Scrivere di Tolkien, con Tolkien…per Tolkien: pro o contro le fan-fiction?

Scrivo questo articolo perché intendo affrontare un argomento che trovo particolarmente stimolante: le fan-fiction di ambito tolkieniano.
Sarò piuttosto schietto: non amo particolarmente questo termine, forse perché, quando ho iniziato a scrivere i miei racconti, tanti anni fa, le fan-fiction non esistevano così come sono intese adesso. O meglio – per essere più precisi – non esistevano quei circuiti di comunicazione, spesso on-line, attraverso i quali possono oggi essere lette centinaia di fan-fiction ambientati negli universi letterari più disparati: da Harry Potter alle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, a Star Wars.
E anche Tolkien, certo. Già. E qui iniziano le noti dolenti.
L’appassionato tolkieniano manifesta generalmente un atteggiamento ambivalente nei confronti dell’universo creato dal professore di Oxford: per un verso lamenta la mancanza di approfondimenti di personaggi e di eventi che vengono solo accennati all’interno delle sue storie, per un altro si dimostra, in molti casi, ostile nei confronti di chiunque osi mettere mano all’impressionante mole di racconti che compongono il legendarium tolkieniano. Non ho potuto fare a meno di notare, inoltre, come questo atteggiamento di ostilità sia diretto soprattutto nei confronti di coloro che intendono allargare l’orizzonte dal punto di visto contenutistico, mentre, in generale, ho osservato una maggiore benevolenza nei confronti di quanti si occupano dell’aspetto linguistico delle sue opere. Intendiamoci: non ho alcuna intenzione di sminuire questo carattere basilare del legendarium tolkieniano; anzi, si potrebbe tranquillamente affermare che la creazione dei vari linguaggi abbia proceduto l’elemento storico e descrittivo della Terra di Mezzo. Nessuna meraviglia, sotto questo aspetto: la formazione accademica di Tolkien era quella di un filologo, ragion per cui non c’è da stupirsi che fosse molto attratto dalla componente linguistica.
Ciò che mi lascia perplesso, invece, è il grado di «sospensione della realtà» che molti cultori tolkieniani esercitano nei confronti di quanti ne hanno sviluppato e arricchito l’apparato linguistico, pur sapendo perfettamente che, in molti casi, si tratta di rielaborazioni che partono, senza dubbio, dagli scritti di Tolkien, per poi cercare, tuttavia, inevitabilmente, di arricchirne le forme e i contenuti lessicali. Personalmente non sono contrario a questi studi: ammetto di non essere particolarmente attratto dai linguaggi (probabilmente anche per via dei miei studi), ma ritengo che sia un’azione lodevole quella di approfondire le basi portanti del legendarium tolkieniano. Il quesito che vorrei porre a questi appassionati tolkieniani è semmai il seguente: perché accettate che questo o quello studioso contemporaneo «vada oltre» le indicazioni di Tolkien stesso quando si tratta di un approccio linguistico e invece siete meno interessati (e in qualche caso vorrei dire meno tolleranti) nei confronti degli scritti che intendo approfondire il suo legendarium? (Per carità di patria, taccio su quanti accettano tutte le modifiche apportate da Jackson alla trama del Signore degli Anelli, e poi disprezzano qualsiasi tipo di fan-fiction perché non «è come nel libro» [cit.]).

Immagino già la prima risposta (o almeno una delle più plausibili): chi indaga sulle lingue si preoccupa (giustamente) di studiare approfonditamente le basi delle favelle elfiche prima di avanzare nuove ipotesi relative alla sintassi, al lessico ecc. delle lingue tolkieniane. Chi scrive fan-fiction, invece, (in molti casi) lo fa per dare spazio ai suoi sogni reconditi, alla capacità di calarsi nella Terra di Mezzo dall’alto «per vedere – come recitava una vecchia canzone – l’effetto che fa». In linea teorica, non sono contrario a queste scritture: l’unica cosa che non comprendo è come gestire un percorso narrativo che rischia di stravolgere tutto quello che ha scritto Tolkien stesso. Mi spiego meglio: anni fa, iniziai la lettura di una di queste storie nella quale Boromir, anziché essere ucciso dagli Orchi di Saruman, finiva coll’essere salvato da suo fratello Faramir e dai suoi soldati…e confesso di non aver voluto proseguire. Non sono riuscito a capire il senso di questa storia (non entro nella questione dello stile, perché, ad essere sinceri, non lo ricordo più): che senso ha cambiare un passaggio chiave di una narrazione per poi inventare un percorso che finisce collo stravolgere del tutto la narrazione stessa? Mi si risponderà: perché ho sempre desiderato che Boromir non morisse, oppure che Eowyn sposasse Aragorn o ancora che gli Elfi non abbandonassero la Terra di Mezzo…e potrei continuare a lungo. Forse, al di là dei gusti personali, queste storie potrebbero essere intese – con un significato diverso da quello tradizionalmente attribuito – come vere fan-fiction, nel senso che raccontano dei legami intercorsi fra lettori e i loro personaggi preferiti, senza però badare al grado di realizzabilità dei loro progetti rispetto alla cornice generale.
Questo sviluppare (e diffondere) racconti che non si preoccupano minimamente di salvaguardare la coerenza del legendarium tolkieniano mi avvilisce, perché, nella loro ingenuità, finiscono col trascinare verso il basso tutti quelli che cercano di apportare contributi nuovi alla Terra di Mezzo, senza tuttavia rimetterla in discussione.

Negli anni scorsi, tuttavia, ho anche avuto modo, per fortuna, di leggere racconti molto originali ambientati nella Terra di Mezzo: uno narrava di una fanciulla del popolo Haradrim che, dopo una serie di traversie, si recava nel regno di Gondor e apprendeva l’arte della Guarigione nelle Case che da essa prendono il loro nome. Un altro racconto, invece, era costruito come una sorta di dialogo fra un figlio e un padre, numenoreani, che discutevano intorno alla follia di Pharazon. Spiace dover constatare che, purtroppo, a causa dei vari trasferimenti che ho vissuto, non sono riuscito più a recuperare questi scritti.
Non credo, beninteso, che esista una «formula magica» obbligatoria per scrivere questo genere di racconti: mi limiterò a offrire una serie di suggerimenti di buon senso, che potrebbero essere utili a chi volesse provarci.

