Unico Anello: Istruzioni per l’uso (parte III)

In questa terza e ultima parte dedicata ai poteri dell’Unico Anello mi soffermerò su uno dei personaggi la cui esistenza fu più tragicamente segnata dal possesso dell’artificio di Sauron: Isildur, figlio di Elendil. L’immagine di questo personaggio, diffusa dalla versione cinematografica del Signore degli Anelli, pur ritraendo abbastanza fedelmente i momenti fondamentali della sua esistenza dopo la caduta di Numenor, non è particolarmente approfondita: in questo caso, non per una cattiva volontà da parte degli sceneggiatori, ma perché ritengo che l’abbiano considerato (a giusta ragione) un personaggio secondario all’interno della trama del romanzo, il cui nome è legato fondamentalmente all’Unico e alla sua decisione di non distruggerlo. C’è un’unica pecca, secondo me, che appare nella versione cinematografica della «Compagnia dell’Anello», relativa cioè alla scena in cui, nonostante il suggerimento di Elrond, pur arrivando sino al cuore del Monte Fato, Isildur rifiuta di distruggerlo, mostrando di essere già sotto l’influsso dell’Unico.

Quale fu il rapporto tra Isildur e l’Anello e come si concluse?

Per cercare di offrire una risposta a queste domande, dobbiamo leggere uno scritto di Tolkien intitolato «Il disastro dei Campi Iridati», pubblicato in Italia nel volume dei «Racconti Incompiuti» (d’ora in avanti RI). Nelle sue pagine, scopriamo abbastanza presto che, dopo aver sistemato l’ordine all’interno del regno di Gondor (e presumibilmente portato a termine l’educazione di Meneldil, suo nipote e designato al trono del regno meridionale), Isildur decise di recarsi immediatamente a Imladris, non solo per ragioni affettive (vi aveva lasciato la moglie e l’ultimogenito prima di partire per la guerra dell’Ultima Alleanza), ma anche perchè «aveva bisogno impellente del consiglio di Elrond» (RI, p. 365). Di quale consiglio si trattasse, lo riveleremo più tardi: prima ancora di scoprirlo, infatti, il testo di Tolkien prosegue raccontando come la piccola scorta di Isildur (200 uomini) fu attaccata da almeno duemila Orchi nascosti nella foresta che si trovava lungo le coste orientali dell’Anduin. Quali sono le ragioni di questa imboscata? Il discepolo di Morgoth era stato sconfitto solo due anni prima, è vero, tuttavia – e questo è un dettaglio molto illuminante circa i poteri dell’Unico – scopriamo che esso «era ancora carico della perfidia di Sauron e capace di chiamare in aiuto tutti i suoi servi» (RI, p. 368). Ancora una volta, dunque, Tolkien ribadisce una peculiarità dell’Unico, ossia la sua capacità di agire autonamente, quasi come fosse un essere senziente: forse, a mio parere, si tratta della sua caratteristica più inquietante. Gli Orchi, dopo un primo scontro inconcludente, decisero di ritentare l’attacco, impiegando questa volta la totalità delle loro forze: mentre avanzavano, Elendur, figlio di Isildur, scambiò con il padre poche battute, tuttavia di fondamentale importanza non solo per comprendere il carattere e la personalità di Isildur, ma soprattutto per capire come la sua immagine trasmessa da Jackson, dell’uomo che orgogliosamente avanza la sua pretesa sul gingillo di Sauron, fotografi solo un’istantanea – per quanto foriera di sventura per lui e per la Terra di Mezzo nel suo insieme – della sua vita, molto più sfaccettata di quello che potrebbe apparire.

«Elendur si accostò al padre che se ne stava cupo e solo, come perduto nei suoi pensieri. “Atarinya” gli domandò “che ne è del potere capace di piegare questi luridi esseri e imporre loro di obbedirti? non serve, forse?” “Ahimé, no, senya. Non posso valermene. Temo il dolore che mi verrebbe dal suo contatto. E ancora non ho trovato la forza per piegarlo alla mia volontà. Occorre uno più grande di quanto io so di essere. Il mio orgoglio è crollato. Avrei dovuto andare dai Custodi dei Tre”. (RI, p. 369).

