sia io a stabilirlo». Inchinatasi leggermente, ella abbandonò la sala sdegnata; lo sguardo febbrile di suo padre la seguì sino quanto l’eco dei suoi leggiadri passi non si fu spento in lontananza, infine sospirò lentamente, rivolgendo la sua attenzione ad un’altra figura che, silente, attendeva nascosta»

Suggerimenti di lettura

Ritratti – Miriel ed Erfea…e un nuovo racconto

Miriel

…Eccoci al bis! 2 anni di blog

Care lettrici, cari lettori,
la scorsa settimana – il 13 marzo per essere precisi – il mio blog ha compiuto due anni. Ho aspettato qualche giorno per parlarvi di questa ricorrenza perché ero in attesa di ricevere aggiornamenti su un progetto portato avanti da due miei amici, Gemma e Livio, che sono anche bravissimi doppiatori. Qualche tempo fa Gemma – che è stata, tra l’altro, la primissima lettrice in assoluto de “Il Ciclo del Marinaio” – mi sottopose un progetto «inaspettato» che – giunto adesso a piena realizzazione – voglio condividere sul mio blog. Non intendo svelarvi altro, per non rovinarvi la sorpresa, se non porvi una domanda: avete mai desiderato ascoltare la voce di Erfea e di Miriel, i due principali protagonisti de “Il Ciclo del Marinaio”? Se la risposta è affermativa, vi suggerisco di guardare (e soprattutto ascoltare) il seguente video su youtube…

Prima di lasciare spazio ai vostri commenti e pareri, non mi resta che ringraziarvi per avermi seguito in questi ultimi 12 mesi: sono soddisfatto dell’andamento del mio blog, perché sono aumentati sia i visitatori che gli apprezzamenti e questo non può che farmi piacere. Un ringraziamento speciale lo devo a Federico Aviano che con la sua fantastica (e forse immeritata, lo confesso) recensione ha contribuito a fare conoscere al pubblico i miei racconti in questi ultimi mesi. Potrete leggerla qui.

Alla prossima, spero che questo primo esperimento vocale vi sia piaciuto!

L’assedio di Minas Ithil (parte VII). La reggenza di Erfea

Care lettrici, cari lettori,
riprendo con questo articolo la narrazione dell’assedio di Gondor da parte delle armate del nazgul Adunaphel. Nel precedente articolo L’Assedio di Minas Ithil (parte VI). Una tragica ritirata avete letto dell’abbandono della Città della Luna da parte dei civili e dei soldati numenoreani, ormai ridotti in condizioni tali da non poter più opporre resistenza ai nemici soverchianti. Questo sarà l’ultimo capitolo di questa serie: a partire da questo momento, infatti, i lettori che vorranno seguire le avventure di Erfea a comando dell’esercito di Gondor, dopo il ferimento e successivo stato di coma raggiunto da Anarion, avranno a disposizione una nuova serie di articoli che riguarderanno gli sviluppi della situazione bellica: i combattimenti, infatti, dopo la caduta di Minas Ithil, si spostarono verso la Città delle Stelle, come era allora chiamata la capitale del Regno di Gondor. Potrete, dunque, continuare la lettura qui: In difesa di Osgiliath (I parte).

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Meneldur, erede di Anarion, ricevette Erfea, allorché costui ebbe terminato il proprio turno da guardia, nella sala del trono ed ebbe con il Sovrintendente un breve colloquio. “La sovranità del regno di Gondor resterà nelle mani dei discendenti di Isildur, a meno che un oscuro flagello non conduca tutti noi verso un’amara morte; tuttavia vorrei che Erfea Morluin assumesse il comando delle armate di Osgiliath e di tutti i nostri bastioni in tale contrada, ché tale sarebbe stato anche il desiderio di mio padre se egli fosse stato cosciente; notevole fama hai acquisito in questi lunghi anni di esilio e fra i soldati della Guardia corre voce che nessuno sia più lesto di te nel manovrare la spada. Possa tu condurci alla vittoria finanche in tale ora oscura”.
Dopo essersi inchinato, Erfea parlò: “Se tale è la volontà dell’erede del re di Arnor e Gondor, ebbene, non sarò io a metterla in discussione. Farò quanto tu chiedi e possa la grazia dei Valar permettere a tuo padre di sopravvivere ai mali di quest’epoca”.
Nessun’altra parola fu pronunciata fra i due né quel giorno, né i giorni seguenti, ché il Sovrintendente presenziava numerosi consigli, intento a programmare la difesa della città di Osgiliath, mentre Meneldur giaceva accanto al capezzale del proprio padre, silente come le statue del Rith Dinen[1] e pallido in volto.
Il giorno seguente l’evacuazione da Minas Ithil, un messaggero giunse alla Città delle Stelle, recando con sé notizie gravi, sebbene ormai prevedibili; una possente flotta, quale non se ne vedeva una simile da numerosi anni, aveva assaltato Pelargir nel Sud; la città era stata sguarnita e la sua popolazione si era rifugiata a Dol Amroth e ad Edhellond.

“Non fu tuttavia il terrore delle vele provenienti da Umbar a colmare il nostro cuore di panico, né l’udire il suono di centinaia di corni echeggiare nella calma aria del mattino – riferì il messaggero – ma la visione di due oscure figure, quali mai la nostra gente aveva scorto dacché la città era stata fondata. Esse si ergevano sulla poppa di una fra le navi più splendide che i miei occhi abbiano mai mirato; lunga quaranta metri, le sue lucide fiancate nere lambivano l’acqua e tuttavia sembravano sfiorarla appena; letale era però il suo equipaggiamento bellico e le sue baliste ripetutamente crivellavano di colpi i nostri bastioni. Feroce fu l’attacco ma non meno disperata la nostra difesa; scagliammo frecce in gran quantità e numerose navi presero fuoco, sicché parve che le acque del fiume stesso bruciassero.
Il nemico, tuttavia, non sembrò tenere in gran conto la nostra minaccia, e continuò l’attacco per quattro giorni e quattro notti, sempre, così parve, con il suo malefico occhio volto a settentrione. Due notti fa, le vedette sulle mura avvistarono una grande nube di fumo levarsi da nord e gli animi di tutti, pur nulla sapendo di quanto avveniva in tal contrade, furono presi da grande terrore e sgomento; le schiere dell’avversario, al contrario, presero ad esultare e la furia del loro attaccò sembrò centuplicata: macchine forgiate nelle loro fucine comparvero sul ponte delle loro navi ed esse erano ignote ai nostri occhi; fin troppo presto, tuttavia, ne apprendemmo lo spaventoso uso che il nemico si apprestava a farne, ché esse scagliarono contro le nostre mura un gran quantità di proiettili di svariate dimensioni, gli uni più piccoli, gli altri più grandi, finché numerose crepe non si aprirono al loro interno e i nemici non si furono impadroniti del cancello e dei bastioni che si ergevano attorno ad esso, sicché la nostra difesa divenne impervia e tutti coloro che non potevano impugnare un’arma furono costretti ad abbandonare la città, le cui fiamme spettrali si riflettevano sulle acque del mare per molte miglia intorno.
Invano sperammo che rinforzi potessero giungere in nostro soccorso da Osgiliath; infine, al sorgere del nuovo sole, la nostra gente si mise in viaggio ed ora dimora nelle grotte che si ergono nei colli a nord; i soldati, tuttavia, non vollero abbandonare le armi e proseguirono nella lotta, ritirandosi in buon ordine nelle cerchie interne della città, ove l’assedio ancora prosegue. Io fui mandato da Herugil, signore di Pelargir, a domandare l’aiuto dei nostri sovrani in un’ora sì buia per la nostra città”.
“Riferisci al tuo signore che non vi è altro conforto per il vostro popolo che la spada, né un destino differente dalla guerra, ché le armate di Mordor sono prossime alla città di Osgiliath; Minas Ithil è caduta quattro giorni fa e molti soldati sono stati uccisi nella sua difesa e durante la ritirata che a essa ha fatto seguito”.
Tali furono lo sgomento e il timore che si dipinsero sul volto del messaggero, che costui abbandonò la sala senza pronunciare parola; Erfea, tuttavia, non lo fermò, ché non vi sarebbe stata parola tale da poter arrestare il corso degli infausti eventi. Lesti, i soldati della Guardia si schierarono sui bastioni e lungo le mura di Osgiliath, mentre solo la voce del vento si udiva in tutta la pianura; forte echeggiava il vento del Sud in quella ora oscura, sicché ogni altro suono venne ridotto al silenzio; e, tuttavia, fu un bene, ché se il suo canto fosse venuto meno, gli uomini avrebbero ascoltato solo il terrore albergare nei loro cuori e lo spavento echeggiare negli oscuri antri della mente.

La grande città di Osgiliath era stata edificata sulle due rive del fiume Anduin ed i suoi alteri palazzi, le sue imponenti torri e le austere terrazze erano difesi da bastioni e fortificazioni che correvano lungo il suo perimetro esterno: non vi erano che due soli accessi per entrare nella città, ed entrambi erano stati collocati da mani sapienti al termine di due imponenti strade, le quali, inerpicandosi lungo i bastioni esterni, conducevano ai cancelli orientale e occidentale; qualunque nemico che avesse voluto raggiungere i massicci portoni in quercia che si ergevano alla sommità dei due percorsi fortificati, avrebbe dovuto esporsi al tiro di numerosi arcieri collocati all’interno di invisibili torri e lungo i camminamenti che ne univano le strutture.

Bella, eppure micidiale, la capitale del regno di Gondor ammaliava il forestiero con la medesima grazia con la quale gli si sarebbe accanito contro, qualora costui avesse voluto farne scempio; nessun mortale avrebbe avuto la follia di prendere d’assalto i suoi poderosi bastioni o le sue imponenti torri.

Non era però un rozzo abitante dei colli, né un sudicio Orco di caverna che giungeva a sfidarne la potenza, ma una creatura imbevuta di odio e ambizioni pari a quelle che un tempo mossero Morgoth, l’antico nemico, contro la fiorente città di Gondolin; a lungo gli eserciti di Mordor erano stati addestrati all’uopo e ora giungevano per appropriarsi di quanto desideravano conquistare; torri mobili erano spinte innanzi da creature mostruose, più simili a bestie che ad uomini, mentre fitte schiere di Orchi, ne circondavano le mura, facendo risuonare a lungo gli scudi in segno di sfida; eppure, la città non tremò e il sussulto di paura che era germogliato nel cuore degli Uomini tosto disparve, ché Osgiliath era ben fortificata e finanche la potenza delle schiere del Nemico poteva punto o poco contro di essa: frecce erano scagliate dalle feritoie e dai merli, né gli Orchi riuscivano a superare il fossato senza subire gravi perdite, ed essi non avevano recato con loro alcun natante per superarne le gelide e profonde acque.

Accadde dunque che la città resistette a lungo, oltre le aspettative di Adunaphel, la quale ardeva invero di ottenere la sua vendetta sui Dunedain scampati alla Caduta; al termine del quindicesimo giorno dacché l’assedio aveva avuto inizio, i cavalieri della città uscirono per compiere una sortita a cavallo, al fine di incutere terrore nelle schiere di Mordor; allora i servi di Sauron si sparpagliarono come le foglie nell’autunno e la vittoria arrise ai figli di Gondor.
Lieti furono i cuori dei Secondogeniti quella sera e canti si levarono da ogni vicolo della città; solo Erfea non condivideva tale entusiasmo e il suo animo rimaneva impassibile, ché non aveva obliato la potenza delle armate di Sauron, né aveva ignorato che gli Orchi erano stati condotti dinanzi alla mura di Osgiliath non già per raderla al suolo, ma per verificare la resistenza della Guarnigione e della fortificazioni, allo scopo di mostrare al Nemico quali fossero i punti deboli della Città.
È stato detto che i Numenoreani avessero una vista sì acuta da scorgere un bersaglio a molte leghe di distanze; pure, sebbene tale notizia corrispondesse al vero, solo il Sovrintendente individuò nove remote figure a cavallo stagliarsi sui colli che si ergevano ad Oriente, simili a statue silenti eppure remote; parola non avevano sussurrato, eppure Erfea non ebbe dubbi sull’identità che i loro abiti neri occultavano alla vista degli uomini: essi infatti erano gli Ulairi, gli schiavi dell’Anello e nessun’azione bellica era sfuggita ai loro rapaci occhi, ché vi sono altri sensi oltre la vista e l’udito ed invero i Nazgul erano profondi conoscitori delle arti del Nemico ormai obliate. A lungo i nove capitani di Sauron ristettero sul colle, infine, allorché i loro eserciti furono sconfitti, svanirono ad Oriente e più furono visti per lunghi giorni; ultimo a svanire nella bruma della sera che strisciava dai Monti Bianchi, fu colui che in seguito avrebbe condotto possenti e feroci armate contro la città degli uomini del mare; una ferrea corona ne incorniciava il volto e nulla di questo era visibile, ad eccezione degli occhi, la cui malvagità sembrava irradiarsi a tutto il corpo: ignoto era agli uomini dell’epoca il suo sembiante, eppure, se avessero avuto follia a sufficienza per approssimarsi, tremanti, innanzi al suo spaventoso destriero, avrebbero scorto delle rune intarsiate lungo tutto il suo elmo e infine la sua origine sarebbe stata rivelata, ché codesto era l’elmo di Tar-Ciryatan, undicesimo sovrano di Numenor.
Colui che ora si arrogava il diritto di indossarlo, altri non era che il secondogenito di costui: Er-Murazor era il suo nome tra i Numenoreani Neri ed egli era noto anche come il Signore dei Nazgul, capitano delle legioni di Mordor; per qualche istante il suo sguardo si posò su Erfea che lungi l’osservava, infine svanì nella bruma vespertina, recando con sé letali giuramenti di vendetta contro colui che, anni prima, ne aveva impedito la vittoria.

