Nascita di una stella fredda

Quella che segue è la terza versione del «Racconto del Marinaio e della Mezzelfa», che potrete leggere nella sua versione approfondita nei seguenti articoli: Il nemico del mio nemico…è mio nemico; L’assedio di Edhellond; I dubbi di una scelta difficile: Elwen, Morwin ed Erfea. Come scritto in precedenza, si tratta di una versione diversa dalle altre: sono del tutto assenti, infatti, il linguaggio e i temi epici che solitamente caratterizzano i miei racconti. Si tratta, in effetti, di una rielaborazione in chiave «intimistica» degli eventi e dei pensieri che turbarono Elwen subito dopo la riappacificazione con Erfea. È un racconto – incompleto – che tenta di far luce sul carattere e sulle scelte intreprese dalla bella mezzelfa e sul suo tormentato rapporto con Erfea e Morwin.

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«Le ombre della notte non si erano ancora dileguate quando la mezzelfa si destò dal suo irrequieto sonno. Stupita, battè leggermente le palpebre, mentre la mano, istintivamente, cercava il corpo dell’uomo che, la sera precedente, si era addormentato accanto a lei.

Il letto era freddo. Si poteva indovinare, tuttavia, dalle increspate impronte che i suoi muscoli avevano impresso sulle bianche lenzuola, ove avesse disteso il suo corpo quella notte. La mezzelfa lasciò scorrere la mano, ancora per qualche minuto, sul guanciale accanto al suo, immersa in un profondo silenzio, meditando su quella unica parola che, durante la notte, aveva squarciato il velo oscuro che era calato sui loro visi.

Adesso era del tutto desta; con la naturale grazia tipica della sua stirpe, afferrò una vestaglia in seta bianca che la sera precedente aveva ripiegato con cura lungo lo schienale di uno scranno di ebano nero e si mosse verso una piccola finestra che dava ad oriente.

Fuori, albeggiava lentamente, quasi che Arien non avesse avuto alcuna intenzione di sorgere sul mondo. Era quell’ora in cui tenebra e luce si incontrano, partorendo larve che le menti dei figli di Iluvatar temono o perchè atterriti dalla loro presenza, o perchè bramosi di ottenerle senza alcuna speme.

Ella era una mezzelfa nel fiore degli anni, di una bellezza quale ogni bardo desiderebbe cantare, salvo venire meno all’impegno preso, allorché avesse scorto il suo sembiante ergersi in tutta la sua splendente grazia. Ricordò che sua madre, un tempo, le aveva raccomandato di occultare il suo volto con un lungo velo bianco, per tema che gli occhi degli uomini e degli elfi fossero sconvolti da tale beltà; ella non aveva mai seguito questo saggio ammonimento, avendo avuto, al contrario, cura di esporre il suo viso in pubblico, convinta com’era che la luce potesse solo riscaldare i cuori ed illuminare le menti, senza che questa potesse arrecare alcuna sofferenza ai figli di Iluvatar.

Egli, invece, era la tenebra. Era giunto sulla spiaggia di Edhellond sette anni prima, ricoperto di alghe e con la pelle scura incrostata da sale e sabbia. Gli abiti nobili che un tempo indossava erano stati dilaniati dalla furia di Ulmo ed a malapena era riuscito a salvare dai flutti una lama come i Primogeniti erano soliti forgiare nei secoli precedenti il sorgere del primo sole dell’era nella quale avevano avuto in sorte di nascere. Ai pescatori che erano accorsi in suo aiuto, lo straniero aveva narrato di essere giunto a quella contrada in seguito ad un fortunale che si era abbattutto sulla sua nave. Non aveva denaro con sè, nè amici o patria sulla quale vantare i propri domini: tuttavia, gli elfi più anziani, coloro che in tempi antichi si erano recati nell’Ovesturia, ora sommersa dalle acque del tempestoso oceano, per ascoltare i canti che colà si udivano all’ora del vespro, presero a mormorare, dapprima negli oscuri recessi delle proprie dimore, poi nelle pubbliche piazze, che il naufrago portava impressi sul volto i lineamenti degli Uomini del Mare, i Numenoreani. Un marinaio che era stato alla corte di Gil-Galad negli anni precedenti la venuta dello straniero, infine lo riconobbe e lo chiamò con il suo nome: tra l’incredulità e lo stupore generali, tuttavia, l’uomo, pur senza disdegnare i referenti appellativi che gli erano stati rivolti, non volle accettare alcun inchino da parte di coloro che gli erano tutt’intorno; al contrario, quasi avesse avuto disagio nell’abitare presso di loro, aveva accettato con gratitudine l’offerta di occupare una minuscola dimora, prossima all’Oceano, ove, egli diceva, non avrebbe recato fastidio ad alcuno, uomo od elfo che fosse. Trascorsero alcuni giorni prima che l’uomo facesse ritorno alla città di sire Morwin, eppure non si tratteneva a lungo nei suoi bianchi vicoli, ove la luce del sole amoreggiava con la chiara pietra con la quale erano stati edificati torri e minareti, terrazze e bastioni, preferendo di gran lunga oltrepassare i suoi cancelli quando calava l’oscurità: questa attutiva l’eco dei suoi pesanti passi, smorzava la sua profonda voce e, finanche, allontanava il suo ricordo dalle menti e dai cuori di coloro che, per sorte o per libera scelta, discorrevano con lui. Era la Tenebra; e come la sua Signora, non poneva alcuna domanda, eppure ascoltava le parole che, elfi ed uomini, gli rivolgevano, esitanti, nel cuore della notte.

Arrestò, per un istante, il flusso dei ricordi. Avvertì la forte aura dell’uomo nella stanza accanto a quella ove lei si attardava rimembrando episodi del passato. Inspirò profondamente. Egli, dunque, non si era allontanato dalla sua città. Non ancora.

Ne fu rasserenata.

In passato, quando il nome del forestiero giunto dal mare risuonava alle sue orecchie oscuro quanto la tenebra che striscia dalle Montagne Bianche, ella non avrebbe tollerato quanto era accaduto quella mattina. In fondo, era una mezzelfa che aveva scelto il destino dei Primogeniti. La linearità, l’eternità del domani, l’avversione al cambiamento: queste erano le ragioni che l’avevano spinta a rinunciare alla sua mortalità, non altro. Detestava il fragile mondo degli uomini, intento a ricorrere le folli chimere suscitate dagli oscuri poteri che erano sorti a levante, avvizzito entro fragile mura dalle quali, alte, si levavano le grida folli. Questi erano gli uomini, così come ella avrebbe potuto definirli sino a pochi anni fa. Gli uomini sprezzanti di ogni legame; gli uomini vogliosi di accrescere le proprie brame a scapito delle altre creature di Arda; gli uomini, violenti e fedifraghi.

Perchè, dunque, condivideva il suo talamo con un uomo?

Il suo sposo, se fosse stato presente, non l’avrebbe compresa, né sarebbe giunto a giustificare un simile tradimento. Conosceva l’uomo, così come gli altri elfi della sua casata; eppure, non avrebbe smesso di detestarlo, e quanto era accaduto in sua assenza, certo non avrebbe contribuito a riappacificarlo con la stirpe dei Secondogeniti. Non v’era, apparentemente, alcuna ragione che potesse avallare il suo comportamento; in quanto elfa signora della sua città, ella aveva commesso peccato tre volte: dinanzi a se stessa, dinanzi al suo sposo e dinanzi al suo popolo. La sua coscienza, secondo il parere dei dotti fra il suo popolo, era stata ora macchiata da una colpa sì grave per la quale l’esilio sarebbe stata una pena necessaria per riportare l’ordine nella bianca città. Il cerchio, entro il quale i Primogeniti si erano rinchiusi dopo la rinuncia al loro dominio sul mondo, doveva essere ripristinato, pena la distruzione dell’ordine entro il quale le loro leggi avevano valore.

Ella era cosciente di aver infranto la legge e di aver rinnegato la sua natura di elfa.

Il cerchio era stato infranto con troppa veemenenza perchè qualunque legge, pena o rinuncia potesse ripristinarne l’antica forma. La luce che splendeva nel suo cuore era stata corrotta dalla tenebra che l’uomo aveva recato con sè, provenendo da abissi remoti e senza nome.

No.

Per lungo tempo si era ingannata.

La sua luce, di cui andava così fiera da esporla come vessillo della sua grazia e della sua beltà, non era altro che un pallido riflesso della luminosità che splendeva negli occhi dell’uomo giunto dal mare.

Ripensò a giorni lontani.

Con le arti che le erano congenite l’aveva sedotto, legandolo al suo destino di giovane fanciulla, resa inquieta da una profezia lontana, che risaliva ai primi anni della sua vita, quando ancora la madre risiedeva in città e non aveva oltrepassato il mare. Per i suoi disegni, l’uomo rappresentava null’altro che un tramite verso il più profondo disio che ancora riuscisse ad ancorarla al mondo dei miseri mortali: le vaste distese oceaniche il suo cuore ambiva, non potendole possedere come qualsiasi altra brama la sua anima avesse desiderato soddisfare. Disprezzava l’uomo che aveva costruito il proprio eremo lontano dalla civiltà e dai ricordi che le erano cari: pur essendo null’altro che una minuscola ombra, vagante in compagnia delle sue sorelle generate dalla notte, ella non poteva fare a meno di notare come fosse attratta dalla remota pace che era in lui. Elfi possenti, il cui lignaggio nessuno avrebbe potuto mettere in discussione, le avevano chiesto invano non già la mano – un privilegio al quale ambivano inutilmente da diversi anni – ma finanche il semplice piacere della sua compagnia: ella, tuttavia, aveva sempre disdegnato tali proposte, non perché non fosse insensibile al loro corteggiamento, ma perchè riteneva che avrebbero potuto spezzare il delicato – eppure, quanto forte le era sembrato in quei giorni! – equilibrio sul quale poggiava la propria esistenza. Non desiderava condividere la propria vita con alcuno che non gli paresse degno: ed ella mostrava sarcasmo ogni qual volta la madre, desiderosa di congedarsi da lei salutandola con quell’appellativo che per innumerevoli anni era stato il suo e di tutte le elfe della sua stirpe, la pregava di mutare parere. Non erano che ombre di una virtù ben più grande, le parole che le erano rivolte da signori elfici cortesi nei modi ed eleganti nell’eloquio; eppure, allorché essi avevano in sorte di potere discorrere con lei, frustati facevano ritorno alle loro dimore, non già perchè inefficaci si erano rivelate le parole con le quali si erano presentati davanti al suo uscio, ma perchè senso di inadeguatezza provavano nei loro cuori e ne erano turbati ed atterriti. L’armonia sulla quale si reggevano le loro vite era sul punto di andare in frantumi: ma avrebbero, essi, accettato di rinunciare alle antiche leggi dei loro padri per ottenere quanto non erano in grado di confessare neppure a loro stessi, per tema di scorgere ferite all’interno del proprio cuore? Non lo erano: sicché, dopo qualche tempo, essi smisero di offrire i propri omaggi alla fanciulla impertinente che si burlava, a loro dire, di ogni eloquenza e creanza, e presero ad allontanarsi dalla sua dimora».

