In questa terza e ultima parte dedicata ai poteri dell’Unico Anello mi soffermerò su uno dei personaggi la cui esistenza fu più tragicamente segnata dal possesso dell’artificio di Sauron: Isildur, figlio di Elendil. L’immagine di questo personaggio, diffusa dalla versione cinematografica del Signore degli Anelli, pur ritraendo abbastanza fedelmente i momenti fondamentali della sua esistenza dopo la caduta di Numenor, non è particolarmente approfondita: in questo caso, non per una cattiva volontà da parte degli sceneggiatori, ma perché ritengo che l’abbiano considerato (a giusta ragione) un personaggio secondario all’interno della trama del romanzo, il cui nome è legato fondamentalmente all’Unico e alla sua decisione di non distruggerlo. C’è un’unica pecca, secondo me, che appare nella versione cinematografica della «Compagnia dell’Anello», relativa cioè alla scena in cui, nonostante il suggerimento di Elrond, pur arrivando sino al cuore del Monte Fato, Isildur rifiuta di distruggerlo, mostrando di essere già sotto l’influsso dell’Unico.
Quale fu il rapporto tra Isildur e l’Anello e come si concluse?
Per cercare di offrire una risposta a queste domande, dobbiamo leggere uno scritto di Tolkien intitolato «Il disastro dei Campi Iridati», pubblicato in Italia nel volume dei «Racconti Incompiuti» (d’ora in avanti RI). Nelle sue pagine, scopriamo abbastanza presto che, dopo aver sistemato l’ordine all’interno del regno di Gondor (e presumibilmente portato a termine l’educazione di Meneldil, suo nipote e designato al trono del regno meridionale), Isildur decise di recarsi immediatamente a Imladris, non solo per ragioni affettive (vi aveva lasciato la moglie e l’ultimogenito prima di partire per la guerra dell’Ultima Alleanza), ma anche perchè «aveva bisogno impellente del consiglio di Elrond» (RI, p. 365). Di quale consiglio si trattasse, lo riveleremo più tardi: prima ancora di scoprirlo, infatti, il testo di Tolkien prosegue raccontando come la piccola scorta di Isildur (200 uomini) fu attaccata da almeno duemila Orchi nascosti nella foresta che si trovava lungo le coste orientali dell’Anduin. Quali sono le ragioni di questa imboscata? Il discepolo di Morgoth era stato sconfitto solo due anni prima, è vero, tuttavia – e questo è un dettaglio molto illuminante circa i poteri dell’Unico – scopriamo che esso «era ancora carico della perfidia di Sauron e capace di chiamare in aiuto tutti i suoi servi» (RI, p. 368). Ancora una volta, dunque, Tolkien ribadisce una peculiarità dell’Unico, ossia la sua capacità di agire autonamente, quasi come fosse un essere senziente: forse, a mio parere, si tratta della sua caratteristica più inquietante. Gli Orchi, dopo un primo scontro inconcludente, decisero di ritentare l’attacco, impiegando questa volta la totalità delle loro forze: mentre avanzavano, Elendur, figlio di Isildur, scambiò con il padre poche battute, tuttavia di fondamentale importanza non solo per comprendere il carattere e la personalità di Isildur, ma soprattutto per capire come la sua immagine trasmessa da Jackson, dell’uomo che orgogliosamente avanza la sua pretesa sul gingillo di Sauron, fotografi solo un’istantanea – per quanto foriera di sventura per lui e per la Terra di Mezzo nel suo insieme – della sua vita, molto più sfaccettata di quello che potrebbe apparire.
«Elendur si accostò al padre che se ne stava cupo e solo, come perduto nei suoi pensieri. “Atarinya” gli domandò “che ne è del potere capace di piegare questi luridi esseri e imporre loro di obbedirti? non serve, forse?” “Ahimé, no, senya. Non posso valermene. Temo il dolore che mi verrebbe dal suo contatto. E ancora non ho trovato la forza per piegarlo alla mia volontà. Occorre uno più grande di quanto io so di essere. Il mio orgoglio è crollato. Avrei dovuto andare dai Custodi dei Tre”. (RI, p. 369).
