Caccia ai Nazgul! (parte II)

Proseguo la narrazione della ricerca, da parte di Erfea, della roccaforte dei Nazgul iniziata in Caccia ai Nazgul! (I parte) . Riuscirà il paladino di Numenor nel suo intento?

Buona lettura!

«Baluginarono gli occhi di Amdír, infine egli espresse il suo pensiero ad alta voce: “Questo dunque accadde! Bussare al cancello della cittadella degli Úlairi deve essere stata pura follia, come chiedere udienza a Sauron in persona!”

Sorrise Erfëa, indi riprese a narrare: “Amdír, parli di luoghi ove mai il tuo popolo si è recato, se paragoni la fortezza dei Nazgûl a quella di Sauron, ché nessuno fa ritorno dalla seconda, se non chi è esecutore della volontà dell’Oscuro Signore di Mordor. Quanto a me, non fu la follia a spingermi in tale contrade, bensì la necessità di comprendere quanto era ancora sconosciuto ai Saggi.

Viaggiai a lungo diretto a levante, occultato dalle dune di sabbia e roccia che si ergevano ovunque posassi lo sguardo; infine, dopo due settimane, giunsi ove pochi mortali avevano posato i propri occhi: una grande fortezza si ergeva dinanzi a me, cinta da robuste mura.

Guardando in basso, scorsi una lenta processione di uomini ricoperti di pesanti drappi condurre pesanti orci all’interno del cancello, il quale era protetto da imponenti guardie; esitai, ché non sapevo come introdurmi in tale luogo ed inadatti mi parevano gli abiti con i quali ricoprivo la mia carne alla malizia dei servi di Akhôrahil; infine, sceso lungo il pendio sabbioso che mi separava dalla strada che conduceva alle oscure aule, tramortii uno dei portatori e, lesto, mi impadronii delle sue vesti e della sua mercanzia, avendo cura di nascondere Sulring allo sguardo dei guardiani.

Accurato mi parve il piano, sicché mi diressi senza esitazione alcuna ove era mia intenzione recarmi; giunto dinanzi all’imponente cancello, tuttavia, avvertii una grande fitta e una intollerabile nausea prendere le mia membra, ché, mi resi conto essere veritiere le parole che l’anziano pastore aveva pronunciato quella sera, ché non vi erano solo sentinelle mortali a guardia dell’ingresso: sforzandomi di non cedere, vidi che ai miei fianchi erano poste due mostruose statue, le quali procuravano panico in chiunque avesse osato mirarle; non era però la fattezza di tali sculture ad atterrire il mio spirito, ché vi era qualcosa che si agitava in loro, forse un servo di Morgoth condannato dalla negromanzia di Sauron a risiedere per sempre in una simile dimora.

Non potevo più avanzare, né indietreggiare, sicché temevo che le sentinelle avrebbero potuto accorgersi della mia palese sofferenza: allora afferrai l’elsa della mia lama, deciso a morire da guerriero, piuttosto che da schiavo, eppure, quale non fu la mia sorpresa allorché mi avvidi che ogni dolore era cessato e che la resistenza dei guardiani era vinta.

Avanzai, allora, finché non oltrepassai il pesante cancello e l’oscuro barbacane e giunsi in un ampio piazzale ove gli Uomini che erano con me si accingevano a scaricare le proprie merci: un imponente soldato scortava un anziano sacerdote, la cui livrea mi rivelò essere un adepto del culto di Morgoth, affinché costui prendesse nota di quanto gli schiavi recavano seco; lesto, allora, abbandonai il mio sacco e mi diressi ove era un uscio socchiuso; apertolo cautamente, percorsi l’ampia sala che esso occultava, sulle quali pareti erano posti arazzi del quale contenuto, pur non avendolo obliato, pure preferisco non farne parola alcuna: grandi cataste di armi erano sparse sul pavimento, sicché credetti essere codesto un luogo ove avevano sede gli allenamenti e le esercitazioni militari di quanti servivano nella fortezza; non osavo introdurmi ove mai hanno udito gli idiomi elfici se non sotto forma di preghiere e di urla, ma temevo che sarei stato alfine costretto a ritirarmi se avessi indugiato ove mi trovavo.