Il nemico del mio nemico…è mio nemico

Un vecchio adagio recita: «il nemico del mio nemico è mio amico», ma spesso la realtà si dimostra molto più complessa rispetto ai detti popolari…come impareranno a loro spese Erfea e Morwin, protagonisti della terza ed ultima parte del racconto «Il Marinaio e la Mezzelfa». Vi ricordo che potrete leggere le prime due parti di questo racconto all’interno di questi due articoli: I dubbi di una scelta difficile: Elwen, Morwin ed Erfea e L’assedio di Edhellond

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«Eppure silenzioso era il mondo posto tutto intorno a loro, ché nubi gravide di sventure si addensavano su Edhellond, e il Signore degli stregoni covava vendetta nei tetri meandri di Barad-Dur, furente per la sconfitta subita.

Quando notizie figlie di gravi sventure giunsero infine alla città degli Elfi, il cuore di Erfea tremò, ché gli parve inutile attendere la marea nera chiuso nella sua roccaforte. Numerosi pensieri allora elaborò la sua lungimirante mente, e sovente ne faceva parola con Elwen, ché teneva il suo parere in gran conto, stimolandolo di gran lunga superiore a quello di molti capitani della sua stirpe; allorchè giunse il momento di partire, egli si congedò con parole affettuose dalla sua amata: “Mia signora, il fato mi chiama ad altre imprese e vedo già il mio sentiero attraversare ardue difficoltà e orrori indescrivibili. Tuttavia, fin quando il mio compito non sarà terminato e la Primavera non spargerà benedette le sue lacrime sui nostri vittoriosi visi, mi attenderai tu dinanzi al cancello?”

“Soffierà il terrore e ruggirà lo spavento, eppure il mio cuore resterà qui, saldo come quello dei gabbiani durante le traversate invernali: sicuro sarà il giorno fin quando la tua lama splenderà tra le remote tenebre”.

“E allora festosa sarà la scura notte, fin quando chiare le stelle si specchieranno nei tuoi grigi occhi”. Tale fu il loro ultimo saluto, ed Elwen a lungo lo pianse, ché sebbene fosse una fiera fanciulla, pure il suo cuore non resse a tale dolore e silenziosa si recò nella sua stanza, e tale rimase per molti giorni a venire. Naturalmente, questo comportamento attirò l’attenzione di Morwin, non appena questi fu di ritorno a Edhellond, avendo egli combattuto eserciti di Sauron in remote terre[1]. A stento il capitano riconobbe la sua sposa, ché solo in seguito fu informato della visita di Erfea; tuttavia, essendo egli signore tra gli Eldar, nutrì il sospetto che in qualche modo Elwen fosse stata oltraggiata.

Infine, stanco di quel silenzio, e informatosi su quanto era realmente accaduto il sire di Edhellond si recò nella bianca dimora di Elwen: “Mia signora, davvero ingrata sarebbe la dama che non nutrisse sentimenti di riconoscenza verso colui che le ha salvato la vita nell’ora della morte. Tuttavia, tale è il corso del mondo, che facilmente i sentimenti mutano forma e sostanza, confondendo finanche le menti più argute”. Lesta fu la risposta di Elwen: “Non capisco cosa tu voglia dire, Morwin di Edhellond, ma senza dubbio la fortuna dimostra di possedere grande vigore se continua ad assisterti. Tuttavia io credo che altre siano le accuse celate dal tuo formalismo, ché non vi è dubbio o incertezza, quando una dama è presa da passione”. Stupore comparve allora sul viso di Morwin: “Non comprendo il segreto valore delle parole che sgorgano dal tuo animo, tuttavia vedo bene quanto Erfea Morluin sia il responsabile di tale repentino cambiamento d’umore; ebbene una parola sola non aggiungerò, finche tale sarà il tuo comportamento nei miei confronti”. Elwen non rispose, ché lungi il suo pensiero vagava, all’Occidente tempestoso[2] dove infine Erfea l’avrebbe condotta, non appena la sua missione fosse stata portata a buon termine.

Invero difficile era il cammino che il condottiero di Numenor si accingeva a percorrere, essendo giunto alla grande fortezza di Umbar, capitale delle colonie Numenoreane poste sulle coste di Endor: degli Uomini del Re era la fortezza e da tempo ai Fedeli ne era negato l’accesso. Tuttavia, Erfea riuscì ad entrarvi, a costo di grandi fatiche, ché egli era uomo dotato di grande forza e di possenti arti magiche, apprese durante la sua giovinezza. A lungo allora esplorò la possente guarnigione, scoprendo numerosi gli inganni di Sauron, che in quella città aveva da tempo calato la sua cupa mano. Infine, ad Erfea parve di scorgere, remota eppure chiara, la figura di un uomo o di un elfo che sembrava avvicinarsi sempre più; grande fu allora il suo stupore, ché era Morwin per cui nutriva profonda avversione.

A lungo essi si osservarono, poi il sire di Edhellond prese la parola: “Sorpreso sono nel vedere la tua bianca rosa in tali contrade, abitate solo dalla paura e dal terrore; tuttavia questa non è arte del subdolo nemico, ché davanti a me ho Erfea Morluin, l’indecoroso amante della mia sposa”.

“Dure parole le mie orecchie ascoltano – gli rispose Erfea – ché esse sono l’eco di ben altri pensieri, più neri e foschi di quelli di che una volta concepivi. Invero difficile è conquistare l’amore di una fanciulla con l’odio e con la vendetta, signore di Edhellond”.

Furente divenne allora Morwin, il quale per tutta reazione estrasse la sua lunga lama dal nero fodero: “Arrogante e infida è la tua favella; non sei degno di Elwen, esule assassino. Troppo a lungo ho arrestato la mia mano, tuttavia giunto è finalmente il momento della vendetta”.

Iniziando stava dunque il duello e gli animi dei due guerrieri, resi forti da anni di dure battaglie, già iniziavano a bruciare come le betulle nella calda estate, quando ad un tratto, cogliendo impreparati i due duellanti, lesta come il corvo nella nebbia serale, così giunse Adunaphel, potente fra i Nazgul, e il fato, che dapprima intendeva separare i due capitani, li riunì in una disperata lotta per la vita.

Adunaphel, tuttavia, si faceva beffa dei suoi nemici, ché era certa della vittoria; tali erano i suoi poteri, infatti, che ben pochi avrebbero avuto il coraggio di affrontarla in duello. Si narrava che fosse stata la più abile spadaccina di tutti i tempi e che avesse ricevuto un’educazione militare molto rigida, simile a quella di molti capitani; cresciuta come un guerriero, dunque, Adunaphel aveva poi appreso le arti magiche della guerra, subendo il fascino perverso della negromanzia esercitata da Sauron in persona, il quale le aveva affidato uno degli anelli degli uomini, promettendole l’immortalità, se avesse accettato di consegnarli l’anima. Possente era la forza di Adunaphel il Nazgul, e mai ella era dovuta intervenire di persona per sedare un duello in corso nella sua città; ché Umbar, sebbene fosse formalmente un dominio del re, e come tale governato da un suo funzionario, in realtà era feudo di Sauron, teatro di spaventose magie. Ivi Adunaphel aveva stabilito il suo dominio, celando il proprio potere e la propria natura sotto mentite spoglie, ché era esperta nel mutare forma; una fanciulla, curiosa e vivace, ma pur sempre innocua, appariva agli occhi dei profani, ché ben di rado gli uomini indovinavano quale fosse la sua vera essenza, incapaci com’erano di sostenere il potere della sua mente corrotta. Da tempo, ormai, il Nazgul sia aggirava tra le corti della sua città, presenza inquieta e tuttavia ben più pericolosa di quanto la sua apparente natura non lasciasse intendere: quali oscuri pensieri concepisse, mai nessuno mortale riuscì a comprendere, operando ella come serva di Sauron e non già come sua avversaria; tutto quanto Adunaphel faceva, intrigo o magia, era ispirato dalla volontà di Sauron, a cui aveva ceduto la propria libertà. Mortale era il suo sguardo e gli uomini lungimiranti lo evitavano accuratamente; sovente i suoi stessi servi, gente infida e scaltra, non osavano guardarla in viso, tanto era il terrore che accompagnava ogni sua manifestazione. Sauron, da parte sua, era invero soddisfatto di una tale servitrice, che gli pareva l’unica in grado di lacerare l’animo degli uomini, laddove essi risultavano più deboli; molti segreti, in tal modo, la sua mente avvizzita fu in grado di apprendere, e grande fu la sua preoccupazione quando capì che il suo mortale nemico, Erfea, si apprestava ad entrare nel suo dominio.

Non appena ella ebbe comunicato tale notizia al suo padrone, ricevette l’ordine di rimanere guardinga, nell’attesa che il Signore dei Nazgul giungesse ad Umbar, portando con sé tutti gli altri Ulairi. La dama Numenoreana, tuttavia, aveva preferito attendere Erfea nella propria roccaforte, lasciandogli l’illusione di avere libero accesso ai più oscuri segreti della città, allo scopo di tendergli una trappola che mai il capitano di Numenor, per potente che fosse, avrebbe potuto evitare.

Spie di Mordor avevano altresì avvertito il Settimo dei Nazgul dell’immanente arrivo di Morwin alla città di Umbar, e grande era stata la gioia di Adunaphel, quando questa missiva le era stata comunicata: “Tale è il loro ardire, che senza dubbio essi oseranno addentrarsi nei meandri di Umbar, sicuri che Sauron sia ancora distante, e che nessuno controlli il loro operato. Grande dunque sarà la sorpresa e lo sgomento, quando la verità sarà loro manifesta!” Tali erano i pensieri di Adunaphel, e tale era anche il volere di Sauron che ogni sua azione ispirava. Tuttavia, deludendo le aspettative dell’Oscuro Signore, né Erfea, né Morwin le si prostrarono tremanti; al contrario la resistenza che entrambi opposero al Nazgul e ai suoi servi fu tale che alla conclusione dello scontro risultarono vincitori, sconfiggendo le speranze di Mordor.

