Nessuno tocchi la Bocca di Sauron! L’importanza del fairplay e delle leggi nelle opere tolkieniane

Uno dei personaggi meno amati del Signore degli Anelli è certamente la Bocca di Sauron. Non credo sia necessario soffermarmi sui motivi che spingono i lettori del romanzo di Tolkien a detestarlo, ma per coloro che non conoscano questo personaggio, mi ci soffermerò brevemente: la Bocca di Sauron, come dice lo stesso appellativo, è una sorta di ambasciatore dell’Oscuro Signore, incaricato di comunicare la volontà del suo padrone ai suoi servi e ai suoi avversari. Nessuno conosce il suo vero nome e le storie non ne parlano: si dice che lui stesso l’avesse dimenticato, assorbito com’era dal compito di rappresentare l’autorità di Sauron; sembra, tuttavia, che fosse un discendente dei Numenoreani Neri, coloni che si erano stabiliti sulle coste meridionali della Terra di Mezzo durante la Seconda Era, adorando Sauron perché erano avidi di scienza malefica. Non si hanno altre notizie su questo personaggio, se non che aveva fatto una rapida carriera nelle file dei servi di Sauron, arrivando a godere della piena fiducia del suo padrone, e mostrando una crudeltà superiore a quella di qualunque orco. Emerge qui un particolare molto importante: come forse alcuni ricorderanno, Sauron vietava ai suoi servi di pronunciare il suo nome o di scriverlo, adoperando come emblema l’Occhio rosso circondato dalle fiamme. La scelta della Bocca di Sauron di utilizzare nel proprio appellativo il nome del malvagio Maia, dunque, indica da parte sua una perfetta coesione di mente e di spirito con il suo Signore: questo ci mostra, dunque, quanto questo uomo fosse ormai divenuto un pupillo di Sauron.

La Bocca di Sauron, in qualità di araldo del suo signore, aveva dunque il compito di parlamentare con i rappresentanti delle schiere dell’Ovest: Tolkien, che non usa mai parole a caso, descrive chiaramente quale fosse lo scopo dell’Oscuro Signore in tutto ciò: «Ma Sauron aveva già i suoi piani, e intendeva giocare crudelmente con quei topi prima di ucciderli». Ecco, vorrei sottolineare il verbo giocare: Sauron vuole imbastire una «scenetta teatrale» al fine di mostrare un falso rispetto nei confronti dei suoi nemici. Il gioco, tuttavia, ha delle regole sacre, che neppure Sauron, considerato forse il massimo signore dell’inganno della Terra di Mezzo (chiedere a Celebrimbor per avere conferma) intende trasgredire: a questo proposito mi vengono in mente le riflessioni di Tolkien su un altro gioco, quello degli indovinelli fra Bilbo e Gollum, sul quale scriveva che era un «gioco antico, del quale neppure le creature più malvagie osavano infrangere le regole». Sauron ha ben chiare le regole di quel sottile gioco che è la diplomazia e non sembra volerle trasgredire: naturalmente, alla base del suo comportamento, non c’è una volontà di redenzione, né di riconoscimento reciproco dei suoi nemici come essere dotati di propria dignità. La Bocca di Sauron, infatti, dopo averli scrutati per bene, non perde occasione per deridere i Capitani dell’Ovest: «Vi è qualcuno in mezzo a questa folla che abbia l’autorità di trattare con me?» domandò. «O addirittura il cervello per capirmi? Certo non tu!», disse con tono sarcastico deridendo Aragorn. «Per fare un re ci vuole altro che un pezzo di vetro elfico o delle plebaglia come questa! Come? Qualsiasi brigante delle montagne può disporre di eguali seguaci!» Sauron, dunque, intende condurre il gioco a modo suo: proprio come molti calciatori che non perdono occasione di irridere l’avversario, sperando di non essere ripresi a loro volta dall’arbitro, ma non tralasciando occasione, a loro volta, di attirare l’attenzione del giudice di gara quando ritengono di essere a loro volta vittime di ingiustizie, la Bocca di Sauron richiama allarmato Aragorn al «rispetto» delle regole, nonostante il ramingo non avesse fatto nulla per minacciarlo, se non, forse, mostrargli, attraverso il suo penetrante sguardo, la sua meschinità e malvagità. «Sono un araldo e un ambasciatore, e non posso essere assalito!». A questo punto è Gandalf che dimostra come ci siano in campo delle regole che devono essere rispettate da entrambe le parti, se si vuole continuare a seguire quel clima di fair-play, di rispetto dell’avversario, che nasce nelle università inglesi nel corso del diciannovesimo secolo, e che certamente Tolkien doveva aver ben presente. «Ove vigono simili leggi» disse Gandalf, «vi è anche la consuetudine che gli ambasciatori siano meno insolenti. Ma nessuno ti ha minacciato. Non hai nulla da temere da noi fino a quando non avrai portato a termine il tuo compito. Ma dopo, a meno che il tuo padrone non sia colto da improvvisa saggezza, tanto tu quanto tutti i suoi servitori correrete grave pericolo». Stiamo per entrare nel nocciolo della questione, che spero possa essere d’aiuto nel far comprendere le ragioni del titolo che ho adottato per questo articolo: Gandalf (come gli altri Capitani, s’intende) è perfettamente conscio del ruolo che la Bocca di Sauron incarna e non intende attaccarlo prima che questi abbia completato il suo lavoro di ambasciatore. Secondo me, questo è uno dei punti più alti del Signore degli Anelli, in termini di umanità, e segna un profondo distacco fra Sauron e i suoi nemici: proprio nel momento, infatti, in cui entrambe le forze si confrontano in un dialogo verbale, teso quanto si vuole, pieno di trappole verbali e di menzogne, naturalmente, Gandalf riconosce al suo nemico, alla rappresentazione carnale dello spirito di Sauron (e dunque, per esteso, a Sauron stesso) una dignità che nessun servo del male riesce a ricambiare. Per la Bocca, infatti, è piuttosto chiaro quale deve essere il suo compito: irretire il nemico, mostrargli che ogni speranza è destinata ad essere delusa e che l’Anello è già rientrato (o lo farà presto) nelle mani del suo Padrone. È un grande bluff, in fondo, quello che la Bocca conduce: e lo fa, bisogna ammetterlo per onestà intellettuale, in modo molto convincente. Avendo in mano alcuni oggetti appartenuti a Sam e Frodo, pur ancora ignorando la loro missione nella Terra di Mordor, ha tuttavia compreso che sono cari a Gandalf e ai suoi amici: Sauron intende sfruttare a suo vantaggio quella che, secondo il suo metro di giudizio, è una grave debolezza, ossia l’affetto che lega fra loro persone che si vogliono bene, che non possono certo restare indifferenti rispetto al destino dei due hobbit torturati dagli aguzzini della Torre Oscura. L’araldo di Mordor godette nel vedere i loro volti grigi di paura e l’orrore in fondo ai loro occhi, e rise di nuovo, perché gli parve che il suo gioco procedesse nel migliore dei modi. Ancora una volta, Tolkien sceglie il termine «gioco» per indicare l’attività del Numenoreano Nero: è un gioco diplomatico, certamente, nel quale si chiede molto, evidentemente troppo, come si capisce dalla lettura delle condizioni che questi detta ai suoi avversari e che qui riassumo: cessione delle Terre ad est dell’Anduin a Sauron; conclusione dello stato di guerra contro Mordor; trasformazione dei territori ad ovest dell’Anduin in tributari di Sauron, o, per meglio dire, della Bocca, che sarebbe divenuto il tiranno dei popoli liberi. Dinanzi alla legittima richiesta di Gandalf di esibire prove concrete della prigionia di Frodo e Sam e alle sue critiche in merito alla richiesta di Sauron di ottenere senza combattere ciò che sul campo di battaglia avrebbe dovuto faticare a guadagnarsi (cfr. Battaglia dei Campi del Pelennor), la Bocca esita: come un giocatore di poker al quale si chiede di mostrare le carte troppo presto, egli appare per un attimo incerto su quale ruolo deve ora giocare per ottenere la sottomissione di Gandalf; ma poi si riprende, utilizzando come arma non più una fine, per quanto malvagia, dialettica, (con la quale, evidentemente, ha fallito) ma solo la bruta minaccia, strettamente connessa a un cambio nella voce dell’uomo: «Non sprecare parole, insolente, con la Bocca di Sauron!», gridò. «Pretendi sicurezza! Sauron non ne dà. Se supplichi la sua clemenza devi prima fare ciò che vuole. Sono queste le sue condizioni. Prendere o lasciare!»

A questo punto, con la bravura tipica solamente dei grandi scrittori, Tolkien inserisce un colpo di scena brillante (e non solo in senso metaforico): il manto di Gandalf si apre e una grande luce invade quel luogo oscuro. La Bocca di Sauron, atterrita, capisce che il suo ruolo è terminato: «ha sparato tutte le sue cartucce», come direbbero i fan dei film western. I Capitani dell’Ovest hanno compreso che Sauron ha imbastito un grande bluff e che, in realtà, non ha niente con cui minacciarli che non sia la forza bruta dei suoi eserciti. La Bocca di Sauron viene così bruscamente congedata: nessuna delle sue condizioni, ovviamente, viene accettata e Gandalf, nel rivolgergli le ultime parole, profetizza un destino di morte nei suoi confronti. Nessuno, però, è in grado di verificare se le parole di Gandalf corrispondano a verità: dopo che la Bocca fugge e l’esercito di Sauron si precipita fuori dal Cancello Nero, l’ultimo accenno a questa malvagia figura lo troviamo in un pensiero espresso da Peregrino Tuc, poche righe più in basso: «Se potessi colpire con essa quell’infame Messaggero, riuscirei quasi a eguagliare il vecchio Merry» (il quale, come sappiamo, aveva contributo a uccidere il Re degli Stregoni in persona). Si tratta solamente di un desiderio, di un auspicio che evidentemente non trova modo di concretizzarsi: come apprendiamo proseguendo la lettura, infatti, Pipino ucciderà il capo dei Troll Neri prima di svenire; e questa sarà la sua ultima azione in battaglia, benché egli avrebbe voluto certamente fare di più. Della Bocca di Sauron Tolkien non scriverà più alcunché: siamo dunque liberi di pensare che sia sopravvissuto, portando magari con sè i libri di magia del suo Padrone nell’Estremo Est (mia ipotesi personale), dove potrebbe aver proseguito il culto di Sauron e di Morgoth (e questo destino ben si legherebbe a quanto Gandalf sostiene nell’ultimo consiglio dei Capitani dell’Ovest, prima di partire per il Morannon, in relazione all’idea che altri mali potrebbero giungere dopo la fine di Sauron), oppure credere che sia stato ucciso nel crollo della Barad-Dur, ucciso insieme al suo padrone.

In fondo, comunque, il suo destino poco conta sull’economia della storia del Signore degli Anelli; alzando un po’ il tiro, potremmo anche aggiungere che la stessa figura della Bocca di Sauron non ha in fondo grande importanza per comprendere le linee generali dell’opera tolkieniana. Per questa ragione, ricordo di non essere rimasto particolarmente deluso quando, nel gennaio del 2004, non trovai la Bocca di Sauron nell’ultimo capitolo della trilogia cinematografia di Jackson; che la sceneggiatura contemplasse o meno la sua figura, infatti, non era secondo me rilevante. L’esercito dell’Ovest arriva al Morannon e viene attaccato dalle orde di Sauron. Punto. Sostanzialmente la successione degli eventi è questa e la comparsa della Bocca di Sauron avrebbe avuto solo l’effetto di spezzare il ritmo dell’azione: ragion per cui pensai che, in fondo, sostituire il dialogo Gandalf-Bocca con l’incitamento di Aragorn ai suoi uomini non fosse una cattiva idea.

Qualche mese più tardi, tuttavia, iniziarono a uscire dei rumors che mostravano i primi fotogrammi della Bocca di Sauron: perdonate il gioco di parole, ma non potei esimermi dallo storcere la mia, di bocca! L’araldo, infatti, mi pareva troppo grottesco, una sorta di Jocker trapiantato nella Terra di Mezzo: pensai, comunque, che fosse in linea con un certo gusto trash al quale Jackson non era certo estraneo e quindi, dopo un iniziale senso di sgomento e perplessità, feci spallucce.

Quello che mai mi sarei aspettato di vedere, tuttavia, e che ebbi modo di scoprire solo quando acquistai il DVD della versione estesa de “Il Ritorno del Re” fu che Aragorn avesse decapitato la Bocca di Sauron, con la compiacenza dei suoi amici, Gimli in primis!!!

Scusate, ma è una scena che ancora oggi non posso accettare.

Come ho cercato di spiegare nel corso di questo corposo articolo (i miei lettori mi perdoneranno per la sua lunghezza), non provo certamente simpatia per la Bocca di Sauron, un essere spregevole come pochi nella Terra di Mezzo e ho cercato anche di spiegarne il perché. Dirò di più: sono certo che se Tolkien si fosse dilungato ulteriormente su questo personaggio, magari descrivendone la morte in battaglia, avrei ghignato, pensando che sarebbe stato giusto così. Attenzione, però: non ho scritto «in battaglia» a caso. In guerra valgono altre regole, se così si può dire: Aragorn, Gandalf o Pipino avrebbero avuto tutto il diritto (e l’approvazione di milioni di lettori e lettrici, immagino) se avessero ucciso la Bocca di Sauron, magari in un duello a singolar tenzone; e altrettanta soddisfazione sono certo che avrebbero espresso se un cornicione di Barad-Dur gli fosse caduto in testa, liberando il mondo della sua presenza.

Ma non è andata così. E, soprattutto, non si può lasciare che un ambasciatore venga decapitato perché è un essere infido e malvagio.

No.

Se ci sono delle regole, delle leggi, i primi che dovrebbero applicarle sono i «buoni», tanto per adoperare un termine di immediata comprensione. Gandalf lo sa molto bene e infatti la sua conversazione con la Bocca di Sauron è severa, ma corretta. È un insegnamento, il suo, che può e deve essere applicato in tanti contesti, anche (ovviamente) meno pericolosi di quelli della Terra di Mezzo. Si tratta di un modo per dimostrare che l’istinto di violenza non può prendere il sopravvento sul rispetto delle leggi: quelle stesse norme di convivenza che permettono alla nostra specie e a tutte quelle dei mondi fantasy che mente umana potrà mai concepire, di sopravvivere alle più oscure nefandezze che, in aperto disprezzo di quelle stesse regole, compiono, purtroppo, alcuni dei suoi membri.

Nel prossimo articolo, vedremo come si comporteranno Erfea e i Capitani dell’Ultima Alleanza dinanzi alle minacce e alle ingiurie dei servi di Sauron. Saranno in grado di tenere fede alla loro «umanità»?