Scopriamo così che il consiglio che Isildur avrebbe voluto da Elrond riguardava, con ogni probabilità, il destino ultimo da riservare all’Unico: e possiamo spingerci anche oltre, nelle nostre congetture, immaginando che il figlio di Elendil si fosse reso conto dell’impossibilità di dominare l’Anello, piegandolo alla sua volontà. Non costituisce eccessivo sforzo di speculazione ritenere che, se fosse sopravvissuto all’imboscata degli Orchi, Isildur avrebbe ripensato alla sua decisione presa sulle pendici del Monte Fato, di avocare a sé il controllo dell’Anello, una scelta che, per quanto terribile e sciocca possa essere stata, non dobbiamo dimenticare che fu presa in un momento emotivo molto forte (suo padre era morto da pochi minuti, l’assedio a Barad-Dur era durato ben sette anni, provocando, fra le altre vittime, anche suo fratello Anarion, ecc. ecc.) Isildur, inorgoglito dall’aver strappato l’Unico dalle mani di Sauron stesso, potrebbe aver pensato di aver sufficiente forza per dominare la creazione più potente dell’Oscuro Signore, la stessa che aveva dimostrato nello sconfiggere il suo artefice. Le ultime parole scambiate con Elendur sono commoventi: il figlio prega il padre di abbandonarli tutti pur di non lasciare che l’Unico cada nelle mani dei servi di Sauron e Isildur, seppure a malincuore, accetta in nome della «ragion di Stato» se così si può dire, non prima, però, di avergli chiesto perdono per il suo orgoglio che l’aveva condotto «a questa mala sorte» (RI, p. 370). Il resto della vicenda è piuttosto noto: nel tentativo di fuggire agli Orchi, Isildur cercò di attraversare l’Anduin, non riuscendovi a causa della forte corrente che lo spinse più a sud rispetto a luogo in cui era avvenuta l’imboscata. In quel frangente egli perse l’Anello: «per caso, o meglio, per un caso opportunatamente sfruttato, gli era scivolato dalla mano finendo là dove mai avrebbe potuto sperare di ritrovarlo. Dapprima restò a tal punto preso dal sentimento della perdita, che cessò di lottare, e per poco non fu travolto annegando. Ma, con altrettanta rapidità con cui lo aveva colto, quello stato d’animo passò. Il doloro se n’era andato; un grosso fardello gli era stato tolto di dosso» (RI, p. 371). Il destino, tuttavia, volle beffarsi di lui: alcuni Orchi di guardia sulle sponde dell’Anduin, infatti, lo videro emergere dalle acque del fiume con ancora addosso l’Elendilmir, il diadema dell’Ovest, la cui luce era talmente potente che neppure il potere dell’Unico poteva renderla invisibile (un raffronto interessante, a questo proposito, si potrebbe fare con la luce della fiala che Galadriel donò a Frodo) e spaventati dalla forte luminosità che il gioiello emanava, lo colpirono con le frecce dei loro archi, svanendo poi nelle tenebre: così morì Isildur, «prima vittima della malizia dell’Anello senza padrone» (RI, p. 371).

Un quadro molto differente da quello offerto nel prologo della versione cinematografica della «Compagnia dell’Anello», nel quale assistiamo alla decisione di Isildur di fuggire dal campo di battaglia, abbandonando i suoi uomini (e presumibilmente anche i suoi figli, sebbene nel film non si faccia cenno a nessuno di loro) al loro triste destino. Ribadisco il concetto: non si tratta di una critica agli sceneggiatori, perché, come ho già scritto in precedenza e qui ribadisco, Isildur non è un personaggio principale del Signore degli Anelli, tutt’altro. Non era necessario, perciò, dedicare troppi fotogrammi alla sua figura: la sua biografia, dunque, resta nelle sue linee essenziali abbastanza fedele agli scritti tolkieniani. Lo spettatore apprende che Isildur sconfigge Sauron, si impadronisce dell’Unico, muore in un’imboscata tesagli dagli Orchi e perde l’Anello nel fiume Anduin: fondamentalmente si tratta di una serie di affermazioni veritiere, che servono poi a introdurre gli eventi accaduti secoli dopo la sua morte. Ho ritenuto doveroso, tuttavia, in questo mio articolo, non solo concludere il discorso sull’Unico, ma anche restituire alla sua complessità, alla sua umanità, un personaggio che avrebbe meritato certamente una fine migliore di quella che subì.