Tre volte Adunaphel chiamò sé gli schiavi di Sauron, orchi e altre abominevoli creature della notte; e per tre volte Erfea e Morwin scagliarono oltre i cancelli del nulla le orde delle tenebre. Infine, stanca di quel combattimento, Adunaphel in persona accettò di sfidare la possanza e la forza dei due capitani, e in primo momento le sembrò di aver scelto il momento opportuno; tale era, infatti, la stanchezza dei due capitani, che il perfido servo dell’Anello fu vicino ad ottenere una vittoria che per l’elfo e per l’uomo avrebbe significato la morte certa. Tuttavia, proprio quando le speranze dei due capitani sembravano non trovare riscontro nella realtà, e l’ora della sconfitta si avvicinava sempre più, allora possente si levò il vento dell’Ovest: esso riscaldò l’aria tutto intorno, messaggero del glorioso sole, che si apprestava a prendere possesso del mondo. Grande fu l’ira della sgomenta Adunaphel, la quale non seppe opporre resistenza a un tale potere, fuggendo al di là dei brumosi monti, fin quando la sua corsa rovinosa non l’ebbe condotta a Barad-Dur, dove Anor mai sarebbe giunto a sfidarla.

Tale fu dunque la conclusione di uno scontro inaspettato, e sebbene sia Morwin che Erfea fossero risultati vincitori, liberando per qualche tempo la città di Umbar dalla lordura dei servi di Sauron, tuttavia Adunaphel sopravvisse, ombra schiava dell’oscurità, fin quando il suo padrone non venne privato dell’anello, molti secoli al di là a venire, ed ella scomparve, scagliata al di fuori dei cancelli del mondo.

Esauritesi le ostilità e sopraggiunta una pesante stanchezza, i due duellanti, Erfea Morluin di Numenor e sire Morwin di Edhellond, presero a fissarsi negli occhi, ciascuno appoggiandosi alla propria spada: “Invero è strano il nostro destino, se io, da sempre acerrimo avversario della vostra stirpe, ora sono in debito con un suo capitano! Vi è dunque qualcosa che comprendere non si possa, remota all’orizzonte e pur sempre vigile? Eppure, tale è la sapienza e la conoscenza di noi Noldor, che tale entità presto si sarebbe rivelata in tutta la sua forza. Qual è dunque la verità?”

Lenta fu la risposta di Erfea, che in tali termini si espresse: “Non confondere scienza con conoscenza, erudizione con sapienza! A te, capitano degli Eldar, posso rivelare solo questo: ben poco ci è dato di conoscere sulla nostra sorte, che attende i nostri spiriti quando la morte ci strappa al dolce tepore della vita. Tuttavia, io non credo che i nostri destini si siano incrociati in questo frangente per un puro caso. Vi è forse un potere che muove le nostre azioni, secondo un suo disegno ben preciso, del quale io, pur conoscendo in parte i contenuti, ignoro però le forme. Certo, differente dal nostro è il credo degli Eldar, essendo la loro sorte intrecciata con quella dell’intero creato”.

“Sagge sono le tue parole, principe dei Numenoreani. Tuttavia, non credere che Morwin abbia dimenticato il suo antico rancore, ché una grave colpa è posta sulle tue spalle e lieto mai sarà il tuo destino”. Erfea però, non lasciò trapelare nessuna emozione, e impassibile in volto, si accinse a rispondergli: “È probabile che io debba penare ancora a lungo; tuttavia, sebbene non desideri un simile avvenire, tale è il destino di colui che liberamente decide di assumersi determinate responsabilità. Potrai fuggire, Morwin, eppure esse ti inseguiranno ovunque tu diriga i tuoi passi, mai paghe di rimembrarti il tuo dovere, ché da un patto ferreo, ma libero, esse traggono linfa vitale”.

“Ben dici, Erfea; e meglio sarebbe se tu apportassi a guisa di esempio, il vincolo stretto tra me ed Elwen. Mai potrai spezzare i suoi anelli, più forti del tempo e dello spazio, ché essi si ergono di là del flusso e dell’essenza, simili a monoliti scolpiti da ciclopiche mani, ormai obliate nelle leggende e nei canti”.

Erfea rise dinanzi a tali parole: “Non vi è alcun vincolo tra te e lei, ché non Elwen lo pronunziò, ma l’eco di ancestrali paure, gelide e soffocanti, come gli antri di caverne nei luoghi profondi della terra. Timori e freddi inganni hanno soffocato quanto ella avrebbe davvero voluto, ed ecco! La primavera giunge finalmente vittoriosa e con essa le nostre ferite sono lavate con profumata acqua di fonte. Più grande di te è il nostro giuramento, Morwin; a nulla servirà la tua ira funesta, ché dovessi morire oggi stesso, ecco che anch’ella si allontanerebbe dalle sponde mortali, e mai più tu la vedresti, ed essa porterebbe con sé il mio , e non già il tuo ricordo”.

Parole non aggiunse Erfea e niente trovò da ribattere Morwin, ché la verità finalmente gli era stata rivelata, e più avrebbe potuto ignorarla, fingendo che il suo volere sarebbe stato sufficiente a ricondurre a sé Elwen.

Mai, da quando egli aveva ottenuto il potere su Edhellond, una sì grande sconfitta gli era stata impartita da un mortale; e mai notizia fu per lui più amara, quando, ritornato alla sua città natale, apprese con tristezza che Elwen era fuggita, portando con sé le ultime vestigia della luce di Arda.

Più le storie narrano di Morwin, il sire e il fabbro della bianca città degli Eldar, esperto nel trattare i metalli e i servi di Sauron, secondo il caso, e sebbene i bardi ignorino la sua fine, tuttavia, secondo alcuni della sua famiglia, anch’egli avrebbe abbandonato la città, errando a lungo per il vasto mondo senza una meta, memore soltanto del proprio nome e di quello della sua antica sposa , fin quando, stanco di quel vagabondare senza scopo, egli avrebbe deciso di unirsi all’esercito dell’Ultima Alleanza. Nella battaglia della Dagorlad[3] Dwar di Waw trucidò il sire di Edhellond, mentre costui difendeva una colonna di elfi silvani sorpresi dall’attacco dei Mumakil: in tal modo glorioso Morwin concluse la propria esistenza, silente custode della propria fama e della propria amarezza.

Di Elwen, non v’è più traccia certa nelle storie della Terra di Mezzo; certuni affermano che visse per qualche tempo a nord, nella regione del lago di Vesproscuro, governando con sapienza gli uomini e gli elfi di quella remota regione insieme ad Erfea; taluni, invece, dicono che Elwen non sia mai giunta ad Edhellond, dove il Dunadan l’attendeva impaziente, e che sia stata uccisa lungo la strada, allontanandosi così per sempre dalla Terra di Mezzo, soddisfacendo in tal modo il suo fanciullesco desiderio e portando nel proprio petto il ricordo dell’amato Erfea, ultimo dei grandi capitani dell’Ovesturia ad aver traversato indenne un’epoca cosi turbolenta.

Note

[1] Nell’anno 3277 S. E., le armate di Dwar avevano compiuto scorrerie nel Calhenardon, minacciando Lorien: timorosa di un massiccio attacco al suo reame, Galadriel aveva chiesto ed ottenuto l’appoggio delle schiere di Edhellond, per mezzo delle quali il nemico era stato respinto.

[2] Si ignora a quale contrada facessero allusione tali parole; è verosimile, tuttavia, che Elwen si fosse riferita al Lindon, la regione più occidentale di Endor, ove vivevano in quei giorni molti della sua stirpe.

[3] Si veda anche Oropher o del cattivo Fato degli Elfi

L’assedio di Edhellond

Continuo in questo articolo il racconto «beta» del «Marinaio e della Mezzelfa», iniziato in I dubbi di una scelta difficile: Elwen, Morwin ed Erfea. Consumata la rottura tra il Numenoreano e la mezzelfa, ecco che un’inattesa e drammatica circostanza potrebbe permettere il riavvicinamento di Erfea ad Elwen, mentre nuovi e vecchi nemici sono all’opera e la sinistra ombra di Sauron minaccia di estendersi fino alla ridente cittadina di Edhellond…

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«Tutto questo accadeva mentre Erfea era lontano per contrastare le forze di Sauron, in tali giorni di terrore e di incertezza, ahimè, spesso dimenticato. Tuttavia, sebbene, egli fosse distante e notizie non gli pervenissero da Edhellond, un’ombra non tardò ad invadergli il cuore, costringendolo a ritornare repentinamente nella città elfica, lì ove i suoi timori si rivelarono esatti. Appena giunto nel cortile del palazzo, senza badare al proprio cavallo o alle armi preziose che costui portava, egli si diresse a grandi passi verso la dimora di Elwen. Ivi la trovò che ricamava e gli parve che le fiamme del camino ridessero crudelmente, come se avessero una vita propria “Tale è il pensiero degli Eldar, dunque, che essi non si preoccupano neppure di ricevere i propri consorti? Una fitta ombra mi ha gelato il cuore e tuttavia vedo bene quali altri cuori il freddo abbia imprigionato nella sua fredda morsa”. Fu solo allora che Elwen alzò il fiero capo, non già per scusarsi, ma per deriderlo apertamente: “Salve a te capitano dei Numenoreani! Dici bene quando affermi che il mio cuore è diventato gelido. Ma guarda! Forse che tale freddo non è figlio di una tua degenza? Di una colpa mai confessata? Palese ti sia ora, Erfea, quanto dolore il tuo atto insulso abbia scatenato: freddo nel mio e nel tuo cuore. Non nutrire sterili speranze, che non vi sarà primavera dei mortali in grado di riscaldarle”. Tale fu la derisione e la sorpresa che sulle prime, nulla Erfea trovò da ribattere; ma fattosi forza rispose: “Colei che accusa un uomo senza prove è una stolta o un’ingenua, e quale delle due tu sia io non saprei dire. Tuttavia ben mi avvedo quanto oculatamente tu abbia nascosto il mandante di tali accuse; ché la sua voce ora ascolto, e non già la tua eco”. Così dicendo, grande fu la furia che lo invase, e tutti i servi della casa si coprirono le orecchie con le mani, tanta era la potenza della voce. Tuttavia Elwen non batté ciglio, limitandosi a restituirgli l’anello della stirpe degli Hyarrostar, l’emblema della casata di Erfea, accompagnando il gesto freddo con ancor più fredde parole: “Questa non è più la tua dimora, dunque allontanati in fretta!” Incollerito, ma impotente, Erfea rimase in silenzio, livido per la collera, ché qualunque azione avesse compiuto non gli avrebbe portato alcun giovamento in quel delicato frangente; allora, coperto il viso con il cappuccio del suo lungo mantello, egli si apprestò ad abbandonare quel luogo.