Comunicazione di servizio

Approfittando di un sabato di riposo, ho un po’ risistemato il sito, rivolgendo particolare attenzione  alle «categorie». Mi ero reso conto da alcune settimane, infatti, che poteva essere divenuto difficile leggere i vari estratti dei miei racconti senza avere chiaro i nomi dei racconti stessi. Detto, fatto: da questo pomeriggio sarà molto più chiaro (e spero godibile) leggere i diversi racconti cliccando sul menù delle «categorie» e scegliendo poi il racconto che si preferisce consultare. Buona lettura a tutti!

Nei meandri di Tumun-Gabil (parte II)

Prosegue l’avventura di Erfea e di suoi amici nani all’interno della fortezza di Tumun-Gabil. Riusciranno a cavarsela? E chi sarà il misterioso avversario che ha sterminato la precedente spedizione dei Nani? Buona lettura!

«Gli esploratori, congedatesi dagli altri membri della spedizione, attesero che fosse giunta la notte per realizzare il piano sì congegnato; infine si mossero, lungo sentieri infestati da rampicanti velenosi e ricolmi del fetore che si levava da Amon-Lanc. Creature, la cui natura era impossibile discernere nell’oscurità che si infittiva di ora in ora, si muovevano invisibili attorno a loro, chiamandosi l’un l’altro con voci agonizzanti, eppure Erfea ed i due nani proseguirono, incuranti del pericolo che si estendeva tutto intorno; infine dopo aver percorso venti miglia nell’oscura foresta, il sentiero che essi percorrevano deviò ratto verso sud ed essi compresero di essere giunti alla meta, ché la fortezza di Amon-Lanc si estendeva innanzi a loro. Mai spettacolo fu sì orribile a vedersi, ché i Naugrim compresero quale potere si celasse all’interno delle elevate torri e dagli antri occultati ai loro occhi: mura correvano lungo tutte le pendici del monte ed esalazioni sulfuree si levavano da crateri e pozzi fortificati, ed essi si estendevano ovunque intorno a loro. Centinaia di orchi e di altre creature infami della Notte spiavano i loro movimenti dagli alti contrafforti e dai cancelli di adamante che si innalzavano tra loro e il monte: tuttavia Erfea non esitò, ma condusse innanzi i suoi prigionieri, come era stato stabilito; nuovo coraggio era stato infuso in lui ed ora il suo animo si ergeva libero, luce nell’oscurità aberrante che pareva sul punto di inghiottirlo. Tosto le guardie si precipitarono fuori dal cancello per catturare coloro che sì incautamente percorrevano l’arduo sentiero, ma Erfea levò una mano, affinché fosse visibile il sigillo che era impresso sull’anello sottratto ad Adrahil; repentinamente i soldati mutarono atteggiamento, prostrandosi tremanti di fronte al Numenoreano; costui chiese ed ottenne di essere scortato innanzi al signore del maniero, ché i nani catturati erano prigionieri d’alto rango e custodi di segreti che molto avrebbero interessato i signori di Mordor. Grande divenne alloro lo stupore e la paura sul volto delle sentinelle ed esse aprirono il cancello a colui che credevano inviato dal Principe Nero. Giunti tuttavia al cortile adiacente l’ingresso nell’antica dimora dei nani, un capitano così apostrofò il Dunedan: “Mio signore, invero il Signore degli Stregoni è giunto nel medesimo luogo ove noi ora discorriamo non più tardi di un giorno fa, non rivelando alcunché. Cosa significa dunque questo?” e così dicendo indicò con l’asta della lancia i due prigionieri. Fredda fu la risposta che Erfea riferì al suo interlocutore: “Non indagherei ulteriormente sugli affari del Padrone, se fossi in te! Le sue prigioni sono ricolme del fetore dei cadaveri e non dubito che sia quanto più lontano dai tuoi desideri terminare i tuoi giorni nelle celle del Nazgul.” Udendo tali parole, il capitano rabbrividì, e tuttavia, mutata la domanda, osò parlare ancora: “I tuoi desideri sono per me un ordine e mai oserei dubitare delle parole di un signore del tuo rango. Mi chiedo tuttavia se il luogotenente dell’Occhio debba essere avvertito del vostro arrivo.” “No – fu la secca risposta – non sarà affatto necessario disturbare la sua meditazione, dal momento che mi occuperò personalmente dei due prigionieri. Hai forse altre questioni da discutere con me, capitano? – incalzò Erfea – perché se così fosse ti avverto che i negromanti della Tenebra sarebbero lieti di soddisfare ogni tua curiosità.”

Più parola pronunciò il capitano ed Erfea proseguì, scortato da due orchi all’interno delle miniere di Tumun-Gabil, lieto che nessuno fosse venuto a conoscenza del suo inganno: eppure occhi vetusti e malvagi, vegliavano all’interno della Forgia ed essi, pur non avendo mai scorto Erfea prima di quel momento, percepirono l’aura di Sulring, ché avevano osservato la caduta di Gondolin, prendendovi parte, e mai avrebbero obliato la fredda lama che ora cingeva il fianco del Dunadan. Lo spirito cui appartenevano codesti occhi lungimiranti ed antichi, dimorava adesso nel profondo di Tumun-Gabil da alcuni secoli, ché Sauron l’Aborrito era stato il suo mentore ed egli era stato nel suo seguito, sin da quando costui era stato il luogotenente di Morgoth, l’Oscuro Nemico. Dopo la distruzione di Thangodrim, aveva dimorato nelle remote lande che si estendono nel Forodwaith[1], smarritosi tra ghiacci e mare: ivi, tuttavia, alcuni figli degli uomini erano giunti ed egli aveva assaporato nuovamente il caldo sangue dei Secondogeniti, banchettando con le misere spoglie che costoro gli sacrificavano affinché non distruggesse con il suo freddo alito le loro stentate culture; egli però non traeva diletto da simili banchetti e il suo spirito ambiva crescere in potenza e in forza, sì da dominare Endor dall’alto del suo trono infernale. Fu Sauron di Mordor, infine, a soddisfare le sue ambizioni, elevandolo al rango di luogotenente e assegnandoli l’antica gemma dei nani, ché egli ne sfruttasse il perverso potere, dilettandosi nel perseguire fini graditi al suo signore; le storie di quella lontano epoca poco o nulla narrano di Tumun-Gabil e del suo oscuro padrone, tuttavia è noto che egli si facesse chiamare Andalonil dai suoi servi e schiavi: nequizia dimorava nel suo animo ed egli traeva piacere dall’agonia e dal tormento che distribuiva tra gli sfortunati che avevano la sventura di finire tra le sue grinfie. Erfea, tuttavia, nulla sapendo della presenza di tale spirito, continuò ad addentrarsi nei meandri di Tumun-Gabil, finché non comprese di essere in un corridoio oscuro, ove non echeggiava alcun suono; allora, trucidati gli Orchi con destrezza, liberò i polsi ai suoi compagni e fuggì per un pertugio secondario. Nulla si udiva in tale luogo, se non l’eco di innumerevoli passi, gli uni lenti e pesanti, gli altri rapidi e leggeri, che echeggiava tutto intorno a loro: al termine di una lunga discesa i compagni giunsero ad una sala circolare, le cui volte in laen rosso splendevano nell’oscurità: cauti, i tre esploratori procedevano, ché ora vi erano altri suoni ad inquietare i loro animi, ed essi, sebbene il buio più non celasse alcun oggetto ai loro sguardi, molto temevano di essere individuati dalle guardie: nulla di tutto ciò tuttavia avvenne ed essi proseguivano, incespicando talvolta sui detriti che oltraggiavano quelli che un tempo dovevano essere stati pavimenti di gran valore e bellezza. Candelabri, un tempo risplendenti di luce calda e viva, giacevano ora a terra, in frantumi; statue, i cui lineamenti un tempo avevano commosso l’orgoglioso cuore dei nani, mani crudeli avevano deturpato ed ora si ergevano, grottesche ed inquietanti tra la nebbia che perfino a tale profondità pareva spirare da pozzi invisibili. Un’amara malinconia stringeva nella sua gelida morsa il cuore di Erfea, ed egli sovente sussurrava dolci canti che gli Eldar avevano insegnato alla sua gente, onde scacciare dal suo animo la greve oscurità; tuttavia, forte dimorava presso di lui la nostalgia per i bianchi porti di Edhellond ed ambiva farci ritorno quanto prima. Si è detto che insondabili sono i cuori dei nani ed essi non temono né il fuoco corruttore, né il ghiaccio stritolatore, sicché di rado adoperano parole in tali situazioni, a meno che non siano convinti dei sentimenti che provano nel profondo dei loro animi; pure Naug Thalion e Groin temevano nei loro cuori che una sorte simile potesse colpire la loro dimora e traevano grande conforto dalla presenza di Erfea Morluin, la cui stima si accrebbe di molto in quelle ore oscure; poco o nulla essi comprendevano delle parole che il Dunadan sussurrava, tuttavia sembravano ricavarne beneficio, ché il loro passo si preservò costante ed essi non furono in preda a dubbi e timori. Dopo aver percorso sei miglia nella luce caliginosa che emanavano le pareti intorno a loro, il sentiero si allargò nuovamente, mentre attorno l’aria pareva divenire più fredda e rarefatta, impregnata dai numerosi fumi che esalavano dalle crepe e dalle fessure sulla volta; infine Naug Thalion parlò: “Abbiamo percorso un lungo cammino, eppure traccia non sembra esservi delle creature che hanno trucidato i nani del Ruurik. Non ritieni che il nostro inganno debba essere stato scoperto a quest’ora?” “No – rispose Erfea – ché nessun orco o servo di Sauron oserebbe mettere in discussione le parole di un Numenoreano Nero ed essi godono di infinita stima dinanzi all’Oscuro Signore; solo uno tra gli Ulairi potrebbe nutrire dubbi, tuttavia non credo che essi si spingano sì di frequente a Nord in questi giorni.”

Riposarono, distesi lungo il corridoio, non osando accendere fuochi; la mattina seguente, giunti dinanzi ad un trivio, esitarono, poiché non vi erano indicazioni, né avrebbero avuto tempo sufficiente per esplorare i tre cunicoli che ivi scorgevano e non avevano con loro delle torce: allora, a malincuore, Erfea estrasse Sulring e si approssimò al corridoio di destra, ove gli pareva che la l’aria si facesse più nauseabonda: in quel frangente, tuttavia le paure segrete del Dunadan si realizzarono, ché Andalonil lo individuò e chiamò a sé i guerrieri di Tumun-Gabil; grida selvagge e cupe echeggiarono allora lungo i corridoi e grandi fuochi furono accesi, ché gli intrusi non sfuggissero, nascosti dall’oscurità: Naug Thalion e Groin impugnarono le asce pronti a difendersi, tuttavia Erfea esortò i suoi amici a percorrere il percorso che proseguiva verso il basso, nella speranza che orchi ed altre creature seguissero vie più facili da percorrere per gli uomini e nani.

I tre compagni attraversarono a grande velocità sale e androni deserti, finché giunsero ad un anfiteatro naturale: logorati dalle fatiche e dall’orrore, essi si acquietarono tra le possenti piante che ivi prosperavano, rinvigorite dalla luce che filtrava da profonde crepe nel soffitto. A lungo essi riposarono, avvolti da una silenziosa quiete, ché gli orchi ed altri servitori di Andalonil sembravano aver smarrito le loro tracce; infine Erfea si destò dal lungo torpore in cui la luce soffusa l’aveva avvolto e mirò quanto lo circondava. Alti tronchi, i cui nomi sono ora obliati, si ergevano simili a colonne, impedendo al Dunedan di scrutare in profondità nella selva: allora egli si mosse, e solo una fioca luce brillava sulla sua lama; non aveva mosso, tuttavia, che pochi passi, allorché un suono stridulo, simile al canto di un uccello, lo costrinse a voltarsi nuovamente indietro. Ratto, il Dunadan si fece strada nell’intricata vegetazione, infine si arrestò stupefatto, ché mai aveva veduto una bestia simile, finanche nelle contrade maledette di Mordor; essa si ergeva su due poderosi arti e non pareva ancor aver notato la sua presenza. Erfea si mosse nuovamente, tuttavia altri animali sbucarono dalle felci e dalle aurancarie che ivi crescevano; non comprendendo quali fossero le intenzioni di tali esseri, rapido allora ripercorse la strada che l’aveva condotto in tal luogo e destò i suoi compagni, ammonendoli a non pronunciare parola.

Nessuna storia sopravvissuta alla Caduta, narra quale fosse il nome delle creature che Erfea aveva scorto, eppure non v’è dubbio che esse servissero l’Oscuro Signore: costoro avevano vissuto a lungo nella lussureggiante vegetazione che il cratere spento di Amon-Lanc accoglieva da innumerevoli secoli, ed essi da principio non avevano mai turbato la quiete di Tumun-Gabil, finché non giunse in tale contrada Celedhring: crudeli inganni e arti oscure avevano corrotto tali creature ed esse ora cercavano il Numenoreano Fedele e chiunque costui avesse introdotto nella fortezza di Andalonil. Nulla di tutto questo era noto ad Erfea ed egli non temeva tali creature, ché Sulring riposava nel suo fodero, ed egli non avvertiva sentore di pericolo; presto, tuttavia, dovette mutare pensiero, ché gli animali presero a seguirlo, occultati alla vista dei suoi compagni, ma non agli acuti sensi del Dunedan; infine egli si avvide che costoro gli erano prossimi e sguainò la lama. Alto levarono un grido le creature ed esse uscirono allo scoperto, fissando i tre guerrieri con sguardo obietto: “Quale spirito tremendo si agita in corpi sì orribili a vedersi? – gridò Naug Thalion – Luce non vi è sulla tua lama, Erfea, tuttavia non v’è motivo alcuno per dubitare del pericolo che ci minaccia.”

Erfea non gli rispose, tuttavia fatto un passo in avanti, levò una mano, ed ecco che gli animali parvero arretrare: stupiti, i due figli di Durin lo guardarono con timore ed ammirazione, ché non credevano il Dunadan essere un conoscitore dell’antica scienza dei Noldor. Erfea levò anche la seconda mano e gli animali si diedero alla fuga disordinatamente, e mai più furono avvistati avventurarsi al di fuori di Tumun-Gabil, ché essi scomparvero dai canti e dalle leggende. Stanco, Erfea si sedette su di un masso per qualche istante, cercando di recuperare le proprie forze: Naug Thalion e Groin gli posero numerose domande su quanto aveva compiuto ed elogiarono i suoi meriti, fosco era tuttavia il volto del principe dell’Hyarrostar sprofondato ora nell’Abisso, ed affannoso il suo respiro. Lentamente parlò, ed ammonì i suoi compagni: “Non era la volontà di quelle creature che contrastavo, ma la bieca mente di un essere quale mai ho incontrato nella mia esistenza. Chiunque egli sia, non tarderà a reclamare il suo bottino, ché l’Oscuro Signore brama ottenere le mie spoglie; dobbiamo dunque affrettarci.”