1) Scegliete con attenzione quali personaggi/eventi volete approfondire. Sconsiglio di dedicarvi alla parte finale della Terza Era, perché costituisce il nocciolo del «Signore degli Anelli» e di altri scritti collaterali: ammetto, naturalmente, che esistano degli spazi ancora «bianchi», come per esempio il destino della Bocca di Sauron o quello di Radagast, tuttavia sono inferiori rispetto a quelli offerti da altri contesti; a meno che, ovviamente, non desideriate approfondire soggetti ed eventi non particolarmente legati alla Guerra dell’Anello (e alle regioni nelle quali si combatté), come, ad esempio, Umbar a sud oppure il Forochel a Nord. La Seconda Era, da questo punto di vista, si caratterizza per poter essere indagata con una maggiore «libertà» d’azione narrativa rispetto alla Prima e alla Terza.

2) Scegliete con attenzione lo stile da utilizzare. Nessuno pretende (o può pretendere da voi) di essere un emulo di Tolkien, ci mancherebbe, però una certa coerenza di stile renderebbe il vostro racconto più fedele allo stile del professore di Oxford e maggiormente riconoscibile come «tolkieniano». Sarebbe stimolante – lo ammetto – anche utilizzare, di contrasto, uno stile totalmente diverso, però ritengo che sia più difficile farlo: bisognerebbe padroneggiare a tal punto la materia tolkieniana per poterla, in qualche modo, ribaltare…un po’ come faceva Picasso con la sua arte rispetto a quella tradizionale (e, ammettiamolo, di Picasso in giro per il mondo non ce ne sono tanti!)

3) Dosate con equilibrio la miscela esistente fra personaggi «tolkieniani» e personaggi «non tolkieniani», cioè inventati da voi. Per esperienza personale, trovo sia meglio avere un/a protagonista «non tolkieniano/a» per godere di migliore libertà d’azione. Al limite, vi suggerisco di «adottare» un personaggio poco trattato da Tolkien in modo da avere una cerniera ideale tra i suoi scritti e i vostri. Non abusate, invece, di personaggi come Frodo, Aragorn, Gandalf, Sauron etc.; non perché non siano interessanti – ci mancherebbe! – ma perché la loro trattazione richiederebbe la conoscenza di tutte le fonti disponibili (anche di quelle eventualmente inedite in Italia). Un compito, questo, che potrebbe atterrire chiunque. Se volete concedere loro un cameo, fatelo pure – renderà certamente il vostro racconto più famigliare agli occhi di chi legge – ma senza fare di questi personaggi…i vostri personaggi.

4) Ultimo consiglio: non siate mai – e sottolineo il termine mai – ostili a priori nei confronti di qualsiasi racconto o fan-fiction: se ne avete voglia e modo, provate a leggerli…e mal che vada, lasciate perdere. Nessuno ve ne farà una colpa, anzi: un vostro commento (ben motivato, s’intende!) potrebbe aiutare chi scrive a migliorarsi. L’indifferenza, anche in questo settore, è sempre una gran brutta bestia.

Mi piace concludere questo articolo con un invito e un auspicio: si può scrivere di Tolkien, con Tolkien e per Tolkien stesso avendo però a mente le parole che pronuncia Gimli a Legolas in merito ai suoi progetti di trasferire una parte dei Nani nelle Caverne Scintillanti:

«Abbatti tu, forse, boschetti di alberi in fiore per raccoglier legna in primavera? Noi cureremmo queste radure di pietra fiorita, non le trasformeremmo in miniere. Con cautela e destrezza, un colpetto dopo l’altro, un’unica piccola scheggia di roccia e nient’altro, forse, in tutta una giornata ansiosa: tale sarebbe il nostro lavoro, e col passar degli anni apriremmo nuovi sentieri, scopriremmo nuove stanze lontane e ancor buie che s’intravedono ora come un vuoto dietro fessure nelle roccia. E le luci, Legolas! Creeremmo luci, lampade come quelle che risplendevano un tempo a Khazad-dum; e secondo il nostro desiderio potremmo allontanare la notte che sommerge le caverne da quando furono innalzati i colli, o lasciarla rientrare per cullare il nostro riposo».

 

Il mistero delle porte di Moria

Se c’è un episodio del «Signore degli Anelli» che è rimasto particolarmente impresso nell’immaginario del lettore tolkieniano è certamente quello rappresentato dall’ingresso alle Miniere di Moria, l’antica Khazad-Dum ormai abbandondata dai Nani centinaia di anni prima che la Compagnia dell’Anello prendesse la decisione – ardita e rischiosa allo stesso tempo – di passare attraverso i suoi sentieri sotterranei per sfuggire alle spie del Nemico che erano sulle tracce dell’Unico. Questo episodio, tra l’altro, è stato reso visibile sul grande schermo, dapprima nel lungometraggio animato di Bakshi (1978) e, in seguito, nel primo capitolo della saga cinematografica di Jackson (2001).

In entrambe le pellicole la Compagnia, giunta alle porte di Moria, è attesa dalla difficile risoluzione di un enigma rivolto all’incauto forestiero: la sua risoluzione permetterà a Frodo & Co. di entrare nell’antica dimora nanica. La natura dell’enigma è ben nota, tanto da diventare materia di meme e altre parodie rintracciabili sulla Rete: sulle porte di Moria, infatti, campeggia la seguente scritta in caratteri elfici: «Le porte di Durin, Signore di Moria. Dite, amici, ed entrate. Io, Narvi, le feci. Celebrimbor dell’Agrifogliere tracciò questi segni». Sia nel romanzo che nelle due opere cinematografiche questo enigma mette a dura prova la Compagnia: nel romanzo, come nella pellicola di Bakshi, è Gandalf a risolverlo, dopo aver riflettuto profondamente (questa è una scena che mi ha spesso rammentato quei giochi di ruolo nei quali il mago o lo stregone si prende un turno di riposo per concentrare le proprie energie mentali per lanciare un incantesimo o decifrare una pergamena magica, a conferma di quanto l’immaginario tolkieniano abbia influenzato l’universo ludico fantasy). Nel film di Jackson, invece, è Frodo a mettere sulla giusta strada lo Stregone Grigio, immaginando (correttamente) che la frase nasconda un doppio senso basato sull’uso delle virgole che sottolineano, in qualche modo, la parola d’ingresso, ossia «Amici» (mellon in elfico). Ad ogni modo, la Compagnia, una volta pronunciata la parola «magica» può dunque proseguire nel suo percorso, non prima di aver evitato l’ira dell’Osservatore dell’Acqua, una gigantesca e mostruosa creatura che vive nello stagno del Sirannon, situato ai piedi delle porte di Moria. Anche in questo caso non posso che apprezzare la sceneggiatura di Bakshi rispetto a quella di Jackson: coerentemente con quanto è narrato nel romanzo, i suoi membri non hanno una chiara e immediata percezione di quanto accaduto; in altre parole, non è subito chiaro se i tentacoli verdi e luminescenti che li hanno aggrediti appartengano a una o a più creature acquatiche; questo «enigma zoologico», infatti, sarà risolto solo alcuni giorni più tardi, quando Gandalf avrà occasione di leggere il Diario di Mazarbul, rendendosi conto in questo modo che si tratta di un mostro solitario al quale i nani della colonia di Balin avevano attribuito il nome di «Osservatore dell’acqua». Jackson, invece, ha preferito puntare decisamente – come in altre occasioni – sulla spettacolarizzazione dell’attacco portato dalla mostruosa creatura nei confronti della Compagnia, mostrando fin dal principio la natura dell’Osservatore, molto simile a quella del Kraken delle leggende norrene.