Ren il Folle, l’Ottavo

Per la biografia dell’ottavo Nazgul mi sono ispirato all’origine degli Spettri dell’Anello così come è riportata da Tolkien nel Silmarillion: cito, a memoria, «che a prescindere dal Bene e dal Male insito in ognuno di loro [cioè dei Nazgul], essi prima o poi caddero nell’Ombra». Non si può negare che, per quanto riguarda le biografie dei Nazgul che fino a questo momento ho descritto, un ruolo preponderante sia attribuito alla loro ambizione, declinata sotto forma di volontà malvagia, di ottenere posti di comando e di potere all’interno del proprio popolo o presso genti confinanti. Perfino Dwar di Waw, il Terzo, il più «umile» come origine dal punto di vista sociale, è spinto a cercare vendetta in nome dei suoi parenti, sino a trasformarsi in uno spietato tiranno. La domanda che mi sono posto nel descrivere la biografia di Ren, l’ottavo Nazgul, è stata dunque la seguente: cosa accadde a un Uomo la cui vita, apparentemente, avrebbe potuto prendere una piega totalmente diversa rispetto a quella di diventare schiavo dell’Oscuro Signore?

Per provare a rispondere a questa domanda, mi sono ispirato anche a una storia molto significativa dell’epopea di Batman: «The Killing Joke», nella quale si spiega l’origine di uno dei personaggi più significativi e importanti dell’epopea del Cavaliere Oscuro: il temibile Joker. Il pubblico ha avuto modo di apprezzarlo nelle varie interpretazioni sul grande schermo, tuttavia la storia del Joker non è mai stata, fino a questo momento, particolarmente approfondita al cinema. Basti ricordare l’ultima interpretazione di Heath Ledger nei panni del pericoloso criminale: ogni qual volta accennava all’origine delle sue cicatrici sul volto, inventava una storia diversa, probabilmente allo scopo di impressionare il suo variabile uditorio. Leggendo questa storia, invece, si apprendono molti particolari tristi sul passato e sull’origine del Joker: non voglio anticipare elementi per non rovinare la sorpresa a quanti non l’abbiano mai letto, tuttavia ciò che si apprende dimostra come Joker non desiderava essere un criminale. Una drammatica sequenza di eventi, purtroppo, lo spinsero verso una direzione senza ritorno: ciò, naturalmente, non vuol dire che il destino di ogni uomo sia determinato unicamente da fattori esterni. Semplicemente, si tratta di un invito a riflettere sulla presenza di Bene e Male all’interno di ciascun Uomo, che possono prevalare l’uno sull’altro quando uno meno se lo aspetta. Buona lettura!

«Nato nella città di Ulk Jey Ama, nell’anno 1969 della Seconda Era, Ren era il figlio di un incantatore e nipote del Signore dei Chey: ebbe un’infanzia tranquilla, senza che alcun evento lasciasse presagire quanto sarebbe accaduto una volta divenuto adulto. Nel 1992, Ren prese in moglie Elyen, una donna del suo stesso lignaggio e si trasferì presso le Ered Harmal, ove dimorò per i sei anni successivi; nel 1998, tuttavia, una grave pestilenza sconvolse le terre dei Chey, e Ren ne fu colpito gravemente, sebbene il suo corpo sopravvivesse alla lunga malattia che ne impedì il risveglio per molti mesi: infine si destò dal coma, tuttavia la sua salute mentale era stata compromessa. Ren aveva obliato molto di quanto aveva appreso in gioventù, finanche il proprio nome; eppure, nonostante la sua mente vacillasse, egli si illudeva di avere acquisito una saggezza e una lungimiranza superiore a quella di qualsiasi altro Uomo: sovente, nelle lunghe veglie notturne, la moglie lo ascoltava mormorare nel sonno parole arcane e oscure, mentre, durante il giorno, chino sul proprio seggio, egli urlava essere il figlio del fuoco, l’incarnazione della fiamma vitale stessa. Elyen tentò disperatamente di curare la follia del marito, convocando al suo capezzale erboristi provenienti finanche dal Khand occidentale, eppure le cure di costoro si rivelarono ben presto inefficaci: Ren si autoproclamò re dei Chey e i suoi seguaci praticarono numerose violenze, oltraggiando le donne e sacrificando gli infanti alla fiamma sacra.

In breve tempo Sauron comprese che il folle illusionista sarebbe stato un valido servitore, sicché, nel 2005, gli offrì l’ottavo Anello del Potere degli Uomini, con la promessa che gli avrebbe mostrato la fonte ove prendeva vita il fuoco sacro: tosto Ren accettò, e spinto da una irrefrenabile follia, aggravata dal potere corruttore dell’Anello, organizzò le sue armate affinché conquistassero tutta la Terra di Mezzo centro-orientale; nel volgere di un secolo, le sue truppe, alleate con quelle del Khand di Uvatha, presero a dominare un impero quale mai nessun Uomo delle loro stirpi aveva mai governato fino a quel momento. Ren si stabilì nella sua città natia, dopo aver fatto sacrificare i figli e la moglie al fuoco purificatore, la cui fonte si trovava nel regno di Mordor; abbandonò la capitale del regno di Chey solo in occasione dell’arrivo di Erfea Morluin a Numenor, allorché si unì agli altri Nazgul in una ricerca infruttuosa. Dopo la caduta, Ren si recò a Mordor con le sue poderose armate e partecipò all’assedio di Osgiliath, fallendo tuttavia per l’arrivo delle truppe dell’Ultima Alleanza; durante l’assedio di Barad-Dur, il Re Stregone gli ordinò di occupare il valico di Cirith Ungol, per tema che altre truppe di Gondor potessero giungere da ponente: tale strategia, tuttavia, si rivelò inutile, ché l’Anello fu preso e Ren affondò nella Tenebra».