I giorni successivi furono allietati dalle feste e dai canti che accompagnarono la celebrazione della vittoria sugli eserciti di Mordor, resi ancor più dolci dalle notizie che giungevano da Nord e da Sud: infatti, sebbene la città di Pelargir fosse stata incendiata dalla flotta comandata da Akhorahil ed Indur, i soccorsi prestati ai Dunedain dagli elfi di Edhellond avevano condotto alla resa degli avversari, le cui imbarcazioni giacevano ora nel profondo del mare del Belegaer; al guado di Carrock, inoltre, gli eserciti degli Eothraim scampati ai massacri e ai saccheggi perpetuati da Hoarmurath, si erano alleati agli elfi di Lorien e alle altre stirpi di Uomini che abitavano le vaste contrade del nord e avevano messo in fuga le avanguardie del nemico, impedendo ai suoi Orchi di conquistare la contrada dell’Alto Anduin e le terre del Rhovanion occidentale.

Tali erano dunque gli avvenimenti delle ultime settimane, ché i Popoli Liberi sembravano aver impedito il sorgere di una seconda oscurità su Endor; ma la vigilanza degli Uomini venne meno ed essi si gloriavano per quella che credevano essere stata una grande vittoria sulle forze di Mordor; Isildur, tuttavia, era giunto ai lidi del Lindor ed ivi aveva esternato a Gil-Galad, l’alto re dei Noldor in esilio, e a suo padre Elendil, sovrano di Arnor, le inquietudini che nutriva nel suo cuore, ed essi avevano convenuto con lui che era necessario consentire ai capitani delle liberi genti e ai Saggi di incontrarsi per deliberare sulle sorti di Endor, onde assicurarsi che il pericolo di Sauron fosse o meno reale; indi, rapidi messaggeri erano stati inviati in tutti i reami ove erano ancora ascoltate le parole dei Valar e fu stabilito che il concilio si tenesse ad Orthanc, la poderosa e solitaria fortificazione che i Numenoreani avevano edificato negli anni successivi alla Caduta all’estremo sud delle Montagne Nebbiose.

Le storie di quei giorni ricordano che fra coloro che presero parte al concilio, vi fossero Gil-Galad, Galadriel, Celebrian ed Elrond per i Noldor; Oropher[2] e Cirdan per i Sindar; Elendil, Isildur ed Erfea, in qualità di sovrintendente e rappresentante del regno di Gondor, ché era ancora infermo Anarion, per i Dunedain; Aldor Roc-Thalion per gli Eothraim e gli uomini del Nord e Naug Thalion e Groin per i nani di Khazad-Dum; ma poiché di tale avvenimento si narra altrove[3], qui non se ne trova resoconto completo.

A lungo discussero i sovrani e i rappresentanti dei Popoli Liberi, ché l’attacco di Sauron aveva colto di sorpresa ognuno di loro, eccetto Erfea e Gil-Galad, supremo re dei Noldor, né vi era concordia sulla strategia da adottare per contrastare le mire egemoniche del Nemico, ché vi erano ancora ostilità, solo a stento soffocate da uno sterile formalismo, tra i Naugrim ed i Sindar di Oropher[4], ed i Silvani non desideravano riconoscere come comandanti supremi dei loro eserciti gli orgogliosi Noldor; fu in tale frangente che molti dei frutti concepiti da Eru Iluvatar e benedetti dalle lacrime di Yavanna, germogliarono freschi e limpidi, ché gli spiriti dei Dunedain, non rosi da alcun astio o risentimento verso le altre Libere Genti, si applicarono affinché tali contrasti in seno al Concilio fossero superati in nome del buon senso e dell’impellente necessità di condividere una strategia comune prima che il secondo attacco di Sauron piombasse sulle loro contrade.

Al termine di una settimana, dunque, fu approvata e firmata dalle parti contraenti un’Alleanza, il cui scopo primario era arrestare la minaccia di Sauron ai reami dei figli di Eru Iluvatar, e qualora le condizioni lo avessero reso possibile, di umiliare il nero spirito di Sauron, ricacciandolo nelle Tenebra dalla quale giungeva; ciascun popolo, secondo le proprie possibilità e i propri mezzi, avrebbe contribuito alla costituzione e all’armamento di un esercito quale non si vedeva dai tempi della Guerra d’Ira, allorché Morgoth fu abbattuto ed Endor, per alcuni tempi, liberato dalla lordura dei suoi servi.

Confortato da tali notizie, Erfea Morluin fece ritorno ad Osgiliath di gran carriera, ché notizie non gli erano giunte della sua patria ad Orthanc e il suo cuore molto temeva per la sorte di Anarion che ancora giaceva nell’oblio; nulla, tuttavia era accaduto nella città in sua assenza e Meneldur era sempre al capezzale del padre, le cui ferite, sebbene fossero state curate secondo l’arte dei Numenoreani, la cui scienza all’epoca non era ancora svanita dal mondo, pur recavano nei loro labbri un veleno invisibile ai guaritori della città; pallido era il viso del sovrano e a tratti sconvolto da dolorose smorfie che incupivano l’animo e il cuore di coloro che in quei giorni l’assistevano».

Note

[1] Con tale nome si indicava la strada ove erano situate le dimore dei morti a Minas Anor, oggi nota come Minas Tirith.

[2] Si veda l’Appendice F, “Il Consiglio di Orthanc”.

[3] Sovrano degli elfi silvani di Bosco Verde il Grande e padre di Thranduil, condusse la sua gente a  Sud e  perì durante il primo assalto ai Cancelli Neri di Mordor; si veda anche “Il Racconto del marinaio e della grande battaglia”.

[4] Tali rancori erano dovuti al ricordo, mai obliato dalla stirpe di Oropher, dell’assassinio di Thingol, re degli Elfi, da parte degli artigiani nani provenienti dalla cittadella di Nogrod, avvenuto nella Prima Era a causa del possesso del Silmaril: in realtà, nessuno degli assassini era sfuggito al giusto castigo, ché erano stati trucidati da Beren e dagli Ent; pure i Sindar avevano nutrito da quel dì avversione per i Naugrim, sebbene la stirpe di Khazad-Dum fosse stata estranea a tali vicende.

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I Draghi nell’assedio di Gondor

Osgiliath cadrà? Scontro finale

Colonna sonora

Care lettrici, cari lettori,
quest’oggi voglio inaugurare una nuova categoria, dal titolo «Colonne sonore», allo scopo di condividere uno dei brani musicali che mi sono stati di ispirazione – e che lo sono tuttora – nel mio processo di scrittura del «Ciclo del Marinaio». Si tratta di un pezzo dei Dream Theater, intitolato «The Count of Tuscany». Tralasciando la prima parte (molto bella, indubbiamente, ma forse poco vicina alle tematiche epiche della Terra di Mezzo), vi invito ad ascoltare i minuti compresi fra l’undicesimo e il diciannovesimo…personalmente li trovo molto struggenti e nostalgici, ideali come sottofondo per accompagnare i dialoghi fra Miriel ed Erfea.
In particolare, la parte finale (a partire dal minuto quindicesimo) potrebbe accompagnarsi molto bene a un momento topico mai narrato nei miei racconti, ma che avrei voluto descrivere, se ne fossi stato all’altezza: un dialogo mentale, come quelli che si svolgevano fra i Signori degli Elfi, descritti da Tolkien alla fine del Signore degli Anelli, fra Erfea e Miriel nel momento in cui quest’ultima capisce che l’onda scaturita dalla furia di Eru non la risparmierà. So bene che nel Silmarillion Miriel cercò di fuggire verso il Menalterma prima di essere trovolta e morire ma, credetemi, questa è forse l’unica scena che avrei cambiato della Caduta: avrei voluto che Miriel, poco prima di morire, avesse avuto la forza di affrontare la sua fine, dialogando brevemente con Erfea prima di quel tragico istante. Questa «pagina mancante» rappresenta uno dei miei più grandi crucci di autore: mi piacerebbe, un giorno, avere la giusta vena poetica per scriverla.

Fatemi sapere cosa ne pensate, buono ascolto!

[L’immagine in alto è intitolata «Rivendell» ed è opera di Blazgad Mikel]

L’Assedio di Minas Ithil (parte VI). Una tragica ritirata

Care lettrici, cari lettori,
siamo giunti al sesto appuntamento con la storia della guerra mossa da Sauron nei confronti del regno di Gondor alla fine della Seconda Era. Ho scelto come immagine per il mio articolo questa cartina, tratta dall’«Atlante della Terra di Mezzo» di K.W. Fonstad, che illustra le dimensioni del Regno di Gondor nel suo primo secolo di vita, compreso fra l’arrivo delle navi di Isildur e Anarion alla foce del fiume Anduin e l’inizio della guerra contro Sauron. Come potrete osservare, si trattava di un reame molto più piccolo rispetto ai confini che raggiunse nel corso della Terza Era. Ringrazio Federico Aviano, uno dei miei più affezionati lettori, per avermi dato indirettamente l’idea di mostrare questa mappa, scaturita in uno scambio di battute avute a commento del precedente articolo: in quel contesto, infatti, si ragionava sulle origini del regno di Gondor e mi è sembrato opportuno, dunque, rendere il concetto visivamente più chiaro a tutti i miei lettori attraverso questa mappa.

Si avvicina il secondo anniversario del mio blog…non posso giurarlo, ma mi farebbe piacere farvi una piccola sorpresa per quella data, tempo permettendo…stay tuned!

«Altri dettagli furono messi a punto in quella riunione e dopo due ore dacché il sole era tramontato, Isildur, scortato dai suoi cavalieri e dalla sua famiglia si accinse ad abbandonare il Reame del sud: triste fu il suo commiato ed egli si congedò da Erfea con tali parole: “Nell’abbandonare la Città della Luna, rinnovo a Erfea Morluin la fiducia che egli si è meritato in tanti anni di vigilanza; lungo tempo trascorrerà, tuttavia, prima che l’olifante dell’erede di Elendil possa echeggiare in queste terre, e molti altri eventi accadranno fino a quel momento; se il tuo cuore rimarrà saldo nella tempesta che è prossima ad abbattersi sulle nostre opere, allora il tuo animo troverà giusta ricompensa e l’amarezza che provi nel cuore sarà lenita”.

“Mio signore, invero il destino dei Secondogeniti è noto a Mandos soltanto e di rado le sue parole vengono sussurrate alle orecchie degli Uomini; tuttavia, possente è la lungimiranza della tua stirpe e può essere che tu intraveda eventi che devono ancora essere e che la mia anima non scorge, incapace di lacerare il velo che occulta infausti ricordi e che sapientemente ha tessuto in anni di esilio per mascherare il dolore della perdita”.

“Questo ti dico, Erfea figlio di Gilnar: il velo sarà squarciato, ché la morte ti sarà prossima; se tuttavia il tuo cuore saprà essere saldo in tale frangente, questo io non so prevederlo ché l’Oscurità incalza e ottenebrate sono le vie del mio pensiero”.

Nulla rispose il Sovrintendente di Gondor e, inchinatosi lesto, condusse il suo signore al cancello orientale della città, ove una nutrita scorta lo attendeva; infine, dopo aver levato un’ultima volta la mano in segno di saluto, si recò nelle case di Guarigione, offrendo i suoi servigi a coloro che ne abbisognavano, ché egli era un uomo pietoso e di rado la stanchezza prendeva il sopravvento sulle sue membra, sicché attese al suo lavoro per l’intera durata della notte; parola non fu però pronunciata ed il suo viso era fosco e pallido, simile ad un bianco fiore notturno che la bruma occulta agli sguardi dei viaggiatori erranti del deserto.

Giunse infine il mattino e con esso le prime cattive novelle: esploratori, inerpicatesi lungo il pendio degli Ephel Duath, avevano scorto immensi accampamenti estendersi nella piana di Gorgoroth e, atterriti da tale visione, erano corsi lesti a Minas Ithil; Orchi ed altre creature erranti delle Tenebre erano ancora dispersi, eppure ogni cosa lasciava prevedere che presto si sarebbe scatenato un nuovo assedio alla Città della Luna.

Alla terza ora dopo il sorgere del sole, soldati giunsero da Osgiliath e da Minas Anor, recando i vessilli dei figli di Elendil: Anarion affidò a costoro, secondo quanto era stato stabilito il giorno precedente, la custodia delle donne e dei bambini di Minas Ithil: “Siate lesti, ché non è nei nostri mezzi sfidare la potenza delle schiere di Sauron in campo aperto, né i suoi eserciti tarderanno a giungere, ché il loro obiettivo è ancora lungi dal concretizzarsi”.