Ad ogni modo, sia il lettore che lo spettatore si convince facilmente che la difficoltà nella quale si sia imbattuta la Compagnia riguarda principalmente la soluzione dell’enigma linguistico: la presenza della frase incisa sulle porte di Moria è spiegata grazie all’azione dei raggi lunari che rendono visibili i caratteri elfici. Si ha dunque l’impressione – fallace, come cercherò di spiegare in seguito – che ogni notte (o, più correttamente, ogni qual volta la luna o le stelle non siano coperte da nubi) questa scritta di benvenuto brilli nell’oscurità e che all’occasionale visitatore non rimanga altro che risolvere il noto enigma.

Verrebbe da chiedersi, se così fosse, come mai Sauron, che pure attaccò Khazad-Dum nel corso della sua prima guerra contro gli Elfi dell’Eregion sul finire del XVII secolo della Seconda Era, non sia riuscito a sciogliere l’enigma, pur disponendo dei poteri dell’Unico e pur essendo uno stregone di grande potenza e intelligenza. Più in generale, non è possibile restare impassibili dinanzi alla constatazione che qualunque nemico avrebbe potuto risolvere quell’enigma, dal momento che richiedeva essenzialmente una sola competenza linguistica (ossia la conoscenza del Quenya, una lingua elfica la cui importanza per gli Elfi potrebbe essere paragonata a quella del latino nella società odierna).

Come mai, dunque, Sauron non era riuscito a penetrare nelle sale di Khazad-Dum per depredarle delle sue notevoli ricchezze?

La risposta risiede in un passaggio che, purtroppo, è stato eliminato sia nell’opera di Bakshi che in quella di Jackson: «Sono d’intarsi d’ithildin, che riflette solo i raggi di luna e di stelle, e dorme sin quando non sente il tocco di chi pronunzia parole ormai da tempo obliate nella Terra di Mezzo. Io le udii molti anni addietro, e dovetti riflettere profondamente prima di riuscire a rammentarle». Queste sono le parole che Gandalf pronuncia dinanzi alle porte di Moria, rivelando, dunque, come il vero ostacolo per penetrare all’interno della città dei Nani non fosse pronunciare la parola «mellon», quanto apprendere le parole (rimaste sconosciute anche al lettore) che permettevano di leggere, per così dire, «le istruzioni» apposte sulle porte di Khazad-Dum. Questo dettaglio, niente affatto trascurabile, spiegherebbe il segreto dell’invulnerabilità della roccaforte nanica nelle epoche precedenti; neppure Sauron, evidentemente, era riuscito a carpire il segreto delle «parole di comando» che rendevano «sensibili» gli intarsi di ithildin, un metallo la cui formula era noto solo ai Nani e agli Elfi. Allo stesso modo, è interessante notare come Gandalf lasci intendere di essere stato apprezzato ospite, in un passato remoto, dei nani di Moria, al punto da ispirare così grande fiducia da apprendere le parole segrete.

Un’alleanza difficile

Tenere insieme un’alleanza non è semplice, anche quando il nemico da battere è Sauron…come scopriranno in questo brano Erfea e Aldor Roch-Thalion, il signore degli Eothraim, antenati dei Rohirrim. Non stupitevi se quanto scrivo vi suonerà famigliare: si tratta di un testo che, in gran parte, era stato pubblicato due anni fa sul blog, ma con alcuni «buchi» interni che ne rendevano più difficile la lettura. Potrete, eventualmente, leggerlo qui.

Allo scopo di rendere più agevole la lettura di questo testo, l’ho quindi suddiviso in due parti: la prima riguarderà i contrasti sorti in seno al Consiglio di Guerra dell’Ultima Alleanza, la seconda (di prossima pubblicazione) affronterà le disastrose conseguenze della scelta di Oropher e Amdir…

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Nessuna novità condusse con sé il giorno successivo, e le settimane seguenti furono animati dalla medesima tranquillità inquietante; tuttavia, come aveva previsto Erfea, nuove schiere offrivano i loro servigi all’Oscuro Signore ed i suoi eserciti crebbero in possanza ed in numero, sicché Sauron si avvide che era giunto il tempo di sfidare nuovamente il nerbo delle Libere Genti: rapaci ordini furono impartiti ai capitani dell’Occhio ed essi presero ad armarsi e a condurre manipoli esigui al di là dei possenti cancelli del Morannon allo scopo di comprendere quale fosse l’entità delle schiere dell’Occidente. In quei giorni, numerosi prigionieri furono catturati dagli esploratori elfici in ricognizione nelle desolate steppe che si estendevano tutt’attorno ai loro accampamenti ed essi condussero tali esseri dinanzi ai comandanti dell’Alleanza, affinché fossero interrogati e rivalessero quale fine gli avesse condotti ai quartieri invernali; i servi di Mordor, tuttavia, si rivelarono infidi e riluttanti a parlare, sicché non fu possibile apprendere da loro alcunché.

Grande fu l’inquietudine che sorse allora negli animi dei Comandanti dell’Alleanza ed essi presero a mormorare che il Nemico avrebbe tosto invaso i loro accampamenti; tuttavia, sebbene i cuori di tutti fossero provati da timore, pure nessuno fra loro si dimostrò più pronto a recepire tali sentimenti nel suo animo di Oropher, sovrano degli Elfi che dimorano all’ombra dei vetusti faggi che si estendono nelle remote e selvagge contrade di Bosco Verde il Grande; estese erano le sue schiere ed egli sovente si lamentava con il proprio erede Thranduil di non poter affrontare in campo aperto gli schiavi di Mordor: “Grande rammarico prova il mio cuore nell’osservare che le nostre armate, riluttanti, attendono in tale desolata landa i servi dell’Avversario, mentre i Signori degli Eldar discutono nelle loro lussuose dimore di arcane e futili questioni. Alleati e non già asserviti furono i nostri soldati allorché pronunciarono il fiero giuramento di sconfiggere Sauron o di perire nel tentativo di compiere tale impresa; per quale ragione, dunque, dovremmo attendere che sia il figlio di Fingon a comandare le nostre schiere?”