Dopo lungo esitare, sguainai la mia lama, Sulring di Gondolin e osservai con meraviglia che emanava una debole luce; spostandomi casualmente ove erano appese le armi del nemico, mi avvidi con grande stupore che l’intensità della luminosità della lama aumentava, sicché compresi essere quella una spada come ne forgiavano un tempo gli Eldar; incoraggiato da tale scoperta, puntai allora la spada in direzione di uno dei corridori ove mi sembrava l’aria diventasse più fetida ed oscura e, con mia somma soddisfazione, scorsi Sulring emanare una grande luce: seguii dunque il percorso che essa mi indicava ed attraversai ampi saloni deserti e negri corridoi, finché al termine del mio peregrinare non giunsi dinanzi ad una balaustra; avendo riposto la spada nel fodero, ché essa ormai emanava una luce troppo possente e poteva essere scorta da altri che non fossero i miei occhi, mi sporsi con cautela al di là di essa”.

Fece una pausa, infine sospirò profondamente, come se ciò che stesse per narrare si preannunciasse invero troppo orribile da ascoltare:

“Fu allora che io vidi, rischiarato dalla tremula luce di oscuri candelabri, un ampio tavolo, come se ne trovano talvolta nelle nostre dimore; dieci scranni erano allineati ad esso, sicché su ogni lato maggiore ve n’erano quattro, e solo uno su quello minore; non ebbi tempo per elaborare congettura alcuna, ché scorsi aprirsi lentamente un uscio, prima invisibile ai miei occhi; allorché mi fu possibile mirare chi aveva fatto il suo ingresso nella sala, mi avvidi che egli era un possente guerriero, adorno delle medesime armature indossate dai capitani delle genti del Khand. Sfregiato era il volto dell’uomo, come se egli avesse subito un duro colpo in combattimento; una profonda cicatrice si inoltrava dall’altezza della tempia fino alla mascella ed egli sembrava in preda a grande furore: una volta che ebbe preso posto, mi avvidi che innanzi a lui si apriva un secondo uscio dal quale fece il suo ingresso un altro uomo, di cui parimenti mi era sconosciuto il sembiante.

Colui che si era seduto dinanzi al primo guerriero, indossava una veste color del fuoco, sulla quale erano ricamate rune malefiche; ignoro cosa esse recitassero, ma, allorché il mio sguardo si posò su di esse fui nuovamente preso da nausea e vertigini, sicché, lesto, volsi altrove i miei occhi e mirai una terza persona fare il suo ingresso nella vasta sala; costei era una dama di indicibile bellezza, simile alle donzelle elfiche di cui narrano gli antichi canti; familiare mi era tuttavia il suo volto e la sua corvina capigliatura. A lungo riflettei, finché non reputai essere codesta donna colei che un tempo avevo osservato dinanzi alla dimora dei principi del Mittalmar: una lunga veste violacea ne ricopriva le carni ed ella indossava, come un tempo era solito essere, un diadema intorno al capo.

Lentamente, ella si sedette al suo scranno, senza pronunziare parola alcuna; allorché la dama ebbe prese posto, si aprì un sesto uscio e ne venne fuori un imponente uomo, alto sette piedi o forse anche più, rivestito di rozze pelli di animali e di bronzo: non recava su di sé ornamenti che non fossero una spenta spilla con la quale aveva fissato un pesante manto verde sulle sue poderose spalle ed una collana di smeraldi, appena visibile sul suo taurino collo.

In seguito, attraverso la medesima procedura che ho testé descritto, fecero il loro ingresso nella sala altri due Uomini; grande fu la mia sorpresa e soddisfazione allorché scoprii essere uno Akhôrahil, ché, sebbene egli avesse mutato abbigliamento e indossasse ora una cotta di maglia dorata ed un lungo mantello rosso, pure io ne riconobbi le bieche fattezze; ignoto, invece, mi era il sesto uomo, ché egli era abbigliato con vesti simili a quelle che indossano i Signori degli Haradrim, mentre sul capo aveva una pesante corona d’avorio ed essa era stata modellata a guisa del volto di un mumakil.

Nessuno di questi Secondogeniti pareva accorgersi di quanti erano con loro in quel momento, né essi rivolgevano l’un l’altro cenno o parola alcuna; ancora una volta, due porte furono spalancate ed esse lasciarono posto a due nuovi uomini; il primo era abbigliato di una lunga veste, il cui colore era indecifrabile a vedersi, ma sulla quale erano chiaramente distinguibili, finanche dalla posizione in cui ero, rune malvagie ed altri segni a me ignoti: costui era calvo e non recava con sé alcuna arma, eccetto un lungo pugnale che talvolta faceva capolino fra le sue vesti; due mostruosi segugi erano ai suoi fianchi ed essi erano fra le bestie più orribili che io avessi mirato sino a quel momento.