A lungo allora essi corsero nei meandri dell’antica cittadella, eppure non v’era alcun barlume sulla lama di Erfea; inquieto divenne allora il suo pensiero, ché temeva vi fossero altre creature occultate nelle tenebre, la cui presenza gli era ignota. Nulla egli aveva appreso del crudele inganno che Andalonil aveva escogitato per arrecargli danno, ché, lesto, il signore del maniero ne seguiva i cauti spostamenti, ignoto finanche a Sulring, ché egli conosceva quali virtù i fabbri Noldor avessero riposto in tali artefatti e sapeva eluderne l’attenta vigilanza; furente era la sua ira, ché i suoi servi avevano fallito ed il Dunadan si approssimava ove dimorava la Khazad-Khezed, che mai mano umana aveva sfiorato fin dalla sua creazione. Erfea, tuttavia, avvertiva nel suo animo gravargli il freddo alito della Tenebra e rallentò il passo; finanche i possenti Naugrim furono costretti a procedere lentamente, ché la paura si era insinuata nei loro cuori. Trascorsa un’altra notte accampati nell’oscura luce di un cunicolo, il mattino seguente essi raggiunsero la meta della loro spedizione e più non parvero avvertire alcuna sofferenza: i tre compagni avanzarono lungo un antico corridoio dei meandri di Tumun-Gabil, fino a giungere ad una vasta sala spoglia; con cautela essi percorsero uno stretto ponte che si ergeva tra la soglia e un’alta colonna, la cui sfera posta sulla sommità illuminava il sentiero. Dolore e sofferenza abbandonarono gli spiriti dei tre compagni, ed essi si precipitarono lungo il ponte che si elevava per un’altezza di quaranta piedi dal pavimento sottostante, i cui delicati intarsi, pur se visibili da una simile altezza erano deturparti da grotteschi sfregi, opera dei servi di Mordor: essi però non vi fecero alcun caso e si accinsero a raggiungere la splendente gemma, che ora brillava innanzi ai loro occhi, insufficienti a scorgere la maestà che da essa si dipanava. Lesto Erfea balzò dal ponte e raggiunse la sfavillante creazione degli antichi fabbri di Tumun-Gabil: rapaci, le sue mani si strinsero sulla pietra, mentre la sua mente ambiva possedere gli arcani segreti che quella sì gelosamente aveva custodito per lunghi anni; rapide, il suo sguardo, scorse una successione di immagini nella rossa sfera ed egli avrebbe forse ceduto la propria volontà all’empia essenza che Celedhring, servo di Sauron, aveva racchiuso nella gemma, la stessa che aveva condotto alla follia Borin ed i suoi seguaci; eppure, fugace tra le altre visioni turbinanti che la pietra mostrò all’Adan, apparve un’immagine, quale mai Erfea avrebbe potuto obliare. Con forza il ramingo colpì la sfera ed essa precipitò nel baratro sottostante, ancor prima che i nani soggiungessero: la roccia in basso ne accolse con fragore i patetici frammenti; infine fu silenzio. Stupore era dipinto nello sguardo di Naug Thalion e del figlio Groin, ché essi non comprendevano e parola non pronunciava Erfea: rapide lacrime gli solcavano il viso e una pena infinita ne scuoteva le membra; profondamente turbato, Naug-Thalion gli si avvicinò e mirò i grigi occhi i colui che un tempo era stato il capitano di Tar-Palantir e gli aveva ceduto il posto accanto a sé in una chiara sera d’estate di molti anni prima. A lungo la mano anziana del nano si posò sul capo di Erfea, finché costui non parve scuotersi dal dolore che gli aveva sconquassato lo spirito; allora si levò, e parlò ai suoi compagni: “Ella è perduta, tuttavia il destino ha voluto che io dovessi specchiarmi ancora una volta nel suo luminoso viso.” Alta levò la spada ed essa rischiarava luminosa l’oscura sala di Tumun-Gabil, mentre Erfea, amaramente, pronunciava tali parole: “Elwen, vanimelda, namarie[2]!” Tosto tuttavia si scosse e rivolto verso i compagni, li invitò a proseguire velocemente, ché ora l’intera lama di Sulring era avvolta da un’intensa luce ed essi avevano premura di giungere ai saloni superiori di Tumun-Gabil: attraversarono numerosi ponti sospesi sopra gli abissi, finché con sommo sollievo giunsero ad un portale massiccio, la cui superficie lucida e rossa emanava sinistri bagliori: “Le porte di Tumun-Gabil!” esclamò Groin “L’uscita non deve essere dunque lontana.”

“Veritiere sono le tue parole, figlio di Naug Thalion. Temo tuttavia che Andalonil di Utumno non gradirà affatto soddisfare il tuo desiderio.” Una oscura figura si ergeva innanzi a loro: volto e mani erano occultati da un pesante manto e nulla del volto della figura era visibile; una pesante asta armava il suo braccio destro, ed essa era intagliata nel nero ebano. Un grande freddo scese in tutta la sala; grato, allora Erfea rivolse il pensiero verso colei che gli aveva donato un manto caldo e sicuro: limpido divenne allora il suo sguardo e levò in alto il dono di Elrond, sicché il demone innanzi a lui potesse riconoscerlo.

“Mira tale artefatto, signore di Tumun-Gabil, ché il suo suono squarcerà le tue vesti, di ombra e ghiaccio intessuti.” Alto levò un grido il figlio di Gilnar e diede fiato all’olifante, affinché tutti i servi di Mordor lo udissero; nuova forza e coraggio fluirono nei cuori di Naug-Thalion e Groin ed essi si unirono al suo grido: orchi ed altri esseri servi dell’Oscuro Signore fuggirono in preda al panico, tuttavia Andalonil non arretrò di un passo, ché possente era in lui la volontà di Sauron. Roco echeggiò allora il riso del demone e spaventato fu ad udirsi, ché raggelò i loro cuori in una stretta inesorabile: “Non credere di potermi sfidare, Dunadan! Altri uomini ed elfi hanno incontrato un funesto destino e non vi era meno sapienza nelle loro menti, né meno vigore nelle loro mani, di quanto tu stesso non ne possegga. Colui che io servo non desidera tuttavia che la tua carne gli giunga agonizzante e la tua anima perduta: tosto dunque sarai trasportato nella sua dimora, ove il tuo destino ultimo ti sarà rivelato.” Andalonil levò il suo grafigno braccio, mentre un’oscura cantilena, di cui oggi nessuno rimembra le oscure parole, si udì riecheggiare tra le volte della grande sala; ratto, tuttavia si mosse Groin e levata la sua ascia si scagliò furente contro il suo avversario, gridando: “Baruk Khazad! Khazad ai-menu[3]!” Tale fu la sua cieca furia che la sua ascia si abbatté sul nemico, frantumandosi nell’impatto. Ahimè! Finanche le armi forgiate dai figli di Aule poco potevano contro un nemico la cui origine affondava nella notte dei tempi: Andalonil, tuttavia, sebbene fosse illeso, smarrì la concentrazione e la sua oscura litania svanì dalla sua mente, come la nebbia al sorgere del sole; rapida, allora Sulring affondò in profondità nel petto del crudele demone.

A lungo Erfea, figlio di Gilnar strinse l’impugnatura della sua lama, ché Andalonil si ergeva ancora ritto innanzi a lui, né la morte giungeva trionfante sull’antico spirito: infine le sue vesti si afflosciarono e l’asta scivolò sulla nuda roccia, scheggiandone l’oscura superficie: tale è infatti il destino ultimo al quale giungono gli spiriti di coloro che un tempo furono coloro che servivano gli Ainur, ed in seguito furono corrotti da Morgoth.

Scuro in volto, il principe accorse al fianco di Groin, temendo per lui: grande fu tuttavia la sua sorpresa e la sua meraviglia, allorché si rese conto che il nano non aveva riportato lesioni, né fratture, ma si ergeva fiero accanto all’anziano padre, ed essi non parlavano; solo il bagliore nel profondo dei suoi occhi, rivelava quanto grande fosse la sua letizia. Commossi, i tre compagni si strinsero l’un l’altro; infine con sommo stupore dei signori della stirpe di Durin, Erfea si inchinò dinanzi a loro, mentre pronunciava tali parole: “Nobile ed eroico è stato il tuo gesto, Groin, figlio di Bòr, ed ora è con immenso piacere che t’avvedo illeso: Corpo di Pietra, tale sarà il tuo nome presso le genti libere della Terra di Mezzo, ché senza il tuo coraggio, Andalonil sarebbe perdurato.” Grato ricambiò l’inchino il nano, infine lo invitò a ritornare con loro a Khazad-Dum, affinché gli fossero tributati grandi onori: “Mai nessun erede degli Edain aveva sì rischiato la sua vita per la stirpe dei Naugrim, Erfea Morluin: possa essere il tuo atto un preludio ad una lunga amicizia tra nani e uomini. Lieto sarà ora il mio popolo e mai dimenticherò quale debito la mia stirpe abbia contratto presso di te. Ancor più grato sarei tuttavia, se i tuoi passi echeggiassero accanto ai nostri, allorché varcheremo i cancelli della mia dimora.”

Un sorriso comparì allora sul volto di Erfea che, presa la mano dell’anziano nano, così si congedò: “Bòr, colui che chiamano Naug Thalion, grandi geste hanno compiuto gli eredi degli Edain, tuttavia non desidero che il mio atto debba contrarre alcun debito con la tua stirpe, ché liberamente scelsi il mio percorso e quanto serberò nel mio cuore di questo giorno è invero ricompensa sufficiente. Addio, dunque: possano i nostri sentieri intricarsi nuovamente, quando sarà giunta l’ora del confronto finale; a lungo mi tratterrò nelle aule di Khazad-Dum se i tempi saranno propizi. Incerti sono i destini dei figli di Iluvatar, tuttavia vi dico che ci incontreremo nuovamente e non sarò solo.” Tacque, sorridendo dolcemente, infine si congedò dai suoi compagni, ché tarda si era fatta l’ora e tosto Earendil sarebbe sorto sul mondo, inquieto e remoto navigatore dei cieli: silenti, Naug Thalion e Groin Corpo di Pietra percorsero la strada verso casa, meditando su quanto avevano appreso in quei giorni.

A lungo Erfea percorse le contrade di Endor, infine si recò nel regno di Gondor, ché gli era giunta voce fossero ivi sbarcati i signori di Andunie, ed egli gioì nel suo cuore, allorché udì tale notizia. Osgiliath divenne la sua nuova dimora ed ivi si stabilì, fin quando il destino della Terra di Mezzo non mutò nuovamente: allora, l’olifante del figlio di Gilnar risuonò limpido nella limpida notte e il suo elmo alato, forgiato a Minas Laure, fu visto brillare sulle mura di Osgiliath La Bianca, ché Erfea era invero un grande guerriero e sempre lo temettero le oscure schiere di Mordor».

Fine

Note

[1] Tale landa si estende a nord dell’Eriador e le sue contrade sono perennemente spazzate dai gelidi venti del Nord; esse sono abitate dai Lossoth, uomini che si stabilirono in tale regione fin da quando Morgoth dominava il Nord: ostili ai servi del Nemico, temono tuttavia gli Eldar e gli Edain, chè assai diversi sono i loro costumi e non conoscono le arti della forgiatura e della scrittura.

[2] “Elwen, dolce amata, addio!” nella favella dei Noldor.

[3] “Le asce dei nani vi assalgono! Le asce dei nani sono su di voi!” grido di guerra dei Nani, nella loro favella.

Storia di Tumun-Gabil (parte I)

Quando ero ancora un ragazzino avevo una grande passione per la paleontologia, in particolare per i dinosauri. Ricordo molto bene che mi divertivo a sorprendere il parentame sciorinando una serie di nomi scientifici di tutti quei dinosauri che colpivano la mia fantasia, dai più grossi ai più piccoli. Crescendo, questa passione si è in parte affievolita, ma non è del tutto scomparsa, anzi: provo sempre un grande piacere, quando il lavoro me lo permette, nel leggere articoli che trattano la scoperta di nuove specie, oppure che approfondiscono le teorie sull’estinzione di questi grandi e sorprendenti animali. Come molti ragazzi della mia generazione, inoltre, sono rimasto profondamente affascinato dal film Jurassic Park: in particolare, ricordo con un misto di stupore e paura i velociraptor (o meglio, la rappresentazione che se ne aveva negli anni Otttanta-Novanta) che mi colpirono per la loro ferocia e intelligenza. Fu così naturale, per me, combinare la mia passione per questi dinosauri con quella per la Terra di Mezzo. Niente paura: non ho trasformato Sauron in John Hammond (che, per chi non lo sapesse, è il miliardario che finanziò l’opera di clonazione dei dinosauri nei romanzi di Crichton e nei film di Spielberg), anche se, tuttavia, lo stesso Sauron si diletteva di quella che, oggi, chiameremmo genetica applicata (a questo proposito, ricordo che durante gli anni del Liceo, anziché scrivere il nome del prof. di biologia e chimica sul mio diario, avevo deciso di soprannominarlo Tevildo, in onore del primo nome che Tolkien aveva scelto per Sauron). Già nella Prima Era, infatti, Sauron aveva partecipato attivamente alla creazione degli Orchi nelle prigioni di Utumno e di Angband, mutando la razza degli elfi a suo piacimento; nella Seconda Era, invece, aveva dato il via all’aggressiva razza degli Orchi di Mordor (Gandalf vi accenna durante il combattimento nella Camera di Mazarbul); infine, nella Terza Era, prima della sua definitiva sconfitta, aveva creato la razza degli Olog-hai, che, a differenza dei normali troll, non temevano la luce del sole e le Cavalcature Alate dei Nazgul, una delle quali fu uccisa da Legolas poco prima che la Compagnia si sciogliesse.

Le Bestie Alate colpirono fin dal principio la fantasia degli appassionati del Signore degli Anelli: in una lettera indirizzata a Tolkien un suo lettore gli chiese se questi esseri, simili a piccoli draghi, non gli fossero stati ispirati dalla visione, in un qualche museo o in un libro sulla fauna preistorica, di una serie di rettili volanti, gli Pterosauri. D’altra parte, la somiglianza non era solo fisica (potete controllare voi stessi su Wikipedia): nella descrizione delle Bestie volanti, infatti, Tolkien accenna in modo enigmatico a un remoto passato della Terra di Mezzo, del quale non si farà poi più cenno, un passato dal quale quelle creature sarebbero giunte fino ai tempi della Guerra dell’Anello, come se si trattasse di una sorta di «fossili viventi».

Era forse una creatura di un mondo scomparso, la cui razza, sopravvisuta in montagne nascoste e fredde sotto la Luna, non si era ancora estinta, covando questi ultimi arcaici esemplari, creati per la malvagità. E l’Oscuro Signore se n’era impadronito, alimentandoli con cibi crudeli, facendoli crescere oltre la misura di ogni altro essere alato; li aveva dati ai suoi servitori da usare come destrieri. (Il Signore degli Anelli, p. 637)

Tolkien negò di essersi ispirato agli pterosauri o ad altri animali analoghi; con molta onestà, tuttavia, dopo aver verificato egli stesso la somiglianza fra le Bestie Volanti e i rettili del passato, ammise che potesse esservi un legame in tal senso.