Sauron, il filosofo

Confesso che il titolo può sembrare un po’ fuorviante, ma in realtà l’intento di questo articolo è quello di approfondire la figura di Sauron sotto un’ottica diversa da quella affrontata nell’articolo precedente, legata alla sua capacità di interagire con una massa di utenti. In questo caso, invece, si tenterà di comprendere la personalità seduttrice del discepolo di Morgoth in un ambito «privato», con l’obiettivo di portare dalla sua parte non più un intero popolo, ma un singolo individuo. Si dimostrerà abbastanza in gamba Erfea per resistergli? E su quale argomento cercherà di fare leva l’Oscuro Signore per intimorirlo e costringerlo a prestargli obbedienza? Scopritelo leggendo…

«Ricadde Erfea sull’alto trono, inspirando profondamente: infine sfiorò la superficie della sfera, come aveva fatto in precedenza; Gilnar era al suo fianco, stupito e affascinato da tale fenomeno. Durante le sue lunghe ricerche sulle Palantiri, il reggente della casata degli Hyarrostar, nei volumi che aveva consultato, mai aveva trovato alcun cenno al fenomeno che ora prendeva vita sotto il suo sguardo.

Padre e figlio attesero per alcuni attimi, soffocati dalla tensione e dallo sgomento, che la superficie della Palantir si schiarisse; infine fu nuovamente buio e queste parole furono udite nell’oscurità della sala:

“Il tuo sguardo, principe di Numenor, si è posato sulla vastità del tempo e dello spazio. Hai partecipato al dolore di Uomini, le cui ossa giacciano ora nel profondo degli oceani; i tuoi occhi hanno scorto i pensieri di coloro che tu chiami amici; il tuo cuore ha scorto al di là delle nebbie dell’oblio e della follia quello che accadrà in futuro. Tutto questo hai veduto; tuttavia non hai compreso quale sia l’origine degli eventi esaminati”. Tacque un attimo, poi riprese: “Ti chiedi dove sia il senso delle mie parole? Non negarlo, ché molto scorgo dei tuoi pensieri e l’eco delle numerose azioni da te compiute è giunto alle mie orecchie. Ebbene, giovane Numenoreano della casata degli Hyarrostar, figlio di Gilnar, a te dirò quanto desideri sapere: io sono l’origine del tempo e dello spazio, l’unico essere in grado di dare una risposta ai tuoi dubbi e placare i rimorsi che le immagini da poco trascorse hanno suscitato nel tuo cuore”.

Erfea Morluin non era rimasto meno sorpreso del padre e il suo bel viso contorto dal dolore esprimeva palesemente il suo stato d’animo; tuttavia, sebbene la sua mente fosse rimasta sconvolta nell’udire l’oscura voce, il suo cuore non nutriva dubbi sull’identità dell’essere che si celava dietro la superficie della Palantir. “Distogli il tuo sguardo, onya – rantolò il padre prima di crollare al suolo esamine – non lasciare che il tuo spirito venga divorato dalla malvagia essenza che ti ha rivolto la parola”. Erfea non rispose, ma postagli la mano sulla spalla, in segno d’affetto, parlò all’entità invisibile: “I dubbi e i timori sono compagni dell’Uomo fin dalla sua nascita. Essi non sono necessariamente nostri nemici, ché solo i folli agiscono senza che il loro pensiero non si soffermi sulle azioni che si accingono a compiere. Quale Uomo può, a priori, conoscere il destino che l’attende? Finanche noi Numenoreani, pur scorgendo molte immagini di quello che accadrà, non abbiamo la facoltà di poter risolvere i nostri dubbi, se prima non accettiamo le fallacità delle nostre azioni. Innumerevoli volte siamo caduti, eppure molti altri danni avremmo ricevuto, se non avessimo domandato a noi stessi ove si celava il significato del nostro agire. Solo dubitando e ponendo il nostro spirito in condizione di ponderare le diverse alternative, è possibile infatti ricercare la verità”.