Il secondo Uomo, invece, era palesemente un guerriero, ché indossava una corona in oro massiccio, adorna di cinque gemme quali mai i miei occhi avevano scorto fino a quel dì; al suo fianco era cinta una possente scimitarra ed un arco di tasso gli pendeva sulle spalle.

Non appena anche quest’ultimo sovrano si fu accomodato, una nona porta si aprì e, con mio sommo orrore e crescente inquietudine, fui colto dal panico e da una forte fitta al capo; tuttavia, ero ormai avvezzo a simili esperienze, sicché posi subito mano all’elsa della mia lama e in breve tempo ritornai padrone dei miei pensieri e guardai nuovamente in basso: un possente signore si era ora approssimato al tavolo ed egli rivolgeva silenti cenni di saluto ai suoi camerati; questi, invece, gli si prostrarono innanzi, sicché compresi essere costui il loro capitano.

Alto e bello era il suo sembiante, ed egli indossava una veste nera, mentre le sue spalle erano cinte da una cappa argentata: grande fu la mia sorpresa, tuttavia, allorché mi accorsi che egli indossava un elmo quale mai nessuno della mia stirpe avrebbe potuto obliare”.

“Di quale cimelio parli, figlio di Gilnar? – domandò Elendil – Invero, ché lo leggo nel tuo sguardo, deve essere stato un oggetto assai prezioso”.

“Così è, o re, ché esso era l’elmo un tempo appartenuto a Tar-Ciryatan, re di Númenor secoli or sono; egli era davvero Er-Mûrazôr, ché solo l’erede del sovrano avrebbe potuto reclamare una simile reliquia dei tempi remoti, quando Númenor non era ancora stata sommersa e Sauron dormiva ad Est.

A questo punto, amici, la mia cerca poteva dirsi conclusa, in quanto avevo accertato essere Er-Mûrazôr sopravvissuto ai limiti mortali che Ilúvatar ha imposto ai Secondogeniti e, sono certo concorderete con me, l’immortalità è procurata ai mortali solo dai Grandi Anelli e non già da altri sortilegi”.

A lungo rifletterono coloro per i quali questo resoconto risultava nuovo, infine Círdan, che era della schiatta dei Sindar, si levò dal suo scranno e chiese la parola:

“I Saggi non mettono in dubbio che codesto Uomo sia perdurato nei secoli e che serva uno scopo malvagio; eppure, tu stesso hai rivelato essere tali esseri ammantati di spoglie mortali e non già mostratisi ai tuoi occhi quali spettri immondi a vedersi; puoi forse dare prova di aver veduto gli Úlairi nella forma in cui essi sono soliti mostrarsi a coloro che li contrastano?”.

“Círdan del Lindon, quanto tu domandi troverà giusta risposta nelle parole che la mia bocca deve ancora pronunziare; allorché, infatti, il figlio minore di Tar-Ciryatan ebbe preso posto innanzi a me, essi mutarono improvvisamente forma, mostrandosi come creature la cui carne non era più visibile; un canto intonarono allora ed oscene mi parvero le parole che essi pronunziavano; infine, proprio quando iniziavo a credere che avrei smarrito il senso, il canto ebbe fine e mi avvidi che costoro erano ritornati alla loro forma primigenia.

A lungo fra i Nove – ché, ormai, non mi sembra più possibile possano esservi dubbi sulla loro vera identità – regnò il silenzio; infine colui che aveva preso posto per ultimo, levatosi dal suo scranno parlò:

“Ûvatha, Ren, Adûnaphel, Hoarmûrath, Akhôrahil, Indûr, Dwar e Khamûl, vi ho convocati perché possiate prendere visione di quanto il nostro Signore, il Padrone della Sorte, ha decretato che debba accadere; egli è palesemente soddisfatto delle vostre conquiste e si duole alquanto di non poter presenziare tale consiglio, ché gravi impegni lo trattengono a Barad-Dûr; tuttavia, poiché io ricevetti il primo fra gli Anelli – e dicendo questo, lo sollevò in alto, affinché tutti potessero vederlo – ha incaricato me di prenderne le funzioni.

A lungo discorsero i Nazgûl, ora parlando nelle favelle degli Uomini, ora in quella che io credetti essere la lingua oscura di Mordor; infine, allorché furono trascorse quattro ore, essi si ritirarono nelle proprie sale, lasciando, incustodito sul tavolo, un voluminoso tomo; incuriosito e credendo essere solo, mi calai dalla balaustra, e posi le mie mani su quello che si rivelò essere un cimelio non meno prezioso dell’elmo dei Re degli Uomini”; detto questo, Erfëa posò, sotto lo sguardo attonito dei presenti, un libro avvolto da una nera pelle: oscure scritte ne ornavano la superficie, eppure essi, pur non comprendendole, ne furono atterriti.