Questo scambio epistolare, unito alla mia passione per i grandi rettili del passato, mi ha quindi ispirato questa parte della storia in cui Erfea, sollecitato da un racconto che spero i miei lettori, come il principe numenoreano, trovino affascinante, si imbarca in una perigliosa avventura, che lo vedrà fare la conoscenza di nuovi nemici.

Buona lettura!

«Naug Thalion trascorreva molto del suo tempo con Erfea e la loro amicizia fu duratura e profonda; non tutti i signori del popolo di Durin serbavano tuttavia il medesimo atteggiamento nei confronti del secondogenito e molti temevano che costui avrebbe ben presto condotto alla rovina il loro popolo. Non era forse fuggito anni addietro dalla sua patria, portando seco disgrazie e sventure ovunque si recasse? Gli elfi di Edhellond avevano subito l’attacco dei servi dell’Oscuro Signore, mentre sire Morwin e dama Elwen si erano smarriti e di essi nessuno conosceva il destino ultimo. Paura ed invidia presero il cuore di costoro, ed anche questa era opera della maligna influenza di Sauron, ché fra essi vi erano coloro che possedevano gli anelli che il Maia corrotto aveva forgiato secoli addietro nell’Eregion. Voci codarde si levarono nel seno di Khazad-Dum e l’ombra cadde sulle amene sale. Durin IV, tuttavia, cauto e riflessivo, meditava su quanto ascoltava e non lasciava mai trapelare alcuna delle sue intenzioni: accadde dunque che una mattina di Narvinye[1], il concilio del sovrano si riunisse nuovamente per ascoltare le richieste di un messaggero della stirpe di Druin[2], i cui discendenti dimoravano nell’estremo levante, tra i monti Ruurik. A tale consesso prese parte anche Erfea e nessuno osò parlare apertamente contro di lui, né egli degnava di uno sguardo coloro che sapeva denigrarlo e averlo in odio; tale fu però il corso dell’udienza, che le menti di costoro furono impegnate ad elaborare una subdola strategia, il cui fine era eliminare l’inopportuna influenza del Dunadan sulla corte del re. In principio, s’avanzò tra la folla un nano dal portamento fiero, abbigliato tuttavia di laceri vesti e ricoperto dall’infame marchio di violenze ed angherie subite in tempi recenti. La voce non venne però meno all’ambasciatore, né egli mostrava il benché minimo segno di cedimento: con grande curiosità Erfea prese ad osservarlo, ché mai aveva mirato nel corso della sua lunga esistenza un nano della casa di Druin e, sebbene egli non si fosse mai spinto così ad est, pure il suo interesse per quelle contrade sì remote non era scemato negli anni.

Tali furono le parole con le quali il messaggero esordì: “Porgo a Durin IV, erede di Durin I, colui che chiamano il Senza morte, gli omaggi del regno di Ruurik e delle stirpi di Durin il Prode e Bain il Timido! [3] Onore e gloria ai suoi eserciti e ai suoi fabbri! Giungo alla dimora di Khazad-Dum come latore, ahimè, di notizie insolite ed inquietanti!” Il volto di Durin IV, sebbene non rivelasse alcunché dei sentimenti che nutriva nel profondo del proprio cuore, parve illuminarsi all’udire parole così cortesi e ricambiato i saluti, invitò lo straniero a proseguire il suo racconto: “La mia dimora è in Ruurik, la grande catena montuosa posta nell’estremo ponente di Endor: ivi hanno dimora le genti della sesta e settima tribù da innumerevoli generazioni. Nel corso dei secoli, tuttavia, alcuni del popolo di Druin, ancor prima di giungere in codesta terra, abitarono alle pendici di un colle non distante da qui, Tumun-Gabil.” Mormorii si levarono all’udire quel nome, ché esso non era mai stato obliato ed era presagio di antiche e nuove sventure; tuttavia nessuno osò interrompere il messaggero ed egli proseguì nella sua narrazione.

“Al principio di questa era, un nano proveniente dalle Montagne Grigie, scoprì un vulcano quiescente, il cui nome nella lingua degli Eldar è Amon-Lanc[4], al di là del Grande Fiume, che gli elfi chiamano Anduin; il suo nome era Narin, signore dei nani della stirpe di Druin: coraggioso era il suo temperamento ed egli soffriva nel sapere confinati in anguste dimore i nani del suo popolo, desideroso com’era di vederne restaurata l’antica dignità e splendore. Egli si recò allora dal suo sire, Druin il Prode, il quale animato dalle medesime ambizioni del suo vassallo, pianificò il trasferimento del suo popolo nella Valle Deserta, che si estende tutto intorno ad Amon-Lanc; secondo quanto narrano le storie che il mio popolo si tramanda, essi trovarono un prezioso giacimento di laen rosso all’interno della struttura vulcanica e aumentarono in potenza e in numero, fino a costituire l’impero sì agognato da Druin e Narin. Borin, il secondogenito dello scopritore di Amon-Lanc era un grande fabbro, ché aveva appreso conoscenze dagli Eldar del regno dell’Eregion, del quale al nostro popolo non è più giunta notizia da quando l’Oscuro Sire lo distrusse secoli orsono: Borin costruì la prima fucina per lavorare i metalli alla maniera degli elfi[5], nel profondo di Tumun-Gabil ed acquisì notevole fama tra la mia gente. Nel volgere di qualche decennio, tuttavia, le aule di Tumun-Gabil divennero anguste e tra il popolo serpeggiava ribellione e insoddisfazione, ché le ricchezze non erano sufficienti per tutti, né ciascun nano godeva dei medesimi benefici: accadde dunque che Druin e la maggior parte del suo popolo intraprendessero un lungo e periglioso viaggio che avrebbe avuto termine solo nelle calde terre dei Chey[6], ove essi avrebbero edificato nuove e lussuose dimore nei monti Ruurik. Borin, tuttavia rifiutò di seguire il suo sovrano, ché egli ambiva ottenere il dominio sulla corporazione dei fabbri di Tumun-Gabil e le vene di laen rosso non erano ancora esaurite; egli restò dunque, in qualità di signore dei fabbri e trasmise la sua carica a suo figlio Torin e questi ai suoi eredi. Trascorsero numerosi secoli e il male si destò a Nargun[7], sicché i Rukhi[8] si diffusero su tutta la Terra di Mezzo, devastandola a loro piacimento: i nani di Tumun-Gabil, tuttavia, non mostrarono preoccupazioni di sorta per tali eventi, ché non temevano la minaccia di Sauron ed erano distanti dai confini del suo oscuro reame; al termine del trentesimo secolo di questa Era, tuttavia, un elfo della stirpe dei Noldor si presentò alle porte di Aman-Lanc; costui aveva nome Celedhring[9] e si narra fosse stato al seguito di Celebrimbor quando costui accolse Sauron ad Ost-in-Edhil. Quanta veritiera possa essere tale storia, io non saprei dire, ché molto tempo è trascorso da allora: tuttavia non dubito che gli intenti dell’elfo fossero malvagi, ché egli sembrava trarre diletto dal seminare discordia e rancori tra i nani: fu Dworim, erede di Borin, ad accogliere nelle sue sale il servo di Sauron e questi sedusse lui e il suo popolo, allettando i loro spiriti creativi con la promessa di forgiare gemme simili a quelle che un tempo gli elfi ammiravano ad Aman. Dworim si mostrò entusiasta della proposta di Celedhring, ché era maestro indiscusso nell’arte dei metalli e delle gemme, e gli mostrò l’impianto delle fucine. Nel volgere di un secolo i nani, coadiuvati dall’oscura arte dell’elfo corrotto, crearono la Khazad-Khezed, la gemma dei nani; così vivida era la sua superficie che alcuni dicono si potesse leggere attraverso di esse il fine delle azioni di colui che la impugnava nel proprio pugno. Ahimè! Essa non fu fonte di letizia, ché era un opera di Sauron e non una creazione spontanea: ben presto codesta gemma si impadronì delle menti dei signori dei nani, privandole dal libero arbitrio, sicché essi presero a realizzare grandi progetti, il cui fine è stato celato e poi obliato. Ignoro quale sia stata l’oscura arte che abbia permesso tale maleficio, ma essa deve essere stata potente, ché giammai volontà perversa è riuscita a domare ai propri fini il fiero popolo dei nani.” Con l’animo invero preoccupato, Erfea non notò il re ed alcuni tra i signori del suo popolo sfregarsi le mani, né tuttavia in caso contrario avrebbe potuto comprendere il significato di tale gesto, ché il segreto dei sette anelli dei nani è tale che esso viene tramandato di padre in figlio e nessun altro ne viene messo a conoscenza.

“Trascorso circa un secolo, il laen del filone di Tumun-Gabil si esaurì, poiché i fabbri l’avevano utilizzato per edificare strutture ignifughe, la cui finalità non è mai stata rivelata. Celedhring allora fuggì e si recò a Mordor ove rallegrò il suo mentore, assicurandogli di aver ottenuto quanto era nel suo scopo: i nani superstiti fuggirono verso Ruurik e al termine di tale migrazione, nelle silenziose e deserte aule di Tumun-Gabil, rimasero solo sette nani. Tra coloro che per qualche anno ancora si aggiravano nei corridoi e nei passaggi desolati dell’antica cittadella, vi era anche Dworim, consumato dalla pazzia e dalla paura, oserei dire dal terrore di dover condividere la gemma con gli altri compagni; in breve egli mise fine alle loro misere esistenze, restando così l’unico superstite di Amon-Lanc.” Durin IV allora l’interruppe: “Dici che egli fu l’unico a sopravvivere: come è possibile dunque che tu sappia questo?” “Invero, sire, allorché molti degli abitanti dell’antica cittadella fuggirono, si recarono nelle dimore della mia gente, lì ove narrarono tale storia così come l’avete testé ascoltata. I miei sovrani allestirono allora una spedizione, affinché i superstiti di Tumun-Gabil fossero costretti ad abbandonare quelle aule maledette Fui invitato a prendervi parte e con venti compagni mi misi in cammino, ignorando tuttavia quali pericoli avrei incontrato al termine del mio cammino.” Tacque, e per un attimo parve rivivere quegli attimi terribili e si portò le mani innanzi al viso; infine parlò, ma era come se egli si rivolgesse solo a sé stesso: “Giungemmo ad un enorme salone, ormai in rovina e comparso di detriti e polvere; ivi recuperammo le salme degli ultimi sei abitanti della cittadella. Infine…e qui la sua voce si fece simile ad un fioco bisbiglio…morte.”

Un mormorio di orrore si levò dalla folla dei nani presenti, ma tosto il silenzio prese a regnare nuovamente nella sala. Nori, uno tra i compagni più giovani e ardimentosi di Naug-Thalion alfine parlò: “Dove sono dunque i tuoi consanguinei? Quale orribile maleficio si è abbattuto su di loro? Parla dunque!” Lo sguardo vacuo dall’ambasciatore fissò per qualche istante l’intrepido nano, infine colui che era sopravissuto alla tragedia, frugando nelle tasche del proprio mantello, estrasse un oggetto, la cui forma in principio sembrava indistinguibile. Furono chiamati i portatori di luce e presto nella sala fu possibile scorgere quale macabro cimelio mostrasse il nano della stirpe di Druin: un artiglio era, dalla lunghezza di venti pollici circa e di colore bruno ramato: la maggior parte dei presenti scosse la testa, in preda a dubbi e sconforto; tosto tuttavia Erfea si levò dal proprio scranno e si avvicinò al nano; stupito costui lo osservò, ché non aveva mai veduto prima d’ora un Dunadan e l’isola di Elenna rappresentava per lui solo una remota leggenda: tosto allora si ritrasse, temendo che un grande male fosse caduto su di lui e che costui fosse un servo del Nemico. “Non temere Narin, figlio di Borlin! Costui è un uomo proveniente dal lontano occidente ed è un profondo conoscitore di Endor e delle sue creature. Si narra infatti che a Numenor vi siano parchi ove sia possibile osservare animali esotici, provenienti finanche dalle Terre dell’Aurora[10]. Non è forse così, Erfea?” “Sì – rispose il Dunadan – ed io stesso ho appreso il nome di strani e feroci animali che abitano tuttora nell’estremo meridione di Arda.”

Soppesò l’artiglio nella sua possente mano destra, lo accostò ai suoi occhi, infine parlò: “Non ho mai veduto nulla di simile prima d’ora. Non v’è dubbio tuttavia che Narin abbia scorto colui che se ne adornava e sia dunque in grado di descriverlo ai nostri occhi.” “Non v’è molto da dire – rispose quello, rabbuiato in volto – l’oscurità incombeva sulla grotta ed i miei sensi non scorsero alcunché. I miei compagni – e qui iniziò nuovamente a tremare – soccombettero per primi. Io menavo colpi con la mia ascia, quando ad un tratto compresi di aver colpito quell’essere; allora fuggì in luoghi che la mia mente rifiuta di rimembrare ancora. Non so – concluse – non vidi altro.”

Erfea non disse nulla, ma rifletté ancora per qualche istante: infine sguainò la spada, mentre molti nani lo guardavano allibiti e timorosi; egli tuttavia non si curò di loro, ma fissò con crescente inquietudine i bordi di Sulring emettere una luce azzurrina, al principio lieve, infine visibile a tutti coloro che erano con lui. Erfea allora sospirò e abbassata la lama, proclamò a voce alta, affinché ciascuno potesse udire le sue parole, quale fosse il suo pensiero: “Qualunque sia la creatura cui appartiene tale artiglio, essa non è figlia dei Valar, né è stata concepita dal pensiero di Eru Iluvatar.” Adesso non vi era alcun nano nella grande sala il cui sguardo si volgesse ad altri che ad Erfea ed egli proseguì: “Colui che ha trucidato i compagni di Narin è un empio servo di Morgoth, l’oscuro nemico del Mondo.” Durin IV lo fissò per alcuni istanti, non meno sorpreso dei suoi sudditi; tosto tuttavia levò alto il braccio e parlò: “Temo che il Dunadan abbia ragione, ché le lame forgiate dagli elfi si illuminano di luce propria qualora vengono a contatto con i servi del Nemico.” Qualcuno tra i nani osò tuttavia esprimere il suo dissenso apertamente: “Eppure egli è un mortale, non un erede di Feanor. A che pro costui tenta dunque di ingannarci? Gondolin è stata annientata molti secoli fa e ora più non si erge la bianca torre di Turgon. Chi è dunque costui per affermare un simile parere?” Fredda fu la risposta che Erfea gli riservò: “Non mi importa quale sia il tuo pensiero in tale frangente, Gori, figlio di Frain, dal momento che dubito tu abbia la volontà di recarti a Tumun-Gabil.” Tuttavia, anziché dimostrare risentimento per una simile affermazione, il signore dei nani proseguì: “Benissimo. Dica e faccia pure quello che costui crede: temo però che il sovrano si mostrerà meno indulgente nei tuoi confronti di quanto lo sia stato io.” Durin IV allora intervenne e con voce grave ammonì il suo vassallo: “Dimentichi forse quanto ha riferito Naug Thalion sul Dunadan? O la tua conoscenza degli artefatti elfici è venuta meno? Quanto a me ho preso una decisione e mi auguro che troverà il consenso dei presenti. In  caso contrario – concluse con tono minaccioso – non vedo come l’autorità regale possa essere diversamente esercitata.” “Mio signore e voi tutti – disse Naug Thalion – che nessuno di voi dubiti di quanto affermai in passato; costui invero è Erfea, figlio di Gilnar, della stirpe degli Hyarrostar, colui che chiamano il Morluin. Egli ha sconfitto numerosi servi di Sauron e si narrano sul suo conto numerose leggende, molte delle quali a me ignote; tuttavia quanto ho visto e udito è sufficiente perché io possa dichiarare innanzi a voi che non vi è altro uomo a cui affiderei una missione tanto perigliosa, se egli lo vorrà.”