Era dunque sul punto di sellare la sua splendida cavalcatura, quand’ecco che una delle dame di Elwen, a nome Finduilas, gli si accostò turbata in viso, come se una grande paura covasse in lei. Ma Erfea la tranquillizzò con dolci parole e poi le domandò se avesse nuove da consegnarli; dinanzi a tale domanda, l’elfa non più in grado di nascondere il suo disappunto e la sua preoccupazione, facendosi forza gli rispose tremante: “Mio signore, questa mattina, sire Morwin si è recato da dama Elwen. Non ho potuto ascoltare la loro conversazione, ma vi assicuro che questo non è stato il loro unico incontro e io temo per la vostra incolumità; avrei dovuto mandarvi un messaggero, tuttavia non conoscevo la meta del vostro peregrinare. Perdonatemi per quanto dirò, ma negli ultimi tempi il comportamento di dama Elwen è insolito”.

Erfea Morluin sorrise lievemente: “Sì, Finduilas, non sembra esservi una spiegazione apparente, tuttavia ti prego di proteggere questa casa e le persone che in essa dimorano fino al mio ritorno. Sappi che in verità gravi sono gli avvenimenti di recente accaduti, e ben poco possono gli uomini, se non esercitare un controllo continuo, a costo della loro stessa vita e di quanto hanno più caro”.

Tali furono le parole pronunciate da Erfea, e più elfo di Edhellond lo vide per molto tempo, mentre Finduilas serbò nel suo cuore le ultime parole pronunciate da Erfea prima della sua partenza, e mai vi fece cenno con la sua signora.

Elwen, tuttavia, non di rado rivolgeva il proprio pensiero all’errante, sebbene fosse sorpresa da tale comportamento, ché ella ancora amava Morwin, e solo in seguito si sarebbe pentita del suo gesto. Sette lunghi anni trascorsero dalla dipartita del Dunadan e molte notizie giunsero dal mondo esterno, tutte funeste. Sovente gli elfi si imbarcavano sulle navi ancorate nel porto di Edhellond, e più non vi facevano ritorno, abbandonando la Terra di Mezzo ed i suoi problemi, ché un nuovo potere si era levato, simile ad un manto oscuro, e da levante invadeva Endor.

Draghi si risvegliavano nel Nord, orchi ed altre empie creature accorrevano numerose sotto lo stendardo di Sauron, ché egli riteneva fosse giunto il momento del confronto con i propri nemici; allora nove cavalieri giunsero da terre obliate e si accinsero a condurre in battaglia il potere dell’anello e del suo padrone. Oscure erano le loro stirpi ed obliati i loro nomi, ché raramente essi rivolgevano parola ad altri che non fosse Sauron in persona; ma nei canti sopravvissuti a quella oscura epoca, molto si parla degli Ulairi, o schiavi dell’Anello, e dei loro molteplici e terribili poteri.

Immense e spaventose erano le arti magiche esercitate dai Nazgul, ché traevano la loro forza da quella dell’Oscuro Signore; l’anello posto al suo nero artiglio, muoveva infatti tutti i loro passi ed essi erano i suoi più fidi luogotenenti, nonché gli schiavi di gran lunga più potenti.

Grandi re e negromanti erano stati gli Spettri dell’Anello nella loro esistenza terrena ormai obliata, ed eterna la fama che si erano guadagnati in seguito alle loro guerre condotte contro gli elfi o i popoli mortali. Si narra che fossero nove, come nove erano gli anelli che il loro signore aveva diffuso tra gli uomini; ché l’intento di Sauron era quello di distruggere la stirpe dei secondogeniti, assoggettandola al suo volere, essendo codesta la più malleabile e influenzabile tra tutte. Fra i Nazgul, massimo era il loro sire, noto con il nome di Signore degli Stregoni o Capitano Nero; tale era la sua forza e la sua perfidia, che sovente Sauron gli affidava missioni delicate e complesse. Numenoreano il Nazgul era stato in vita e ora arma mortale nelle terribili grinfie di Sauron, ché egli era profondo conoscitore delle umane debolezze. Da tempo non guidava le truppe di Mordor nelle terre dei Popoli Liberi, e ciò accadeva a causa del timore che Sauron nutriva nei confronti di Galadriel, massima guardiana tra gli Eldar. Tuttavia, sebbene la Dama fosse potente, sovente ella era costretta ad allontanarsi dal bianco porto, lasciandolo così sguarnito, ché molti erano i popoli bisognosi della sua sapienza. Approfittando allora della latitanza di Galadriel, e di Erfea Morluin, anch’egli noto a Sauron, e da questi massimamente temuto, ché lungimirante e nel pieno delle forze, l’Oscuro Signore ordinò al Capitano Nero di marciare contro Edhellond. Lesta fu dunque l’azione bellica, ché Sauron proprio sulla sorpresa puntava, ritenendo che nessun nemico sarebbe stato così possente da resistere ad un attacco condotto dal Signore degli Stregoni in persona. E invero amara sarebbe stata la sorte del bianco porto, se Erfea non avesse fatto la sua ricomparsa nell’ora più buia che la città avesse mai affrontato nel corso della sua millenaria esistenza. Il capitano dei Numenoreani, giunto innanzi al cancello affrontò a singolare tenzone il suo mortale avversario, non temendo il suo lungo braccio, né la subdola magia: rapido, e tuttavia crudele, fu il duello, a tal punto che non fu mai dimenticato da coloro che vi assistettero, ed Erfea, seppur mortale, riuscì nella sua impresa, costringendo il perfido capitano degli spettri dell’anello a fuggire a Mordor, essendo questi stato privato della sua forma mortale.

Tuttavia, sebbene grande fosse il successo che Erfea ottenne da tale impresa, e gli orchi fuggissero lontani in preda al terrore, il primo tra i Nazgul non fu distrutto, ché la forza dell’Unico Anello era in lui e lo sosteneva; non era ancora giunta l’ora in cui una fanciulla del Nord[1] gli avrebbe dato la morte, perforando il diabolico incantesimo che lo sosteneva, permettendogli di rigenerare il suo corpo con il solo pensiero. Tale fu dunque il trionfo che Erfea riportò, che molti elfi si riunirono festanti, onorandolo per quanto aveva fatto, lui che pure era un mortale e non della loro stirpe. Finanche Elwen la mezzelfa accettò di riceverlo a palazzo, essendo Morwin in quella epoca lontano ed ella reggente della città; grande fu il suo stupore nel rivederlo e, tuttavia, bene seppe mascherarlo: “Prendi questa mantella che ho intessuto con le mie ancelle, ché grandi saranno le imprese che dovrai affrontare e spesso il volere degli dei non ti sarà favorevole, e freddo e gelo incontrerai; allora utile ti sarà il nostro presente, signore dei Numenoreani. Di rado si vedono degli stranieri indossare i nostri abiti, tuttavia è un dono, il mio, pari al tuo valore”.

Sebbene grande fosse la sua ira, ché mai l’aveva obliata, tuttavia Erfea restò impassibile, come il falco nella tempesta del nord. “È possibile che difficoltoso sia il mio cammino e invero numerosi sono stati i nemici che ho finora affrontato. Tuttavia, pur curioso mi sembra che la signora degli Eldar si preoccupi del mio agire, lei che in passato rinunciò alla primavera e al suo dolce tepore. Strano invero – concluse – è tale dono: ben poco servirà, temo, se la mano che l’ha tessuto nelle lunghe notti d’inverno è ancora gelida come il cuore che la tiene in vita”. Tale fu dunque la conclusione della discussione, essendo Erfea stanco per il grande duellare e desideroso non già di liti o rimproveri, bensì di riposo, ché numerose preoccupazioni gli gravavano l’animo.

Improvvisamente però il cuore di Elwen si scosse, e qualcosa in lei cambiò e per sempre, mutando il suo carattere, ma non il suo futuro, ché invero era stato già deciso il suo destino e mai più ella avrebbe conosciuto la mestizia della vecchiaia, essendo ora Eldar, come lo sposo a cui era legata: calde lacrime, allora, le scivolarono via dagli occhi grigi e parole non riuscì a pronunciare, tanto forte era la sua disperazione.

Erfea, tuttavia, che pure le stava innanzi, osservando il suo strano comportamento, parole non trovò per consolarla e andò via con lo sguardo chino, chiudendo lentamente la porta dietro di sé. Cupo fu il suo pensiero e consiglio non portò la notte tempestosa. La mattina seguente, svegliatosi all’alba, Erfea si diresse con passo incerto, ché contrastanti erano in lui i pensieri, verso il bianco cancello, con la speranza che il sole gli rivelasse quella risposta che da tempo cercava. Splendente gli parve il maestoso spettacolo dell’aurora, che tingeva le mura e le torri di una luce tenue, nascosta dalla fitta nebbia.

Nessuna creatura era sveglia, ché il creato era ancora immerso in una profonda veglia; tuttavia non trascorse molto tempo che il giovane Dunadan avvertisse la sensazione di non essere più solo. Infine, desideroso di scoprire quali sembianze si muovessero nell’ombra, scorse, tra le brume che il sole andava allontanando, una esile figura, immobile come il primo raggio di luna in una notte senza nubi. Per lunghissimi attimi, nessuna delle due figure accennò a muoversi, cercando invano di sondare la mente altrui. Infine, cedendo alla stanchezza di quella lunga attesa, la seconda figura si mosse, leggera foglia nell’autunno incipiente: “Possente invero è la mente dei mortali, capitano dei Numenoreani, se immutato ne esci da tale sfida, mossa da una signora degli Eldar”.

“Così è, infatti, Elwen; tuttavia stupito sono dinanzi alla tua affermazione, essendo tu per metà della mia stessa stirpe: hai dunque rinunciato alla tua mortalità?” le chiese Erfea, certo della risposta.

“Invero, mio signore, diversi sono ora i nostri destini, ché sono destinata al bianco mare e alle immortali terre che al di là di esso si ergono, fanali nel vasto oceano”.