“Le tue parole, giovane Numenoreano, sono figlie di questi tempi oscuri, privi ormai di valore e prigionieri della disperazione e della sofferenza. Se tu fossi un Uomo da poco, ecco che sarebbe sciocco contestare quanto il tuo cuore ti suggerisce, eppure sappi questo: i grandi signori prendono sempre quello che appartiene loro, adoperando a tal fine strade che ad altri sono precluse”.

Fredda fu la risposta di Erfea: “Eru Iluvatar ha creato i suoi figli perché seguissero ciascuno la strada tracciata dalle loro stesse azioni. Il libero arbitrio rende i nostri spiriti liberi; solo questo dobbiamo temere, l’impossibilità della scelta, non i fantasmi agitati da coloro che vorrebbero privarcene”.

La voce attese qualche attimo in silenzio; quando prese nuovamente la parola, si mostrò premurosa e melliflua: “Sei saggio e risoluto, figlio di Numenor, ma il tuo cuore non conosce ancora tutte le paure che i Secondogeniti temono. Quando la morte, il dolore della perdita ti saranno prossimi, credi che il tuo animo rimarrà immune da tali incubi? Eppure, la fine giungerà anche per te, rovinosa e dolorosa. Che sia per spada o per il lento sfacelo del tempo, ti consumerai nella morte, e solo polvere rimarrà, a ricordo di quanto era stata prima la vita tua e dei tuoi consanguinei. Non temi dunque la morte?”.

Erfea rifletté a lungo, poi così rispose: “La morte non è una punizione, bensì un dono. Eru Iluvatar ha stabilito che gli Uomini conoscessero tale destino, ignoto eppure certo, ché fosse in questo la loro sorte differente da quella dei Priminati, la cui anima dimora nei giardini di Valinor, fin dalla creazione del mondo. Siamo mortali, ché il tempo trascorre tanto più rapidamente, quanto il nostro sentiero si dirama in svariate direzioni, simile a un albero che durante la Primavera tenda le sue braccia al sereno cielo. Eppure, sebbene mai i dolci frutti del tempo si esauriscano, è la nostra stessa essenza ci impone che così debba essere. Quale Uomo potrebbe, infatti, sopportare a lungo il peso degli anni trascorsi? Come una quercia, logorata dalle fatiche e dal gelo di numerosi inverni, egli infine si abbatterebbe nella più cupa disperazione, desideroso solo della morte. L’artigiano più non potrebbe forgiare l’oro e l’argento per farne delicati monili, il marinaio annegherebbe nelle tempestose acque dell’oceano. Nessun Uomo resisterebbe a lungo privato della propria fine. Sappi dunque questo: l’immortalità è un dono che mai accetterei”.

“Ben m’avvedo che la lezione impartita dai servi dei Valar non è andata smarrita! Dal momento che Erfea Morluin ne è cosciente, devo forse ritenere che il più giovane capitano dei Numenoreani tema la gloria e la ricchezza che io gli offro?”.

“Qualunque ricchezza tu possa offrirmi, solo uno stolto potrebbe accettarla. Ho già ricevuto grazia e saggezza, e molto ho appreso lungo il mio percorso. È alquanto pericoloso ottenere il potere senza capire dove esso è in grado di condurti. Onore e gloria, dici? Entrambi sono insignificanti, posti di fronte al dono più grande che gli dei hanno dato ai loro figli”.

Sulle prime, la voce non rispose, ché la sua pazienza andava lentamente, ma inesorabilmente, esaurendosi; infine, incapace di tollerare ulteriormente il silenzio venutosi a creare, replicò suadente: “Sappi, Erfea della casata degli Hyarrostar, che nessun dono al mondo è più grande di una ambizione soddisfatta. Io scorgo innanzi a me tutti i desideri più oscuri che il tuo cuore nutre, pensieri che la tua mente invano tenta di occultare; queste e molte altre emozioni io conosco, perché forte è il mio potere”.

“Sauron di Mordor – rispose Erfea, pronunciando per la prima volta un nome temuto e odiato dai Popoli Liberi – la tua distorta visione della realtà umana non può intaccare il mio animo. Sei invero uno spirito conoscitore di occulti e infausti poteri; eppure la tua capacità di giudizio si basa solo sul desiderio di potere e l’arroganza che il tuo spirito dannato nutre. Una schiavitù eterna; questo è il dono che mi hai proposto. Davvero credevi di poter celare la tua vera natura? Signore di Mordor, il dono più grande, ché esso solo rende possibili le nostre esistenze, è il dono della scelta. Né tu, né il tuo oscuro maestro, che giace al di là dei Cancelli della notte, potete offrirmi una simile ricompensa!”.