Ostile ai Noldor era il cuore del sovrano di Bosco Verde il Grande ed egli temeva i Naugrim di Khazad-Dum, ché nella sua mente era ancora vivido il ricordo del bieco assassinio di Thingol e della rovina del Doriath; Thranduil, tuttavia, sebbene nel suo animo nutrisse sentimenti simili a quelli del padre, era però più accorto e lungimirante, sicché presagiva che le armate del suo popolo avrebbero subito una dura sconfitta se avessero osato affrontare i veterani guerrieri di Mordor senza alcun aiuto: a eccezione della Guardia del sovrano, infatti, nessun altro guerriero era dotato di armature in metallo e di cavalli, risultando pertanto vulnerabile agli attacchi dei crudeli Esterling e dei possenti Haradrim.

Caute parole e saggi ammonimenti pronunciava allora il figlio di Oropher alle orecchie del suo signore e per qualche tempo parve che la concordia regnasse ancora nel cuore del re; tuttavia, alcuni fra i Noldor più arroganti e infidi, presero a sussurrare al cuore di Gil-Galad parole codarde e subdole, sicché l’animo dell’Alto Re dei Noldor fu colmo di sdegno e di ira possente ed egli non mancava di osteggiare Oropher ogni qual volta si svolgevano i Consigli di Guerra.
Sorpresa e timore turbarono i Secondogeniti, ché ignoravano i motivi per i quali vi era sì discordia tra i Sindar e i Noldor, e umiliati erano gli spiriti dei Nani della stirpe di Khazad- Dum, ché essi non avevano preso parte a quelle vicende e pur avendone serbato ricordo, si rifiutavano di espiare colpe mai commesse; a tale discordia si giunse, che un dì Oropher apostrofò Gil-Galad con tali parole di scherno e perfidia: “Signore degli Eldar, grande sarebbe la mia vergogna e palese il mio disonore, allorché scoprissi che vi sia, nel mio accampamento, Elfo o Uomo sì saldo nel cuore e nella mente da muovere guerra agli eserciti di Mordor e io avessi tema di seguirne il glorioso cammino”.
Molti fra i comandanti si sorpresero allorché udirono tali parole di sfida e alcuni presero a mormorare che presto il sangue sarebbe corso tra gli stessi guerrieri dell’Alleanza; fredda fu tuttavia la risposta che Gil-Galad pronunciò in quell’ora: “Invero, vi sono al mondo numerosi signori e condottieri, gli uni ricolmi di codardia, gli altri di arroganza; la fama non è estranea ai loro destini, ché i primi la conquistano ergendosi sopra i corpi di coloro che sacrificano per i loro abietti scopi, i secondi innalzando i loro vessilli sui campi di battaglia. Io non desidero, però, obliare che questa guerra non è condotta per acquisire gloria personale, bensì per un diverso scopo. Se, dunque, qualcuno tra voi crede che gli eserciti di Mordor dormano, ignari, all’ombra dei poderosi cancelli del Morannon, vada pure a disturbarne la quiete; sappia, tuttavia, che nessuno in questa sala offrirà la propria spada per un simile scopo”.
Furente, Oropher osservò l’Alto Re dei Noldor e non avrebbe tardato a rispondere con grande veemenza a tali parole, se in quel frangente non si fosse levato dal suo scranno Cirdan, saggio fra i Sindar e custode di Narya, l’Anello del fuoco: “Non desidero che il sangue dei Primogeniti sia sparso ancor prima che le nostre armate incrocino le proprie lame con quelle dei servi dell’Avversario; se tale è il tuo pensiero, Oropher, affronta pure gli Orchi e le altre creature delle Tenebre che formicolano nei segreti pertugi e nelle anguste torri del Morannon, ché nessuno ostacolerà il tuo cammino; abbi cura, tuttavia, prima di intraprendere tale periglioso sentiero, che le dimore della tua gente siano ben protette, ché il nero artiglio di Sauron protende le sue crudeli grinfie al Nord e non dubito che oserebbe colpire la tua reggia, mentre il tuo esercito otterrà gloria e morte sui campi di battaglia”.
Dubbio sorse allora nell’animo di Oropher, ed egli avrebbe forse desistito dallo sfidare le armate di Mordor, se in quel momento non avesse fatto il suo trafelato ingresso un messaggero, con il volto ornato dalle lacrime e dal sangue, mormorando parole che ai più parvero incomprensibili; lesto, tuttavia, lo soccorse Elendil, Sovrano degli Uomini e udì quanto l’Elfo aveva voluto rivelargli; sospirò, infine gli accarezzò dolcemente il viso, ché l’esploratore gli era spirato tra le braccia.
A lungo ristette in silenzio, infine, rivolgendo il pensoso sguardo a coloro che gli erano accanto, parlò ad alta voce, sicché le sue parole furono udite da tutti in quella dimora: “Battaglioni dell’Occhio sono stati avvistati nelle contrade a Sud e a Est rispetto alla nostra posizione; alcuni Elfi sono stati catturati e torturati dai servi del Nemico e i loro cadaveri giacciono, abbandonati alle fiere e ai corvi, dinanzi alle porte dei nostri quartieri invernali”.
Un penoso silenzio scese fra coloro che ascoltarono quelle parole, interrotto solo dal respiro affannoso di Oropher, al quale fecero ben presto eco le parole che Amdir, sovrano di Lorien pronunciò:
“A che pro dovremmo, Cirdan di Lindon, desistere dal muovere guerra ai servi del Nemico, dal momento che essi compiono tali efferati atti? Sterili si sono dimostrati i tuoi consigli, ché l’Oscuro Signore sterminerà il nostro popolo se le schiere dell’Alleanza non saranno in grado di contrastarne la violenza e la malizia: pure, se le nostre esistenze saranno un giorno tutelate dalle poderose mura che cingono Osgiliath, Annuminas o Khazad-Dum, non sembrerà a noi, che già una volta fummo esiliati dalle nostre terre, di bussare nuovamente, mendichi, alle porte di coloro che in passato turbarono le nostre esistenze o si opposero ai nostri voleri, umiliando senza ragione alcuna i nostri spiriti? Non vi sono, infatti, fortificazioni che possano arrestare l’ira di Sauron dinanzi alle nostre contrade; qualora gli alberi fossero abbattuti e l’intera foresta data alle fiamme, noi rimarremmo inermi e senza alcuna difesa nei confronti degli Ulairi e delle loro armate; non sarebbe dunque preferibile perire in scontro aperto, piuttosto che subire l’umiliazione, da un lato, di dover volgere la terga al nemico e dall’altro, di permettere che avvengano simili atti nefasti senza opporre a essi null’altro che la nostra sterile voce?”
Lesto si levò allora Erfea dal suo scranno e pronunciò tali parole: “Fra quanti sono comandanti delle schiere delle Libere Genti, mi sembra, tuttavia, che solo i Signori degli Elfi Silvani stiano adoperando la voce per scagliare velenosi strali verso coloro che, pur comprendendo la rabbia che attanaglia i loro cuori, sono ben consci dell’impossibilità di sconfiggere le armate di Mordor senza alcuna arma eccetto la propria vanagloria”.
Parole non seppe replicare Amdir, ed egli chinò il capo, essendo il suo spirito roso da un grande dubbio; saggi erano gli ammonimenti di Erfea, né il Signore di Lorien desiderava che vi fosse inimicizia tra la sua stirpe e quella dei Dunedain; i medesimi sentimenti, tuttavia, non erano condivisi da Oropher ed egli abbandonò il consiglio, seguito dal figlio e dai suoi capitani.
Nessuna parola fu pronunciata dai comandanti dell’Alleanza ed essi si ritirarono, ciascuno custodendo nel proprio cuore i timori che simili atti inconsulti avevano suscitato, ché non v’era dubbio che lesta si sarebbe scatenata una ribellione in seno all’Alleanza ed i suoi germogli erano visibili agli occhi di tutti; turbato, così parlò Aldor Roch-Thalion ad Erfea: “Credevo che avremmo incontrato il nemico sul campo di battaglia, non nella nostra dimora”. Nessuna parola pronunciò Erfea per alcuni istanti; infine sospirò e mirando le nubi che si ergevano ai confini del mondo, così rispose: “Possente, il nero grifagno dell’Oscuro Signore si protende sulle nostre terre, ché anche questa è opera sua ed egli, chiuso nella sua impenetrabile rocca, ride, fiero che ogni suo volere trovi cuori ove possa attecchire con tanta facilità.”
Stupito, Aldor replicò: “Mio signore, mai avevo creduto che finanche i Priminati potessero soccombere ai medesimi sortilegi oscuri che l’Avversario scaglia sui mortali, ché essi mi parevano librarsi al di sopra delle imperfezione di Arda, sfuggendo, come candidi gabbiani, ai lacci che il cacciatore pone sulla sua strada.”
“Invero, signore dei cavalli, il destino degli elfi è strettamente legato a quello di Arda ed essi invidiano il fato degli uomini, ché pare loro meno arduo da affrontare”.
“Amara suona tale rivelazione alle mie orecchie, figlio di Gilnar, ché, sebbene non desiderassi l’immortalità della stirpe dei Primogeniti, pure ritenevo ben più fortunati coloro che giunsero nel Reame Beato al di là del Grande Mare; cosa avviene, dunque,  ai loro spiriti, allorché i loro corpi, simili a fiori la cui vita l’impetuoso Autunno reclami senza esitazione alcuna, periscono in battaglia?”
Sofferenza si dipinse per un istante sul volto di Erfea, si ché Aldor, impaurito, si ritrasse e si pentì per quanto aveva osato domandare a colui che aveva, un tempo, amato una Primogenita; restio era tuttavia il Sovrintendente a congedarlo, ché, sebbene il suo cuore sanguinasse copiosamente, pure non nutriva risentimento per colui che aveva risvegliato, incautamente, antichi ricordi; lenta risuonò allora la sua risposta e il Signore del Rhovanion apprese quanto desiderava conoscere.