Impetuoso, il vento soffiava in quella ora, ed entrambi si mossero, camminando lungo il viale che dal castello conduceva al tempestoso mare: “Qual è dunque il motivo per cui tu ora giungi innanzi a me? È forse un altro inganno ordito dalla tua mente distorta?”.

“Mio signore, animo gelido può avere mente distorta, è vero, eppure ora solo mi avvedo di quanto abbia errato senza alcuna giustificazione. Riuscirai ad obliare le mie dure parole? Non voglio più essere la bianca signora degli Eldar, ma la sposa del mare, ruggente sul mio triste viso” concluse distogliendo il suo malinconico sguardo dal bel viso di Erfea.

“Dure parole furono invero e mai vi sarà una scusa degna di tal nome per porre rimedio ad esse. Sanguinanti sono ora i nostri cuori, e il fosco oceano rigetta coloro che tradiscono la parola data. Tuttavia, ora entrambi siamo stati esiliati, io dall’amata Numenor, lontana nell’occidente profumato, e tu da Valinor la Beata. Invero dura è l’esistenza degli esuli e mai Vala potrà ricondurre i nostri spiriti al primigenio desiderio; eppure guarda! Luminosi siano ora i tuoi grigi occhi e tali rimangano per sempre!”
Ed Elwen, che ritta innanzi a lui, ne aveva ascoltato le parole, spinse lo sguardo oltre il velo malinconico di una pioggia benedetta. E meraviglia! Ogni cosa le parve di nuova luce avvolta e più la sua mente vagabondò per sentieri lastricati dal dolore. Eppure, sebbene una possente felicità le inondasse il cuore, sicché le parve primavera anche il freddo inverno, tuttavia parole non trovò, ché non le pareva più possibile parlare e ignorava con quale lingua potesse esprimere il suo sentimento: muta, dunque, come una stella cadente sull’orizzonte, ella si rifugiò tra le braccia di Erfea, e il vento dell’ovest scompigliò i suoi lunghi capelli; allora il sole sorse sul mondo illuminando le creature errabonde, insegnando un linguaggio nuovo ad Elwen, liberandola dalle sue pesanti catene. Allegra trascorse dunque la giornata, tale che parve simile alla primavera di Arda, sebbene l’inverno fosse ormai alle porte, gravando sui destini degli uomini e degli elfi. Lieti trascorsero i giorni successivi, e mai i loro cuori furono turbati dalle oscurità del mondo esterno, ché chiare splendevano ora le stelle sulle forti torri di Edhellond.

[CONTINUA]

Note

[1] Eowyn di Rohan: camuffatasi da uomo per recarsi alla battaglia in difesa di Gondor, ella uccise il Signore degli Stregoni, realizzando in tal modo le parole che Elwen aveva profetizzato ad Erfea e Glorfindel durante l’assedio di Osgiliath (Osgiliath cadrà? Scontro finale).

I dubbi di una scelta difficile: Elwen, Morwin ed Erfea

Come promesso nel mio ultimo articolo…e arrivò il Marinaio! Corto Maltese, Aldarion ed Erfea sulla genesi di quello che è stato il primo racconto del mio romanzo, introduco in questo articolo la versione «Beta» di Elwen, ricostruendo la sua infanzia e adolescenza e motivando le ragioni che la condussero a compiere una difficile scelta fra Morwin, sire di Edhellond, una piccola città elfica posta in quella regione che, centinaia di anni più tardi, sarebbe poi divenuta parte del regno di Gondor, e un Numenoreano dal passato oscuro e misterioso, giunto dal Grande Mare della Terra di Mezzo alle sue coste in circostanze drammatiche…Erfea Morluin.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Sul finire della Seconda Era grande era divenuto il potere dei Numenoreani, stanziatisi lungo la costa Sud-Est della terra di mezzo. Ivi avevano fondato numerose roccaforti e fortezze, tra le quali Pelargir e Umbar, sotto le quali prosperavano e si diffondevano sempre più, seguendo i corsi dei fiumi e le coste frastagliate di Endor, spinti però dalla cupidigia e non già dal desiderio di allietare le misere condizioni di vita dei mortali che abitavano in quelle terre. Simile ad un colosso dai piedi d’argilla, così la potenza Numenoreana iniziava a frantumarsi sotto i colpi della sua stessa arroganza e crudeltà, ché Sauron, il discepolo di Morgoth, aveva già impiantato con ferocia i suoi lunghi artigli nell’isola dell’Ovest. Ben pochi furono i Numenoreani che si sottrassero a tale corruzione, e questi furono a lungo perseguitati da sovrani avvizziti o vuoti, più simili a fantasmi che non a creature mortali. L’ultimo di questi re fu Ar-Pharazon il dorato, colui che nella sua follia immaginò di invadere la dimora degli dei, Aman, lungi nell’occidente: notevole fu il suo seguito e numerosi i capitani che si posero sotto il suo vessillo. Non tutti però lo seguirono, ché vi erano ancora molti spiriti liberi che si aggiravano nella terra di mezzo, esiliati per aver disobbedito al re, e dunque a Sauron. Fra questi massimo era Erfea Morluin, il capitano, e famose e molteplici le sue avventure, che lo condussero ad esplorare pressoché tutta Endor. Infatti, sebbene poche siano le canzoni e le storie sopravvissute alla caduta, quel poco che è rimasto, è fonte di grande meraviglia e stupore. Ché Erfea Morluin non solo era un capitano valente, un signore tra gli uomini, ma nei suoi occhi grigi come la spuma marina splendeva ancora la luce degli Eldar, che tanto tempo prima avevano istruito il suo popolo.

Erfea da tempo viaggiava nella terra di mezzo, capitano di molte navi [1], al servizio di Tar-Palantir l’ultimo sovrano che aveva tentato di riconciliare elfi e uomini. In seguito, tuttavia, il Numenoreano aveva lasciato il suo incarico, con grande sgomento e ira del suo signore Ar-Pharazon, che aveva in animo il desiderio di servirsene per guidare un massiccio attacco contro i popoli che ancora gli resistevano, fossero essi elfi o mortali; ché grande era la sua ingordigia e la sua ambizione, e spesso egli si definiva signore del mondo intero. Furente per il rifiuto del suo miglior capitano, il sovrano di Numenor diede disposizione che Erfea Morluin fosse esiliato fino alla fine dei suoi giorni dalla terra del Dono: “Ché ingrato davvero si è dimostrato – disse ai suoi consiglieri – quando gli fu offerto il comando”. “Si è venduto al nemico – aggiunse rivolto al popolo, che sgomento per la notizia attendeva un responso ufficiale – il vostro capitano è un traditore e bene ho agito, condannandolo all’oblio eterno”. Sebbene la maggior parte del popolo accettasse senza obiezioni le subdole parole del sovrano, tuttavia il gruppo dei fedeli scosse la testa, presagendo grandi sventure: “ Tale è il nostro destino – fece uno di loro, il cui nome era Elendil, della casa di Andunie, rivolto al figlio primogenito Isildur – per cui avremo bisogno di campioni simili, se vorremmo superare le avversità della nostra epoca”; ma l’altro rispose: “Padre, Erfea è il più forte tra noi, eppure temo che numerose difficoltà gli si presenteranno nel corso del suo lungo esilio. Ché non solo il male tende tranelli sulla strada dei giusti; è facile infatti che anche il cuore venga fatto prigioniero, e quando ciò accade, la vita di un uomo si scinde in due dolori contrastanti”. Stupito lo guardò Elendil, ché Isildur era ancora giovane e mai aveva parlato in modo così saggio; tuttavia non rispose e più parola pronunziò, fissando il sole divenire rosso sangue, presagio di chissà quali sventure.