“Mio padre afferma il vero – aggiunse un giovane nano, il cui nome era Groin – nutro piena fiducia in quest’uomo ed egli è stimato da tutta la mia gente.” Grida di sfida si levarono allora dalle guardie del corpo di Gori ed essi sarebbero venute alle mani con i sostenitori di Naug Thalion se Erfea non avesse parlato: “La vostra unica ricompensa, se impugnerete le armi gli uni contro gli altri, sarà il riso crudele di Sauron! Suvvia, acquietatevi, ché è destino dobbiate adoperare altrove le vostre asce. Quanto a me, mi unirò ad una spedizione, qualora essa venga realizzata, ché molto desidero esplorare le antiche sale di Tumun-Gabil.”

Silenzio si fece allora in tutta la sala, ché nessuno ambiva volere esplorare tali luoghi: allora si levò dallo scranno Naug Thalion e parlò con rabbia: “Se nessuno dovesse assicurare la propria ascia al Dunadan, ecco che egli non avrebbe più degno motivo di essere chiamato nano di Khazad-Dum. Io partirò con Erfea, e la mia decisione è irrevocabile.” Molti nani allora mutarono parere e proclamarono di volersi unire ai due esploratori, sebbene molto temessero le ombre di Tumun-Gabil: una spedizione fu in breve tempo apprestata e Durin IV così ne salutò i membri: “Siate cauti, ché un grande male è all’opera nelle antiche aule di Amon-Lanc; non portate veco stoltizia o imprudenza, ma astuzia e coraggio: sebbene Erfea non ne abbisogni, chiunque lo desideri può procurasi l’equipaggiamento presso l’armeria reale.” Sorridevano nell’ombra i signori dei Naugrim ostili ad Erfea ed ad una futura alleanza con gli uomini, convinti che la morte avrebbe accolto tutti quei folli nel suo vuoto abbraccio qualora quelli avessero oltrepassato i cancelli di Tumun-Gabil; tuttavia dissimularono ogni ostilità e salutarono il Dunedan con rispetto: “Possa l’antica stella degli Edain e della casa di Durin rischiarare le tenebre ove giace sepolto un grande segreto!” Erfea, tuttavia, non pronunziò alcuna parola, ma si limitò ad inchinarsi, ché al suo orecchio quelle parole echeggiavano fredde e meschine.

All’alba del giorno successivo, la compagnia si mise in marcia, scendendo lungo i ripidi pendii della valle dei Rivi Tenebrosi, che i nani chiamano Azanulbizar, evitando i boschi che si aprivano sotto di loro, ché i nani temevano gli elfi e non desideravano che questi potessero in qualche modo venire a conoscenza della missione che avevano intrapreso; al tramonto, i membri della compagnia organizzarono il bivacco notturno in un ansa del Grande Fiume e tutto intorno a loro echeggiava il dolce canto dei cigni; lieto divenne allora Erfea e presto la sua voce si levò in un canto quale mai i nani avevano ascoltato fino a quel momento. A lungo essi restarono in silenzio, affascinati dalle parole che costui pronunciava, pur non comprendendone il senso. Terminato il canto, alcuni tra i più giovani applaudirono, trovandolo divertente ed allegro, mentre i più anziani meditavano in silenzio, assorti nel rimembrare l’eco delle ultime parole che dal fiume ancora saliva: infine Naug Thalion parlò: “Ho ascoltato numerosi lai nel corso della mia esistenza, tuttavia non ho mai udito nulla di sì commovente. Alcune strofe mi parvero note, mentre di altre ignoro ogni cosa: non dubito tuttavia che ella sarebbe stata lieta se avesse potuto ascoltare le tue parole.” Erfea non parve prestargli attenzione e da principio non rispose: infine parlò, e fu come se la sua voce giungesse dai flutti dell’Oceano: “Dici il vero affermando questo, dal momento che fu ella a comporre tale canzone anni addietro; aveva appreso molte cantiche dagli Eldar di Lindon e sovente si dilettava nel comporre versi e nel suonare l’arpa; mai suoni più dolci e melodiosi si udiranno in quelle terre, ché Numenor è stata occultata e giace nell’abisso invisibile agli occhi dei mortali.” Sospirò, infine tacque e parola non pronunciò più quella sera. Nei giorni successivi, dopo aver guadato con facilità l’Anduin a nord, lì ove le acque erano più basse, i nani e il Dunadan giunsero ai primi boschi che si estendevano nel Rhovanion, lì ove pochi uomini vivevano e tutto era silenzio; a lungo cercarono il sentiero che conducesse ad Amon-Lanc senza tuttavia averlo trovato, nonostante Erfea fosse abile nell’individuare le tracce dei servi di Sauron; infine, stanchi ed amareggiati, essi si distesero a terra. A lungo giacquero, senza pronunziare parola alcuna; infine Erfea sguainò Sulring, ché nel suo cuore era sorta una grande minaccia. La lama non emetteva bagliori tali da credere che il nemico fosse nelle vicinanze, tuttavia i suoi bordi splendevano fiochi nella penombra della foresta; tosto i nani si ridestarono, avendo scorto la fioca luce azzurra della spada del Dunedan: “Oscuro è il significato di quanto i miei occhi scorgono – notò Gori, un nano della stirpe di Durin – tuttavia non dubito che Erfea sarà in grado di fornire una ragione plausibile.” “Dubito che il Dunadan possa scorgere una traccia in tale foresta, prima che sorga il sole. Grande era la maestria dei fabbri di Gondolin nel forgiare spade e coltelli, tuttavia temo che questi non possano indicarci alcun percorso” disse un altro nano, il cui nome era Furin. “A quale pro ci ha condotti in tale contrada selvaggia? – inveì un terzo – dal momento che non v’è un percorso sicuro, costui dovrebbe avere il buon senso di continuare nell’esplorazione.”

Erfea però non si curava di costoro, ma osservava attentamente un cespuglio di biancospino che cresceva innanzi a lui; i suoi boccioli non si erano ancora dischiusi e pareva straziato da un immenso dolore: allora egli comprese e comandò ai nani di seguirlo in fretta altrove: lievi come elfi percorsero un miglio, inoltrandosi nella foresta ombrosa, mentre all’esterno il sole calava all’orizzonte. Infine si fermarono nei pressi di una fonte, alla quale si abbeverano avidamente. Naug Thalion fu il primo a pronunciare parola: “Mai avevo veduto un simile terrore sul volto di un uomo, Erfea Morluin! Cosa è accaduto in codesto luogo per turbarti ed indurti ad abbandonarlo sì repentinamente?” “Un grande male è all’opera qui – rispose Erfea, scuro in volto – né sono gli orchi o le belve della foresta che io temo; vi era piuttosto un’aria infetta, la quale ha reso informe e putrescente molte piante ivi cresciute.” Rabbrividì e in seguito non volle pronunciare altre parole, raccomandandosi tuttavia di vegliare a turno quella notte. La mattina seguente, Groin si accostò ad Erfea svegliandolo: “Vi è una creatura mai vista in questi boschi, Dunadan!” Erfea annuì e fu condotto dal suo compagno su un angusto sentiero, smarrito tra i possenti tronchi di querce: una serie di impronte ne marchiavano il percorso, invisibili a chi non avesse disposto di sufficiente luce per distinguerle. Entrambi gli esploratori discussero brevemente su quale comportamento sarebbe stato opportuno adottare, eppure Erfea era in preda a grandi dubbi e in balia di oscuri ricordi, ché non era la prima volta che il suo sguardo si posava su tracce simili: ciascuna di esse era lunga quanto due palmi o forse più, e all’estremità superiore si dipanava in tre sezioni minori, impresse nel limo da altrettanti artigli. Groin tuttavia comprese lo smarrimento di Erfea e ne chiese il motivo: questi tuttavia era reticente a parlare, ché tali tracce gli rimembravano la fortezza degli Ulairi posta nell’estremo Harad. Infine parlò, seppure a malincuore, ché nel suo cuore albergavano paura e nausea; cinereo divenne allora il volto di Groin ed egli non volle domandare altro: tosto allora fecero ritorno all’accampamento, ove discussero con gli altri su quanto avevano visto ed elaborarono una strategia. Erfea si sarebbe presentato innanzi al cancello di Amon-Lanc, dichiarando di essere un numenoreano nero, servo del Re Stregone, e l’anello che un tempo cingeva il dito di Adrahil e che era andato smarrito durante il combattimento, avrebbe costituito una prova valida per le sue argomentazioni. Due fra i nani avrebbero dovuto ricoprire il ruolo di prigionieri, destinati al signore del Maniero, la cui identità era fino a quel momento ignota a tutti: Naug Thalion e Groin si offrirono volontari, mentre i rimanenti compagni avrebbero atteso in quella valle per sette giorni e sette notti; qualora il Dunadan e i due signori dei nani non avessero fatto ritorno, essi avrebbero dovuto immediatamente fare ritorno a Khazad-Dum ove la notizia sarebbe stata comunicata a Durin IV».

[continua]

Note

[1] “Gennaio” nella favella degli Elfi Grigi

[2] Padre della settima casa dei nani.

[3] Padre della sesta casa dei nani.

[4] Tumun-Gabil era la traduzione nella lingua khuzdul del nome elfico Amon-Lanc, Colle del silenzio.

[5] Non è chiaro a cosa alludesse il messaggero, utilizzando tale espressione: è plausibile, tuttavia, che essa indicasse le “Fucine a freddo”, ove avvenivano la lavorazione delle leghe del galvorn, e dell’ithildin. Poco o punto è stato tramandato sul funzionamento di tali forge, ché esse scomparvero dopo che Ost-In-Edhil fu rasa al suolo e Khazad-Dum abbandonata dai nani in fuga dal Balrog, un demone dei Tempi Remoti servo di Morgoth.

[6] I Chey erano una confederazione di tribù stanziate nell’Endor centrale, ad est del Khand: bellicose e supersitiziose, adoravano i demoni della natura e gli spiriti degli antenati. Nel corso del secondo millennio della Seconda Era, furono assoggettati da Sauron attraverso l’influenza che Ren il Folle, l’ottavo in potenza fra i Nazgul, esercitò su di loro.

[7] “Mordor” nella favella dei Khazad.

[8] “Orchi”nella favella dei Khazad

[9] Celedhring nacque nella città di Gondolin centotrenta anni prima che fosse saccheggiata dalle armate di Morgoth; in seguito a tale evento, attraversò il Beleriand e giunse stremato nei pressi delle Montagne Azzurre, ove fu soccorso dai Moriquendi che ivi abitavano dai tempi remoti. Al termine della Prima Era, in preda a grande terrore per gli sconvolgimenti che seguirono la caduta di Morgoth, fuggì e di lui si perse ogni traccia per lunghi anni; tuttavia, allorché il regno dell’Eregion fu fondato, egli ritornò nell’Eriador ed ebbe la custodia delle chiavi delle aule di Ost-In-Edhil, chè era stato fabbro a Gondolin e la sua conoscenza era onorata dagli Eldar di quella contrada. Lunghi secoli trascorse Celedhring nell’Eregion, prestando scarsa attenzione alle voci che narravano del ritorno dell’Ombra ad est, ché se grande era in lui la conoscenza delle antiche arti, non meno possente era la superbia e l’invidia ed egli avversava Galadriel, ritenendola indegna del comando; sovente sobillava Celebrimbor contro di lei, fallendo tuttavia nel suo scopo, ché il figlio di Curufin l’amava teneramente, né Celedrhing era dotato di volontà sufficiente per costringerlo a mutare parere. Annatar, il Signore dei Doni, si avvide di tale sentimento e lo mutò in rancore, trovando nel Custode delle Chiavi un valido alleato per raggiungere il suo fine; al termine di numerosi colloqui, Annatar persuase Celebrimbor a proclamare decaduta la signoria di Galadriel e Celeborn sull’Eregion ed essi abbandonarono la città. Negli anni seguenti Celedhring collabrorò con Annatar e Celembrimbor alla forgiatura dei Nove e dei Sette; allorché il Signore dei Doni abbandonò la città per recarsi a Mordor, Celedrhing lo seguì e ne divenne fedele discepolo: al termine della Seconda Era non esisteva in Mordor un fabbro più abile dell’orgoglioso Noldor all’infuori di Sauron stesso ed egli aveva assunto il titolo di Custode delle Forge; durante la guerra contro Gondor progettò l’enorme trabucco con cui gli eserciti del suo signore  abbatterono il cancello di Minas Ithil. In seguito, durante l’assedio a Barad-Dur, Celedhring forgiò alcune delle numerose macchine che provocarono numerose vittime nelle schiere dell’alleanza: allorché le armate dei servi di Sauron furono disperse, tuttavia, egli fu trucidato da Glorfindel e il suo spirito si allontanò dalla Terra di Mezzo.

[10] Le Terre dell’Aurora si estendono ad est di Endor; scarsamente abitate e povere di metalli e gemme preziose, furono esplorate dai Numenoreani nel corso della Seconda Era, sebbene costoro non vi avessero mai edificato insediamenti, ché una scura ombra le aduggiava ed essi ne erano impauriti: in seguito alla Caduta di Numenor, più nessun secondogenito di Endor si è recato in tali contrade e di esse si è perduto il ricordo.

Erfea dinanzi alle porte di Khazad-Dum

Continuo in questo articolo la narrazione della storia iniziata in quello intitolato «Storia di una grande amicizia». Erfea, accompagnato dai suoi nuovi amici nani, è invitato da questi a visitare l’antica città di Khazad-Dum situata all’interno delle Montagne Nebbiose. Dopo un lungo viaggio, all’interno del quale avviene un evento che stravolgerà per sempre migliaia di vita, compresa quella di Erfea, il gruppo giunge sino ai Cancelli Occidentali di Moria. Come se la caverà Erfea, alle prese con l’enigma della porta, che, molti secoli più tardi, metterà in difficoltà la Compagnia dell’Anello? Buona lettura!