Scopriamo così che il consiglio che Isildur avrebbe voluto da Elrond riguardava, con ogni probabilità, il destino ultimo da riservare all’Unico: e possiamo spingerci anche oltre, nelle nostre congetture, immaginando che il figlio di Elendil si fosse reso conto dell’impossibilità di dominare l’Anello, piegandolo alla sua volontà. Non costituisce eccessivo sforzo di speculazione ritenere che, se fosse sopravvissuto all’imboscata degli Orchi, Isildur avrebbe ripensato alla sua decisione presa sulle pendici del Monte Fato, di avocare a sé il controllo dell’Anello, una scelta che, per quanto terribile e sciocca possa essere stata, non dobbiamo dimenticare che fu presa in un momento emotivo molto forte (suo padre era morto da pochi minuti, l’assedio a Barad-Dur era durato ben sette anni, provocando, fra le altre vittime, anche suo fratello Anarion, ecc. ecc.) Isildur, inorgoglito dall’aver strappato l’Unico dalle mani di Sauron stesso, potrebbe aver pensato di aver sufficiente forza per dominare la creazione più potente dell’Oscuro Signore, la stessa che aveva dimostrato nello sconfiggere il suo artefice. Le ultime parole scambiate con Elendur sono commoventi: il figlio prega il padre di abbandonarli tutti pur di non lasciare che l’Unico cada nelle mani dei servi di Sauron e Isildur, seppure a malincuore, accetta in nome della «ragion di Stato» se così si può dire, non prima, però, di avergli chiesto perdono per il suo orgoglio che l’aveva condotto «a questa mala sorte» (RI, p. 370). Il resto della vicenda è piuttosto noto: nel tentativo di fuggire agli Orchi, Isildur cercò di attraversare l’Anduin, non riuscendovi a causa della forte corrente che lo spinse più a sud rispetto a luogo in cui era avvenuta l’imboscata. In quel frangente egli perse l’Anello: «per caso, o meglio, per un caso opportunatamente sfruttato, gli era scivolato dalla mano finendo là dove mai avrebbe potuto sperare di ritrovarlo. Dapprima restò a tal punto preso dal sentimento della perdita, che cessò di lottare, e per poco non fu travolto annegando. Ma, con altrettanta rapidità con cui lo aveva colto, quello stato d’animo passò. Il doloro se n’era andato; un grosso fardello gli era stato tolto di dosso» (RI, p. 371). Il destino, tuttavia, volle beffarsi di lui: alcuni Orchi di guardia sulle sponde dell’Anduin, infatti, lo videro emergere dalle acque del fiume con ancora addosso l’Elendilmir, il diadema dell’Ovest, la cui luce era talmente potente che neppure il potere dell’Unico poteva renderla invisibile (un raffronto interessante, a questo proposito, si potrebbe fare con la luce della fiala che Galadriel donò a Frodo) e spaventati dalla forte luminosità che il gioiello emanava, lo colpirono con le frecce dei loro archi, svanendo poi nelle tenebre: così morì Isildur, «prima vittima della malizia dell’Anello senza padrone» (RI, p. 371).
Un quadro molto differente da quello offerto nel prologo della versione cinematografica della «Compagnia dell’Anello», nel quale assistiamo alla decisione di Isildur di fuggire dal campo di battaglia, abbandonando i suoi uomini (e presumibilmente anche i suoi figli, sebbene nel film non si faccia cenno a nessuno di loro) al loro triste destino. Ribadisco il concetto: non si tratta di una critica agli sceneggiatori, perché, come ho già scritto in precedenza e qui ribadisco, Isildur non è un personaggio principale del Signore degli Anelli, tutt’altro. Non era necessario, perciò, dedicare troppi fotogrammi alla sua figura: la sua biografia, dunque, resta nelle sue linee essenziali abbastanza fedele agli scritti tolkieniani. Lo spettatore apprende che Isildur sconfigge Sauron, si impadronisce dell’Unico, muore in un’imboscata tesagli dagli Orchi e perde l’Anello nel fiume Anduin: fondamentalmente si tratta di una serie di affermazioni veritiere, che servono poi a introdurre gli eventi accaduti secoli dopo la sua morte. Ho ritenuto doveroso, tuttavia, in questo mio articolo, non solo concludere il discorso sull’Unico, ma anche restituire alla sua complessità, alla sua umanità, un personaggio che avrebbe meritato certamente una fine migliore di quella che subì.