Ad ogni modo, Erfea Morluin, nulla aveva appreso di quanto era accaduto, ché si trovava lungi dalla sua casa, essendo in corso la stagione della navigazione. Sebbene dunque nessuna nuova fosse trapelata al comandante di Numenor, alcuni marinai, gente infida e gelosa degli altrui successi, ne erano stati informati precedentemente, ché anteriore al viaggio era il desiderio di Ar-Pharazon di eliminare quello che considerava il suo più acerrimo nemico. Obbedendo dunque agli ordini degli emissari reali, tali marinai avevano sabotato la nave, simulando un incidente: non di rado, infatti, nelle acque che percorrevano si verificavano incidenti di ogni sorta, dovuti all’arroganza degli uomini, nonché a misteriose creature serve di Sauron. Tale sarebbe stata dunque la fine di Erfea, e il popolo l’avrebbe di certo interpretata come un segno del volere divino, obliando dalla propria mente il ricordo del capitano, se Erfea non fosse stato salvato da un generoso delfino, riuscendo a raggiungere terra. “In quale regione mi trovi, non saprei dire; tuttavia se il volere di Osse protegge il mio cammino, e se egli ha voluto che mi salvassi da morte certa, devo dunque credere che questa terra sia abitata da un popolo pacifico e industrioso”. Il suo presentimento, come avrebbero testimoniato le abitazioni situate di là della riva, era giusto, ché egli era giunto nella regione dove sorgeva Edhellond, il bianco porto elfico. Molteplici sono i canti che parlano del suo argenteo cancello, delle mura intarsiate di marmo bianco e rosato. Ivi avevano dimora alcuni di quei priminati, che al principio della prima era avevano abbandonato le terre Imperiture: fra loro vi erano Galadriel e Celeborn, che spesso si soffermavano in quelle aule per lunghi periodi. Tuttavia il signore dei porti non era né l’una, né l’altro, ma un Noldor membro della famiglia di Fingolfin, il quale aveva osato sfidare Melkor nella sua fortezza di Angband, perdendo poi la vita a causa delle ferite da questi inflittegli. Le storie narrano che il nome di tale principe era Morwin[2], e di lui si dice che fosse simile al suo avo Feanor, per ingegno e per aspetto: pregevoli infatti erano le sue opere artistiche e si narra che, con la stessa forza con la quale batteva il ferro rovente nella sua fucina, abbattesse i campioni di Sauron o dei suoi servitori. Tuttavia grande era anche il suo orgoglio e la sua possanza; ché egli, seppur a torto, credeva di dover vendicare l’avo da lungi scomparso, per potersi ergere simile a lui, come un eroe tra i capitani: ma codardo era il suo cuore e torbidi i sentimenti che da esso scaturivano, soprattutto verso la stirpe dei mortali, da lui ritenuti causa di ogni male. Morwin, infatti, era solito ripetere agli altri della sua famiglia quanto fosse dannosa la stirpe dei secondogeniti: “Forse che nessuno di voi non ricorda la strage della Nirnaeth Arnoediad [3], in cui i nostri avi perirono a causa del tradimento di quella indegna specie? Forse che adesso Fingon non sarebbe qui, se la guerra fosse stata condotta solo da noi Eldar?” Simili pensieri egli diffondeva, e mai l’odio per i mortali scemò, ma simile ad una terribile peste, si allargò e ne consumò l’animo, fino a renderlo impotente davanti al male, che in quel tempo si alzò in numerose contrade. In quella medesima città, molti erano i figli degli Eldar e alto il loro lignaggio, tale che poche erano le unioni con membri di stirpe diversa dalla loro. Vi fu tuttavia un uomo, marinaio di Pelargir, che invaghitosi di un elfa di quella contrada, la rapì e con lei concepì una figlia; la piccola fu chiamata Elwen, perché sembrava che nei suoi occhi si specchiassero tutte le luci del creato: “Sacra ad Elbereth sarà questa nostra figlia – fece notare la madre rivolta a quanti le stavano vicino – ma un’ombra le aduggia il capo, ché tuttavia la sua parte mortale ne risentirà quando il momento della scelta verrà, inevitabile e terribile”. Gravi furono le sue parole, e ancor più triste fu il suo destino, ché mai profezia si rivelò così veritiera. Qualche tempo dopo, la giovane Elwen ritornò in quella che era stata la città della madre: e grande davvero le parve, abituata come era alle abitazioni dei Numenoreani, di sicuro ben più modeste. Una sera, però, rossa in volto, e con gli occhi illuminati da una luce, quale mai si era vista in quelle contrade, Elwen si presentò alla madre: “Sono angosciata da un dubbio; mi chiedo infatti se per me sia salutare frequentare la compagnia dei nobili Eldar. Troppo piccola, infatti, mi pare la loro reggia maestosa, ché le vaste distese del mare il mio cuore ambisce”. Scura in volto divenne la madre, che le rispose in tali termini: “Figlia, invero possente è la stirpe degli Eldar e grande il suo potere. Tu però porti nelle vene il sangue di tuo padre, mortale come i pastori che sulle colline conducono i loro armenti, sebbene di diversa stirpe”. E così le raccontò la sua origine, la morte del padre e quanto sapeva sul popolo dei Numenoreani. Allora grande si fece in Elwen il desiderio del mare, delle sue candide spume e triste rivolse lo sguardo al porto dorato, quasi che le fosse possibile, al di là del muro d’acqua, intravedere le verdi coste di Numenor e oltre i confini mortali, la beata Aman.  La madre, pur notando la malinconia impressa sul volto della figlia, parole non aggiunse; ma da quel giorno ben poco si fece vedere, convinta che il tempo della sua partenza fosse giunto: “Il mare attende anche me” era solita sussurrare nelle lunghe ore della notte, quando allontanato da sé il sonno, trascorreva la veglia mormorando dolci nenie, immersa in malinconici pensieri. E infine giunse l’ora in cui ella si allontanò e mai più fu vista da occhi mortali.

Tutto questo accadeva qualche tempo prima dell’arrivo di Erfea, e mai in Elwen si estinse il desiderio del bianco mare, nemmeno quando i tempi mutarono e le coste furono stravolte da immensi terremoti.

Tuttavia, in un primo momento, tale desiderio fu soffocato dal suo cuore, ché non riteneva fosse giunto il momento di allontanarsi dalle città di Endor, e molte erano le bellezze che ancora non conosceva; inoltre ambiva alla potenza degli avi di sua madre, sembrandole la massima vetta del potere. Tali erano dunque i suoi pensieri quando in quelle contrade il nome di Erfea Morluin iniziò a diffondersi, facendo germogliare nel suo animo una fanciullesca curiosità. Non era egli forse un uomo del mare proveniente dalle gloriose città di Elenna? Grande invero era la sua curiosità, ma ancora più profondo in lei era radicato il desiderio della gloria, e un mortale, seppur Numenoreano, ben poca cosa le pareva rispetto ai visi gravi e saggi degli Eldar di Edhellond. E sì maestoso le sembrava il portamento di Morwin, sire del suo popolo; e spesso trascorreva le sere dialogando o passeggiando con lui lungo gli antichi giardini della sua reggia. Lo stesso Morwin, che pure non era avvezzo alla compagnia di stirpi che fossero, anche in parte, differenti dalla sua, iniziò a trarre piacere da quelle visite; dapprima in modo lieve, e poi sempre in maniera crescente, il suo cuore si volse ad Elwen, senza tuttavia mai rivelarle alcunché dei suoi propositi. Nulla la mezzelfa presagiva dei suoi intenti, ché ancora erano latenti in lei le facoltà del popolo paterno, essendo lontana dalla maggior età.

Fu proprio in quel lasso di tempo che Erfea la incontrò e allora il suo triste destino gli fu rivelato, ché invero duro sarebbe stato l’esilio, come Isildur tempo prima aveva previsto. Più maestosa delle donne numenoreane che fin a quel momento aveva frequentato gli parve Elwen: tuttavia, non lasciò trapelare il suo sentimento considerando ancora prematuri i tempi. Fu solo dopo l’incontro con il capitano dei Dunedain, che la stirpe paterna prese il sopravvento su quella materna e in Elwen qualcosa mutò: il suo viso si addolcì e parve ancor più bella agli occhi di coloro che la circondavano; e simultaneamente ebbe il dono della lungimiranza e manifesti le divennero allora i sentimenti di Erfea, nonché quelli di Morwin.

3

Confusione e dubbio allora la invasero, costringendola a ritirarsi nella sua bella dimora, ché non comprendeva quello che le stesse accadendo. Non le pareva possibile, infatti, che un sentimento di tal genere potesse oscurare in lei l’amore per il mare; e grigio divenne il suo volto, nei giorni che seguirono l’incontro con l’uomo dell’Ovest. Nondimeno Erfea era preso dal dubbio, tuttavia essendo maggiore in lui la sapienza e la maturità del suo popolo, ben comprese infine quale fosse lo stato d’animo della fanciulla, sebbene sulle prime fosse esitante nel parlarle, ché non era del tutto certo di prevedere quali effetti avrebbero prodotto in lei le sue dichiarazioni; tuttavia, essendo egli uomo chiaro e saggio, preferì affrontarla direttamente, che già alcuni mesi erano trascorsi e grave nel suo cuore avvertiva il peso di una minaccia: “Mia signora, niente in questi giorni sembra essere sicuro, eppure sarebbe non poca cosa che tu mi rivelassi quello che ti angustia” “Preferiresti una verità amara o una menzogna dolce?” – gli rispose lei, intimorita e al tempo stesso infelice – ché spesso i mortali travisano le parole che dal cuore degli Eldar di rado sfuggono”. “La verità senza dubbio – rispose il Numenoreano dopo alcuni istanti di silenzio – ché per quanto dura possa essere – aggiunse – tuttavia molto tempo avrei dinanzi a me per dimenticarla”. “Sei dunque certo di averne a sufficienza?” replicò lei, profondamente turbata. Allora egli rabbrividì, sebbene l’aria non fosse ancora fredda e le prime stelle sbocciassero in cielo. “Poiché tu vuoi la verità, eccola dunque, orgoglioso capitano dei Numenoreani. Ed ella lo baciò, incurante di essere osservata da Morwin, il quale rabbia e sgomento provò innanzi a quel gesto.

“Piacevole è quindi la risposta, ben più di quanto avessi osato sperare. Tuttavia non è mia consuetudine giudicare prima che i tempi siano maturi, fanciulla elfica” le disse Erfea dopo qualche attimo. “Sii felice del mio consenso, signore – gli fece notare Elwen – ché un’orgogliosa fanciulla tu hai davanti agli occhi e mai ella si chinerà ad altri volere se non il suo. Consentimi dunque, prima di suggellare il nostro amore, di recare visita alle profonde acque di Osse, di giungere all’isola che i Valar donarono alla tua gente”. A quelle parole, forte si risvegliò in Erfea il rimpianto per la terra perduta; e fu con difficoltà che egli le rispose: “Mia signora, grandi invero sono le acque di Osse, ma non altrettanto le menti di coloro che si avventurano in queste acque senza il volere degli dei. Sii dunque paziente e in primavera veleggeremo insieme su una nave d’argento con le vele intessute di ithildin”. Convincente parve ad Elwen la risposta che Erfea le diede e più non fece domande, rivolgendo il proprio pensiero alla primavera che le pareva ancora distante; ben diversa, sarebbe stata, tuttavia la sua reazione, se avesse davvero compreso quello che il capitano temeva di doverle dire. Trascorse alcune settimane, accadde che nuovamente Elwen e Morwin parlassero; da tempo, ormai, i due evitavano qualunque conversazione, ché un velo adombrava i loro visi quando si incontravano e parola no pronunciavano. Quella sera però Morwin si trattenne a lungo e ambigue furono le frasi che le rivolse: “Ti saluto, signora degli Eldar! Ecco il sole che nuovamente si riposa oltre la coltre di nubi – e così dicendo le indicò il tramonto, rosso sullo sfondo dell’orizzonte – “Poiché ben di rado ci incontriamo in questi giorni, devo dunque dedurre che il tuo cuore sia diventato gelido, come la neve sulle alte vette. Tuttavia so bene quanto la prima impressione si dimostri spesso errata; eppure mi è nota la tua nuova passione che ti tinge di rosso il viso, simile al sole che tramonta nel freddo inverno, pur sempre caldo, ma troppo remoto per riscaldare i cuori che errino lontani sulla terra, sempre che essi non lo supplichino con vive preghiere. E anche allora Arien non troverebbe nessuna ragione per dar loro ascolto, ma anzi deriderebbe la loro fragilità, ritenendo giusto concedere la sua calda luce alla luna e non già a misere creature terrestri. Ben m’avvedo quanto il Numenoreano ti abbia stregato al punto tale da obliare antiche promesse” e così dicendo egli fece per andare via, non avendo altro da aggiungere. “Infame davvero è ogni tua dichiarazione, e ora, ecco, la mia stima nei tuoi confronti diminuisce ulteriormente. No! Frena la tua ira, signore, ché io non ti sono debitrice di nessun giuramento. Dì piuttosto che il tuo risentimento nasce da codardia, più che da rabbia legittima”. Dinanzi a quella affermazione, il viso del sire di Edhellond rimase impassibile: “Può essere – replicò in tono neutro – eppure anche tu riterrai che ben più grave della codardia sia l’infamia. Un cuore menzognero è simile ad una pianta rigogliosa che abbia però radici divorate da vermi ciechi e feroci. Sei tu abbastanza saggia da individuare la prole di tali parassiti?” concluse, abbandonandola allo sconforto. Morwin si era a lungo informato sul misterioso uomo, che così repentinamente era apparso all’orizzonte: emissari egli aveva inviato a Pelargir, dove voci crudeli e cuori codardi gli avevano riferito dell’editto emanato da Ar-Pharazon il dorato contro Erfea. Mai avrebbe dovuto ascoltare la voce della menzogna, l’eco di quella di Sauron: perché anche questa era opera sua ed invero difficile ignorarla quando si possiede un animo tormentato, come quello di Morwin. Grave davvero fu il suo errore, ché pure egli sapeva benissimo quanto fosse malvagio e infido Ar-Pharazon, così come era informato sull’attività dei servi di Sauron tra le genti Numenoreane: eppure, malgrado tutto ciò, veritiera gli parve la notizia pervenutagli. “Bene – si disse – tale è dunque il suo destino, ed è un destino di morte, a meno che non ritrovi il senno e si penta. Grave atto è infatti tradire la propria famiglia”: tale era stato l’inganno teso dai servi di Sauron, che il sire di Edhellond aveva creduto Erfea assassino del proprio padre e della propria madre, e dunque punito giustamente con una grave pena; tuttavia egli non aveva il coraggio di affrontarlo, ritenendolo al di sopra delle sue forze, ché bene conosceva le imprese del Dunadan contro le schiere di Mordor. Il sire di Edhellond intensificò dunque la sua opera di persuasione presso Elwen; e la fanciulla, che sulle prime si rifiutava di credere alle sue parole, alla fine ne fu succube, la sua mente fu oscurata e più non splendettero le stelle nei suoi grigi occhi. “Egli è un traditore e un assassino. Non ritieni che la vita di Elwen sia in pericolo con un uomo così malvagio? Non credi più opportuno salvare l’onore della tua stirpe, piuttosto che un uomo già condannato dal fato? Ricorda quanto la casa di tua madre soffrì per il comportamento subdolo degli uomini; ché se è forte è nel tuo animo il desiderio del mare, ancor più splendente è la luce dei due alberi, che si nutrono del tuo luminoso animo”.