“Círdan, e voi tutti amici, non credo che abbisogniate di altre prove che non sia questa che ho testé presentato innanzi a tale consiglio; questo, infatti, altro non è che il medesimo tomo che sottrassi ai Nazgûl nella loro dimora”.

Stupito, Aldor così gli si rivolse: “Erfëa, possiedi invero uno spirito dotato di lungimiranza e coraggio quali pochi fra gli Uomini possono vantare di avere! In nome dei Valar, come sei fuggito da un luogo sì maledetto?”

A lungo Erfëa ristette in silenzio, come se il ricordo gli arrecasse il medesimo dolore che un tempo tali eventi avevano inflitto alle sue carni; infine parlò e gli sguardi di tutti erano su di lui:

“Non vi era alcuno nella sala, o così mi parve essere; mi fu sufficiente sfogliare il tomo per comprendere quali contenuti celasse, ché alcune pagine erano scritte in Adûnaico ed io le comprendevo; tuttavia, ebbro del trionfo com’ero, non mi accorsi che i segugi di Dwar erano apparsi da un invisibile pertugio e avevano posato i loro famelici occhi sulla mia persona: non vi fu tempo di estrarre alcuna arma, ché codeste bestie mi furono addosso; la cotta di maglia che i sovrani elfici mi avevano donato, tuttavia – e qui egli si inchinò in segno di rispetto, rivolto a Gil-Galad – impedirono alle fauci dei servi del Nemico di trafiggere le mie carni, sicché essi furono colti da rabbia e furore.

Disturbati dalle loro oscure meditazioni dai latrati e dalle grida, gli Úlairi accorsero nella sala ed ivi si resero conto della mia presenza; grande fu la loro ira e stupore, tali che esse non possono essere descritte in alcuna lingua dei Figli di Ilúvatar: tosto, Akhôrahil, che era stato tra i primi ad accorrere, mi riconobbe e pronunziò il mio nome: “È il Morluin! Siamo stati dunque scoperti, ché costui è un servo di Tar-Palantir”.

Sulle prime, Er-Mûrazôr non pronunziò parola alcuna, né parve visibile sul suo volto ira o furore; tuttavia, mossi alcuni passi nella mia direzione, egli mi fissò sì intensamente, che la mia mente fu ottenebrata e il mio corpo parve venire meno, eppure, non cedevo ancora; allora, avanzò e formulò un oscuro sortilegio, quale io non ripeterò alle vostre orecchie: egli, tuttavia, commise un errore, ché i mastini abbandonarono la loro presa, atterriti dalle oscene parole che si udivano riecheggiare nell’aria – nessuna bestia, infatti, può resistere al potere del Capitano dei Nove – ed io fui libero di afferrare nuovamente la mia lama; atterriti da una simile apparizione, i Nazgûl indietreggiarono mentre il loro capitano, seppur per un solo istante, abbassò lo sguardo per proteggere i suoi occhi dalla penetrante luce della mia lama.

Incoraggiato dal timore che gli Spettri provavano per la mia spada, avanzai di un passo, puntandola verso i loro volti incolleriti; più volte lessi ad alta voce l’iscrizione che essa recava sulla sua lama, finché il loro potere non fu spezzato ed io non fui libero di inerpicarmi nuovamente sulla balaustra”.

Su quanto accadde in seguito, sebbene il mio animo non l’abbia ottenebrato, io non pronunzierò parola alcuna, ché vi sono eventi che non è bene narrare alla luce del Sole, a meno che non la si voglia oscurare; cosa dirvi, infatti, di luoghi ove regna solo il terrore ed i pianti delle vittime si mescolano alle imprecazioni di crudeli aguzzini?

Fuggii ed essi mi erano dietro, né io mi volsi mai; pure udivo le loro oscene voci e l’eco dei loro passi affievoliva le mie forze; infine giunsi su di un’ampia terrazza, ché ero arrivato sulla sommità della torre: grande fu la mia disperazione allorché mi resi conto di aver intrapreso il percorso sbagliato!