Un’ immensa processione di profughi si avviò allora mesta sotto un pallido sole e poche erano le parole pronunciate, ché ognuno custodiva nel proprio cuore le paure che in quell’ora buia spiravano da Oriente: per tre giorni colonne silenziose di donne avvolte in ampi manti e di bimbi aggrappati ai grembi delle loro madri percorsero l’ampia strada che conduceva a Osgiliath e ancora nessuna lancia si scagliava contro di loro, né si udivano le gracchianti voci degli Orchi, ché l’Oscuro Signore radunava tutti i suoi eserciti ed essi viaggiavano lungo percorsi sconosciuti alla gente di Gondor: come gli avvoltoi seguono i lupi allorché costoro cacciano il cervo, così decine di migliaia di cavalieri dall’Harad, fanti dal Khand e da Nuriag[1], carri dalle contrade poste intorno al Rhun, cani da combattimento dalle remote giungle di Dwar accorrevano a Mordor, comandati da crudeli Principi attratti dal sentore di un immane massacro.

Orchi si agitavano nelle Montagne Nebbiose e nell’estremo Nord, obbedendo al volere dell’Anello, desiderosi di impossessarsi di un bottino di sangue; eppure Sauron non era soddisfatto di un tale dispiegamento di forze, ché altre creature, eredi delle aberranti oscenità che la mente di Melkor aveva partorito, attendevano un suo comando ed esse erano astute ed infide come il loro antico signore.

Ben poco di tali movimenti era noto a Gondor e gli Uomini di Minas Ithil attendevano, silenti e immobili, che la tempesta si abbattesse su di loro; alcuni, i più fiduciosi, contavano le leghe che separavano Isildur da Cirdan e discutevano di quanti giorni sarebbero stati necessari a Gil-Galad per radunare le sue schiere; altri, più scettici, sussurravano che nessuna nave aveva osato sfidare la collera di Ulmo in tale stagione e temevano che le loro speranze giacessero ormai nel fondale del Belagaer.

Nessuno comprese quali pensieri nutrisse nel suo cuore Erfea Morluin in quei giorni terribili e sovente la Guardia scorgeva il suo elmo alato brillare accanto ai vessilli dei Re; ultimo ad abbandonare i suoi soldati allorché la tenebra calava i suoi strali su di loro e primo a destarsi all’alba, non disdegnava partecipare alla ronda; grande amore i fanti provarono per il Sovrintendente ed egli accorreva ovunque la sua mente acuta e il suo forte braccio fossero necessari: silente era però il suo volto e nessuna luce brillava nei suoi grigi occhi. Nei brevi istanti in cui nessun pericolo minacciava la Città della Luna, Erfea giaceva in un sonno angoscioso, ove i timori e i rimorsi si mescolavano; a volte, lo si udiva cantare a bassa voce antiche cantiche di Edhellond e di Numenor: affascinati lo ascoltavano allora gli Uomini, ché in essi rinasceva la speranza e per alcuni momenti pareva loro di obliare le pene che avevano di recente sofferto.

Infine giunse il giorno che essi avevano a lungo temuto, ché l’aria fu scossa da centinaia di urla selvagge e gli Orchi calarono nuovamente su Minas Ithil; codesti, tuttavia, erano in numero maggiore rispetto all’ultimo assalto ed erano astuti e crudeli. Sovente, gli uomini della Guardia, udivano l’oscena voce di Adunaphel incitare le sue truppe verso la vittoria ed essi provavano nel profondo dei loro cuori grande timore; non una spada fu tuttavia abbandonata da mano codarda, né una lancia spezzata nell’ora della pugna, ché invero i Dunedain erano una nobile stirpe e la luce degli Eldar di Tol-Eressea era ancora nei loro occhi, sicché i nemici ne erano sgomenti.

Per sette giorni la pugna regnò feroce sulla Città della Luna crescente, né gli Orchi sembravano aver placato la loro sete di sangue; infine, troppo lesto per il cuore di chi difendeva le amate dimore della sua gente e troppo tardi per colui che ambiva atroce vendetta, giunse l’ora in cui le difese di Minas Ithil sembrarono non potersi più opporre al potere dell’Oscuro Signore: allora Erfea cercò il suo signore Anarion e lo trovò mentre incoraggiava i suoi soldati nei pressi di un’alta torre.

Grave era lo sguardo del Sovrintendente, e il Signore di Gondor apprese lesto i motivi di tale angoscia: “Mio re, il cancello è prossimo a cadere nelle mani del Nemico: dobbiamo scegliere se difendere una fortezza, sapendo che non vedremo altre albe sorgere, oppure ritirarci ad Osgiliath e ivi continuare a difendere il nostro popolo”.

Anarion, tuttavia, non poté rispondere a tale richiesta, ché in quel momento un Orco, il quale aveva atteso nell’ombra di una nicchia, balzò fuori e menò un gran fendente al capo dell’erede minore di Elendil; l’elmo alato forgiato a Numenor attutì l’impatto, tuttavia egli cadde disteso in terra. Troppo tardi Erfea trucidò l’ignobile creatura di Mordor, ché altre della sua schiatta si avventarono sul corpo del sovrano, avendo intenzione di portarne in dono le spoglie al loro Oscuro Signore: atroce allora divampò la lotta tra il Sovrintendente e gli Orchi, né egli poteva sperare nei rinforzi, ché i soldati di Minas Ithil ancora superstiti erano impegnati a fronteggiare altre schiere dell’Avversario.

Fu in tale frangente che si manifestò la lungimiranza dei Valar, ché le aquile di Ar-Thoron calarono sulle laide creature di Sauron, lacerandone le membra e cavandone gli occhi; forte allora gridò Erfea e il suo olifante squillò fiero, sicché gli Orchi fuggirono in preda al panico, abbandonando il corpo esamine di Anarion.

“Se anche mi fosse concesso il tempo di Aman, non vi sarebbero parole sufficienti per esprimere la mia gratitudine, ché non solo la mia vita, ma anche quella del figlio di Elendil avete salvato da morte certa”.

“Non ti dissi forse che ci saremmo rivisti quando la morte ti sarebbe stata prossima, Erfea Morluin? – rispose Ar-Thoron, inchinandosi a sua volta, seguito dai suoi vassalli del Nord – Non meravigliarti dunque, ché la lungimiranza dei messaggeri di Manwe è superiore a quella degli uomini, fossero anch’essi i prodi Numenoreani”.

“Sagge sono le tue parole, Signore delle Aquile, e grato è l’aiuto che in questa ora buia le tue schiere offrono ai Popoli Liberi di Endor; numerose sono state tuttavia le nostre perdite e la città è ormai indifendibile”.

“Il vento del Nord mi ha narrato della dipartita di Isildur da Minas Ithil e ora mi avvedo che Anarion è gravemente ferito: in qualità di Sovrintendente di Gondor e in assenza del legittimo sovrano toccherà a te condurre i soldati della Città della Luna a Osgiliath. Sei saggio a sufficienza, Erfea, per non disperare, tuttavia, sappi che altri poteri sono all’opera in questa ora buia e che altri pericoli dovrai fronteggiare in questi giorni, ché, tienilo sempre a mente, codesto è solo uno degli eserciti di Mordor e il Capitano Nero attende ancora nell’Ombra”.

Mentre così discorrevano Erfea e Ar-Thoron, alcuni soldati della guardia reale si erano approssimati al corpo del sovrano e osservarono sgomenti quanto era accaduto; Erfea tuttavia incoraggiò i loro stanchi animi e li esortò ad abbandonare la città appena fosse giunto il mattino, nell’attesa difendendo strenuamente il ponte che conduceva alla Città delle Stelle, finché l’ultimo uomo non avesse abbandonato Minas Ithil.

Tali erano i progetti del Sovrintendente di Gondor ed essi avrebbero avuto buon esito se improvvisa non fosse calata una tenebra sì fitta che neppure le aquile di Manwe riuscirono a scorgere alcunché; stridule allora si levarono dall’oscurità le fredde voci dei Nazgul e gli eserciti di Mordor si lanciarono alla carica, trucidando chiunque si opponesse alla loro rapida avanzata; i fanti gondoriani furono costretti ad indietreggiare in modo disordinato, taluni privilegiando la difesa delle loro case e di quante esse racchiudevano, altri ritirandosi, secondo gli ordini di Erfea, ad occidente.

Nelle prime ore del meriggio, radunati intorno a sé quanti più fanti e cavalieri possibili, Erfea ordinò alla guarnigione di Minas Ithil di ripiegare a Osgiliath e inviò le aquile di Manwe nei forti dei Dunedain nell’Ithilien, pregando loro di riferire ai comandanti di condurre le proprie truppe alla capitale, senza attendere, chiusi nelle proprie mura, l’impeto degli eserciti di Mordor: entro sera, le avanguardie dell’esercito di Minas Ithil giunsero ad Osgiliath, mentre la retroguardia copriva la ritirata: nulla pareva turbare tali manovre di ripiegamento e già duemila soldati della guardia avevano fatto il loro ingresso in città, allorché Adunaphel, resasi conto dei movimenti del nemico, inviò un messaggio a Dwar di War[2], il terzo in possanza fra i Nazgul, affinché costui inviasse i suoi feroci cani da combattimento a sostegno delle sue armate che inseguivano i superstiti di Minas Ithil.

Erano, i mastini di Dwar, le bestie più feroci di Endor, ad eccezione dei grandi vermi di Morgoth e la loro crudeltà era pari all’intelligenza che essi dimostravano di possedere allorché davano la caccia alla preda; lesti balzarono dalle loro tane, allorché ricevettero l’ordine di trucidare i superstiti dell’esercito di Gondor, e in breve tempo furono sopra i fanti e gli arcieri di Minas Ithil. Sulle prime gli Uomini risero, ché non credevano possibile che simili animali potessero lacerare le cotte di maglia forgiate secondo l’antica tradizione numenoreana; tosto, però, il riso si tramutò in orrore e infine in dolore, ché i denti dei segugi di Dwar squarciavano qualunque parte del corpo non fosse protetta dall’armatura e la loro precisione nel colpire era pari solo alla ferocia con cui il morso era inferto alle sfortunate vittime: la ritirata si tramutò così in fuga disordinata, né i capitani erano in grado di riorganizzare le file delle proprie schiere, ché il panico si era impadronito dei Dunedain ed essi pensavano solo a mettersi in salvo, abbandonando la piana che si estendeva tra l’Ithilien e Osgiliath.

Invero tale catastrofe fu ancor più grave di quanto apparve inizialmente, ché, se i soldati anziché indietreggiare confusamente, avessero recuperato lo schieramento iniziale, i mastini di Dwar sarebbero stati crivellati dalle mortali frecce numenoreane e i loro danni sarebbero stati limitati; tuttavia, il panico ebbe la meglio sul coraggio, e numerose lacrime versarono nei giorni seguenti le donne di Gondor.

Erfea, sopravvissuto a tale attacco furioso, condusse alla carica i cavalieri superstiti di Minas Ithil, un centinaio in tutto, contro le immonde schiere di Dwar, disperdendole e impedendo loro di straziare i cadaveri dei gondoriani caduti; al termine della notte, pochi soldati erano ancora in grado di brandire un’arma, ché molti erano i feriti e ancor più i morti: tristi parole si levarono quella notte, frammiste a pianti ed imprecazioni contro le schiere di Mordor».

Note

[1] Contrada posta a sud di Mordor e abitata da stirpi di uomini Haradrim, servi di Sauron e guerrieri implacabili.

[2] Capitano dell’armata dei Cancelli Neri e Signore dei Cani. Per una biografia su questo Nazgul si veda il seguente articolo: Dwar di Waw, il Terzo, il Signore dei Cani.

Leggi anche:

L’assedio di Minas Ithil (Parte V). Una resistenza impossibile

L’assedio di Minas Ithil (Parte IV). Due fratelli.

L’assedio di Minas Ithil (III parte). Un antico nemico…

L’assedio di Minas Ithil (parte II). Un sogno premonitore

L’assedio di Minas Ithil (parte I). Il ritorno di Sauron

La geopolitica di Numenor: le casate reali dell’Isola dell’Ovest.

Quando scrissi Il Ciclo del Marinaio, avrei voluto inserirvi un’appendice contenente una serie di appunti – scritti in tempi diversi, ma coerenti almeno sotto il punto di vista contenutistico – che avrebbero descritto la geopolitica numenoreana all’epoca di Erfea. Non riuscendo, per varie ragioni, a completare questa appendice, ho deciso di riprendere in questa sede almeno una parte di quel materiale inedito per aiutare le mie lettrici e lettori a orientarsi all’interno di un capitolo sconosciuto, ma affascinante, della storia numenoreana. Per un approfondimento, consiglio la lettura della storia di Aldarion ed Erendis, scritta da Tolkien e contenuta nel volume Racconti Incompiuti: alcuni elementi affrontati in questo articolo e nei prossimi che pubblicherò inerenti questo tema, infatti, provengono proprio dagli scarni accenni presentati in quelle pagine in merito al funzionamento del governo numenoreano.