“Le storie tramandataci dai nostri padri narrano come ai Primogeniti, al termine della Guerra d’Ira, fosse stata data la possibilità di abbandonare per sempre i lidi della Terra di Mezzo, per recarsi al di là del mare, qualora il tedio delle contrade ove avevano soggiornato fin dai tempi del loro esilio da Valinor fosse divenuto insopportabile per i loro animi; allora essi fuggirono in gran numero, ché Gondolin era stata rasa al suolo e il Narghotrond e il Doriath non erano più, eppure molti fra di essi ristettero, ché l’epoca del dominio dei Secondogeniti non è ancora giunta e molto abbisogniamo dei loro saggi ammonimenti e della beltà dei loro visi.”
“Pochi elfi avevo conosciuto prima di recarmi alla grande torre di Isengard, ove il mio popolo strinse eterna amicizia con le altre liberi genti, e colmo di stupore fu il mio sguardo allorché intravidi Dama Galadriel ergersi fra coloro che discutevano della storia dell’Avversario e della forgiatura dei Grandi Anelli del Potere; maestoso era il suo sembiante e coloro che erano attorno a lei, sebbene appartenessero alla medesima stirpe, pure sembravano bambini sciocchi e pigri, ché ella sovrastava ogni presente con la sua leggiadra bellezza”.
“Splendida è invero Dama Galadriel, ché la luce dell’Antico Mondo non è ancora svanita dai suoi occhi; pure, se tale guerra dovesse avere un esito infausto, allora anche la Signora dei Noldor verrebbe meno e su tutte le contrade dell’occidente cadrebbe l’ombra di Mordor”.
“Non smarrire ogni speme, figlio di Gilnar! Allontana ogni paura dal tuo cuore, ché non è ancora giunta l’ora in cui la tua parte nella vasta storia del mondo cesserà e gli Uomini ancora abbisognano della tua lungimirante guida!”