Note

[1] In realtà Erfea non era un ammiraglio, ma il comandante della cavalleria di Tar-Palantir; tuttavia, data la penuria di alti ufficiali nella flotta, ché molti fra questi erano stati corrotti da Sauron e dai suoi servi, il sovrano gli aveva delegato anche tale incarico.

[2] Il sangue di Fingon non scorreva però nelle vene di Morwin, ché questi era stato insignito del titolo di principe allorché il sovrano dei Noldor lo aveva accolto nella sua casa ancora in fasce, in seguito ai saccheggi che gli orchi avevano compiuto nella contrada dello Hitlum durante la Seconda Battaglia (Dagor-nuin-Giliath, La battaglia sotto le stelle) combattuta contro le schiere di Morgoth. Al termine della Prima Era, Morwin aveva condotto una numerosa schiera di Eldar a sud, ove essi avevano edificato il porto di Edhellond.

[3] “La Battaglia delle Innumerevoli Lacrime”, la quinta fra le battaglie combattute contro Morgoth: essa si concluse con la sconfitta dei nemici del Vala caduto e con la morte di Fingon, Alto Re dei Noldor, per mano di Gothmogh, Signore dei Balrog e Capitano di Angband; durante tale scontro, gli orientali di Uldor tradirono l’alleanza con Maedhros, figlio di Feanor, e si schierarono con il Nemico.

…e arrivò il Marinaio! Corto Maltese, Aldarion ed Erfea

Continuo in questo articolo il racconto della genesi del «Ciclo del Marinaio» iniziato nel contributo In principio era…Othello, ovvero come nacque il Ciclo del Marinaio. All’indomani dell’abbandono del progetto originario di un racconto psicologico che aveva come tema la gelosia e la distruzione dei rapporti di amore e amicizia fra Gilnar, Elwen e Morwin, mi dedicai, come ho accennato nel precedente articolo, alla poesia, senza più curarmi del legendarium tolkieniano. Qualche anno più tardi, conobbi un personaggio letterario che ebbe un’indubbia influenza sugli sviluppi successivi della genesi del «Ciclo del Marinaio»: si tratta di Corto Maltese, probabilmente uno dei soggetti del fumetto internazionale più noti, creato e disegnato dalla penna del maestro Hugo Pratt. Al di là delle sceneggiature e delle illustrazioni spettacolari, che costituiscono valide ragioni per consigliare la lettura di questa «letteratura disegnata», come ebbe a definirla Umberto Eco, mi colpirono particolarmente alcuni tratti caratteriali di Corto Maltese: la sua malinconica ironia, il suo essere eroe nonostante la sua apparente pigra indolenza, il romantacismo sotteso al rapporto con il gentil sesso e, soprattutto, la lucida consapevolezza di essere il testimone di un passaggio epocale, quello consumato fra la Prima Guerra Mondiale e gli anni Trenta del secolo scorso. Nelle sue storie, infatti, non è raro imbattersi in alcuni personaggi storici realmente esistiti, oppure in altri fittizi che, tuttavia, si fanno interpreti degli sconvolgimenti che il mondo viveva in quegli anni. Un altro aspetto che mi colpì particolarmente del personaggio di Hugo Pratt fu il suo rapporto con le donne: facile agli innamoramenti, spesso nei confronti di fanciulle dal carattere non sempre facile (per usare un eufemismo), o addirittura sue nemiche, Corto Maltese è in realtà legato al ricordo di una ragazza conosciuta durante la sua giovinezza, della quale non sappiamo praticamente nulla, ma la cui presenza aleggia in alcune delle storie più famose di questo marinaio, figlio di un inglese e di una zingara. Un terzo aspetto che mi piacque di questo personaggio, infine, fu la sua capacità di sapersi misurare con culture diverse e di avere amici sparsi in giro per il mondo, dall’Argentina alla Russia, dalla Cina agli Stati Uniti: un pregio non da poco, se si considera la profonda cappa di razzismo che aleggiava nella società occidentale all’inizio del Novecento.

La lettura delle opere di Hugo Pratt mi riportò alla mente uno dei racconti più suggestivi scritti da Tolkien, che definisco personalmente come il più bello tra quelli appartenenti al legendarium tolkieniano: «Aldarion ed Erendis, o la Moglie del Marinaio». La storia di questo racconto si incentra sul rapporto difficile e tormentato tra Aldarion, l’erede al trono di Numenor, ed Erendis, una fanciulla numenoreana. Lo definisco uno dei più belli racconti tolkieniani perché, più di ogni altro, contribuisce ad approfondire quelle dinamiche dei rapporti umani che sono valide in ogni epoca, in ogni mondo, primario o secondario che sia. La storia termina tragicamente, anche se, alla fine del racconto, si coglie un certo rimpianto nelle scelte operate dai protagonisti, che hanno avuto come esito quello di allontanarli reciprocamente.

Aldarion e Corto Maltese sono due personaggi letterari che hanno molto in comune: entrambi amano il mare, esplorare nuove terre e venire a contatto con popoli diversi, e non riescono ad avere una relazione stabile e duratura con la donna che amano, anche se fanno fronte a quest’ultima difficoltà in modo diverso: Aldarion si rifugia nella sua missione esploratrice, mentre Corto Maltese tende a innamorarsi delle donne che incontra nelle sue avventure, perché gli ricordano quella che ama veramente. Entrambi, infine, tendono a fuggire dalle loro responsabilità «pubbliche»: Aldarion si mostra riluttante nell’assumere lo scettro di Numenor, mentre Corto Maltese non vuole essere immischiato nelle questioni politiche del suo tempo (anche se, tuttavia, ha una sua precisa visione del mondo, alla quale si attiene fedelmente).

Questi due personaggi, dunque, mi aiutarono a richiamare alla mente quel progetto, abbozzato alcuni anni prima e poi abbandonato, di una scrittura ambientata nella Terra di Mezzo: non mi sentivo, tuttavia, ancora pronto a scrivere un testo in prosa nello stile di Tolkien, ragion per cui «ripiegai», se così si può dire, su un genere che, in quel momento, mi sembrava più congeniale («semplice» non sarebbe il termine più opportuno), ossia la poesia epica, sulla quale mi sentivo – se non più preparato – quanto meno più ispirato.

Operai però alcuni cambiamenti: in onore di Corto Maltese, che spesso agisce e medita in completa solitudine, decisi di cambiare il nome di Gilnar in quello di Erfea, «spirito solitario» in quenya, mentre il nome precedente ora designava il padre del protagonista. Avendo in mente, inoltre, di andare oltre il triangolo Erfea-Elwen-Morwin, scelsi di spostare le vicende di questi personaggi nella Seconda Era, anziché nella Terza, perché mi sembrava, in questo modo, di avere maggiore spazio per la mia fantasia: a pensarci bene, infatti, la Seconda Era è quella che dura più a lungo tra quelle descritte da Tolkien, tuttavia è anche la meno conosciuta, nonostante al suo interno avvengano eventi decisivi, come la forgiatura degli Anelli o l’ascesa e la distruzione di Numenor. In onore di Aldarion, dunque, anche Erfea diventò un numenoreano di alto lignaggio, un principe lontanamente imparentato con la linea regnante sul trono dell’Isola del Dono; allo stesso modo iniziai ad immaginarlo come un marinaio, intento come Aldarion alla conoscenza del vasto mondo della Terra di Mezzo.

Giunto alla Terra di Mezzo, Erfea finiva collo stringere rapporti di amicizia con un nano, Naug-Thalion, e con un uomo del Nord, di nome Imracar Folcwine: insieme a questi amici, Erfea fondava la «Compagnia Silente», con la quale viveva numerose avventure, dando la caccia ai servi di Sauron. Pur restando di primaria importanza il rapporto con Elwen, cambiava la relazione con Morwin, che da amico ch’era stato nella passata concezione, diveniva estraneo e quindi avversario del numenoreano nel cercare di fare breccia nel cuore della bella mezzelfa. Si perdeva così, definitivamente, quella sottotrama ispirata all’Othello di Shakspeare.