“Sei un pazzo e un folle, Dunadan”. Ora che la sua identità non era più celata, la voce di Sauron era colma di collera e ira: “Sappi che il re del mondo ti maledice fino alla fine dei tuoi giorni!”.

Erfea tacque per alcuni istanti; infine, opposta la sua forza di volontà a quella di Sauron, spezzò la malvagia influenza del Signore degli Anelli sul Palantir, pronunciando tali parole di sfida: “La tua volontà è tirannica, eppure la conoscenza del futuro è preclusa a me quanto a te: i tuoi oscuri sortilegi non possono rivelarti nulla sul destino del mondo, ma solamente costringere coloro che ne sono artefici a realizzare il loro avvenire secondo il tuo desiderio; tuttavia bada, ché i miei giorni su questa terra si riveleranno più lunghi dei tuoi”.

«Il Ciclo del Marinaio», pp. 89-93

Sauron, il politico

In numerosi commenti dei miei lettori pubblicati nelle ultime settimane si è accennato al poco spazio concesso da Tolkien a Sauron, non tanto inteso come «motore primo» delle vicende del suo «legendarium» (basti pensare che proprio all’Oscuro Signore è dedicato il titolo del suo più famoso romanzo, «Il Signore degli Anelli»), quanto come personaggio agente in primo piano, allo scopo di mettere in piena luce la sua intelligenza, la sua abilità oratoria e, naturalmente, la sua lucida malvagità. Ho perciò deciso di dedicare alcuni articoli alla trattazione della sua figura – in attesa di riprendere l’analisi sul potere dei Grandi Anelli – che siano in grado di offrire nuovi elementi utili a ricostruire e approfondire l’immagine di Sauron. Questo primo articolo sarà dedicato alla figura dell’Oscuro Signore all’epoca in cui, nei panni di Annatar, sedusse Ar-Pharazon e la maggior parte dei Numenoreani, spingendoli all’adorazione di Morgoth e portando tale popolo alla sua distruzione. Buona lettura!

«Isolato da quanti gli procedevano accanto, un’imponente figura si ergeva alla sinistra del signore di Elenna, avvolta in vesti scure ricamate in oro: a lungo Erfea l’osservò, infine, con un fremito d’orrore, comprese che le fattezze umane di cui la figura si ammantava, invisibili sotto l’oscura cappa, altro non erano che una larva entro la quale lo spirito di Sauron prendeva vita; grande fu la paura del Dunadan, allorché comprese l’identità di Gorthauron l’Aborrito, e i suoi occhi si chiusero, nauseati da quello spettacolo di morte. Infine, con un grande sforzo di volontà, guardò nuovamente, e fu come se l’aura di Sauron fosse stata dissolta dalla brezza marina; allora il principe rimembrò le antiche tradizioni e con sollievo comprese la sua vita e la sua anima essere al sicuro fin quando non avesse abbandonato il Meneltarma, consacrato fin dagli albori di Numenor a Manwe.

In basso, i tamburi presero nuovamente a rullare, occultati alla vista del ramingo, e le trombe squillarono; non era tuttavia una melodia piacevole a udirsi, ché nessuna eco risuonava dai colli e minacciose nubi si approssimavano da settentrione: tutto tacque, infine, allorché Sauron levò la mano, svelando il proprio volto alla folla trepidante: “Un nuovo giorno sorge, eppure già ascolto i suoi rantoli spegnersi nella frescura della notte. In catene fui condotto qui, tuttavia mai intesi sfidare le gloriose armate del Re degli Uomini”. Tacque un attimo, mentre alcune esclamazioni della folla rompevano il silenzio. Infine parlò nuovamente, e coloro che erano presenti furono soggiogati dalla sua volontà: “Molte leggi hanno tramandato i vostri padri, inique per gli uni, gloriose per altri: simili a insetti nocivi hanno tormentato la vostra esistenza, eppure nessuno di voi ne ha mai compreso l’oscura e infida origine. A voi, Uomini di Numenor, sovrani di Endor, dico questo: mai vi fu, fin dagli albori del tempo, stirpe sì gloriosa e degna di essere chiamata signora tra tutte, come quella che ora solca in lungo e largo gli oceani sconfinati”. Numerose esclamazioni di gioia ed entusiasmo eruppero spontanee, eppure l’Oscuro Signore non ne fu spiaciuto, ma seguitò a parlare: “Le leggi che fino a oggi avete onorato o disprezzato, i Valar e gli Eldar hanno ordinato che fossero gli Uomini a seguire, senza tuttavia mai svelarne la ragione; ebbene, folli si sono rivelati i loro progetti, ché nulla di quanto complottano mi è ignoto. Eru Iluvatar creò Ea e ne dispose la forma a suo piacimento, seguendo il proprio volere: otto fra gli Ainur ne seguirono la volontà e ne ressero le sorti, gli stessi che affidarono Numenor alla vostra gente”.