A lungo Erfea sospirò e ad Aldor Roch-Thalion parve di scorgere il suo volto invecchiare alla luce di una tremula torcia; numerosi anni gli calarono sulle logore spalle e le cicatrici di antiche ferite parvero visibili agli attoniti occhi dell’Eothraim: vi era stanchezza nel grigio sguardo del Dunadan, ché la malinconia albergava nel suo cuore ed il capo era chino. Molte voci erano diffuse tra i guerrieri dell’Alleanza su quanto era accaduto un tempo ad Edhellond, eppure, ad eccezione di Elrond, di Anarion e di Bòr, non vi era nessuno che potesse smentire o confermare quanto i soldati erano soliti sussurrare nelle lunghe veglie della notte. Racconti erano narrati sulle gesta che il prode Dunadan aveva compiuto nel corso dei suoi lunghi anni e il nome di Elwen non era ignoto, né a coloro che gli erano amici, né ai servi di Mordor; pure, nessuno era in grado di affermare quale fato avesse colpito la giovane elfa, se ella fosse perita, trafitta da una lancia aguzza, o se si fosse recata al di là del mare, ove ancora si ergevano, pur se invisibili ai Secondogeniti, le aule di Valinor.
Un sorriso, tuttavia,  balenò sullo stanco volto di Erfea ed Aldor lo osservò stupito, ché non ne comprese il motivo; rapida, infatti, era balenata nella mente del Sovrintendente l’immagine di Imracar Folcwine ed ora gli pareva di scorgere la medesima fierezza nello sguardo del nipote; simili pensieri, tuttavia, esulano dalla mente degli Eothraim ed Erfea non fece parola di quanto albergava nel suo cuore con l’Alto Thaeng.
Nei giorni successivi, rapidi come le nubi in Autunno, corsero false voci, alimentate dal timore e dal rancore che cuori pavidi presero a nutrire; si mormorò, infatti, che una poderosa e feroce armata di Orchi ed Esterling avrebbe tosto percorso la strada che conduceva all’antico Bosco Verde il Grande, ché Sauron si faceva beffa delle luminose schiere dell’Alleanza e riteneva indecoroso sfidarne il nerbo in uno scontro campale. Riluttanti furono tuttavia i Capitani dell’Ovest a concedere credito a tali voci, ché ben comprendevano come messaggeri infidi avessero diffuso tali voci all’interno degli accampamenti e presero a curarsi poco di quanto i servi di Sauron operavano; rabbia sovvenne allora nel cuore di Oropher, ché aveva compreso il parere degli altri comandanti dell’Alleanza e si avvedeva che essi non condividevano i suoi medesimi timori: tosto egli si recò dunque dal suo consanguineo, Amdir di Lorien e, all’orecchio di costui, prese a sussurrare i suoi pensieri reconditi.
Il dubbio sorse allora nel cuore di Amdir; eppure, mai egli avrebbe dovuto prestare ascolto e fede alla parole che il sovrano degli Elfi di Bosco Verde il Grande diffondeva in gran segreto, ché esse erano frutto della malizia di Sauron e dei suoi Ulairi: tuttavia, forte era nel cuore del Sinda la nostalgia per le contrade che aveva abbandonato mesi prima ed egli aveva giurato riluttante, ché presagiva sarebbero giunte perigliose sventure per i Primogeniti se essi avessero preso parte alla guerra fra i Dunedain e i servi di Mordor; pure, ancor più forte era nel suo cuore la minaccia delle armate dell’Oscuro Signore ed egli desiderava porre fine alle devastazioni che la sua contrada aveva subito a opera delle legioni dei Nazgul».

Il Ciclo del Marinaio è anche su Wattpad!

Care lettrici, cari lettori,
sono felice di annunciarvi che da qualche giorno «Il Ciclo del Marinaio» è anche su Wattpad! Ho fatto questa scelta perché mi sono reso conto di un aspetto problematico rappresentato dalla struttura del mio blog: la difficoltà di procedere nella lettura del romanzo in modo progressivo e ordinato (evidente soprattutto per i nuovi lettori). A mia discolpa (almeno parziale) devo confessare che le mie intenzioni, quando aprii il mio blog un paio di anni fa, erano molto diverse da quelle attuali: pensavo di limitarmi a presentare solo alcuni personaggi del Ciclo del Marinaio, senza entrare nei dettagli della storia. Incoraggiato dai vostri apprezzamenti ho deciso poi di proseguire nell’approfondimento dei racconti che costituiscono il mio romanzo…e il resto lo sapete.
Per il momento ho caricato su Wattpad una buona parte del primo racconto, intitolato «Il Racconto del Marinaio e del Messere di Endore» e continuerò ad aggiornare frequentemente la mia pagina.

Per leggere le mie storie vi basterà aprire la seguente pagina web: https://www.wattpad.com/home e inserire le parole «Ciclo del Marinaio» nel motore di ricerca del sito.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti! Questo pomeriggio caricherò sul mio blog, invece, il seguito dell’incontro tra Erfea e Gil-Galad.

La bellissima immagine che vedete in alto è opera di Emanuele Manfredi Gallery e potete ammirarla anche nella sua pagina facebook:  https://www.facebook.com/EmanueleManfrediGallery/photos/a.696568877024130/3429349947079329/?type=3&theater

In realtà, nelle intenzioni dell’Autore, rappresenta una celebre icona animata degli anni Ottanta: She-Ra, la cugina del celebre He-Man. A me, invece, ha subito ricordato la bellissima Ariel, l’Amazzone che combattè al fianco dell’Alleanza nella difesa di Osgiliath…e non vi dico altro, se non ricordate la sua storia (o se volete rileggerla), vi suggerisco di cliccare qui.

Gil-Galad, l’Alto re degli Elfi

Una figura affascinante, della quale, tuttavia, conosciamo molto poco è senza dubbio quella di Gil-Galad, l’Alto Re degli Elfi che ancora vivevano nella Terra di Mezzo ai tempi dei Numenoreani. Questo personaggio, pur avendo contribuito alla sconfitta di Sauron nel duello finale combattuto lungo le pendici del Monte Fato, rimane tuttavia un soggetto di secondaria importanza nelle opere tolkieniane. Nel «Signore degli Anelli» Sam recita un componimento epico che porta il suo nome, ma per il resto non siamo in grado di apprendere molto di questo sovrano, fatta eccezione per le tragiche circostanze in cui trovò la morte (potrete leggere la mia versione del duello finale tra lui e Sauron qui) e per il nome della sua arma, la temibile lancia Aeglos («Punta di neve», un nome molto suggestivo, a mio parere). L’unico racconto (almeno fra quelli tradotti in italiano) nel quale assume una rilevanza maggiore è quello di Aldarion ed Erendis (Racconti Incompiuti): una sua lettera, infatti, trasmessa da Aldarion al padre di questi, il sovrano di Numenor, segnala, per la prima volta nella Storia della Seconda Era, il risveglio del Male nella Terra di Mezzo, che era stato creduto a lungo sconfitto per sempre dopo la caduta di Morgoth, alla fine dell’epoca precedente.