«La mattina seguente, abbandonata la Locanda del Cacciatore alle prime luci dell’alba, Erfea si allontanò da Brea, seguendo la compagnia di nani, ché questi lo avevano invitato a visitare le sale dei loro padri all’interno dei Monti Nebbiosi e grande era il desiderio del Dunedan di mirare le dimore che la stirpe di Durin I, che il popolo chiamava il Senza Morte, aveva reclamato per la sua gente: le vaste aule di Khazad-Dum si estendevano da occidente a ponente, dalla sorgente del Sirannon alle cascate dei Rivi Tenebrosi.

Poche miglia avevano percorso i compagni, allorché il mondo fu mutato, ché Manwe Sulimo revocò il suo volere dal mondo e Eru Iluvatar scagliò nell’Abisso l’isola di Numenor con i suoi forzieri traboccanti di gioielli. Come è narrato altrove, nessuno, ad eccezione di coloro che veneravano gli Ainu o di coloro che erano fuggiti altrove anzitempo, fu salvato dal cataclisma e lo stesso Sauron, il cui potere vantava essere superiore a quello di Manwe, fu scagliato nel profondo dell’Oceano. Un greve silenzio cadde sui nebbiosi colli degli Emyl Gortayd [1], disturbato solo dal profondo eco di una collera impetuosa; pochi sono i racconti sopravvissuti alla caduta di Numenor, eppure nessuno scritto potrebbe rendere lo sbigottimento e l’angoscia che presero gli esseri della Terra di Mezzo: finanche le feroci belve delle remote giungle del sud si rintanarono nelle loro tane inaccessibili, desiderose di sfuggire la violenza della collera di Eru Iluvatar. È stato detto che perfino i servi di Sauron, acquietati nelle tetre fortificazioni di Mordor abbiano volto lo sguardo l’un l’altro, in preda a grande paura e sgomento; finanche i servi degli Anelli, gli Ulairi, la cui perfidia e malizia erano note presso tutte le genti della Terra di Mezzo, paventarono che fosse giunta sulle ali della tempesta la collera dei signori del Vespro, ed ebbero tema del giudizio dei Vala, fuggendo in luoghi oscuri e privi di speranza.

Una Tenebra senza nome ricoprì l’intero creato, né gli astri del cielo furono visibili, finanche agli acuti sguardi degli Eldar, finché essa non scomparve; grave divenne allora il peso del dolore sui cuori degli orgogliosi numenoreani ed essi compresero alfine quanto la follia del loro signore avesse condotto i loro destini alla follia: eppure, nessuno di loro scampò al giusto castigo, ché trovarono la morte ad attenderli in qualunque pertugio essi si rifugiassero per sfuggire l’ira di Iluvatar. Turbati in volto, i nani esitarono e più non proseguirono, osservando sgomenti quanto accadeva intorno a loro: tetre divennero allora le loro espressioni ed essi non parlavano né osavano respirare, temendo di disturbare la collera del possente Iluvatar. Presto tuttavia gli uccelli presero nuovamente a cantare nelle fronde delle selve e l’aria non fu più satura dell’ira dell’Uno; allora essi sospirarono e volsero il proprio sguardo al Dunadan: egli sedeva su una roccia che il tempo aveva reso simile ad un enorme scranno, e, silente, non pronunciava parola. Perso e vuoto era il suo sguardo, eppure lacrime amare non turbavano il suo viso, ché sebbene fosse grande il suo dolore, nel suo cuore Numenor era svanita anni prima ed essa non era più la sua terra.

Trascorsi alcuni istanti in profonda meditazione, egli si levò dallo scranno, e lasciato cadere il prezioso elmo, rivolse le labbra ad occaso, pronunciando tristi parole di commiato: “Miriel, Tye-mela[2]”; sebbene i nani avessero ascoltato ogni parola, solo Naug Thalion comprese quale doloroso significato esse esprimessero e chinò lo sguardo a terra, colmo di dolore. Lungo tempo trascorse in doloroso silenzio, infine Erfea parlò nuovamente, ché egli aveva compreso quanto era accaduto e non temeva doverlo rivelare ai suoi compagni: “Una nuova era del mondo è prossima ad iniziare, ché Endor è mutata e più sarà visibile Aman agli occhi dei mortali.” Stupefatti allora i nani gli strinsero attorno, ponendogli numerose domande, ma il Dunedan non seppe placare tutti i loro dubbi “ché – si giustificò – non è il mio animo la fonte che ispira tali parole” ed altro non volle aggiungere.

Costernati, allora i nani proseguirono lunga l’antica strada che collegava le miniere di Belegost e di Nogrod con la fortezza di Khazad-Dum. Lunghe miglia essi percorsero, con passo lento ed esitante, ché grande era nei loro cuori lo smarrimento e il dolore per quanto accaduto: sovente, durante le veglie notturne, Erfea cantava antichi poemi della sua gente o appresi dai bardi dei Noldor, ed i suoi compagni, affascinati dalla sua voce melodiosa e profonda, gli si stringevano attorno, obliando per qualche tempo le fatiche che attanagliavano i loro animi e gravavano sui loro capi.

All’imbrunire del ventesimo giorno dacché Numenor era caduta, i viaggiatori giunsero in vista dei primi contrafforti delle Montagne Nebbiose: “Ivi si ergono le mura ed i cancelli di Khazad-dum” – indicò Naug Thalion ad Erfea che, silente, osservava le pallide vette montuose, sfiorate dal riverbero dell’ultimo sole – “Nelle profondità degli anfratti rocciosi in seno ai monti che gli elfi chiamano Caradhras, Celebdil e Fainudolh, sono situate le dimore dei figli di Durin” concluse l’anziano nano.

Salirono lungo la strada che conduceva al cancello, ed Erfea notò che vi erano grandi e maestose siepi di agrifogli posti su entrambi i lati del sentiero; tuttavia, non ne fu stupito, ché fin dagli albori del regno dell’Eregion, gli elfi solevano adornare le loro terre con simili alberi. Dopo aver percorso quattro miglia, i nani si fermarono dinanzi ad una nuda parete di roccia: stupefatto, Erfea si approssimò ad un suo compagno, chiedendo il perché di tal gesto. Quello, per nulla turbato o meravigliato gli sorrise: “Dunadan, pochi elfi e ancor meno uomini sono penetrati nei nostri domini fin dall’inizio del Tempo. Non crucciarti, ché altre meraviglie ti attendono all’interno! Questo è il cancello di Khazad-Dum, che voi chiamate Nanosterro: esso non è visibile a chiunque e i suoi portali non sono edificati solo sulla nuda roccia.”

Incuriosito dal significato delle parole appena udite, Erfea scrutò la nuda roccia: non un solo ciuffo d’erba ricopriva il pendio, né l’umile lichene ne sfiorava la superficie, ché nero e lucido il granito si ergeva maestoso. Improvvisa si levò Ithil da un banco di nubi e meraviglia! La parete rocciosa fu ornata da sottili disegni e da rune incantate: grande fu lo stupore del Dunadan, ché comprese quale abilità avessero raggiunto i nani nella loro arte; ma quelli, osservando l’inchino che egli rivolgeva loro presero a ridere e a battergli pacche sulla schiena: “Grande è la cortesia dei figli degli Edain, ed ecco, essa onora i figli di Durin! Tuttavia riserva la tua ammirazione per altri manufatti forgiati dai nani, ché su queste porte sono impresse conoscenze ben più antiche della nostra arte. Un tempo i Noldor si stabilirono nell’Eregion e fondarono un reame: ivi molti del nostro popolo si recarono desiderosi di apprendere le antiche arti della parola che si diceva gli elfi avessero tramandato fin dagli albori dei giorni remoti, sconosciuti al sole e alla luna; Telchar, un rinomato artista, strinse amicizia con sire Celembrimbor, erede di Feanor ed insieme escogitarono l’artifizio che apre il cancello.” Naug Thalion rise per qualche momento, infine continuò: “Neppure Sauron in persona riuscì ad apprendere il segreto che si cela in queste rune.” Con attenzione Erfea le esaminò, infine lesse ad alta voce: “Ennyn Durin Aran Moria: pedo mellon a minno. Im Narvi hain echant: Celebrimbor o Eregion teithant i thiw hin. Le porte di durin, signore di Moria. Dite, amici, ed entrate. Io Narvi le feci. Celembrimbor dell’Eregion tracciò questi segni.” Rifletté per alcuni istanti, infine facendo scivolare dolcemente le proprie dita sulla lucida superficie della roccia, pronunciò un’unica parola: “Mellon!” Allibiti rimasero i nani e tra essi vi fu chi balzò in piedi per lo stupore, mentre Naug Thalion, palesemente compiaciuto, si inchinò dinanzi all’uomo: “Non credere Erfea, figlio di Gilnar, di aver superato in possanza le Oscuri Arti del Nemico! Grande è stata la tua intuizione e pochi fra i mortali possono vantarsi di avere una mente sì lungimirante: tuttavia, tale iscrizione è solitamente occultata e segrete sono le parole che ne evocano i caratteri.” Lieto in volto Erfea ricambiò l’inchino, infine rise: “Non desidero emulare le azioni dell’Oscuro Signore, ché esse conducono ad un fine che rifiutai tempo fa. Tuttavia, non sono sorpreso per quanto accaduto, ché il concetto di amicizia è quanto più distante possa esservi dall’ambizione che il Nemico nutre nel suo distorto animo.” Allora i nani lo acclamarono e gli diedero il nome di Khevialath, che nella loro lingua vuol dire il lungimirante: due guardie accolsero i viaggiatori, osservando con palese stupore l’alto mortale, ché da tempo un discendente degli Edain non varcava l’ingresso di Moria. Erfea attraversò lunghi corridoi, illuminati da lampade azzurrine, la cui luce emanava da cristalli purissimi, i cui nomi oggi sono stati obliati finanche tra i discendenti dei Naugrim. Vaste sale scolpite si aprivano a volte innanzi alla compagnia ed Erfea, pur non vedendo alcuno, ebbe tuttavia la sensazione che il suo arrivo non fosse passato inosservato: infine, dopo aver percorso molte miglia, i nani si fermarono innanzi ad una porta intarsiata di mithril e acciaio. Un pallido sole si era levato ad oriente del mondo e le sue affusolate dita illuminavano archi e soffitti la cui altezza era incommensurabile; a lungo Erfea attese, infine domandò a Naug Thalion quale evento o creatura stessero attendendo dinanzi a tale portale: l’anziano nano gli sorrise: “Non temere Dunadan! Il Re è stato avvertito del tuo arrivo e presto sarai ricevuto innanzi a lui. Vi è un motivo valido per cui ti chiedo di essere paziente. Sii fiducioso del mio giudizio, e più non domandare.” Ancora non si erano spenti gli ultimi echi di tali parole, che il sole si levò in tutta la sua possanza. Allora Erfea tacque e sul suo viso si dipinsero meraviglia e stupore, ché non vi erano parole nella sua lingua o in quella di qualunque altra creatura per descrivere la magnificenza della visione che gli si offriva: grandi specchi convessi, della cui esistenza non avrebbe mai sospettato, gli apparvero in tutta la loro eleganza e grazia, rimandando i raggi di sole che entravano da un pozzo di luce che si apriva nella volta della sala. Abbagliato da tanta luminosità, per un istante Erfea dovette distogliere lo sguardo, soffermandosi sulle alte colonne, il cui  motivo a guisa d’ascia si ripeteva su qualunque superficie della sala; presto, tuttavia, egli fu distratto dalle sue meditazioni, perché una grande folla di nani gli si fece incontro: il Dunadan osservò che fra essi vi erano molti bambini e ne fu invero sorpreso, ché ben pochi sono quelli tra i nani che prendono moglie, dal momento che essi dedicano gran parte della loro lunghe vite al lavoro nelle forge e nelle miniere, trovando in essi diletto e godimento. Scorgendolo sì stupito, Borin, un nano della casa di Naug Thalion, così gli si rivolse: “Ahimè Dunadan, ben m’avvedo quanto il tuo stupore sia grande! Non ti nascondo che simili ai tuoi sarebbero i sentimenti di ciascuno di noi, ché altrove i nani languiscono o si riducono di numero, eppure forte sono le aule di Khazad-Dum e l’ingordigia non ha ancora rovinato i nostri cuori. Forse avrai udito più di un mio compagno vantare una forza superiore a quella di qualunque creatura, eppure sappi che essa non è sufficiente a placare il desiderio di oro e di altri nobili metalli, quando esso si risveglia nel nostro cuore! Le genti di Nogrod e Belegost abbandonarono le loro fortezze secoli fa e da molte vita di uomini dimorano nelle nostre magioni, tuttavia il loro numero decresce ancora oggi e non sappiamo il perché. Fortunati gli uomini – concluse il nano sospirando – ché altrove ricercano i loro tesori e non permettono che le loro esistenze si smarriscano nella cerca di informi metalli e pallide gemme”. Tristemente Erfea gli rispose: “Eppure così non è: infatti finanche i possenti uomini di Numenor sono diventati schiavi delle proprie ambizioni, inseguendo oltre ogni limite la fiamma delle Terre Imperiture, concludendo miseramente le proprie esistenze. Un’ambizione distorta è simile ad una gemma poliedrica, la quale disorienti l’artista che la possegga: in essa infatti sono visibili tutti i colori del creato e non è degno di nessuna delle creature mortali ambire i segreti dei Vala. Neppure gli antichi Eldar, sebbene possano ancora percorrere l’antica strada per far ritorno alle proprie dimore natie, sono immuni al dolce veleno dell’ambizione, ed essi giungeranno ad Aman per fuggire il turbamento dei sensi. Tempo fa conobbi un’elfa il cui amore per il mare era sì forte nel suo cuore da obliare ogni altro sentimento esso nutrisse; ora ella più non dimora fra noi, ma percorre sentieri ignoti agli altri esseri.” Profondamente colpito dalla saggezza di tale pensiero, il nano si inchinò, accompagnando il tale gesto con siffatte parole: “Invero Erfea, figlio di Gilnar, possiedi uno spirito degno della tua stirpe, ché da molti anni non udivo un discorso sì nobile e consolatorio dalle labbra di un mortale. Molte credenze sono diffuse presso il mio popolo sul destino delle nostre anime, allorché esse si dipartono dal nostro corpo; tuttavia è forse possibile che al termine del nostro percorso mortale, i sentieri che siano stati tracciati in vita si incontrino nuovamente? I nani non posseggono tali risposte.” Erfea gli sorrise: “I fini dei Valar e di Eru non sono stati rivelati ai loro figli, fossero elfi uomini o nani: rimembro che ai nostri padri fu detto di operare nella nostra esistenza terrena e di non stancare le nostre fragili membra alla ricerca affannosa di risposte a tali quesiti, né, tuttavia, di ignorare tali dubbi, ché essi sono alla base del nostro agire; solo in esso troveremo sollievo alle nostre peregrinazioni sui sentieri che la mente e il corpo percorrono.”

“Parole sagge, mortale! Eppure quale senso avrebbe la nostra esistenza, se essa non si aggrappasse con forza alle proprie ambizioni?”