In primo luogo è necessaria una premessa. Al principio della sua storia, il regno di Numenor fu una monarchia assoluta all’interno della quale, tuttavia, il governo del sovrano era mitigato dall’azione di un Consiglio dello Scettro composto dai membri più importanti delle famiglie nobili di Numenor. Non conosciamo molto di queste stirpi: a parte, infatti, quella di Andunie – che discendeva in linea diretta dal primogenito di Elros Tar Minyatur, primo re di Numenor – delle altre sappiamo davvero poco. Per fronteggiare questa mancanza di dati, ho deciso di dare vita a una serie di linee principesche che discendevano dagli altri figli di Elros Tar-Minyatur, secondo questo ordine che vi presento in basso:

1) Casata reale. Vardamir Nolimon, primogenito di Elros, dette vita alla stirpe dei sovrani di Numenor. Dopo alcune generazioni, tuttavia, questa linea regale si scisse in due famiglie principesche: una, che aveva la sua progenetrice nella principessa Silmarien, primogenita del quarto re di Numenor (vi suggerisco, a questo proposito, di leggere questo bellissimo articolo scritto da Lettrice: https://soloperdirelamia.wordpress.com/2019/08/29/silmarien-e-miriel-regine-che-hanno-perso-il-trono/), che fondò la casata di Andunie (vedi sotto) e l’altra che proseguì sino all’ultima coppia di sovrani, Ar-Pharazon il Dorato e sua moglie (nonché cugina di prima grado) Ar-Zimpharel (o Miriel, se preferite, come me, il suo nome elfico). Il simbolo di questa casata era lo stendardo numenoreano, lo stesso che potete notare nei miei commenti e al centro della pagina di apertura di questo blog. Una linea cadetta della casata reale portò a due funesti frutti: il primo dei Nazgul, Er-Murazor, era il secondogenito di un sovrano numenoreano; suo cugino era il terzo nazgul di origine numenoreana, Akhorahil. Se siete interessati alle biografie di questi Nazgul, vi consiglio la lettura di questi articoli: Er-Murazor, il Primo dei Nove e Akhorahil, il Re Tempesta, il Quinto.

2) Casata di Tindomiel. Seconda figlia di Elros, dette vita alla stirpe dei principi di Forostar. Costoro divennero, in seguito, tra i principali sostenitori della fazione nazionalista di Numenor, ostile agli Elfi e ai Valar. Adunaphel l’Incantatrice, la Settima fra i Nazgul, discendeva da questa famiglia principesca (per saperne di più, vi suggerisco la lettura di questo articolo: Adunaphel l’Incantatrice. La Settima). Tale linea, a sua volta, si scisse alla metà della Seconda Era, dando vita alla casata dei principi dello Hyarnustar (vedi sotto), anche questa fervente sostenitrice dei Numenoreani nazionalisti. Khorazid e Antenora, che presero parte al complotto organizzato da Ar-Pharazon per prendere lo scettro, furono gli ultimi rappresentanti noti di questa casata. Il simbolo di questa casata era una luna calante argentata su sfondo blu; questo stendardo, modificato in parte, fu adottato da Adunaphel come suo vessillo da guerra, sostituendo il colore blu con quello rosso.

3) Casata di Manwendil. Terzo figlio di Elros, fu il capostipite della stirpe dei principi di Orrostar. Anche questa linea, come la precedente, in seguito divenne accesa sostenitrice degli «Uomini del Re», come erano chiamati i Numenoreani nazionalisti. Azaran, principe dell’Orrostar, fu uno dei nobili che presero parte al complotto promosso da Ar-Pharazon per rovesciare Miriel; egli era considerato eccezionalmente ricco dai suoi contemporanei, tuttavia il suo oro non lo aiutò a scampare alla morte, avvenuta per effetto dell’incendio della sua dimora, appiccato, sembra, ad opera dei servi del nazgul Akhorahil. Il simbolo di questa casata rappresentava un’ala di gabbiano su sfondo giallo.

4) Casata di Atanalcar. Quarto e ultimo figlio di Elros, fu il principe della regione di Numenor nota con il nome di Hyarrostar. Dopo di lui vi furono 24 principi, fra i quali i più famosi furono il grande ammiraglio Cyriatur, che salvò la Terra di Mezzo dall’annientamento durante la prima guerra condotta dai Numenoreani contro Sauron, combattuta nell’anno 1700 della Seconda Era e, naturalmente, Erfea, che fu anche l’ultimo principe di Hyarrostar. Cyriatur ebbe due figli: il maggiore continuò il lignaggio della stirpe paterna, mentre il più giovane ricevette dal sovrano il feudo su un’altra regione di Numenor, dando vita alla stirpe dei principi di Mittalmar (vedi sotto). Il simbolo di questa casata era una rosa bianca impressa su uno scudo araldico per metà nero e per metà azzurro.

5) Casata di Andunie: fondata da Silmarien e da suo marito, Elatan di Andunie, questa stirpe principesca reale governò il feudo di Andunie, la regione più occidentale di Numenor, all’interno della quale la maggior parte della popolazione restò legata all’amicizia con gli Elfi – che spesso approdavano su quelle spiagge – e con i Valar. Attraverso i secoli, dalla casata di Andunie emersero Uomini e Donne di grande valore e statura morale: basti pensare a Elendil e ai suoi figli, Isildur e Anarion; o ancora, per restare alle vicende de Il ciclo del Marinaio, a Nimrilien, moglie di Gilnar e perciò madre di Erfea. Da Isildur, attraverso molte generazioni, si giunge infine ad Aragorn e agli eventi raccontati ne Il Signore degli Anelli. Il simbolo di questa casata, prima dell’inabissamento di Numenor, era un delfino bianco su sfondo argentato, contornato da sette stelle e sette palantiri; successivamente assunse i più noti colori neri e argentati, ponendo al centro del proprio vessillo l’Albero Bianco.

6) Casata di Mittalmar: fondata dal secondogenito del grande ammiraglio Ciryatur nel XVIII secolo della Seconda Era, questa casata ricevette in feudo dal sovrano una delle regioni centrali e più popolose di Numenor, il Mittalmar. La scelta di attribuire un feudo così importante a una linea cadetta, se pure di origine regale, non deve sorprendere: il sovrano aveva contratto un grande debito nei confronti di Cyritur, perché costui aveva trionfato sulle armate di Sauron, che era ormai giunto sul punto di conquistare tutta la Terra di Mezzo, salvo poche ridotte. I principi di Mittalmar, tuttavia, non furono mai compresi nel «Consiglio dello Scettro», proprio perché la loro linea non era considerata di primaria importanza. Negli ultimi secoli della Seconda Era questa casata si indebolì progressivamente; gli ultimi eredi furono tre principi ambiziosi e di belle speranze: Arthol (coetaneo di Erfea); Gilmor, sua sorella, nata dieci anni più tardi del fratello e, infine, il loro cugino più anziano Brethil, anch’egli molto amico del principe dello Hyarrostar. Oberati dai debiti e prossimi ormai al tracollo finanziario, i due fratelli organizzarono una congiura per uccidere l’erede al trono di Numenor, la giovane Miriel, e prendere così il potere in modo violento. A questo tentato Colpo di Stato non furono estranei neppure i Nazgul di origine numenoreana. Ad ogni modo, grazie alle rivelazioni di Erfea, che aveva scoperto causalmente il complotto, Arthol e Gilmor furono puniti con la pena capitale, mentre Brethil, che si rivelò estraneo alla congiura, fu risparmiato. Da quel momento in poi, tuttavia, memore della parte che la casata dei principi di Mittalmar aveva avuto nel tramare contro la sua persona, Miriel diffidò profondamente di Brethil, osteggiandolo apertamente ogni qual volta le era possibile, giungendo, alla fine del suo breve regno, a privare il principe di ogni carica. Brethil morì poco dopo l’ascesa al trono di Ar-Pharazon e con la sua scomparsa la casata di Mittalmar cessò di esistere. Il simbolo di questa casata era la spada di Cirytur impressa su uno sfondo verde.

7) Casata dello Hyarnustar: fondata da un membro cadetto della casata di Tindomiel, questa casata ottenne un grande feudo corrispondente alla parte sud-occidentale di Numenor, chiamato con il nome di Hyarnustar. Questa casata fu sempre in competizione con quella di Andunie per il possesso del porto di Eldalonde, che si trovava a metà tra i due feudi; ben presto la rivalità commerciale si tramutò in una contrapposizione politica, che vide i principi dello Hyarnustar militare nel partito nazionalista numenoreano. L’ultimo principe noto di questa casata fu Dokhor, un avido e rozzo guerriero che prese parte al complotto ordito da Ar-Pharazon per rovesciare Miriel. Il simbolo di questa casata era un calice d’oro su sfondo nero.

In questa mappa, tratta da L’Atlante della Terra di Mezzo di Karen W. Fonstad, ho inserito i nomi delle casate e i loro orientamenti politici. Non sono un grafico, però mi auguro che le associazioni geopolitiche risultino abbastanza chiare.

Mappa di Numenor

In questo schema, invece, proverò a ricostruire i legami di parentela delle principali famiglie nobiliari dell’Isola dell’Ovest.

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Come si evince dallo schema in alto, Erfea e Miriel erano dunque imparentati, seppure alla lontana. Questa parentela rende ancora più incerta la soluzione dell’enigma relativo alla profezia di Manea la Veggente, che ne Il racconto del Marinaio e della Principessa, mise in guardia i genitori della bella principessa numenoreana in merito al triste destino che avrebbe conosciuto qualora avesse stretto vincolo matrimoniale con un Uomo del suo sangue. Naturalmente, si può immaginare che la Veggente alludesse ad Ar-Pharazon, che era cugino di primo grado della donna, ed era dunque più vicino a lei, dal punto di vista «genetico», di quanto non lo fosse Erfea (e questo era anche il parere di Tar-Palantir, padre di Miriel, come avrete modo di scoprire nel racconto al quale mi sto dedicando in questi ultimi tempi); ciò nonostante, permane, come è d’uopo in tutte le profezie, una certa ambiguità di fondo che rende la questione ancora più affascinante e pone una domanda destinata a restare insoluta: cosa sarebbe accaduto se Miriel ed Erfea si fossero sposati? La profezia di Manea avrebbe colpito anche loro? Nessuno lo saprà mai.

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Post-scriptum su Miriel

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L’assedio di Minas Ithil (Parte V). Una resistenza impossibile

Care lettrici, cari lettori, in questo articolo proseguo la narrazione degli eventi che condussero le armate di Sauron a conquistare la parte orientale del Regno di Gondor, inclusa la città di Minas Ithil, dove Isildur aveva il suo trono. Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Per dodici giorni la Città della Luna subì un terribile assedio, eppure i suoi difensori non accennavano a deporre le armi, ché molto temevano gli Orchi gli esuli di Numenor e fuggivano terrorizzati allorché scorgevano Sulring brillare nelle tenebre; pure, molti valorosi combattenti erano caduti, vittima della nequizia di Sauron e fra costoro vi erano capitani di grande valore; infine, durante la notte del dodicesimo giorno dell’assedio, grave ed improvvisa sorse una nuova minaccia ad oriente ed essa atterrì i cuori dei Dunedain: un’imponente macchina avanzò, alta cento piedi e lunga il doppio, trainata da massicci Troll e si fermò a meno di una lega dal cancello.

“Quale nuovo artificio del nemico è codesta arma? – gridò Erfea rivolto ad Anarion che combatteva al suo fianco – Non ho mai veduto nulla di simile, eppure il mio cuore teme, ché mai ho obliato le fucine di Amon-Lanc[1] ed esse sono ben poca cosa se paragonate alle immense forge di Barad-Dur, ove i fuochi ardano da mane a sera e infiniti sono gli schiavi ivi torturati dal possente calore che questi generano.”

Non si erano ancora spenti gli ultimi echi di tali parole, che altre scale furono issate e su di esse salirono Orchi imponenti, la cui immonda pelle era ricoperta da grandi cotte di maglia; non erano però costoro ad ottenebrare le menti di coloro che difendevano le mura, ché, nel medesimo istante, si udì un gran sordido brontolio e la terra parve tremare sotto i loro piedi, mentre un’intensa luce brillava ad oriente. Parecchi Uomini e Orchi caddero dalle mura, sfracellandosi al suolo, mentre alte urla di gioia si levavano dall’accampamento di Adunaphel. Inquieto divenne allora il viso di Erfea ed egli si precipitò innanzi al cancello, ove a lungo rimase immobile, quasi che la sua mente si rifiutasse di credere a quanto l’oscura arte del nemico aveva realizzato: un imponente fusto di acciaio, montato su decine di ruote, si ergeva innanzi a lui e molti Uomini gli si accalcavano intorno, gli uni sfregando il nero metallo, gli altri versando al suo interno barili di polvere nera. Nessun racconto ha mai tramandato il nome di codesta poderosa macchina d’assedio ed essa fu utilizzata solo durante l’assedio di Minas Ithil: non vi era però dubbio che provenisse dalle oscure fucine di Barad-Dur, ché rune malefiche ne adornavano la superficie ed esse erano scritte secondo il modo di Mordor. Stupito, il Sovrintendente osservava silente tale artefatto, chiedendosi in quale modo avrebbe potuto arrestare la sua temibile forza distruttiva, allorché, per la seconda volta, una luce brillò, forte e terribile ad oriente, e il Cancello tremò nuovamente, come se migliaia di magli si fossero abbattuti sulle sue porte di ferro. La terra levò un gemito e alcune costruzioni nei pressi della prima cinta muraria caddero al suolo, conducendo nella loro agonia gli sfortunati abitanti.