Per questa ragione ho voluto attribuire un maggior spazio a Gil-Galad nei miei racconti: non quanto, forse, ne meriterebbe – lo ammetto, sono più a mio agio nel descrivere gli Uomini rispetto agli Elfi, che considero una creazione squisitamente tolkieniana – ma abbastanza per delineare il ritratto di un sovrano Noldo: gentile, ma al tempo stesso inflessibile. Erfea aveva conosciuto questo personaggio già nel corso della sua giovinezza, allorquando ricevette dalle sue mani la spada Sulring (potrete leggere qui l’episodio citato): la loro amicizia perdurò negli anni, nonostante la distanza geografica che li separava, finché i due non ebbero occasione di parlarsi nuovamente, all’inizio degli eventi che condussero alla Battaglia della Dagorlad dinanzi ai Cancelli Neri di Mordor.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Lenta, l’abile mano di Gil-Galad, Alto sovrano dei Noldor in esilio, vergava esili rune sulla chiara pergamena che si estendeva sotto il suo pensoso sguardo; nessuno era con lui in quella tarda ora del vespro, ché le truppe degli eserciti dell’Alleanza riposavano inquiete sotto un cielo grave di presagi. Remote, le stelle di Varda illuminavano la silenziosa piana che si estendeva dinanzi ai lugubri Cancelli di Mordor, al di là dei quali si ergeva la dimora dell’Oscuro Signore Sauron, Forgiatore degli Anelli e re degli uomini dell’Oriente.

Nessun suono proveniva dalle dimore che gli altri comandanti avevano eretto intorno alla sua, in omaggio alla maestà dell’erede di Fingon; eppure, fra costoro, vi era ancora chi si attardava a prendere riposo e vegliava inquieto. Sorrise Gil-Galad, ché gli era nota l’identità di tale capitano e sebbene i suoi acuti sensi percepissero l’irrequietezza agitarsi nell’animo del condottiero, pure vi era letizia nel suo cuore, ché ben conosceva il coraggio di colui che condivideva molte delle sue pene.

Le argentate Tengwar brillavano sui fogli che giacevano accanto al calice del sovrano, eppure nel suo cuore grave era scesa una minaccia e nessuna luce era in grado di rischiarare la tenebra che dai colli di Mordor si propagava tutt’intorno a loro; lesto, tuttavia, si scosse da tali tetri pensieri, allorché udì le sentinelle poste dinanzi all’ingresso della sua tenda ergersi e rivolgere cortesi parole di benvenuto nella loro primogenita favella.

Un’ombra si fece largo nell’ampia dimora che il sire elfico occupava fin da quando il suo esercito, disceso lungo gli ampi e frastagliati crinali degli Emyn Muil, era giunto dinanzi a Mordor per porre l’assedio alla fortezza del Maia caduto, servo dell’antico nemico dei suoi padri; imponente, la figura dell’inatteso ospite si ergeva innanzi a Gil-Galad, il viso e le membra occultati da una cappa un tempo nobile e ora logorata dalle fatiche e dagli anni ormai trascorsi. In Quenya costui aveva rivolto la parola agli elfi che sostavano all’ingresso, eppure non era un Priminato, ma un uomo della stirpe dei Numenoreani, signori fra gli Uomini ed eredi degli Edain che sostennero la causa degli Eldar nei secoli precedenti la caduta di Morgoth, l’Oscuro Signore del Mondo.

Lieto era in volto il sire dei Noldor, ché vi erano solo quattro mortali il cui ingresso nella sua dimora sarebbe stato salutato con tale entusiasmo dalle severe guardie; tre fra essi erano Elendil ed i suoi eredi, Isildur ed Anarion, sovrani dei regni di Arnor e Gondor: luminosi erano i loro sguardi, sì che essi parevano più simili a coloro che fanno ritorno ad Aman piuttosto che ai mortali cui la Sorte riserva il sonno eterno; eppure, neanche tali campioni tra gli uomini potevano vantare gloria e sapienza, procurate in innumerevoli anni trascorsi nelle gelide steppe e nelle infide corti di regni ormai obliati, come colui che era ora dinanzi al Signore degli Elfi.

“Ayia, Gil-Galad[1] pronunciò il visitatore, dopo essersi inchinato leggermente; infine si sedette e, facendo scivolare via il logoro manto, rivelò la sua identità al figlio di Fingon.

“Mae Govannen Erfea Morluin[2] – gli rispose l’Alto Sovrano dei Noldor – Tarda è l’ora, eppure foriera di sventure quali mai i figli di Iluvatar hanno affrontato. Molti sentieri hai percorso nel corso dei tuoi lunghi anni, sebbene il tuo sembiante non sembra essere affatto mutato; grave è tuttavia il tuo sguardo ed il mio cuore non può fingere di ignorare quanto i tuoi pensieri hanno a lungo celato agli altri uomini”.

“Ignoravo che tali antiche storie non fossero state obliate nel regno di Lindon, sovrano dei Noldor; eppure non sono giunto alla tua dimora in cerca di consiglio, ma per rivelare quanto i miei sensi hanno appreso in queste ore oscure”.

A lungo lo fissò Gil-Galad, infine, con un gesto cortese, ma grave, lo invitò a prendere posto dinanzi a lui; anziano era adesso il figlio di Gilnar, ché ben pochi, finanche tra la sua stirpe, erano mai giunti al terzo secolo di esistenza, eppure il suo corpo non aveva perduto nulla della sua antica possanza e Sulring la Splendente cingeva ancora saldamente il fianco del Numenoreano: numerosi ricordi balenarono nella mente del sovrano ed egli sorrise nuovamente:

“Ben m’avvedo quanto il mio dono ti abbia servito fedelmente nel corso delle tue amare peregrinazioni, Sovrintendente di Gondor; rimembri quanto la mia bocca pronunziò un tempo?”

Lesta fu la risposta di Erfea, ché egli non aveva mai obliato quanto era accaduto molti anni prima, allorché egli era un fanciullo e Numenor la sua patria: “Mi dicesti che il mio sentiero sarebbe stato arduo a tal punto che innumerevoli occasioni si sarebbero presentate perché io lo smarrissi e cadessi nell’oblio della menzogna e dell’inganno; tuttavia, non solo consigli ed ammonimenti mi rivolgesti quel giorno, ché un inestimabile dono mi fu consegnato, affinché le mie fatiche potessero sembrarmi meno gravi e io potessi trovare un sostegno al quale aggrapparmi qualora il fortunale si fosse abbattuto su di me”.

Sorrise lievemente Gil-Galad: “Ricordi bene, figlio di Gilnar; tuttavia – concluse con tono grave – altri doni, ben più grandi del mio hanno permesso al tuo spirito di perdurare sino ad oggi. Possa la grazia dei Valar assistere sempre la tua stirpe!”

Annuì Erfea, infine parlò a sua volta, rivelando il motivo per il quale era giunto a chiedergli udienza: “I nostri esploratori riferiscono che il Nemico ha fortificato l’entrata alla Terra Nera con poderose torri ed imponenti cancelli; all’interno di essi, occultati dalla mole massiccia degli Ephel Duath e degli Ered Lithui, schiere di uomini ed orchi attendono, impazienti di misurarsi con gli eserciti dell’Ovest.”