Silenzio si fece in tutta la sala ed Erfea diresse il proprio sguardo a colui che aveva parlato: egli sedeva su un grande trono di porfido rosso, intarsiato da rune di quarzo, il cui potere era invero grande. Anziano era il nano che ora mirava il viso del dunadan, ed imperscrutabili i suoi occhi, ricolmi di infinita tristezza: “In quale altro modo si potrebbe misurare il valore dei mortali se non in base a quanto essi ambiscono? Un desiderio è un tramite per l’immortalità, ché esso perdura oltre la morte e diviene follia o gloria per coloro che ci sopravvivono.”

A lungo lo fissò Erfea e nulla era visibile sul suo viso; infine così parlò: “Mio signore, non è sulle ambizioni che si misurano le qualità dell’uomo, dell’elfo o del nano. Mente stolta e animo crudele possono nutrire infinite aspirazioni, eppure nulla garantisce che esse trovino soddisfazioni. La realtà è la misura di ogni nostra ambizione.”

“La tua, figlia di Numenor, è una risposta astuta e cauta allo stesso tempo”; mentre così discorreva, Erfea notò con quanta delicatezza egli sfiorasse con la mano destra le dita della sinistra, seppure senza comprenderne il motivo[3].

“Suvvia Erfea, figlio di Gilnar! Le tue vicende mi sono note e ti sono grato per aver difeso l’onore e la vita di coloro che appartengono al mio popolo in innumerevoli occasioni. Nulla obliamo, ché non vi è futuro senza passato e il valore di un principe o di un minatore si misura sugli anni che costui ha trascorso in tali lande. Felice e fortunato quel popolo il cui valore affiora fin dalla notte dei tempi, ché quello non bisognerà di altre garanzie per poter prosperare nei giorni futuri.”

“Mendace è tale affermazione, signore di Khazad-Dum, ché ancora una volta hai obliato il tempo presente: ben poco conta il valore degli atti ormai trascorsi o le buone intenzioni che ciascuno dei presenti nutre per il futuro, se ad essi non si accompagna la volontà di incidere nel tempo in cui viviamo. Numenor fu creata dagli Ainu e data in dono alla mia gente, ché essa onorasse l’impegno preso con le genti libere di Endor, eppure molti secoli sono trascorsi da quando i marinai di Elenna giungevano a queste coste in veste di amici e maestri, essendo ora divenuti padroni arroganti e infidi: tuttavia non più tardi di venti giorni, Numenor è sprofondata e l’ambizione di Ar-Pharazon ha ricevuto un premio degno della sua follia. Possente è stata l’ira dei Valar, eppure essi hanno agito con giustizia, ché hanno giudicato gli uomini in base a quanto hanno compiuto in questo tempo. Non ritieni che imprudente e avventata sarebbe stata l’azione di Eru se fossero stati scagliati nell’Abisso anche coloro che si opposero alla turpe azione di Sauron e del re? Eppure essi condividono con i Fedeli il medesimo sangue e lignaggio: non è questo dunque un criterio insufficiente per giudicare i figli di Eru? La fama e la saggezza si acquisiscono negli atti presenti, non sono eredità dei tempi trascorsi.”

Molti mormorii si levarono in tutta la sala, provocati non solo dalla triste notizia che il Dunadan aveva loro annunziato, ma, soprattutto, dalla saggezza delle parole pronunciate da costui.

A lungo Durin IV si accarezzò la folta barba bianca, intrecciata in sette trecce, meditando su quanto aveva appreso; infine parlò nuovamente: “Mai avevo appreso in passato il sapere degli Uomini di questa era. Consideravo le loro stirpi deboli, instabili e arroganti oltre ogni misura, tuttavia lungimiranti sono state le tue parole, sebbene io non abbia compreso tutti gli ignoti sentieri che esse hanno tracciato nel mio animo.” Batté sette volte le mani rapidamente e sette servitori gli si presentarono innanzi: “Desidero che il Dunadan sia ospitato con tutti gli onori – ordinò loro – che gli sia concesso il libero accesso alle meraviglie di Khazad-Dum.” Grida e non già mormorii di stupore si levarono dinanzi a tale richiesta e alcuni tra i più lungimiranti si domandarono nel profondo dei propri animi quale ascendente avrebbe esercitato il Dunadan sulla ferrea volontà del sovrano, in giorni che si prospettavano oscuri e senza speranza. Immaturi erano tuttavia i tempi ed ogni speranza o dubbio fu tosto accantonato; Erfea fu condotto nella propria dimora, ove trascorse il resto della mattinata in preda ad un sonno ristoratore e benefico. Quando si levò dal proprio giaciglio, trovò che tutte le armi e i suoi vestiti erano stati ripuliti dal fango e dall’usura di quei lunghi mesi trascorsi all’addiaccio nelle Terre Selvagge, ove pochi uomini si recano; grato per la gentilezza, tuttavia il suo pensiero più intenso nutrì nel suo cuore verso colei che gli aveva donato un lungo manto finemente intrecciato[4]. Occhi inesperti, forse, si sarebbero soffermati unicamente sulla delicata tessitura e avrebbero ammirato l’effigia dello stemma della casata degli Hyarrostar, un dragone azzurro e nero avvolto da una rosa bianca, apprezzando l’intensità dei colori che ne ricoprivano la superficie; eppure, coloro che avessero avuto sufficiente volontà nell’indagare la sottile trama che ne intrecciava i fili, non avrebbero potuto fare a meno di notare, nel lembo superiore del manto, una piccola e graziosa runa duplice[5], senza tuttavia comprendere il suo significato, noto e caro al cuore di Erfea. A lungo il paladino tenne il manto nel suo poderoso pugno, quasi che il rimpianto e il desiderio potessero essere leniti da quel tocco.

Infine si vestì e uscì dalla propria camera e un’espressione di meraviglia si dipingeva sul suo viso, allorché egli posava il suo sguardo su ogni anfratto, sala o piazza i nani avessero edificato nel corso dei millenni, né essa scemava, ché finanche a Numenor aveva scorto meravigli simili.

Copiose fontanelle, la cui acqua scintillava pura alla luce delle antiche lampade, rallegrarono l’animo del ramingo oppresso dal dolore della perdita, che lieve al principio si era ora accresciuta: ivi il fabbro martellava l’incudine, ivi l’incisore con abili mani decorava un’armatura con rune d’ithildin[6], ivi il cantore accordava l’arpa e il liuto. Le prodigiose forge, la cui fama era nota presso ogni reame di Endor, le formidabili armerie, paragonabili solo a quelle anticamente possedute dagli elfi di Gondolin e i maestosi anfiteatri, immersi nel silenzioso riposo dei monti: tutto questo Erfea vide e il suo cuore fu colmo di letizia; molto egli apprese dai Nani, ed essi non si stancarono di mostrargli le immensurabili opere che il lavoro dei loro padri aveva prodotto, lieti che il loro ospite si mostrasse invero attento e mai scortese. Lieti furono i giorni trascorsi da Erfea nella magione dei Naugrim: numerosi banchetti lo videro gradito ospite, ed i suoi commensali applaudirono ogni qual volta egli levava in alto il calice tempestato di gemme luminose, apprezzandone la saggezza e la lungimiranza; non trascorse molto tempo che il principe degli Hyarrostar iniziò ad assistere ai concili del regno dei nani, fornendo ovunque fosse richiesto il proprio ausilio e sostegno, ché era un uomo dotato di favella accorta e nobile».

Il Ciclo del Marinaio, pp. 197-206

Note

[1] Tale regione collinare, nota anche come la Terra dei Tumuli, si estendeva ad ovest della città di Brea: durante la Prima Era del mondo, numerosi Edain provenienti dall’estremo oriente, avevano eretto numerose costruzioni e fortificazioni sui suoi colli ed ivi avevano riposo i gloriosi corpi dei guerrieri periti durante la Battaglia dell’Ira.

[2] “Miriel, ti amo” nella favella degli Eldar.

[3] Durin III, secondo quanto hanno tramandato i nani, ricevette il primo degli anelli forgiati per il suo popolo direttamente dalle mani dei fabbri di Ost-In-Edhil e non già da Sauron; tuttavia, sebbene è plausibile che tale storia sia vera, finanche tale anello risentiva dalla malvagia influenza dell’Oscuro Signore, ché era stato forgiato per mezzo della sua malefica arte ed obbediva al volere del Maia Caduto. Punto o poco si conosce del destino dei rimanenti sei anelli, anche se vi è stato chi ha detto che essi furono assegnati da agenti di Sauron ai signori del popolo di Durin e non ad altre stirpi, essendo costoro già sotto il dominio di Sauron o troppo distanti dalla sua sfera d’influenza.

[4] Elwen la Mezzelfa

[5] La duplice runa anghertas “E” indica le iniziali di Erfea ed Elwen.

[6] Lega metallica costituita da mithril e alluminio: sovente  adoperata per le incisioni su superfici lucide, si otteneva tramite un processo noto solo presso i Fabbri dell’Eregion e di Khazad-Dum.

Storia di una grande amicizia: Erfea e Naug Thalion

Erfea Morluin, come forse avranno intuito i miei lettori, è un gran viaggiatore, amante di tutte le contrade della Terra di Mezzo, nei confronti della quale prova fin dall’infanzia una grande attrazione. Ci sarà modo (e tempo) per conoscere le vicende della sua fanciullezza e per capire come mai Erfea anelasse alle verdi sponde di Endore: in questo articolo, invece, voglio soffermarmi sulle origini di una lunga amicizia, quella che legò per molti anni un Numenoreano a un Nano. A uno sguardo superficiale, può sembrare strano un simile sodalizio, tuttavia, come ho scritto in precedenza, Erfea era un uomo di mentalità aperta, molto lontano dal razzismo nel quale si riconoscevano la maggior parte dei suoi connazionali. Un razzismo che, come avrete modo di leggere in questo articolo, spesso non si limitava alle parole, ma diveniva pericolosamente aggressivo nei confronti degli «altri». Buona lettura!

«A lungo Erfea esplorò le selvagge contrade di Endor, stringendo alleanza con quanti tra i figli di Eru si opponevano ai voleri di colui che un tempo era stato il luogotenente di Morgoth. Molte stirpi, i cui nomi sono ora obliati, egli conobbe, e grande era la sua gioia allorché il nero artiglio del nemico allentava la sua ferrea presa dalle contrade a lui care: le genti di Endor ne apprezzavano il forte braccio e la mente acuta, ed egli sovente si recava presso le loro dimore, chiedendo ospitalità, ché Ar-Pharazon lo temeva e ne aveva decretato la condanna a morte, qualora fosse stato tratto in catene nei domini numenoreani. Lungo e periglioso fu il peregrinare di Erfea, ché i servi dell’Oscuro Signore non cessavano di seguirne le tracce e vi erano molti esseri oscuri in quei giorni sì lontani; avvenne dunque, che al termine della stagione di Tuile[1], Erfea si recasse nella ridente città di Brea, logorato dagli scontri con i guerrieri di Ar-Pharazon e di Sauron. Siepi ben curate di eriche e rose lo accolsero, mentre egli percorreva a cavallo il viale principale: un esile fumo si levava da una costruzione che si distingueva dalle altre per dimensioni e sfarzo, ché era la Locanda del Cacciatore, un’antica dimora costruita dai primi Numenoreani al tempo del loro arrivo nella Terra di Mezzo. Edificata su tre piani, questa struttura si affacciava sulla strada su ciascuno dei lati, affinché fosse visibile a tutti i viaggiatori e ai forestieri da qualunque luogo fossero giunti: la fama della locanda si era diffusa per molte leghe intorno e sotto il suo tetto elfi, uomini e nani coabitavano, uniti dalla passione allegra per il vino e la birra; eppure, perfino in tale ambiente caloroso, rissa e litigi non erano rari, ché i servi di Sauron erano sempre all’opera e non mancavano di prendere alloggio a Brea, allorché il loro padrone stendeva il suo nero artiglio così a nord. Oltre a queste, tuttavia, altre stirpi, ostili al luogotenente di Morgoth, alloggiavano nella locanda la sera in cui Erfea fece il suo ingresso, occultato agli sguardi dei presenti dalla sua pesante cappa e dal fumo cinerino che si levava dai grandi bracieri. Era prossima la festa di Loende e molti viaggiatori erano giunti da contrade remote per prendervi parte: fra costoro, Erfea riconobbe una famiglia di Naugrim provenienti dal Regno sotterraneo di Khazad-Dum; a lungo il Dunedain ne osservò i lineamenti e i gesti, ché da numerosi anni non mirava gli eredi di Durin ed il suo cuore si rallegrava nello scorgere i copricapi a punta che i nani indossano durante i loro viaggi.

Breve fu tuttavia la sua gioia, ché egli intravide uomini di Numenor farsi avanti, diretti al tavolo ove i nani banchettavano: con sgomento ed ira, il Dunedain comprese essere quelli del Partito del Re, adoratori di Sauron e di ogni sua malvagia opera; i suoi avversari però non lo notarono, ché la loro attenzione era rivolta unicamente ai figli di Aule: “Feccia del mondo, alzatevi da quegli scranni! La vostra vista infastidisce i miei occhi e le vostre insulse voci turbano discorsi che le vostre rachitiche menti non possono certo sperare di comprendere. Ho udito non esservi stirpe più resistente della vostra fra quante dimorano in Endor, tuttavia non credo che la mia lama, forgiata nel fuoco di Armenelos, possa mancare alla prova! Avanti, raba[2], preparati a strisciare sul fango e la lordura del pavimento!” Rise fragorosamente, palesando la sua ubriacatura a quanti erano sbigottiti dalla sua presenza; eppure egli non se ne curò, ma avanzò attorniato da altri due Numenoreani Neri, arroganti e infidi.

Il nano guardò freddamente colui che aveva parlato, né si mossero le sue sopracciglia, bianche come candida neve sulle vette del Funhuidad[3]; infine parlò, e la sua voce profonda echeggiò per tutta la fumosa sala: “E’ consuetudine che lo straniero si presenti prima di lanciare la sua sfida. Qual è il tuo nome, Numenoreano? Suvvia sii celere nel rispondere, ché i manici delle asce dei nani recano incisi i nomi delle loro vittime e ben m’avvedo quanto tu abbia fretta nel porre a termine la tua futile esistenza.”

Forte echeggiò il riso dei Numenoreani nella sala, e colui che gli aveva lanciato la sfida, gli si inchinò ironicamente: “Adrahil, figlio di Gimilkhad è il mio nome, raba, ed è con sommo piacere che lo pronuncio, affinché esso sia scolpito con abilità sulla tua tomba, in onore di colui che ti ha privato di un fardello sì inutile.” “Allora Adrahil, figlio di Gimilkhad, sappi che la tua lingua è sì caustica che potrebbe lavare via la ruggine che adombrasse la mia ascia, qualora essa ne fosse ricoperta.” Lesto allora il nano estrasse la sua arma dalla cintola, seguito in questo dai suoi famigliari; tra i nani, infatti, sia i maschi che le femmine sono addestrati all’uso delle armi.