Non indugerò ulteriormente sull’angoscia e sul dolore che si impadronirono in quel momento del mio cuore, ché non ne tollero il ricordo; pure, allorché ogni speme parve svanire, mi accorsi che vi era infine una via d’uscita; distante non più di cento passi, infatti, era una enorme voliera come ve ne sono nelle regge dei Signori degli Edain e degli Eldar: grande fu la mia meraviglia, tuttavia, allorché mi accorsi che in essa non era custodito che un unico possente uccello, simile ad una della Grandi Aquile, messaggere di Manwë.

Orrido era il suo sembiante ed esso aveva un solo occhio posto al di sopra del suo adunco becco; rade piume ne coprivano le carni ed esse erano olezzanti a causa del fetore che emanavano; codesto esemplare di crudeltà e ferocia intriso, non pago della mia presenza, si avventò sulle pareti della gabbia, tentando di spezzarne le robuste sbarre; con cautela, mi avvicinai a tale essere e gli parlai nel linguaggio degli Elfi, ché sapevo essere codesto compreso dalle bestie selvatiche; con sommo stupore e crescente preoccupazione, tuttavia, mi avvidi che codesto mostro non solo non comprendeva le mie parole, ma sembrava in preda ad una collera ben più feroce di quella precedente.

Esitai; tosto, i servi del Nemico sarebbero giunti alle mie spalle e mi avrebbero condotto dal loro Oscuro Signore, ove la mia mente ed il mio corpo sarebbero stati straziati dalla sua malizia; tuttavia, fu proprio tale pensiero a trarmi in salvo, ché, forse, tale creatura avrebbe compreso il linguaggio del suo padrone e si sarebbe piegata al mio volere e alla mia necessità.

Lentamente pronunziai alcuni vocaboli della lingua dei servi del Nemico e, meraviglia! Essa, pur non cessando di detestarmi e temermi, pareva essersi acquietata; senza porre alcuno indugio, allora, le saltai sul dorso, ché la gabbia non aveva soffitto alcuno e con un solo colpo della mia lama, tranciai la pesante, ma rozza catena che le stringeva il possente artiglio al suolo.

Imprecarono i servi di Mordor allorché si avvidero che la loro preda era sfuggita alla cattura, eppure non poterono nulla, ché non vi erano altre creature simili per darmi la caccia ed essi erano troppo lenti per seguirla a piedi; lungo fu, o amici, il mio volo, finché non raggiunsi i contrafforti di Umbar ed ivi costrinsi la mia perigliosa cavalcatura ad arrestare la sua corsa; abbandonatala al suo destino, entrai in città, ove riposai le mie stanche membra su un comodo giaciglio. Invero, i Valar vollero che io mi recassi ove mai nessuno era stato, sicché il volere dell’Uno si realizzasse, ché finanche un servo del nemico fu utile per conseguire il mio obiettivo, ed io mi avvidi, come altre volte era già accaduto, che i disegni dei servi di Morgoth non hanno altro motivo di esistere se non per recare maggiore gloria ad Eru Ilúvatar stesso e non già alla loro bieca volontà”.

Un fragoroso applauso si levò allora dai presenti ed essi presero ad elogiare il coraggio e l’astuzia del Dúnadan; molte voci si levarono allora, le une per congratularsi con il figlio di Gilnar, le altre per commentare stupite quanto la sua bocca aveva pronunciato».

Fine

Caccia ai Nazgul! (parte I)

Da questo articolo inizierò a descrivere quella che può essere definita l’avventura forse più epica di Erfea, quella che ha concorso più di ogni altra sua impresa a fargli ottenere il rango di eroe apprezzato da tutti i Popoli Liberi della Terra di Mezzo: la caccia alla fortezza dei Nazgul, nascosta nel profondo deserto dell’Harad meridionale, alla ricerca delle loro vere identità. Questa storia è nata prendendo spunto da una frase pronunciata da Gandalf nel corso del suo lungo resoconto al Consiglio di Elrond in merito al tradimento di Saruman: «Egli [cioè Saruman stesso] ha studiato a lungo le arti del Nemico stesso, permettendoci spesso, in tal modo, di precederlo. Fu grazie agli stratagemmi di Saruman che lo cacciammo da Dol Guldur. Egli ora aveva forse scoperto delle armi capaci di cacciare i Nove». [il corsivo è mio, NdA]