“Invero, tali notizie non costituiscono per me motivo di sorpresa, ché sarebbe stato troppo azzardato sperare che Sauron avesse sacrificato nel suo assedio a Gondor più Uomini di quanti non ne avesse ancora avuti a disposizione nella difesa del suo regno. Suvvia, Dunadan, non sarai giunto a me solo con tali resoconti, ché essi non possono colmare di smarrimento il tuo cuore, né il mio. Rivelami dunque quali sono i timori che nutri in tale ora oscura”.

Sospirò il Sovrintendente di Gondor, infine, afferrata una mappa delle contrade di Mordor, parlò a Gil-Galad in questi termini:

“Sappi, mio signore, che Sauron non ha obliato nulla di quanto desiderava ottenere; i suoi schiavi sono stati mobilitati ed egli si appresterà a colpire molto presto, per tema che nuove schiere possano unirsi alle nostre, arrecando terrore e panico tra le sue fila; egli, tuttavia, è un essere astuto e saggio, e non consentirà mai ai nostri eserciti di sfidare i suoi servi su campo aperto, confidando, invece, nelle robuste fortificazione del Morannon[3]”.

Rapida, la mano di Erfea si mosse sulla mappa, fino ad indicare gli Emyn Muil: “Sappiamo altresì che il punto debole dei nostri nemici è costituto dalla cavalleria, ché i loro destrieri non sono paragonabili a quelli che servono nelle nostre fila; è necessario, dunque, premere la loro fanteria con i cavalieri dell’Alleanza, se vogliamo sperare in una vittoria, la quale, ahimè, costerà alle libere genti un alto e gravoso tributo di sangue”.

“Le tue preoccupazioni sono le mie, Sovrintendente di Gondor, ma non comprendo per quale motivo tu mi stia indicando i bruni colli che si estendono alla sinistra dell’Anduin; il Nemico non spingerà mai le sue truppe così lontano e non vi è speranza dunque di attrarle in un luogo simile”.

“Quanto affermi corrisponde a verità; tuttavia, non è a tale scopo che ti ho indicato l’ubicazione degli Emyn Muil, ché non è mio intento condurre i nostri nemici in una imboscata, bensì nascondere i nostri cavalieri al riparo dalle possenti rocce frastagliate che ivi si ergono”.

“Curiosa mi pare tale strategia e se non ti conoscessi bene, Erfea figlio di Gilnar, direi che stai vaneggiando: a che pro nascondere le nostre schiere di Lindon e degli uomini del Rhovanion in una località posta a settentrione, quando invece la battaglia si svolgerà molto più a sud?”

Soddisfatto parve Erfea allorché il sovrano degli elfi gli pose una simile domanda ed egli rispose lesto: “La nostra speme risiede nella vanagloria del nemico; se noi contribuiremo ad alimentarla, essa non farà altro che procurarci l’agognata vittoria; quando, infatti, l’Oscuro Signore si renderà conto che solo i fanti difendono i nostri accampamenti, allora invierà contro di noi molte schiere e avremo l’occasione di sterminarle tutte, ché la nostra cavalleria così occultata, avrà facoltà di cogliere alle spalle i fanti di Mordor, chiudendoli in una stretta mortale”.

A lungo rifletté Gil-Galad su tale proposta, infine, scuotendo il capo, pronunciò tali parole: “Invero, mi sembra una tattica audace e pericolosa per le nostre truppe, ché il Nemico potrebbe inviarci contro solo alcune tra le sue schiere scelte, per massacrarci tutti, mentre la cavalleria potrebbe non arrivare in tempo per salvarci; oppure, se Sauron si comportasse come tu dici, i suoi eserciti potrebbero essere in numero tale da vincerci sul campo aperto; in tal caso, l’intera Terra di Mezzo cadrebbe sotto il giogo della Tenebra. Molti rischi sono insiti in simili strategie e non tutti conducono al medesimo obiettivo”.

“Gil-Galad, se anche le nostre schiere fossero dotate di armi d’assedio simili a quelle che la tua gente progettò ed adoperò contro Morgoth durante la Seconda Battaglia del Beleriand, credi che il Morannon cadrebbe? O non ritieni, piuttosto, che sarebbe la fine per i Popoli Liberi? Ogni giorno che trascorre, un numero crescente di contadini e pastori abbandona la lunga falce e il nodoso bordone di faggio per impugnare la spada e la lancia; se l’assedio a Mordor dovesse durare molti anni, credi che vi sarebbe davvero la possibilità di ricevere vettovagliamenti simili a quanti finora le nostre schiere hanno abbisognato? Il Nemico possiede campi e fattorie poste a Sud, più di quante tu ne possa immaginare; seguendo l’antico percorso degli Haradrim, carovane cariche di oro, metalli e vettovaglie giungono a Mordor, ove i loro carichi vengono smistati e destinati alle creature che servono l’Occhio Senza Palpebra.
Se il nostro attacco non sarà fulmineo, saremo destinati a perire non già per la guerra, ma per la fame”.

“Tu mi chiedi molto, figlio di Gilnar – sospirò l’Alto re dei Noldor – eppure, ben m’avvedo che sarebbe follia perseguire oltre questo sterile assedio, ché sono ormai trascorsi numerosi mesi dacché ci impadronimmo di tale contrada e costringemmo le schiere di Sauron a riparare entro le loro mura; come topi li rinchiudemmo in gabbia, eppure, adesso, il cacciatore si è tramutato in preda e questa in implacabile segugio!”

Erfea lo guardò silenziosamente, infine, prima di prendere congedo e ritirarsi nella sua tenda, così salutò il figlio di Fingon: “Ricorda quanto ti dico; le schiere di Sauron colpiranno presto, anche in inverno, se necessario, perché esse sono spronate da una volontà crudele, che punto o poco si cura di coloro che la servono”.

Silente e scuro in volto, Gil-Galad tornò a sedersi sul suo scranno, invano scrutando tra le ombre, ché non vi era luce in grado di rischiarare il suo animo, provato dalle numerose fatiche di quei giorni ormai remoti».

Note

[1] “Salve, Gil-Galad” in Quenya.

[2] “Benvenuto, Erfea Morluin” in Quenya.

[3] Nella Seconda Era, complesso di fortificazioni erette dall’Oscuro Signore a difesa del suo regno e situate fra le propaggini occidentali degli Ered Lithui e quelle settentrionali degli Ephel Duath.

Consigli di Lettura

L’incontro fra Erfea e Gil-galad

L’ultima battaglia della Seconda Era