Chiederò in questo caso un atto di affettuosa comprensione ai miei lettori: chi ha scritto questi versi, infatti, era uno scrittore piuttosto acerbo (oltre che molto più giovane di oggi) che provava a cimentarsi con la poesia epica, influenzato dai suoi studi classici e da una grande passione per le poesie del Signore degli Anelli. In modo particolare, ricordo di essere stato letteralmente conquistato dal poema che intona Gimli nell’oscurità di Khazad-Dum. Non avevo mai pubblicato prima d’ora questi versi, e non li avevo mai neppure trascritti al computer: ho dovuto rintracciarli su una vecchia agenda ed è con un sentimento misto di tenerezza e di nostalgia che li trascrivo qui. Riaprendo quelle pagine, tra l’altro, ho «riscoperto» che quello che oggi è chiamato «Racconto del Marinaio e della Mezzelfa», in passato era suddiviso in tanti «lai» (altro termine di ispirazione tolkieniana), del quale il principale era «Il Lai della Perdita», che raccontava l’incontro tra Erfea ed Elwen (il cui nome era erroneamente trascritto come Elwin). Si tratta di un componimento composto da 96 versi e suddiviso in 16 sestine, con rima baciata:

Giovani erano le stelle
e nel cielo si affacciavano sorelle
ammiccando fra loro
splendevano più dell’oro
(5) quand’ecco di gran carriera
giungere il prode Erfea

Veloce il suo passo, alto il portamento
della stirpe di Sauron il tormento
ché ad Occidente dimora aveva
(10) da Numenor tosto giungeva
nella Terra di Mezzo splendente
per ammirare l’antica gente

Poi bussò ad una porta
ed ecco di voce nobile la risposta
(15) «Benvenuto sotto il mio tetto»
e così dicendo gli fu aperto
ma entrando di gran passo
ahimé non fece caso al suo misfatto

Ché il saluto educato volse
(20) a principi e a principesse
volti da lungo conosciuti
gli parevano ormai vetusti
ma ecco, il suo cuore gli ordinò:
«Voltati o presto morirò!»

(25) Di dolci sembianze
una fanciulla aveva innanze
grigi occhi e capigliatura bella
della stirpe elfica la più snella
Elwin era il suo nome santo
(30) l’origine di tutto questo canto

Pareva diamante fra le stelle
quando fra le damigelle
rideva e sovente parlava
e la sua gentil voce intonava
(35) un preziosissimo canto d’amore
che a lui dedicato sarebbe stato grande onore

«Elwin» il giovane sussurrò
ed ella sorpresa lo guardò:
il suo sorriso ne usufruì
(40) ché più bello di quello mai più fiorì
ché Elwin la mezzelfa nome aveva
nella Terra di Mezzo ancora viveva

Ella infine gli si avvicinò
e con voce sicura gli parlò
(45) «Elfo sembrate, ma Dunadan sarete
ché nel profondo del cuore una luce avete.
Siete forse Erfea il valoroso
colui che non teme nemico periglioso?»

«Invero, signora mia
(50) non so se siate una fantasia,
troppo bella mi sembrate
ché perfino Luthien oscurate
Elwin del biancovento vi chiamerò
e al vostro cuore, il mio donerò

(55) Senza sosta danzarono e parlarono
e spesso le mani sfiorarono
ad Erfea sua sposa già pareva
anche se una sola ciocca muoveva
nel cuore del lieto festino
(60) il funesto filo aveva tagliato il destino

Ché nuvole nere apparirono
quando le speranze morirono,
ché sire Morwin, degli elfi il capitano
aveva già chiaro il suo piano
(65) Elwen tosto conquistare
ed Erfea poi allontanare

Con subdole parole l’ingannatore
imbrogliò la mezzelfa per rancore:
egli odiava tutta la progenie dei mortali
(70) ritenendoli responsabili di tutti i mali
A nulla valsero le parole dell’errante
ché Elwen lo abbandonò seduta stante

Erfea era davvero incollerito
ma tornare indietro non gli sarebbe servito
(75) ché già i due si amavano
e all’ombra di un lume mormoravano
fra i due imperava la passione
non riuscì a mutare la cattiva azione

 Così la via scelse dell’esilio
(80) e solo proseguì il suo cammino
l’amore vero nel suo cuore
e nella mente profondo dolore
quando su di lei lo sguardo posò
e poi tosto lo allontanò

(85) Vecchie sono ore le stelle
e fra di loro nemmeno più sorelle
triste e grigio ora il mondo
non gira più giocondo
feste e canti terminati
(90) chissà se saranno mai ripristinati

Ma Erfea è duro a morire
solo lui contro il male può agire
il suo volto triste e scuro
ma il suo cuore non ancora duro
(95) ché di Elwin la splendente
mai porterà un ricordo evanescente.

Nei prossimi due articoli trascriverò la versione «Beta» del «Racconto del Marinaio e della Mezzelfa» (in prosa) nella quale la vicenda di Erfea, Elwen e Morwin, pur ridimensionata all’interno di una cornice generale più ampia di eventi, ove Miriel ha decisamente scalzato Elwen dai panni della più importante protagonista femminile, conserva una sua coerenza interna, quasi come fosse un racconto separato dagli altri, e uno stile di scrittura più acerbo rispetto agli altri racconti (o almeno, questa è la mia impressione, tuttavia aspetto quella dei miei lettori per essere confermato o smentito). In questa versione Erfea mantiene ancora l’appellativo di marinaio, perché investito della carica di Ammiraglio da Tar-Palantir in persona: a differenza del progetto iniziale, tuttavia, il ruolo di Erfea come uomo di mare viene certamente ridimensionato, dal momento che è scritto esplicitamente che fungeva da comandante militare della flotta solamente perché il suo sovrano era a corto di uomini per quell’incarico, poiché la maggior parte degli Ammiragli servivano i nazionalisti numenoreani. In questo racconto, inoltre, si delineano in modo più articolato i destini di Elwen e Morwin, ormai inseriti compiutamente nella continuità del «Ciclo del Marinio»: della prima ne ho parlato in Nei meandri di Tumun-Gabil (parte II), mentre del secondo troverete il tragico e allo stesso tempo glorioso epilogo in Oropher o del cattivo Fato degli Elfi. Sulla figura di Elwen, della quale qualcosa ho già scritto alcuni mesi fa in Elwen la Mezzelfa, posso qui aggiungere che il suo ruolo fu ridimensionato a vantaggio di Miriel quando il personaggio di Erfea maturò rispetto alla sua primigenia concezione: da romantico ed avventuroso principe, senza grandi responsabilità nei confronti del suo mondo, a uomo profondamente politico nel senso classico del termine, vale a dire impegnato nelle «cose pubbliche» di Numenor. Dinanzi a questa evoluzione del personaggio maschile protagonista, ad Elwen spettava un compito diverso: non più quello di compagna dell’eroe, quanto quello di una «felice» deviazione dalla strada principale che Erfea aveva intrapreso a causa della sua educazione elitaria: un’occasione, per quest’ultimo, di riflettere sulla sua condizione di Uomo e mortale senza mescolare ambito privato con quello pubblico, come invece accadeva, inevitabilmente, con Miriel, che agli occhi di Erfea restava sì la fanciulla e poi la donna della quale era innamorato, ma anche la sua principessa e poi regina. Una contraddizione che avrebbe potuto spezzarsi solo nel momento in cui Erfea avesse accettato, a sua volta, di condividere diadema e scettro con Miriel, cosa che, evidentemente, il principe non era disposto a fare (sulle ragioni alla base di questa scelta ci tornerò prossimamente). Lo stesso appellativo di marinaio mi pose in difficoltà: provvedere ad eliminarlo oppure no? Alla fine scelsi di preservarlo, non tanto perché costituiva una sorta di omaggio ad Aldarion e a Corto Maltese, quanto perché le memorie di Erfea, che costituiscono la base letteraria del ciclo di racconti, furono riscoperte all’inizio della Quarta Era, quando i termini Numenor e Numenoreano evocavano il dominio sui mari raggiunto dagli uomini in epoche remote. Fu dunque naturale, per l’uomo che tradusse le memorie di Erfea, utilizzare come titolo della sua opera quello di «Ciclo del Marinaio», perché immediatamente evocativo della potenza raggiunta dagli Uomini dell’Ovest in passato (sulla «scoperta» delle memorie di Erfea tornerò con un articolo ad hoc). Una scelta analoga, in fondo, sarebbe quella di immaginare gli antichi Fenici solo ed esclusivamente nei panni dei mercanti, o gli antichi Vichinghi come pirati e guerrieri…dimenticando che saranno esistiti anche Fenici e Vichinghi pastori oppure contadini. Inoltre, è bene anticipare, lo stesso rapporto di Erfea con il mare cambierà profondamente, come sanno coloro che hanno letto Ritratto di un principe…Allo stesso modo di Aldarion, tuttavia, Erfea non ambisce alle responsabilità del potere regale, seppure all’interno di un contesto e con motivazioni molto diverse da quelle del suo lontano congiunto: anzi, si potrebbe aggiungere – all’interno di un ribaltamento di ruoli dal sapore, per così dire, moderno – che sia Miriel, pur tra mille perplessità e paure, a non sottrarsi alle sue responsabilità politiche, nonostante le sue decisioni in materia possano sembrare discusse e discutibili. Sotto questo punto di vista credo che Erfea rappresenti bene l’uomo moderno, in aperta conflittualità con doveri e responsabilità che gli provengano dalla tradizione, ma che non gli permetterebbero, se ad essi si conformasse, di compiere una serie di scelte difficili, in alcuni casi non condivise apertamente da famigliari e amici. Non mi riferisco, in questo caso, solo ai contrasti esistenti fra lui e Palantir in merito all’opportunità di sposare o meno Miriel, ma anche ai dissidi avuti con il padre (del quale conosciamo ancora poco, ma sul quale torneremo in un prossimo futuro) in merito alle sue scelte, per così dire, «professionali».

Nel secondo e ultimo articolo, invece, tratteggerò un ritratto di Elwen, rimasto incompiuto, che, come potrete constatare leggendolo, si distacca profondamente dallo stile epico e dalle tematiche fin ora presenti nei miei racconti, caratterizzandosi, al contrario, come una narrazione introspettiva, nel quale la mezzelfa riflette sulla sua natura e suoi sentimenti contrastanti verso Erfea e Morwin. Alla fine, dunque, sia pure in un contesto differente da quello concepito inizialmente, non si può non riconoscere che si sia verificata una «chiusura del cerchio»: da un racconto basato sullo svelamento della gelosia a uno nel quale, tuttavia, centrale resta la rielaborazione dei sentimenti e la difficile maturazione della protagonista.