Fredda era divenuta ora l’aria e lampi minacciosi saettavano a Nord e a Est e Sauron proseguì: “Fu in tale occasione che il Bando dei Valar fu emanato e il loro araldo Eonwe vi proibì l’accesso alle Terre Imperiture; sempre avete temuto tale ordine, e mai la vostra obbedienza è venuta meno. Qualcuno tra voi potrebbe forse affermare che l’Uomo giusto è timoroso degli dei, ne osserva le divine leggi; tuttavia, se davvero vi è tra voi chi parla in sì modo, sappia che non è egli degno di appartenere a tale gloriosa stirpe”. Mormorii increduli si levarono tra la folla, ché non tutti i Numenoreani presenti avevano in odio i guardiani del Vespro, né ambivano sfidarne l’ira; tuttavia il seme della follia era stato gettato fra di loro ed esso ratto si impadronì del cuore degli Uomini. Simile alla tenebra del plenilunio, così le parole di Sauron ottenebrarono le menti degli Uomini, ed ecco essi levarono le armi e scossero gli scudi, soggiogati dalla rovina e dalla perdizione.

Sauron attese che il silenzio calasse nuovamente, infine parlò per la terza volta e le sue parole furono udite in tutto il regno: “Non è forse vero che essi vi domandarono ausilio e venerazione quando ne ebbero bisogno? Eppure, Uomini di Numenor, con quali ricompense furono riscattate le vostre lacrime e i vostri morti? Doni furono assegnati e invero di grande valore, eppure nulla che vi permettesse di condividere la più grande ricchezza sì gelosamente custodita dai Valar! Messaggeri essi hanno inviato ai vostri padri, per placarne la giusta collera, eppure io vi dico che il dono di Eru altro non è che un vile inganno, per mezzo del quale siete stati privati della vostra volontà e del vostro futuro. Giardini ricolmi di frutti abbelliscono la vostra isola e torri adamantine sfidano rabbiose il vasto cielo, eppure sappiate che essi non sono altro che una miserevole copia di quanto si erge al di là del mare a ponente. I Valar disposero i loro precetti per gli stolti, eppure chi fra voi oggi si riterrebbe tale? A voi, signori della Terra, dico questo: gli Uomini gloriosi e potenti afferrano quanto è a loro gradito. Non è con la negazione delle leggi dei vostri padri o con il loro rifiuto, che la gloria nutrirà del suo nettare inebriante i vostri cuori: solo obliando le vili parole degli dei, trionferete su quanti si oppongono al vostro dominio”.

Grandi manifestazioni di giubilo si levarono dalla folla festante e più di uno si volse al proprio vicino sussurrando parole dettate dal rancore: “Infida è la parola dei Valar e schiavi di essa sono gli Uomini che ne seguono gli intenti”. Tuttavia, vi fu chi espresse perplessità e timore; l’Oscuro Signore, ebbe sentore di ciò, allorché un Uomo fra la folla gli parlò: “Chi sei tu dunque, perché debba così parlare? Quale sentiero le nostre menti dovrebbero percorrere?”