In realtà, come sa bene chi ha letto il Signore degli Anelli, di queste fantomatiche armi in grado di sconfiggere i Nazgul non se fa più alcun cenno: Saruman si dimostrerà un traditore doppiogiochista, e Gandalf non riuscirà ad apprendere nulla di utile nella lotta contro i più potenti servi del Nemico dallo stregone bianco. Ad ogni modo, la lettura di questa frase mi ha fatto venire in mente che, forse, in un’epoca più remota, altri avrebbero voluto apprendere qualcosa in più sui Nazgul, magari allo scopo di conoscere i loro eventuali punti deboli. E chi, meglio del paladino di Numenor, sarebbe stato in grado di correre un rischio così grande, dando la caccia agli spietati servi di Sauron? Quello che vi accingete a leggere è il resoconto di una parte del consiglio che si tenne ad Orthanc (o Isengard, se preferite) nell’anno 3429 della Seconda Era, al quale presero parte i sovrani e gli ambasciatori dei Popoli Liberi, riuniti in quel luogo per decidere quale soluzione sarebbe stata più efficace per combattere la minaccia dell’Oscuro Signore. Fra gli argomenti che vennero affrontati al suo interno, vi fu anche quello della pericolosa ricerca che Erfea intraprese allo scopo di svelare uno dei segreti più affascinanti e meglio celati della Terra di Mezzo: le identità segrete dei Nazgul.

Buona lettura!

«Durante il mese di Nárië[1] dell’anno 3429 della Seconda Era si tenne ad Orthanc, la possente fortezza edificata da Dúnedain a guardia della breccia del Calhenardon, un gran consiglio cui parteciparono tutte le Genti Libere della Terra di Mezzo, al fine di affrontare la minaccia di Sauron, ché essa non poteva essere più ignorata: come è noto, vi presero parte i capitani più illustri fra quanti i Figli di Ilúvatar potessero vantare a quell’epoca ed essi discussero a lungo della storia dell’Anello e del suo forgiatore.

Gil-Galad, il quale all’epoca era il Custode dei Tre Anelli degli Elfi, pur non svelandoli apertamente, giurò dinanzi a quanti erano presenti che essi sarebbero stati preservati dalla mano bieca e rapace di Sauron e che gli Elfi avrebbero preferito gettarli nelle profondità del Belagaer piuttosto che lasciare che l’Oscuro Signore se ne impossessasse; parimenti, coloro che erano della schiatta dei Naugrim, promisero solennemente sui loro padri che mai sarebbero caduti sotto il giogo del luogotenente di Morgoth, sebbene non rifiutassero di adoperare gli Anelli del Potere in quei giorni di terrore e disperazione, ché, essi erano soliti ripetere, “i nostri spiriti ed i nostri corpi sono stati forgiati nella fiamma di Mahal e cos’è la negromanzia di Sauron se paragonata ad essa?”

Del destino dei Tre e dei Sette molto si dibatté, ché non v’era certezza sul fato che avrebbe atteso questi allorché l’Unico fosse stato distrutto e quanto Sauron avesse creato con la sua mano fosse svanito nelle Ombre; pure, sebbene gli uni ritenessero che gli Anelli degli Elfi sarebbero sfuggiti alla rovina, ché mai la mano corruttrice di Sauron si era posata su di loro, pure non mancavano coloro che ritenevano il contrario, perché, sebbene Celebrimbor avesse lavorato ai Tre in completa solitudine, pure la sua conoscenza derivava da quella di Annatar ed ogni sua creazione era legata al volere di questi; ed invero, essi non mentivano come dimostrarono gli eventi che conclusero la Terza Epoca e cui abbiamo assistito, gli uni da spettatori, gli altri da protagonisti: tuttavia, poiché altrove si narra di questi eventi, qui non se ne trova traccia alcuna. Silenti, coloro che erano dei Figli Minori di Ilúvatar, ascoltavano, gli uni meravigliati dal resoconto di tali eventi, gli altri assorti nelle loro meditazioni; infine, allorché la voce di Gil-Galad tacque, Aldor, che era della schiatta degli eredi di Hador Chiomadoro, si alzò dallo scranno e levò la sua voce: “Ebbene, se mai queste storie siano state narrate ai mortali, pure essi non ne serbano memoria alcuna! Nondimeno, è stato detto che la mente degli Uomini è più lesta ad obliare, che ad apprendere, né sarò io a negare la veridicità di tale affermazione: tuttavia, sebbene molto si sia parlato e discusso dei Tre e dei Sette, è nel mio cuore e, credo, in quelli che sono della mia stessa stirpe, molta curiosità circa il destino dei Nove e di quanti si appropriarono di tali creazioni dell’Oscuro Signore di Mordor”.