Lesto come un incendio in estate, il panico dilagò in città e molti soldati indietreggiarono, chiedendosi cosa fosse accaduto: Isildur e Anarion erano infatti dispersi, né vi era tempo sufficiente per indagare sulla loro sorte, ché molti Orchi si radunavano innanzi al cancello e questo non avrebbe retto ancora a lungo; in tale ora buia, la speme tuttavia non disparve ché Elendur, primogenito di Isildur e Uomo di grande valore, prese il comando dei soldati superstiti e riuscì a condurne molti al riparo della seconda cerchia di mura, senza che la sua retroguardia subisse dure perdite: trinceratisi alle spalle dell’imponente muraglia, Elendur si premurò affinché i feriti fossero condotti nella Case di Guarigione e con orrore si rese conto che meno di tremila soldati di Gondor erano con lui in tale frangente; rabbia mista a dolore allora si destò nel suo cuore, ché nessuno era in grado di affermare ove fossero i sovrani di Gondor. Aratan e Cyrion erano tuttavia con l’erede di Isildur, ché erano i suoi fratelli minori ed essi ne amavano la fermezza del carattere e la sua lungimiranza, ed erano temprati dal medesimo fuoco della battaglia; torvi però erano i loro sguardi in quell’ora oscura ed essi parlavano poco finanche con i loro capitani, i quali, impazienti, attendevano ordini.

Tale era stata la manovra di Elendur, che gli Orchi non si dettero pensiero di inseguire i superstiti all’interno della seconda cerchia di mura, ma si accanirono contro il cancello; lenta, sorse un’alba vermiglia ma essa non recò sollievo nel cuore degli uomini, ché pochi erano ancora desti e molti giacevano nei loro miseri ricoveri, nelle piazze, ovunque vi fosse uno spazio sgombro dalle macerie e dai detriti delle mura che crollavano attorno a loro; infine la Guardia levò un grido di stupore e meraviglia, sicché molti soldati si destarono e corsero ad armarsi, temendo che gli Orchi fossero penetrati nella Città: grande fu dunque la loro sorpresa e gioia allorché essi scorsero i figli di Elendil e il Sovrintendente salire lungo le scale interne della seconda cinta di mura; trombe allora echeggiarono nelle aule diroccate e nelle piazze affollate ed Elendur strinse commosso suo padre, mentre costui elogiava il coraggio dei suoi eredi. Nessuno, tuttavia, fu allora in grado di apprendere quale compito avessero portato a termine i tre Uomini, ché essi non ne fecero parola con alcuno, eccetto i figli di Isildur; solo in seguito fu detto che essi avevano impedito che la poderosa arma di Adunaphel potesse far echeggiare nuovamente il suo odio nei confronti di Gondor ed essa giacque distrutta nella pianura, simile all’immonda carcassa di una bestia mostruosa vissuta nelle lande selvagge di Angband, e gli Orchi di Mordor l’evitavano, sicché per qualche ora più gli archi furono tesi e le spade sguainate.

Lesto allora si tenne un consiglio di guerra e la situazione parve subito grave a quanti lo presenziarono. Prima fra tutte si levò la chiara voce di Erfea: “La difesa della città è ormai divenuta impossibile, a meno che non giungano rinforzi da altre contrade. La popolazione di Minas Ithil deve essere fatta evacuare adesso, né è possibile aspettare altro tempo: dobbiamo scegliere se preservare l’onore o le vite di migliaia di donne e bambini.”

Silenti, i capitani di Gondor rifletterono a lungo su quale strada percorrere, ché entrambe le scelte avrebbero potuto condurre ad un triste destino, ché, se gli Orchi fossero stati in numero tale da impedire un ripiegamento del loro popolo ad Osgiliath, essi sarebbe andati incontro ad una carneficina; infine, scuro e irato in volto, Isildur parlò: “A che pro dovremmo fuggire innanzi al nemico? Non sarebbe soluzione più saggia far sì che le truppe di stanza ad Osgiliath e a Minas Anor accorrano in nostro aiuto, piuttosto che presentarci dinanzi ai loro attoniti occhi sconfitti? Un cancello è caduto nelle mani del Nemico, eppure la città resiste ancora! Se il parere dei miei capitani sarà favorevole a tale proposta, invierò dei rapidi messaggeri ad Aldor Roc-Thalion, l’Alto Theng dei popoli del Rhovanion, antichi alleati della nostra gente affinché egli possa condurre le sue schiere in nostro soccorso.”

Elendur sostenne lesto la proposta del padre: “Nessun Orco può vantare di aver mai catturato una città difesa da uomini valorosi quali noi siamo. Perché dovremmo abbandonare le nostre dimore, che edificammo al prezzo di molti sacrifici e di duro lavoro? Se tale è il nostro destino, che il mondo degli Eldar e degli Edain debba perire nella Tenebra, ebbene possano essere l’elmo e la cotta di maglia i nostri orgogliosi sudari!”

Molte voci contrastanti si levarono, le une sostenendo che la proposta di Erfea fosse ragionevole, le altre affermando che il coraggio del sovrano doveva essere premiato dalla fedeltà incondizionata del suo popolo; ancor prima che si giungesse ad una soluzione, tuttavia, lesto fece il suo ingresso un messaggero, il cui viso era provato dall’enorme tensione che si agitava nel suo animo. Stupiti e costernati lo osservarono Isildur e Anarion, ché sembrava evidente che costui recasse con sé novelle foriere di sventura: infine il messaggero parlò e invero le sue parole furono orribili ad udirsi in quell’ora oscura.

“Signori di Gondor, la sventura è caduta sui nostri popoli! Hoarmurath di Dìr, il cui nome sia cento e cento volte maledetto, ha incendiato i campi e gli accampamenti del mio popolo; lunga è stata la pugna, ma al calar della notte le sue schiere hanno infine trionfato, impadronendosi di un ricco bottino in armi e viveri. Inutile è stato contro la potenza del Signore della Terra Nera il coraggio delle schiere dei popoli liberi ed essi ora sono dovuti arretrare, abbandonando l’intero Rhovanion nelle mani dell’infame spettro.”

Silenzio regnò per un lunghissimo istante, infine le voci dei presenti si levarono nel medesimo istante, quasi che una misteriosa volontà avesse ordinato loro di parlare all’unisono: il panico si impadronì di quanti avevano prima sostenuto tale assedio essere la stolta opera di un servo di Mordor e non già del suo Oscuro Signore; alcuni, con la mente sconvolta da tali notizie infauste, gridarono che finanche Osgiliath avrebbe dovuto essere abbandonata, ché l’intera sponda orientale dell’Anduin era ormai indifendibile, mentre altri corsero ad affacciarsi alle finestre a nord, temendo che le schiere di Hoarmurath fossero prossime a reclamare nuovo bottino.

Erfea, tuttavia, soffiò nel suo olifante ed ecco che i cuori degli Uomini si calmarono e il silenzio scese nuovamente fra loro: “Non perdete la speme, uomini di Gondor! Non è forse stato detto che il tempo è tiranno sia con coloro che servono la causa dei Valar sia con coloro che la contrastano? Ebbene, ancor prima che le nostre schiere si scontrino con quelle dell’Avversario, sappiate che entrambi gli schieramenti dovranno vincere la propria battaglia contro il Tempo, che, inevitabilmente, corre verso Occidente.

Questo io ti chiedo di rivelarci, messaggero di Aldor Roc-Thalion: quanti giorni sono passati dacché è crollata l’ultima resistenza nel Rhovanion?”

“Mio signore, trenta lune si sono levate da quel triste giorno: il mio popolo è ora fuggito ad Occidente e dimora nei pressi del Guado del Carrock[2], a molte leghe a nord dalle città degli uomini del Mare.”

Erfea rifletté per un attimo, infine parlò: “Sauron ha dato infine dimostrazione di voler schierare le sue forze in tempi diversi, ché vuole saggiare il morso degli eserciti dell’Ovest prima di scatenare il suo più pericoloso servo; non tutti voi, credo, si rendono conto dell’incredibile fortuna che la Sorte ha riservato ai figli di Eru Iluvatar, perfino in tali sventure.”

Anarion, dopo aver ponderato in silenzio quella che a molti pareva una frase senza alcun senso, ne intese il significato e il suo cuore fu pieno di gioia, ché comprese non essere ancora perduta la guerra.

“Erfea Morluin, sagge e veritiere sono le tue parole, ché il Signore dei Nazgul non è ancora giunto nelle nostre terre; tale è dunque il corso degli eventi che sarà possibile salvare il maggior numero di vite prima che giunga il Capitano degli eserciti di Mordor. Sappiate, tuttavia, che è stata concessa solo tale occasione per evitare che la catastrofe si abbatta su di noi; celere deve essere la nostra azione, ché essa non dovrà insospettire il nemico.”

Isildur rifletté a lungo sulle parole che il fratello aveva pronunciato, infine parlò a sua volta: “Se ho ben compreso il pensiero del Sovrintendente, altre schiere dell’Avversario potrebbero giungere nei prossimi giorni e non è nelle nostre attuali possibilità fermare una tale potenza; è necessario dunque che uno fra noi prenda la via che conduce al mare e di lì al reame di Arnor, affinché Elendil possa essere avvisato del pericolo che corrono le libere genti di Endor e possa soccorrerci con le sue schiere. Tale è la mia volontà, in questa ora oscura, ché prendo su di me la responsabilità di assicurare il buon esito di una missione sì importante per le sorti del nostro popolo.”

Aratan, secondogenito del sovrano, espresse allora il suo pensiero: “Nobile padre, non sarebbe meno rischioso comunicare con il nostro sovrano tramite il palantir di Osgiliath, piuttosto che sfidare la collera di Ulmo?”

“Giovane principe, sebbene l’Oscuro Signore di Mordor non abbia simili strumenti, sarebbe tuttavia capace di interferire con la sua tirannica volontà, qualora uno fra noi, finanche il Signore di Gondor, osasse fare uso del Palantir; forse Sauron si limiterebbe ad osservare, ma se anche egli non pronunciasse parola, tuttavia i nostri piani sarebbero messi a nudo ed egli infine trionferebbe. Ecco dunque il mio consiglio: una piccola spedizione dovrà abbandonare Minas Ithil prima che il sole sorga, ché la luna non sarà visibile questa notte e gli Orchi vagano ancora qua e là, resi inoffensivi dalla paura; essa tuttavia sarà presto occultata dalle promesse di saccheggio e il cuore mi dice che tale giorno non tarderà a giungere. Un vascello sarà allestito ad Osgiliath ed esso condurrà ai porti di Cirdan la speme del popolo di Gondor.”»

Note

[1] Si veda “Il racconto del Marinaio e del Nanosterro”.

[2] Il Guado del Carrock era situato nella contrada dell’Alto Anduin, a nord dei Campi Iridati.

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L’assedio di Minas Ithil (Parte IV). Due fratelli.

Proseguo in questo articolo la narrazione dell’assedio di Minas Ithil da parte delle armate del nazgul Adunaphel. Nell’ultima parte abbiamo lasciato Erfea di vedetta nel passaggio di Cirith Ungol affinché potesse scorgere le avanguardie dell’esercito di Mordor. Ritornato alla città di Minas Ithil, il Sovrintendente di Gondor deve ora misurarsi con le reazioni dei due fratelli, Isildur e Anarion. Nel brano che segue, perciò, avrete modo di approfondire la conoscenza dei figli di Elendil…buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Infine l’armata di Mordor giunse alla porta orientale di Minas Ithil che il sole ancora tingeva i colli degli Ephel Duath e l’oscurità non era calata; risero gli Uomini allora nello scorgere la moltitudine dei servi di Mordor ed alcuni fra loro presero a farsi beffe di loro apertamente: “Nessun servo di Sauron ha calcato il suolo della nostra città ed essa ride delle minuscole figure che muggiscono in una barbara lingua; vengano pure, gli eserciti dell’Oscuro Signore, ché non uno troverà scampo alla giusta morte, e il ricordo della loro disfatta echeggerà fino a Barad-Dur”. Voci simili furono udite in tutta la città, riempiendo di gioia il cuore di Isildur, ché costui non mostrava tema dell’armata di Adunaphel, né avrebbe mai ceduto la sua dimora al Nemico; di diverso parere era tuttavia suo fratello Anarion, il quale così gli si rivolse: “Una grande paura ha invaso il mio animo, ché esso teme per la sorte di Minas Ithil: fa evacuare la città, ché il Nazgul non risparmierà né uomo né donna, qualora essi dovessero cadere preda dei suoi laidi artigli.”

Irata fu la risposta di Isildur, che si espresse in tali termini: “Noi siamo i figli di Elendil e i signori di Gondor. Nostro padre ci affidò il reame del Sud affinché vigilassimo sulle sue genti e sulle sue terre e mai, fino ad ora, il nostro giuramento è venuto meno, ché esse sono sfuggite alla violenza dei servi dell’Avversario. Vorresti dunque venire meno al tuo dovere, abbandonandole alla mercé degli Orchi? Come un contadino che temendo per la sua vita, permetta che il suo campo sia bruciato da rozzi briganti, così tu condanneresti Minas Ithil a una triste sorte? Sarebbe invero una grave infamia!”