Per un istante Adrahil sembrò esitare, infine levò in alta la sua spada, mentre i suoi compagni estraevano lunghi pugnali: silenzio era sceso nella sala e nessuno pareva avere l’ardire di intervenire. I nani più anziani si strinsero attorno a coloro che non erano ancora in grado di impugnare l’ascia: rise ancora Adrahil, mentre il suo sguardo cadeva sulle piccole figure che la fioca luce delle lampade illuminava appena. “Lavoreranno bene costoro, quando l’acciaio di Numenor avrà incatenato loro mani e piedi.” Levò il braccio, pronto a vibrare il colpo, allorché un lancinante dolore gli attraversò il fianco, mentre un pugnale gli sibilava accanto; furente si tastò la ferita, imprecando e giurando atroce vendetta contro chiunque avesse osato intromettersi nel suo duello. Un uomo alto si levò dal proprio scranno, mentre la folla, incuriosita, gli si apriva innanzi: “Straniero, chiunque tu sia, pagherai con la morte un simile oltraggio. Adrahil di Numenor non può tollerare che un cencioso mendicante, avvolto in stracci e lordura, possa sfiorare le mie carni con un’arma sì vile.” Lo straniero lo osservò, e nel suo sguardo baluginava l’acciaio: “Numenoreano di Armenelos, non è per viltà che la vita si agita ancora in te. Mandos avrebbe potuto accogliere sdegnato il tuo spirito, se lo avessi voluto, tuttavia non adoro la Morte e non distribuisco i suoi giudizi imparziali quando non sia necessario farlo.” I compagni di Adrahil lo osservarono timorosi e uno fra quelli sussurrò oscure parole di ammonimento all’orecchio del suo capitano; questi tuttavia lo respinse con forza e perso ogni interesse nei confronti degli eredi di Durin, voltò loro le spalle, concentrando la propria attenzione sull’alta figura che si ergeva innanzi a lui: giovane pareva eppure la voce che aveva ascoltato sembrava provenire dall’eco di numerosi anni di solitudine e da grandiose fatiche. Nulla era visibile del suo volto, coperto da una logora cappa, decorata da ricami ora sbiaditi ed illeggibili; il suo sembiante non pareva differente da quello di numerosi profughi che in quei giorni fuggivano dall’Oriente devastato dalla guerra, eppure i suoi occhi grigi come la spuma marina brillavano profondi e severi nella caliginosa fuliggine che adombrava il salone.

A lungo Adrahil sostenne lo sguardo dello straniero, infine stanco ed irritato, così gli si rivolse: “Sembri saggio e risoluto, straniero! Forse sei davvero un grande guerriero o invece solo un mendicante imprudente; temo tuttavia che non abbia alcuna importanza.” Egli fece allora un cenno ai suoi compagni, affinché si lanciassero contro l’uomo, ma questi, con una rapidità sorprendente, aprì il logoro manto, lasciandolo cadere disteso lungo il pavimento; un orribile grido elevarono quelli ed esitarono, profondamente turbati: finanche Adrahil abbassò la sua lama, ché mai aveva veduto un simile uomo prima di allora. Un elmo alato, forgiato nel mithril, adornato da due pennacchi intrecciati nelle bianche penne degli uccelli marini, copriva il suo capo, mentre lunghi capelli neri scendevano fino alle forti spalle, lambendo una preziosa cotta di maglia in galvorn[4], la cui lucentezza era tale da essere rischiarata finanche dalle fioche luci della locanda. Schinieri affusolati e lucidi bracciali ne adornavano gambe e braccia, mentre al suo fianco pendeva una lunga lama, la cui elsa era scolpita nel laen azzurro e intarsiata da ithildin; un ampio mantello di nobile fattura, differente dalla stinta cappa di cui si era fino a quel momento ricoperto gli pendeva sulle spalle: un grazioso fermaglio di fattura elfica lo cingeva all’altezza del sottile collo.

A lungo lo stupore sembrò echeggiare muto nella sala, infine il capitano dei Numenoreani sorrise sprezzante e gli si inchinò beffardo: “Ben m’avvedo di mirare le fattezze di un signore degli elfi. Troppo preziose e possenti sembrano le tue armi, tali che nessun mortale potrebbe procurarsene di simili. Tuttavia, la mia stirpe denigra gli Eldar non meno dei Naugrim! Pagherai con la tua morte la tua stolta intromissione!” Allora cristallino echeggiò il riso dello straniero nel vasto salone: “Elmo forgiato a Minas Laure, cotta di maglia e spada provenienti dall’obliata Gondolin, manto, pegno d’amore della remota Edhellond, schinieri e bracciali donati dalle genti di Belegost e destriero proveniente dalle steppe del Rhovanion. No Adrahil, non sono un signore degli elfi ma un erede dei principi di Numenor.” Estratta la lunga spada, la cui lama baluginava di riflessi azzurri, pronunciò tali parole di sfida, e tutti coloro che gli furono accanto riconobbero la maestà dei Dunedain dell’Ovesturia: “Mira questa lama, figlio di Gimilkhad, ché essa è nota a coloro che servono Ar-Pharazon il Dorato! Sulring, forgiata a Gondolin da Galdor, fabbro del re è il suo nome!” Nuovo timore ed apprensione crebbero nei cuori dei Numenoreani Neri, ché invero possente e determinato pareva l’uomo che si ergeva dinanzi a loro ed essi non osavano avvicinarsi, temendo sopra ogni altra cosa la lucentezza della lama. A lungo essi rimembrano quanto avevano appreso sui Nimruzirim[5], le genti di stirpe adunaica alleate agli elfi ed avversari del re e del suo partito; infine, uno fra questi, il cui nome era Aghabad, si approssimò ad Adrahil e gli sussurrò parole colme di rancore e di timore: grande fu l’ira che avvampò nell’animo del Numenoreano ed egli pregustò il dolce nettare della vittoria: “I miei uomini affermano che il tuo nome, straniero, è invero noto al sovrano di Anadune[6]; ben comprendo ora per quale motivo ti sia immischiato nei nostri affari, ché lungo è il tuo braccio e insolente la tua mente. Fuorilegge ed esiliato da Numenor, è qui ora, innanzi a me, Erfea figlio di Gilnar, che i suoi amici chiamano il Morluin: non è forse questo il tuo nome? Quanto agli affari che hanno condotto i tuoi piedi lontano dagli osceni tuguri degli elfi, non ho motivo di dubitare che siano i medesimi che ti procurarono un tempo grande e meritata infamia! Tale è la tua curiosità, da spingerti finanche nei domini imperiali e da mostrare il tuo volto sì impunemente ai tuoi esecutori mortali.”

Rise il capitano di Numenor, infine pronunciò parole di scherno: “Lunghi giorni hai trascorso ad Edhellond la Bella! Ebbene, la tua testa compirà ora un ultimo viaggio verso il porto elfico, affinché sia di monito per tutti coloro che sostengono scioccamente la tua causa.”.

Inchinatosi rapidamente, così Erfea gli rispose: “Ben m’avvedo che gli schiavi di Ar-Pharazon non abbiano obliato né il mio nome, né il mio sembiante! Tuttavia hanno esitato troppo lungo e non osano levare un colpo contro un uomo solo. Ahimè, Adrahil, avresti trascorso un’esistenza più serena se fossi rimasto seduto accanto al trono dorato del tuo padrone, colmando le sue orecchie di sciocche illazioni e sorseggiando del buon vino.” Tacque un attimo, infine, osservata la lama che il suo avversario stringeva nel suo fragile pugno, lo derise apertamente: “Mai avrei creduto che i fabbri di Armenelos avessero obliato l’antica arte di forgiare spade, tuttavia ben m’avvedo quanto le corrotti arti dell’Oscuro Signore, al quale dedicate sommi sacrifici, non si limitino a sussurrare il veleno nelle orecchie di chi gli ha prestato stoltamente ascolto, ché ben più simile ad una lama di orchi delle caverne è la spada che impugni Adrahil, figlio di Gimilkhad.” Cieca scese allora la furia sugli occhi del Numenoreano Nero ed egli si scagliò contro il suo avversario, pronunciando parole ingiuriose, ma Sulring fu più rapida della sua favella, ché mandò in frantumi la sua spada, troncandogli di netto la mano destra. Gemendo per il dolore e la vergogna, Adrahil cadde in ginocchio, attendendo il colpo di grazia, ma Erfea si limitò a pronunciare simili parole di condanna: “I servi di Sauron temono la morte nelle sue innumerevoli sembianze, ed a esse innalzano pire fumanti di incenso e obelischi di porpora adorni; i popoli liberi non paventano l’ultimo respiro e rispettano le altrui esistenze, quando le proprie non siano minacciate dalla follia di quanti si nutrono della propria arroganza e delle altrui lacrime: va’ ora e non insudiciare il pavimento con il tuo sangue corrotto.” Furente ed inferocito, Adrahil avrebbe affrontato nuovamente il suo avversario, tuttavia venne trattenuto dai suoi uomini che lo trascinarono fuori, ed essi non turbarono più la tranquillità di Brea.

Dipartiti gli sgraditi ospiti, la gente tornò ai propri posti, conscia di quanto i loro occhi erano stati testimoni quel giorno. Profondamente grato, il nano più anziano si inchinò ad Erfea il quale, preso posto su un basso sgabello, puliva la sua lama dall’umore nero che l’aduggiava: “Nessun figlio di Aule hai mai obliato un oltraggio o un favore che gli sia stato arrecato nel corso della sua lunga esistenza. Invero, figlio di Gilnar, il tuo nome è noto alle genti di Khazad-Dum ed esse lo onorano, ché sono innumerevoli i servi di Sauron che hai abbattuto nel corso delle tue peregrinazioni.” Lesto allora si inchinò Erfea e con liete parole si assicurò che nessuno tra i suoi famigliari fosse stato turbato dai Numenoreani Neri, ma il nano lo rincuorò con allegre risate: “Non temere, Erfea Morluin! Invero le parole pronunciate da Adrahil figlio di Gimilkhad sono veritiere, ché forte e leale è la tempra dei nani, ed essi non temono né le fiamme selvagge né il gelo costrittore. Bòr, figlio di Dwarim è il mio nome, signore dei nani di Durin III, e Naug Thalion sono chiamato in lingua sindarin.” Lesti, allora, i suoi famigliari porsero omaggio all’alto Dunedan e mentre questi si inchinava dinanzi a loro profondamente, lo salutarono con grande deferenza, ponendo al suo servizio le proprie famiglie, secondo le consuetudini del popolo di Durin; infine, non appena Erfea ebbe ricambiato la medesima cortesia nei confronti di ognuno di loro, Naug Thalion esortò il Dunedan a seguirlo, ché grandi rivelazioni aveva da comunicargli; giunti in una sala appartata, l’anziano nano emise un profondo sospiro, infine parlò con voce bassa e profonda: “Da tempo desideravo mirare nuovamente le sembianze di Erfea, figlio di Gilnar, ché nel mio cuore non è svanito il ricordo di una notte di Loende di molti anni fa. Un giovane uomo eri allora, Erfea, chiamato adesso il Morluin, ma la tua lungimiranza era tale che pochi fra coloro che sedevano al consiglio dello Scettro esprimevano pareri più arguti dell’erede degli Hyarrostar; una dama di indicibile bellezza sedeva accanto a te, ed entrambi discorrevate piacevolmente, ché letizia era nei vostri occhi ed ella era erede al trono di Numenor: Miriel la Bella era il suo nome, e mai il ricordo delle sue chiome intessute nell’oro svanirà dal mio cuore, ché esso squarcia la tenebra intessuta di paura ed inganni che altrimenti attanaglierebbe il mio animo”.

Stupefatto lo osservò Erfea, mentre il nano discorreva in tal modo e un’ombra parve oscurare il suo animo quando il nome della sua antica e dolce amica fu pronunciato; tuttavia, sorrise, allorché Naug Thalion ebbe terminato il suo racconto: “Tutto quanto hai narrato avveniva molti anni fa; adesso, tuttavia, ti riconosco, figlio di Dwarim! Invero l’oblio questa sera regnava nel mio cuore, se il tuo nome era suonato estraneo alle mie orecchie; eppure molti eventi hanno turbato il mio animo negli ultimi tempi e alcuni fra coloro che un tempo gioivano, ora hanno voce muta. Gli echi delle forge di Mordor disturbano il mio sonno e innumerevoli sono gli eserciti che si accampano nell’oscurità che avvolge le tetre pianure di Mordor.”

A lungo il nano fissò il Dunedan, infine le sue parole risuonarono chiare e decise nella piccola stanza: “Naug Thalion sono chiamato, ché invero la forza del mio braccio in innumerevoli occasioni è stata messa alla prova dalle battaglie tra le nostre schiere e i servi dell’Avversario. Non desidero – concluse bellicoso – non desidero che il laido artiglio di Mordor ricopra di fetore e morte le aule della mia città.” “Eppure, l’ora in cui lo scontro finale avverrà è prossimo e tosto dovremo far fronte all’oscurità dilagante. Sebbene Numenor sia ormai caduta, il seme degli uomini non è ancora avvizzito ed i suoi petali giungeranno dall’Oceano su fragili vascelli in preda all’ira degli dei: allora l’ora del confronto giungerà. Sarà lesta la tua ascia quando gli Spettri dell’Anello giungeranno invadenti?”

“Ben poche sono le verità di cui gli animi dei mortali si nutrono, eppure se il chiaro albeggiare dovesse morire prima della pugna, mai vedrai Naug Thalion e il suo popolo tradire l’antica alleanza stretta tra i Popoli Liberi all’albore dei tempi.” Silenzioso fu stretto in tale circostanza un patto fra i Dunedain e i Khazad[1],  e in virtù di questo, le armate dei nani delle casate di Belegost e Khazad-Dum, combatterono nelle pianure dinanzi a Mordor; tuttavia, poiché altrove vengono narrate le cronache di quei lontani giorni, qui non se ne trova altra traccia».

Note

[1] “Primavera” nella favella degli Elfi Grigi.

[2] “Cane” in adunaico: in origine tale favella era parlata dalla terza delle case degli Edain, ma tosto si diffuse a Numenor, divenendo in seguito la lingua degli “Uomini del Re”, i Numenoreani Neri.

[3] Una delle tre vette delle Montagne Nebbiose sovrastanti gli scavi di Khazad-Dum.

[4] Lega metallica costituita da eog, mithril e titanio.

[5] I “Fedeli” in lingua adunaica.

[6] “Numenor” in lingua adunaica.

[7] I “Nani” in lingua Khuzdul.

Ritratti

In questa giornata nella quale riesco a condividere con Tolkien qualcosa in più rispetto alla passione per la Terra di Mezzo, mi piace mostrare ai miei lettori i bellissimi ritratti di Erfea e Miriel disegnati dallo storico disegnatore di fantasy Angelo Montanini, attualmente insegnante presso l’Istituto Europeo di Design di Milano e già autore di stupende illustrazioni per la casa editrice Stratelibri, specializzata in libri-game e giochi di ruolo ambientati nella Terra di Mezzo, fra i quali GiRSA e Rolemaster.

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