Inquieti divennero allora i volti dei Signori degli Eldar ed Elrond prese la parola: “Quanto tu domandi, figlio del Nord, costituisce, invero, il prossimo capitolo della nostra storia; alcuni fra noi, infatti, rimembreranno che alcuni secoli or sono Erfëa, figlio di Gilnar, osò, a costo di grandi pericoli, addentrarsi nella fortezza degli Úlairi, occultata dalla sabbia dei deserti dell’Harad; pochi fra voi, tuttavia, conoscono quale era l’intento che spinse il Dúnadan in luoghi orribili a vedersi, ove mai la luce di Anor penetra; tuttavia, poiché io appresi di queste vicende molto tempo fa, ritengo che ad altri tocchi dire quanto accadde in quelle contrade”.

Lesti gli sguardi dei presenti caddero su Erfëa; stupore e meraviglia essi esprimevano, ché non credevano possibile per un mortale addentrarsi in una simile fortezza, ove finanche gli Elfi avevano tema di avventurarsi; solo Celebrían ed Elrond distolsero i loro occhi dal Dúnadan, ché erano gli unici a conoscere quali dolorosi ricordi fossero legati a tali vicende; infine, allorché cadde un grave silenzio ed ogni mormorio cessò, Erfëa si levò dal suo alto scranno e parlò:

“All’epoca in cui avvennero i fatti che ora esporrò innanzi a tutti voi,[2] un dubbio tornò a tormentare i miei sonni e la mia coscienza, sicché io non potetti ignorarlo; donde venivano gli Úlairi? A quali stirpi erano appartenuti allorché non erano ancora caduti sotto il giogo dell’Unico? A lungo indagai negli archivi di Númenor e delle dimore degli Elfi, eppure ben poco, salvo oscure allusioni, era contenuto nei polverosi tomi che pochi sapevano essere custoditi all’interno di tali aule e che ancor meno avevano mai letto; in essi si faceva menzione solo alla creazione dei Nove da parte di Celebrimbor e del suo desiderio di occultarli alla malizia di Sauron allorché costui si rivelò apertamente e pretese che i Noldor gli restituissero quanto era stato in parte frutto del suo oscuro intelletto e di come il discepolo di Morgoth si fosse impadronito di simili cimeli, dopo aver raso al suolo la cittadella di Ost-in-Edhil, molti secoli fa.

Quale fosse stato il destino dei Nove, allorché Celebrimbor fu trucidato dopo immani sofferenze, alcuna fonte sembrava poterlo rivelare; eppure, fra quanti erano del mio popolo, correvano voci secondo le quali tre grandi signori dei Númenóreani erano stati corrotti da Sauron molto tempo fa. Iniziai le mie ricerche ad Umbar, ché essa era stata la roccaforte degli Uomini del Re per molti secoli e non dubitavo che, se tali dicerie si fossero dimostrate vere, avrei trovato nei rotoli che costoro avevano stilato secoli prima quanto i miei occhi cercavano, ché essi sono invero crudeli ed ambiziosi, né temevano Sauron, ma anzi lo adoravano come fosse una divinità e ancora servono nei suoi eserciti; lunghe notti trascorsi senza prendere riposo alcuno nell’archivio di Umbar, ove, è bene non dimenticarlo, mi era giunta notizia della corruzione del luogotenente reale di tale città; sulle prime non vi feci molto caso, ché in quei giorni erano molti coloro che aderivano alla causa di Gimilkhâd ed io sapevo che egli era intento a radunare una grande armata per strappare lo scettro di Númenor dalle mani del fratello Tar-Palantir: tuttavia, codesto signore era imbelle e codardo, per cui non lo temevo affatto.

Una notte, mi imbattei casualmente in un’antica pergamena che attribuiva il feudo di Umbar alla maestà di Er-Mûrazôr, principe reale di Númenor e secondo figlio di Tar-Ciryatan; stupito, afferrai una copia dell’Elenco dei Sovrani dell’Isola, che, per decreto reale, era custodita in ciascuna delle colonie di Númenor, e con somma meraviglia mi accorsi che non si faceva alcun cenno a tale principe; reso inquieto da tale scoperta, riflettei a lungo su quale significato potesse avere ai fini della mia ricerca. Si trattava forse di una svista dello scrivano reale? Per quanto tale ipotesi potesse sembrare inverosimile, ero tuttavia costretto a verificarla; così, alle prime luci dell’alba, mi imbarcai su una nave diretta a Númenor; non lanciai messaggi di alcun tipo, ché credevo sarebbe stato più prudente condurre le mie ricerche in solitudine: giunto dinanzi al cancello dell’imponente edificio dell’Archivio Reale di Númenor, chiesi che mi fosse consegnato il Rotolo nella sua forma originale, ché sapevo essere ogni sua pagina firmata dai sovrani e dagli eredi, fossero essi di sesso maschile o femminile, che si erano succeduti sul trono di Númenor; non potevano esservi, dunque, errori su tali pergamene, ché, se ve ne fossero stati, i regnanti avrebbero ordinato che fossero corretti.