“Non è atto infame temere il lungo braccio del Nemico! Fratello, vi sono altre contrade, altri popoli che attendono impazienti di offrire i propri servigi a Sauron e codesto è solo uno dei suoi numerosi eserciti che egli spinge ad ovest; il Rhovanion è ormai in rovina, risparmia alla tua città una sorte simile! Ordina invece che la popolazione sia condotta ad Osgiliath, le cui possenti mura fermeranno la carica dei nostri nemici. Non desidero che la nostra gente sia condotta in una trappola ed ivi debba morirvi prigioniera delle sue medesime debolezze.”

Rise allora Isildur, e sguainata la sua lama, diede ordine di issare sul pinnacolo della torre più alta il vessillo di Elendil, in modo che l’esercito di Mordor potesse scorgerlo e provarne terrore; infine, voltatosi verso il fratello, adoperò simili parole: “Non è forse vero che i Valar risparmiarono i Fedeli ché essi avversavano il dominio di Ar-Pharazon e del suo oscuro mentore? Non è forse vero che le braccia di Ulmo hanno permesso ai nostri vascelli di recarci nella Terra di Mezzo ove fondammo i reami in esilio? Perché dunque noi dovremmo temere colui che già una volta è caduto sotto la loro possente ira? Il nostro destino è di innalzarci al di sopra delle debolezze che in passato hanno condannato la nostra stirpe: grandi atti di valore saranno compiuti questa notte e la sete di vittoria del nemico sarà placata dal sangue che i suoi eserciti verseranno.”

Lesto balzò sulla terrazza più alta e di lì si rivolse al suo popolo: “Soldati di Gondor! Per molti secoli la nostra stirpe ha compiuto tali atti di valore contro Sauron e i suoi servi che le sue schiere tremano al solo sentire il nome dei Numenoreani! Uomini poco lungimiranti hanno permesso che l’Oscuro Signore perdurasse e sfuggisse alla nostra giusta vendetta, eppure, mirate, l’ora della rivalsa è prossima! Grande sarà la nostra vittoria ed essa inaugurerà la nuova Primavera di Arda, ché Endor sarà stata liberata dalla lordura dei servi di Morgoth. Uniamoci dunque nell’ora del bisogno e possa il sacro fuoco che infiamma i nostri animi brillare nella Tenebra incombente!”

Possenti si levarono grida di giubilo e l’aria fu percorsa dagli squilli di numerose trombe d’oro e argento: i capitani condussero le loro truppe sugli spalti delle mura, attendendo impavidi che l’oscura marea piombasse su di loro. Erfea, tuttavia, parola non levò, ché condivideva il pensiero di Anarion, né aveva obliato la nequizia di Sauron, laonde per cui ordinò ai suoi soldati di assicurarsi che nessun nemico si impadronisse del cancello che conduceva a Osgiliath e alle contrade occidentali di Gondor.

Frecce furono incoccate e torce accese, ché l’oscurità aveva ora coperto del suo manto le cime dei monti e fredda era scesa la notte; silenzio regnava sugli spalti, tale che solo l’eco dei secchi ordini dei capitani di Mordor giungeva loro, né alcuna delle schiere di Adunaphel osava avvicinarsi alle mura ed esse erano immobili; molte ore trascorsero dunque nella veglia, nulla temendo gli Uomini di Gondor, ché  nessun colpo era stato levato e saldi erano i loro animi; quella notte i Signori dei Dunedain tennero un consiglio per decidere sul da farsi. Alcuni, e fra questi erano Isildur e i suoi figli maggiori desideravano attaccare il nemico con la cavalleria, affinché esso fuggisse lontano; Erfea, tuttavia, respinse con forza tale proposta ché temeva le picche del nemico e non credeva possibile manovrare in uno spazio sì ridotto come quello che si estendeva tra la città e i monti.

Tesa era divenuta l’aria e minacciose si levarono voci contrastanti; nulla però fu possibile decidere, ché lesta si diffuse la notizia che le schiere dell’Avversario muovevano contro la città: tale, infatti, era stata la perfidia di Adunaphel da attendere che un prematuro entusiasmo riempisse di folle gioia il cuore dei Dunedain prima di scatenare il suo feroce attacco alle mura; scale vennero innalzate e su di esse centinaia di Orchi presero posto, scuotendo le corte lance e le scimitarre dalla fosca lama. I Warg[1] correvano lungo tutto il perimetro della cinta muraria e i loro orribili richiami echeggiarono durante tutta la durata dell’assedio, mentre Adunaphel, ritta sul suo nero destriero, osservava lieta quanto accadeva, ché ora i suoi eserciti erano spiegati e la vittoria sarebbe giunta lesta; veloci, alcuni cavalcalupi correvano da una schiera all’altra per trasmettere gli ordini dei capitani di Mordor e l’aria era satura dei loro gutturali versi: pure, Minas Ithil non cedeva.

Arcieri erano stati collocati in gran numero lungo i parapetti e di lì bersagliavano il nemico con i loro temibili archi d’acciaio; Orchi ed altre creature della Tenebra crollavano dalle scale, mentre le luminose lame dei soldati di Gondor trucidavano quanti riuscivano ad aggrapparsi ai merli dei bastioni: Isildur conduceva la difesa del cancello orientale, mentre i suoi figli avevano ciascuno preso il comando di una cerchia di mura.

Rapide trascorsero le ore della notte, né l’alba sembrava portare speranza nel cuore degli Uomini, ché la furia degli Orchi anziché scemare, sembrava crescere di intensità: altre schiere, di cui nessuno aveva prima sospettato l’esistenza, erano giunte sul luogo della battaglia e respingevano i soldati di Gondor all’interno della città, rendendo loro impossibile qualsivoglia sortita».

Note

[1] I warg erano i discendenti di quelle creature nate dall’incrocio fra i demoni servi di Sauron e i lupi della Terra di Mezzo; feroci d’aspetto, erano noti per la loro insaziabile fame e per la loro abilità nel comprendere il Linguaggio Nero.

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Sedici anni dopo: cosa resta della trilogia di P. Jackson. Analisi di un fenomeno culturale controverso

Interrompo momentaneamente la narrazione degli eventi che condussero alla cattura di Minas Ithil da parte delle armate di Sauron per affrontare un tema sul quale sono stato sollecitato, sia pure indirettamente, dal moltiplicarsi, in questi giorni, di una serie di meme e ricordi condivisi da molti utenti su Facebook in merito all’uscita, nel gennaio del 2004 per il mercato cinematografico italiano, dell’ultima parte della trilogia de “Il Signore degli Anelli”, prodotta dalla New Line, con la regia di P. Jackson.

Cosa rimane, sedici anni dopo, del capitolo conclusivo di una saga capace di registrare incassi altissimi e di ottenere, nel complesso, ben 17 statuette degli Oscar, piazzandosi così come la trilogia più premiata (fino ad ora) nella storia del cinema?

Non è semplice dare una risposta che non risenta, inevitabilmente, dei gusti personali di ciascuno, per cui ritengo doveroso avvertire il lettore che questo articolo sarà influenzato da considerazioni a carattere personale. Non me ne vogliate, insomma, se quello che scriverò non dovesse incontrare il vostro favore.

Per scrivere questo articolo, quindi, devo partire da una premessa personale, ma che credo sia ampiamente condivisibile: il rapporto con la trilogia cinematografia risente – almeno a sentire tanti appassionati di Tolkien – da una precisa circostanza, ossia dal ruolo che questa ha avuto nel far conoscere (o meno) allo spettatore il legendarium tolkieniano. Pur senza voler eccessivamente generalizzare, è possibile azzardare una grande suddivisione: da un lato, infatti, ci sono coloro che non avevano mai letto nulla delle opere del professore di Oxford sino a quel momento, ai quali la visione delle pellicole (e non poteva essere diversamente, del resto) ha spalancato le porte di un vero e proprio mondo fantastico e che tendono, dunque, ad apprezzare particolarmente la versione cinematografica del Signore degli Anelli. Dall’altro, invece, ci sono quanti, all’epoca dell’uscita de «La Compagnia dell’Anello» (2002), avevano avuto già modo di conoscere gli scritti di Tolkien e che, in linea di massima (ma anche qui non mancano eccezioni, naturalmente) tendono a sottolineare i limiti dell’impresa di trasposizione cinematografica. Si tratta, spesso, anche di una questione anagrafica: i più anziani, di solito appartengono al secondo gruppo, mentre i più giovani al primo. Esiste poi un gruppo di dimensioni minori che si è avvicinato al Signore degli Anelli grazie alla visione del lungometraggio di animazione di Ralph Bakshi del 1978 (per saperne di più, vi suggerisco di leggere l’esaustiva analisi di Lettrice a questo link: https://wordpress.com/read/blogs/141936457/posts/4473).

Personalmente appartengo a questo gruppo. Non sono così «anziano» da aver avuto la possibilità di vedere l’opera di Bakshi al cinema (anzi, non ero ancora nato nel 1978), ma sono stato «svezzato», per così dire, dalla visione di questo lungometraggio. Non mi dilungherò eccessivamente su questa opera (magari prima o poi, sulla scorta di quanto ha scritto Lettrice, vi dedicherò un articolo anche io), se non per sottolineare un elemento che può apparire forse secondario, ma sul quale, invece, vorrei che i miei lettori potessero riflettere. Se dovessi trovare un aggettivo per definire la sceneggiatura di Bakshi, infatti, al di là delle scelte condivisibili o meno in fatto di resa dei personaggi, direi che un termine molto calzante per caratterizzarla sarebbe quello di «malinconico». Non ci sono momenti particolarmente ilari nella trasposizione di Bakhsi: perfino le parole «Ma io non ce la faccio a correre fino a Isengard!» che pronuncia uno sfinito Gimli, mentre è intento a dare la caccia agli Orchi che hanno catturato Pipino e Merry, possano strappare tutt’al più un sorriso, ma non certo provocare grasse risate. La stessa scena ripresa ne «Le Due Torri» di Jackson, al contrario, sortisce un effetto opposto: si ride di gusto di Gimli che sostiene che «i Nani siano scattisti, pericolosissimi sulle brevi distanze», mentre arranca e sbuffa per tenere il passo dei ben più agili Legolas e Aragorn.

Che «Il Signore degli Anelli» sia un’opera distante anni luce da facili battute e risate, d’altra parte, lo conferma un personaggio del tutto estraneo alle dinamiche tolkieniane e in un contesto del tutto diverso rispetto a quello della Terra della Mezzo. Mi riferisco al romanzo «Matilde», scritto dallo scrittore inglese (ma norvegese di nascita) Roald Dahl, il quale pone in bocca alla bambina protagonista della sua opera queste parole: «Anche i libri di Tolkien non fanno per niente ridere» (p. 75 dell’edizione Salani). Pur non condividendo questa analisi in toto (vedi sotto per quel che concerne lo Hobbit) non si può nascondere che il Signore degli Anelli possa far sorridere in alcune scene – per esempio nella diatriba fra Gollum e Sam intorno alle patate, oppure nel dialogo fra Ioreth e la sua cugina di campagna dopo il ritorno degli eserciti dell’Ovest a Minas Tirith – ma riuscire a far sbellicare di risate il suo lettore, direi proprio di no.

Mi si risponderà: un film (anzi una trilogia) – peraltro di consideravole lunghezza – non può non avere momenti comici. E io sono d’accordo con questa affermazione, ci mancherebbe. Il problema è chiedersi se queste scene, queste battute, possano essere «sovrascritte» nella trasposizione cinematografica di qualunque romanzo, racconto o componimento letterario che si possa immaginare, senza avere lo sgradevole effetto acustico di un gatto che graffi il vetro di uno specchio.
Provare per credere: immaginate Dante che, nel suo viaggio all’Inferno, si fermi a guardare le anime dei trapassati per esclamare: «Questo vale comunque uno!» (Gimli dixit).

Allo scopo di essere più chiaro nella mia analisi prenderò a esempio una scena molto bella che è visibile (o leggibile) sia nel romanzo che nelle due trasposizioni cinematografiche (quella di Bakshi e quella di Jackson, per intendersi). La scena in questione riguarda la tentazione nella quale cade Bilbo dopo aver rivisto, a distanza di anni, l’Unico Anello nelle mani di suo cugino Frodo.

Ecco come è descritta nel Signore degli Anelli: «Bilbo tese la mano; immediatamente Frodo ritrasse l’Anello. Con angoscia e sommo stupore si accorse che non stava più vedendo Bilbo; un’ombra sembrava essere scesa tra di loro, ed egli scorgeva dall’altro lato un piccolo essere avvizzito dal viso avido e dalle ossute mani ingorde. Sentì il desiderio di colpirlo. La musica e i canti intorno a loro parvero svanire, e vi fu un profondo silenzio. Bilbo lanciò un rapido sguardo a Frodo e poi si passò la mano sugli occhi. «Ora capisco», disse. «Mettilo via! Mi dispiace: mi dispiace che tocchi a te sopportare questo peso, mi dispiace tanto. Possibile che le avventure non abbiano una fine? Ma forse no. C’è sempre qualcun altro che prosegue la storia. Ebbene, non vi è altro da fare. Chissà se vale la pena cercare di terminare il mio libro…ma per il momento non pensiamoci, voglio sentire delle vere notizie! Parlami della Contea!» Frodo nascose l’Anello, e l’ombra scomparve lasciando soltanto un vago ricordo. La luce e la musica di Gran Burrone lo circondavano nuovamente».