Allora silenzio si fece in tutta la contrada, e molti osservarono dubbiosi il sovrano; questi attese, finché la gente non si fu acquietata, infine riprese la parola: “Non abbiate timore di alcuna mala sorte, Numenoreani! Un tempo catturammo Sauron, perché egli si prostrasse innanzi alla nostra maestà e rendesse omaggio alla stirpe del sovrano, e ora egli offre a tutti noi un reame degno della potenza delle nostre schiere. Cos’è una vita, se non adempiere a una missione? E non è forse la nostra quella di elevarci al di sopra dei comuni mortali e reclamare quanto è nostro di diritto? Mirate Sauron, non è egli forse prostrato innanzi a me?” e dicendo questo si voltò affinché tutti quanti potessero costatare la veridicità delle sue parole. Grande fu lo stupore tra la folla e molti levarono grida di giubilo: “il signore di Mordor si inchina al volere di Ar-Pharazon: egli si è redento, e ora non vi sono più rivali in grado di contrastare il nostro dominio!” Possenti si levarono voci trionfanti e gli uomini corsero ad armarsi, convinti che l’ora del trionfo fosse giunta: squilli echeggiarono lungo il crinale del colle, e già le navi si apprestavano a salpare, allorché Sauron levò il lungo braccio: “Numenoreani, invero nessun popolo oserà sfidare il vostro volere, tuttavia io vi metto in guardia, ché molti dei vostri congiunti tramano nell’ombra delle loro fortezze”, e a Erfea parve che il Signore degli Anelli volgesse lo sguardo verso di lui. L’Oscuro Maia parlò ancora: “Il mio signore, Melkor, con l’inganno fu esiliato nel nulla, ché gli dei non vollero rivelare alcunché dei loro arcani segreti ai re della Seconda Stirpe. I vostri padri lo combatterono e lo sconfissero, tuttavia egli non nutre alcun rancore verso di voi, ché ben comprende come le vostre menti siano state guidate sino a oggi da sciocchi consigli e insani ammonimenti. A lungo vagai per questa Terra di Mezzo, affinché potessero fiorire i semi di Melkor e ora mi accorgo quale meraviglioso verziere di delizie e incanti ricolmo sia sorto nella vostra isola”.

Minaccioso si fece il clamore della folla ed Erfea fece fatica a distinguere la voce di Sauron fra le tante che adesso si levavano; d’un tratto però, giunto dal Nord, si abbatté sulla folla un fortunale, e questo ai Fedeli parve come un chiaro ammonimento, perché mai in tali giorni si erano abbattute tempeste su Elenna: pioggia scrosciante cadde al suolo, mentre il fiero vento lacerava le vele e il sartiame delle navi. Il panico si impadronì degli abitanti e la loro paura crebbe ancora, ché giunsero le grandi aquile di Manwe in formazione serrata, puntando dritte alla cima del Meneltarma, ove Sauron assisteva imperturbabile a quanto accadeva sotto il suo sguardo. “I messaggeri di Manwe sono su di noi – gemette il popolo affranto – la sua collera spira furente dal Forastar!” Fulmini saettavano ovunque e molti Numenoreani fuggirono atterriti, disperdendosi nei vicoli e negli edifici; non scappò però l’Oscuro Signore, il quale attese che la tempesta si placasse; saette dal cielo caddero presso di lui, tuttavia egli non parve dolersi del fuoco che ora ardeva sulle sue vesti. Infine, disprezzando apertamente il volere di Manwe, egli levò al cielo una lunga spada nera ed ecco, fiamme ne percorsero la superficie: timorosa la folla lo osservò, eppure non era dipinta meraviglia nei loro sguardi, ché non pochi fra loro, maghi i cui sortilegi sono andati smarriti, erano in grado di evocare il fuoco per mezzo di arcane parole; presto, tuttavia, lo sgomento si impadronì dei loro cuori, allorché un fulmine si abbatté su Sauron con tale violenza, che il suo trono in pietra ne fu annientato. Eppure, meraviglia! Egli era incolume e levava lo sguardo al monte, invitando i sacri messaggeri degli dei a lacerare la sua carne; questi però, non furono irretiti dalle sue bestemmie, nonostante comprendessero il Linguaggio Nero, e si limitarono a scuotere le loro penne fradice.

“Finanche le Grandi Aquile sono incapaci di procurarmi offesa!” esultò Sauron, raggiante in viso. D’ora innanzi la legge che seguirete sarà dettata dal vostro volere ché i grandi Uomini nulla devono temere!” Allora il popolo gli si prostrò tremante, e il suo stesso sovrano si inchinò dinanzi all’oscura figura, adorandolo come un dio, ché tale lo vedevano e la potenza di Morgoth era in lui; nulla compresero, tuttavia, di quanto accadeva, né si domandarono per quale motivo le grandi aquile si fossero recate in tale luogo. Ar-Thoron, infatti, non era giunto per pronunciare condanna contro Sauron, come essi avevano creduto in principio, ché questi era stato maledetto fin dalla sua ribellione a Eru Iluvatar, bensì contro i Numenoreani, rei di aver accolta la Tenebra presso i loro spiriti; eppure, nessuno si pose simili questioni, ché i loro animi erano ricolmi di odio e rancore, illudendosi che l’immortalità fosse prossima.

Gravi lutti derivarono dagli infausti eventi di quel giorno, e quanto accadde non fu che il principio, ché altre malvagità escogitò Sauron e la Tenebra cadde definitivamente su Numenor».

 

Il Ciclo del Marinaio, pp. 179-184.