Nella pellicola de «La Compagnia dell’Anello», invece, la scena non avviene all’interno del banchetto offerto da Elrond per la vittoria al guado del Bruinen; al contrario, è stata spostata in un momento successivo, poca prima che la Compagnia si metta in viaggio verso Mordor. Nulla di male in questa «posticipazione», per carità, tuttavia cerchiamo di capire come procedono le cose nella pellicola di Jackson: Frodo, dopo aver ricevuto Pungolo e la cotta di maglia di mithril dall’anziano parente, indossa quest’ultima su suggerimento di Bilbo, lasciando intravedere, per un attimo, l’Anello al suo collo. Di fronte alla richiesta di Bilbo di tenerlo in mano per un’ultima volta, Frodo si richiude la camicia (plausibilmente per non indurlo maggiormente in tentazione) e Bilbo per un secondo si trasforma in una creatura non molto dissimile da Gollum, salvo poi pentirsi immediatamente del suo gesto. A quel punto, dopo essersi scusato per quello che è avvenuto e per il peso dell’Anello che ha lasciato a Frodo (in modo abbastanza simile rispetto a quanto avviene nel libro), scoppia in lacrime, consolato da Frodo che gli pone affettuosamente una mano sulla spalla. La terza «versione», se così si può definire, è quella di Bakshi: in questo caso l’incidente fra i due Hobbit avviene, come nel romanzo, alla festa tenuta in onore di Frodo, e si mantiene abbastanza fedele al romanzo, salvo per la conclusione; in questo caso, infatti, Bilbo scoppia a piangere (come sopra), ma non riceve nessun conforto da Frodo. Anzi, a interrompere il suo pianto è Gandalf che richiama – in modo forse un po’ brusco – i due Hobbit a prendere parte al Consiglio di Elrond.

Come si può vedere, si tratta di tre scene simili ma diverse allo stesso tempo: la vera questione, tuttavia, non è rappresentata da quale sia quella più fedele al romanzo, ma, invece, quale sia quella che ne interpreta meglio lo spirito. Possono sembrare due concetti analoghi, ma non lo sono affatto. Il senso profondo di questa scena, secondo me, è il seguente: Frodo non può mostrarsi troppo accondiscendente verso Bilbo, non perché non gli voglia bene – tutt’altro – ma perché, qualche istante prima, questi aveva tentato di sottrargli l’Unico. Nella casa di Elrond la possessione esercitata dall’Anello nei confronti del suo Portatore non era ancora giunta a quei livelli percepibili al termine del lungo viaggio che avrebbe condotto Frodo a Mordor, tuttavia, è senza dubbio molto forte; lo era già, del resto, quando Frodo si dimostrò riluttante a lanciare l’Anello nel fuoco di Casa Baggins per poter leggere l’iscrizione incisa sulla sua superficie. Può essere dispiaciuto, certo, ma non può perdonare Bilbo di aver provato a toglierli l’Anello. Questa scena, quasi mai trattata negli articoli degli appassionati del mondo tolkieniano, è secondo me invece importante per comprendere gli effetti dell’Unico sugli esseri viventi. Tornando alla questione iniziale, quale scenografia riprende meglio lo spirito del romanzo? Opto per quella di Bakshi, perché pur avendo inserito la figura di Gandalf al termine dell’alterco fra i due Hobbit (assente nel libro in quel frangente) si dimostra, tuttavia, valida nel richiamare alla realtà Bilbo, quasi scuotendolo dai suoi rimorsi per esortarlo, forse anche con una certa durezza, a riprendere il possesso della propria coscienza per combattere il potere dell’Unico.

Da questo primo passaggio, capirete bene perché apprezzi più la trasposizione cinematografica de «Lo Hobbit» all’interno del quale, invece, i momenti comici non mancano: basti pensare a Dori e Nori che si accapigliano intorno al fuoco, oppure alle battute divertenti che si lanciano Bilbo e Dori quando questi è costretto a prendere lo Hobbit sulle sue spalle nelle caverne dei goblin, o ancora alla descrizione che Tolkien dedica ai nani e a Gandalf appesi sui rami del pino delle Montagne Nebbiose, da lui paragonata a una scena natalizia…per tacere, poi, degli Elfi di Rivendell, che sono molto più ilari di quanto non appaiano nel Signore degli Anelli. E potrei continuare a lungo. La scelta di Jackson di calcare in qualche scena questo lato «comico» (i Nani che si lanciano il cibo addosso, mentre sono ospiti di Elrond, per esempio) può essere certamente criticabile (alla fine anche le scene divertenti devono essere dosate con sapienza, a meno che non si tratti di un Cinepanettone, ma questa è, come si suol dire, un’altra storia), ma ciò non toglie che, personalmente, trovi queste scene in grado di rispecchiare più fedelmente lo spirito dell’Hobbit. Gli stessi Nani della Compagnia di Thorin, per esempio, per quanto possano apparire eccentrici (basti pensare a Bifur con l’ascia impiantata nel cranio) in fondo sono rappresentazioni visive di personaggi che, nel romanzo di Tolkien, hanno barbe di colori diversi, anche molto accesi (un dettaglio, quest’ultimo, che si perde del tutto nel Signore degli Anelli). Forse Tolkien desiderava ottenere un effetto comico con quelle barbe colorate? Non lo sapremo mai con certezza, però non si può nascondere che contribuiscano a rendere i Nani molto più comici rispetto a Gimli, uno dei personaggi più malinconici e forse sottovalutati del Signore degli Anelli (basti pensare al dialogo struggente fra lui e Legolas intorno alle sorti degli Uomini per capire come si tratti di un personaggio totalmente diverso da quello rappresentato nella trilogia cinematografica, impegnato in gare di rutti e in battute «facili» come quella sopra riportata).

E veniamo ora a un altro punto ampiamente controverso e criticabile dei film di Jackson: l’Amore. Prima ancora che qualcuno possa solo pensare che io sia ostile alla presenza di relazioni amorose nella Terra di Mezzo, lo invito a leggere (o a rileggersi) la storia fra Erfea e Miriel per dissipare qualunque dubbio: le vicende sentimentali, se ben strutturate, rappresentano una delle colonne portanti della letteratura di ogni tempo, anche di quella fantastica o epica che dir si voglia. Gli esempi sono pressoché infiniti, dal triangolo amoroso Artù-Ginevra-Lancillotto agli struggimenti di Didone per Enea, agli amori extraconiugali di Zeus…e davvero, si potrebbe continuare per pagine e pagine.
Ciò non toglie, tuttavia, che anche questo tema debba essere calibrato per bene rispetto alle vicende interne di un’opera letteraria. Nel romanzo del Signore degli Anelli, per esempio, appare una sola storia d’amore classicamente intesa, vale a dire quella in cui due personaggi si conoscono, si piacciono e magari convolano a giuste nozze e non è certo quella di Aragorn e Arwen attorno alla quale, invece, ruota buona parte di un’importante sottotrama della trilogia cinematografica. Mi riferisco, invece, alla storia fra Eowyn e Faramir, alla quale, forse, si sarebbe potuto attribuire un maggior spazio, ma tant’è.
Anticipo già una buona dose di critica a questa mia osservazione con la seguente auto-accusa: «Eh, ma Tolkien dedicò grande attenzione alla coppia Aragorn-Arwen nelle Appendici del Signore degli Anelli!»
Vero, eppure questa affermazione non fa altro che aprire una questione a mio parere ancora più importante rispetto al modo in cui è stata affrontata la storia d’amore fra i due e riguarda il carattere di entrambi i personaggi. Arwen non è una guerriera, né – cosa forse ancora più importante – deve impegnare particolarmente Aragorn ad accettare la sua scelta di diventare mortale: ricordiamo, infatti, che se fisicamente poteva essere scambiata per un giovane elfa, a un osservatore attento come Frodo non sfuggiva la sua reale età: Giovane era, eppur non tanto. La chioma corvina non era sfiorata dalla brina, le braccia bianche ed il viso limpido erano lisci e vellutati, e miriadi di stelle risplendevano negli occhi grigi come crepuscolo luminoso; ma il portamento era regale e lo sguardo rivelava riflessione e saggezza, apprese attraverso anni di esperienza.

Da questa descrizione appare chiaro che difficilmente, nel momento in cui si svolge la vicenda della guerra contro Sauron, Arwen avrebbe potuto lasciarsi a un rapporto complicato sia con Aragorn che con suo padre: se scontri c’erano stati con Elrond in merito alla sua scelta di diventare mortale (e nel testo non ne troviamo traccia, possono essere solamente ipotizzati), dovevano risalire a molti anni addietro e certamente non sembrano aver intaccato la relazione fra i due innamorati. Dama Arwen, inoltre, non è assolutamente la guerriera impavida che sottrae Frodo alla caccia dei Nove e che addirittura si permette di rinfacciare ad Aragorn di essere più veloce nel cavalcare. Non perché le elfe non potessero gareggiare con i rappresentanti dell’altro sesso, al contrario: nel Silmarillion, per esempio, Tolkien scrisse che Galadriel era così forte ed agile da superare in competizioni sportive molti degli elfi Noldor. Sfortunatamente per la bella figlia di Elrond e Celebrian, tuttavia, l’autore non sembrava pensarla come gli sceneggiatori del film: quando il potere di Sauron sembra ormai rendere i viaggi rischiosi, Elrond la fa richiamare da Lorien, ove era solita recarsi per visitare i suoi nonni materni, perché le strade erano divenute pericolose. Una frase scarna, contenuta peraltro nell’appendice degli Annali della Terra di Mezzo ma sufficiente, secondo me, per far sgretolare l’immagine di Arwen che sfida addirittura il Re Stregone a farsi avanti per strapparle dal grembo un Frodo ormai morente…

Tornando alla storia d’amore fra il Ramingo e la mezzelfa, inoltre, non deve sfuggirci un punto importante: per quanto Aragorn amasse teneramente Arwen e potesse essere spinto nella sua missione di contrastare Sauron anche per effetto della promessa fatta al suo patrigno – nonché padre della sua amata – che l’avrebbe presa in sposa solo se fosse divenuto re di Arnor e Gondor, implicando questo risultato la sconfitta di Sauron, non c’è dubbio che Aragorn avesse ben chiaro che nella guerra contro l’Oscuro Signore c’era in ballo «il destino di tutta la Terra di Mezzo», tanto per usare una frase fatta. Non avrebbe mai smesso i panni del Ramingo per assumere quelli dell’erede di Isildur solo per amore di Arwen: da persona saggia e avveduta com’era, credo che avrebbe messo il massimo impegno in questa lotta anche se non fosse stato fidanzato con la mezzelfa. Inoltre Aragorn non vide mai una contrapposizione fra l’essere ramingo e l’erede di Isildur: raminghi erano semplicemente quegli eredi del popolo di Arnor che erano sopravvissuti alla sua caduta nell’anno 1974 della Terza Era e si erano dati a un’esistenza errabonda, perché troppo pochi per riportare il loro reame all’antico splendore. Tanto è vero che i discendenti di Arvedui, l’ultimo re di Arnor, presero il titolo dei Capitani del Nord, proprio a sottolineare, da un lato, il loro basso profilo assunto dopo la fine del Regno, e dall’altra la volontà di non spezzare un lignaggio che non aveva pari tra quelli umani nella Terra di Mezzo, in attesa che giungessero tempi migliori.

Personalmente trovo che l’amore tra i due, così come appare nelle pagine del Signore degli Anelli, sia struggente e romantico allo stesso tempo: Aragorn, pur nel vortice di eventi che accadono attorno a lui, non manca di prendersi un attimo per ricordarla, come avviene nel suo ingresso a Lorien (una scena che, confesso, avrei voluto tanto vedere anche nella pellicola cinematografica). È un amore profondo, che riesce a sopravvivere a tutto quello che accade intorno a loro, ma che trova poche attinenze con quello raccontato nei film; soprattutto, non riesco a capire perché Sauron dovesse mettere a rischio la vita di Arwen, suvvia! L’Oscuro Signore non sapeva neppure chi fosse l’erede di Isildur e quando lo scoprì era troppo tardi per pensare a eventuali rappresaglie «emotive».

Un film può preservare lo stesso spirito del romanzo anche – paradossalmente – con una sceneggiatura che, a prima vista, potrebbe non collegarsi in alcun modo alle pagine dell’opera in questione. Per rifarmi a un esempio concreto, prenderò in esame l’Anabasi, un’opera scritta nel IV secolo a.C. dallo storico ateniese Senofonte. Questi, nelle sue pagine, narrò le vicende dell’armata di 10.000 mercenari greci che, postisi al servizio del principio persiano Ciro il Giovane per usurpare il trono al fratello Artaserse, furono abbandonati a sé stessi dopo la morte del loro mecenate e l’eliminazione – a tradimento – della maggior parte dei loro comandanti. Attraverso un difficile viaggio in terre inesplorate e ostili, i superstiti di quell’armata riuscirono infine a raggiungere il Mar Nero. Questo romanzo è stato ripreso nell’opera letteraria «I Guerrieri della Notte» (1965), scritto da Sol Yurick, e poi nell’omonimo film del 1979. Ebbene, in questa pellicola, i membri di una gang di New York, ripercorrono le stesse gesta degli antichi greci pur in un contesto che non azzarderei a definire del tutto slegato al mondo classico antico: eppure, nonostante le ovvie diversità, il film mantiene intatto lo spirito non solo del romanzo cui si ispira, ma anche quello della sua fonte più antica, l’Anabasi di Senofonte.

La trilogia cinematografica del Signore degli Anelli, invece, è andata oltre la trama stessa del libro, quasi riscrivendola per la prima volta: anzi, si può dire che sia stato proprio il grande successo di questi film a decretare una sorta di contrapposizione fra la resa cinematografica e l’originale letterario. Non è infrequente, infatti, imbattersi in rete in fan della saga di Jackson pronti a giurare che ogni azione, ogni scena e perfino ogni battuta del film corrispondano a quelle descritte nel libro. Alcune settimane fa ho cercato inutilmente di far comprendere a uno di questi fan che Tolkien non ha mai disegnato nessun Balrog, né tantomeno ha edito una versione illustrata del Signore degli Anelli e che doveva aver ritenuto che le immagini di John Howe fossero state disegnate da Tolkien stesso. Credetemi, non c’è stato verso di fargli cambiare idea: per lui, il Balrog del film doveva per forza essere stato disegnato da Tolkien stesso non per un semplice e banale errore di attribuzione – che avrei compreso perfettamente – quanto per la convinzione che fosse così ben riuscito da non aver mai potuto, lo scrittore inglese, immaginare un altro tipo di Demone. Al termine di un’estenuante quanto inutile discussione, mi sono ricordato di un episodio che mi aveva colpito molti anni fa e che riguardava la ricezione, negli Stati Uniti, del film «Troy» (2004, quindi coetaneo al «Ritorno del Re» di Jackson); ebbene, per aiutare la vendita di un’opera quale l’Iliade che, diciamolo pure, non è mai stata considerata un best-seller (non solo negli Stati Uniti, ma anche nella cara vecchia Europa) un editore statunitense aveva pensato bene di ricorrere a uno stratagemma che doveva aver certamente considerato molto ingegnoso. Sulla copertina della versione americana dell’opera omerica, infatti, aveva inserito questo logo: «Il libro tratto dal kolossal Troy». A quel punto il povero Omero si doveva essere disintegrato nella sua tomba (ovunque egli riposi). Intendiamoci: a me il film Troy è piaciuto e pure molto, ma lo ritengo una liberissima resa del capolavoro epico greco e, soprattutto, al di là dei gusti personali, non penserei mai di rileggere le vicende di Achei e Troiani basandomi sugli eventi trattati nel film!

Concludo questa lunga dissertazione esprimendo il mio giudizio finale su questa trilogia cinematografica: l’opera di P. Jackson, acclamata da critica e pubblico (anche se Cristopher Tolkien, figlio dello scrittore inglese e recentemente scomparso, non la pensava così e questo dovrebbe far riflettere, dal momento che chi meglio di lui poteva giudicare le rese cinematografiche del romanzo paterno, considerato l’impegno profuso nel valorizzare le opere di cotanto genitore?) ha finito col creare – difficile dire se l’abbia fatto esplicitamente o meno – un «Signore degli Anelli» alternativo all’opera prima. Si è trattato, come accennato nel titolo di questo articolo, di un fenomeno culturale che ha finito coll’influenzare profondamente l’opinione pubblica: qualche mese fa, discutendo con Angelo Montanini (uno dei più grandi artisti italiani che si siano cimentati con l’opera tolkeniana, autore, fra l’altro, di due illustrazioni di Erfea e Miriel che potrete vedere qui: Ritratti) abbiamo entrambi constatato come l’apparato iconografico e simbolico post-2004 sia stato irremediabilmente egemonizzato dalla trilogia di Jackson: ormai Aragorn, tanto per fare un esempio, non può che avere le fattezze di Viggo Mortensen, Legolas non può che ricordare Orlando Bloom e così via. Si badi bene; non ho nulla contro l’interpretazione fornita da questi due bravissimi attori, ma è avvilente constatare che non ci sia più spazio per illustrazioni diverse. Negli anni Ottanta e Novanta, invece, le rappresentazioni di personaggi, luoghi ed eventi ispirati al legendarium tolkieniano erano diversissime fra loro, permettendo all’osservatore – cosa non trascurabile – di avere una vasta platea di soggetti fra i quali scegliere «la propria» rappresentazione di questo o quel personaggio tolkieniano. La potenza evocativa dei film, purtroppo, ha creato una situazione di assoluto monopolio alla quale, solo recentemente, si sta iniziando a porre rimedio, anche grazie a una nuova generazione di illustratori meno influenzati dall’immaginario scaturito dalla trilogia cinematografica di Jackson.

L’assedio di Minas Ithil (III parte). Un antico nemico…

In questa terza sezione del racconto de “Il Marinaio e il Re Stregone”, Erfea, reso inquieto da un sogno premonitore, decide di verificare se un’armata partita da Mordor si stia effettivamente dirigendo verso la città di Minas Ithil. Il paladino di Numenor scoprirà che i suoi peggiori timori erano fondati quando comprenderà chi cavalca alla testa delle truppe nemiche…un suo antico, affascinante, nemico.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Un’ora era trascorsa dacché il sole si era levato e ancora nessun messaggero giungeva a Isildur; rapido allora crebbe nell’animo dei soldati il timore che essi fossero stati traditi e che la loro ultima ora stesse giungendo sulle ali del nauseabondo vento dell’oriente: eppure essi non ne facevano parola a nessuno e ognuno serbava nel suo cuore lo sgomento di tale attesa, quasi provando vergogna nello spezzare con la propria voce roca il silenzio che altri aveva creato per loro. Lunga e penosa fu l’attesa, tuttavia anch’essa giunse a termine, ché i primi cavalieri giunsero da Osgiliath e Minas Anor, conducendo con loro messaggi che furono uditi da pochi e intesi ancor da meno, ché essi furono condotti a corte e solo il primogenito di Elendil e il sovrintendente furono presenti allorché le notizie che costoro recavano furono divulgate; scuri erano invero i loro volti ed essi non fecero parola con alcuno di quanto avevano appreso, ma si recarono lesti ad oriente, ché le vedette inviate durante la notte non avevano fatto ancora ritorno e dubbio e timori si impadronivano dei cuori degli uomini.
Elrohir cavalcava innanzi a tutti e splendido il suo pelame fulvo brillava sotto la luce di Anor, eppure non vi era letizia nello sguardo del suo cavaliere ché la cenere di Mordor ne copriva il capo e foschi erano i suoi pensieri; cento cavalieri erano con lui ed essi seguivano una traccia incerta e oscura: eppure, sebbene ognuno temesse un grave male nel proprio cuore, nulla di quanto avrebbero visto in seguito era stato mai concepito da mente mortale. Alcuni dicevano che fantasmi senza volto ululavano sopra corpi straziati e furono colti da grande orrore; altri, nonostante pietà e lacrime soffocassero i loro occhi, pure scorsero i segni di una disperata resistenza condotta dagli esploratori, senza tuttavia che rimanesse traccia visibile dei loro aggressori: a lungo, inibiti dal terrore e dalla grande sofferenza, cercarono tra i volti deturpati, gli uni intenti ad arrestare i singulti, gli altri ricolmi di smarrimento e profonda pena.
Un vento gelido spazzava la gola montuosa in cui essi avevano trovato rifugio e l’eco della sua oscura risata sembrava deridere il loro dolore; infine Erfea si mosse e scorse una runa profondamente incisa nella viva roccia, le cui linee risaltavano nette sulla sua superficie, quasi che il suo incisore avesse voluto dimostrare quanta forza avesse nel braccio.
“Non è un’incisione eseguita dalla rozza mano di un orco, ché essi non conoscono le Tengwar[1], né Sauron permette che il suo nome venga pronunciato o scritto, ed essi adoperano l’effigie del Rosso Occhio su elmi e scudi; inoltre – proseguì chinandosi – codesta non è una esse ma una a”.
Rifletté a lungo, infine chinatosi sulla roccia, né sfiorò ripetutamente la lucida superficie, mormorando alcune parole che gli uomini hanno ormai obliato; tosto tuttavia, il suo viso mutò espressione ed egli risalì a cavallo, invitando i suoi uomini a precederlo in Città, affinché rivelassero che il nemico era prossimo a giungere; quanto a lui, sarebbe rimasto in codesto luogo, finché l’invasore non fosse giunto.

“Cavalcate rapidi, figli di Gondor, ché il pericolo è prossimo né codesta sarà l’unica sventura che i popoli liberi di Endor dovranno fronteggiare, ché le armate di Mordor tosto dilagheranno impetuose”. Rapidi, i cavalieri si mossero e l’eco della loro corsa disperata riecheggiò lungo l’antico cammino roccioso, chiamato Cirith Ungol nella lingua degli Eldar: un crudele demone, ostile ai figli di Iluvatar, l’aveva eletta come sue dimora e sovente la sua progenie, viscida e immonda si aggirava cauta e affamata in tali recessi rocciosi, né essa mostrava di tenere in alcun conto la maestà dei re degli uomini, ché era la prole di Shelob, ultima figlia di Ungoliant la grande, colei che, nella sua ingordigia, aveva fatto scempio dei Due Alberi.
Codesti esseri, simili a ragni, infestavano tali contrade, divorando gli incauti viandanti solitari che osavano percorrerne gli ardui sentieri; essi tuttavia esitavano nell’attaccare il Dunadan, ché, sebbene fosse anziano e solo, temevano la lama che costui portava al suo fianco, sicché attesero invano e infine, esausti e delusi, fecero ritorno alle loro tane.

Monotono parve scorrere a Erfea il tempo, ed egli non udiva né scorgeva alcunché, ad eccezione di rocce erratiche e di miseri cespugli battuti dal vento; restio era il suo animo a percorrere il sentiero di casa, sebbene grave sul suo capo fosse calata la stanchezza: infine si mosse, ché un nuovo timore parve invadere ogni cosa e l’aria ne fu satura. Tremò la terra e gli anfratti montuosi parvero replicare più volte l’agonia di migliaia di passi calpestarne la dura superficie: allora egli guardò in basso e il suo animo fu invaso da stupore e meraviglia, ché mai, finanche nei suoi incubi più aberranti, aveva mai immaginato che un simile orrore potesse destarsi da Mordor: schiere infinite egli scorse marciare lungo la strada che conduceva a Minas Ithil; picche, le cui sommità, adornate da spregevoli effigie, parevano puntare dirette verso il cielo, illuminavano con sinistri bagliori l’oscuro vespro; scudi imponenti reggevano coloro il cui volto era ora occultato da manti intessuti di tenebra e menzogne, ché l’Oscuro Signore mobilitava tutti i suoi eserciti e codesto era solo uno fra i molti che combattevano nel suo immondo nome. Infine, ritta sul suo nero cavallo, il sovrintendente scorse una figura procedere lentamente, quasi incurante di quale destino avrebbe incontrato nel campo di battaglia che le sue truppe si accingevano a bagnare con il proprio sangue e quello dei nemici; bella era, eppure temibile, ché il suo sembiante non era altro che un’illusione creata dalla nefanda arte di Sauron per confondere le menti di coloro che gli si opponevano. Nessuna luce della torce si rifletteva sulla sua corvina capigliatura ed ella pareva assorta in silenziosa meditazione; eppure, una cupa malizia brillava nei suoi chiari occhi e all’anulare, occultato al bieco sguardo dei suoi servitori, ella cingeva un anello forgiato in una contrada ormai distrutta dal suo oscuro padrone, ché Adunaphel l’Incantatrice era il suo nome, settima tra i Nazgul, gli immortali schiavi dell’Oscuro Signore. Una fredda rabbia celava il suo nero animo ed ella cavalcava diritta verso la vittoria; pur tuttavia, non scorse Erfea o se lo vide, minuscola figura persa tra le rocce lo ignorò, ché altro era il suo compito in quell’ora oscura ed egli sarebbe dovuto soccombere dinanzi alla potenza del suo signore.

Il Dunadan, però, la vide e rapido gli balenò nella mente il ricordo di un duello combattuto anni prima tra lui e la malefica dama di Numenor nella città di Umbar; allora fuggì e raggiunse la bianca città degli uomini, dando fiato al suo olifante affinché tutti potessero udirlo e prepararsi alla difesa delle mura: leste, allora, centinaia di trombe argentee riecheggiarono nella vasta gola montuosa mentre la sera fu riempita di speme, ché gli uomini si rincuorarono ed essi presero a sussurrare antiche cantiche apprese dai Noldor in esilio».

Note

[1] Le Tengwar erano state elaborate dagli elfi Noldor prima ancora del loro esilio nella Terra di Mezzo e sebbene non venissero più adoperate nella loro forma originaria, pure Feanor ne aveva approntato una variante ed essa si era diffusa presso Elfi, Uomini e Nani.

Leggi anche:

L’assedio di Minas Ithil (parte II). Un sogno premonitore

L’assedio di Minas Ithil (parte I). Il ritorno di Sauron