Con grande trepidazione svolsi il Rotolo sotto ai miei febbricitanti occhi, fin quando non ebbi la prova che a lungo avevo cercato: il nome di Er-Mûrazôr, infatti, era stato registrato, ma successivamente attraversato da una sottile linea rossa; sappiate, o amici venuti da contrade lontane, che tale procedura si applicava a Númenor allorché un principe veniva ripudiato dal trono”.

“Così era infatti – interloquì allora Elendil, figlio di Amandil – eppure mai alcun precettore fece menzione alle mie orecchie di una simile storia; quanto tu dici, invero, costituisce per me e per i miei figli motivo di grande sorpresa e sgomento”.

“Mio signore, invero quanto io ho appreso in quelle aule non è mai stato rivelato ad altri che non fossero Elrond e Celebrían, ché non era ancora giunta l’ora in cui simili eventi avrebbero dovuto essere rimembrati.

Grande fu la letizia che provai allorché compresi che il Rotolo non mentiva; pure, sulle prime, nuovi dubbi sorsero nel mio cuore; mi chiedevo, infatti, quale crimine avesse potuto riservare al principe Er-Mûrazôr una simile punizione”.

“Una grande colpa, senza alcun dubbio – interloquì Isildur, figlio ed erede di Elendil – ché solo gli assassini ed i fedifraghi sono marchiati con il vermiglio segno della vergogna eterna”.

“Veritiere sono le tue parole, Isildur, ché egli aveva dichiarato la sua indipendenza da Númenor e si era rifiutato di pagare il tributo annuo che le colonie di Endor dovevano al sovrano di Elenna; tuttavia, io questo lo scoprii in seguito.

All’epoca degli eventi che vi ho testé narrato, vi erano poche o punte testimonianze che potessero suggerirmi la colpa di cui questo principe si era macchiato; non sapendo cosa altro fare ed ignorando se esistessero storie riguardanti tale Uomo, aprii il mio cuore al sovrano, domandandogli se un tale nome gli fosse stato familiare; con orrore, tuttavia, notai che il suo viso impallidiva e che le sue mani tremavano; infine, egli parve calmarsi e mi parlò:

«Er-Mûrazôr? Perché domandi di Er-Mûrazôr?»

Esitai; in quel frangente, qualunque parola avessi adoperato, poteva rivelarsi fatale, sicché gli parlai del Rotolo del Re e di come avessi notato, casualmente, tale discrepanza tra la copia custodita ad Umbar e l’originale; allora egli parve calmarsi e la sua voce riecheggiò forte tra le volte della sala del trono: «Curioso che tu mi abbia posto una simile domanda, ché, invero, ben pochi sono a conoscenza di quanto mi accingo a narrarti». Lungo fu il suo racconto, sicché appresi quanto il mio cuore desiderava conoscere ed ebbi conferma della cattiva condotta che Er-Mûrazôr aveva esercitato nella gestione della colonia da lui conquistata con la forza delle armi.

Vi era, sebbene il sovrano si sforzasse di non darlo a vedere, un palese disagio nella sua voce, ché, forse, era riluttante a far cenno ad un antenato, sul quale, egli ebbe a confessarmi, si mormorava che praticasse le Arti Oscure di Mordor.

Sorrisi, poiché avevo infine individuato una traccia sulla quale basarmi per proseguire le mie ricerche; chiesi, dunque, se Er-Mûrazôr avesse avuto sepoltura a Númenor, oppure ad Umbar: a lungo il sovrano tacque prima di rispondermi, infine rivelò quello che era il suo pensiero, e non già quanto aveva appreso dai suoi precettori, affermando che egli doveva essere morto in terra straniera, poiché nessuno ne aveva mai recuperato il corpo e, parimenti, si era perduta ogni traccia dei compagni che erano con lui”.

Erfëa si interruppe per un istante, infine riprese a parlare: “Non so dire quanto il sovrano colse dei miei intenti, ché, anche negli anni successivi, non feci mai cenno dinanzi a lui di quanto avevo scoperto, per tema che tali rivelazioni potessero mettere in pericolo la sua persona e quella dell’erede al trono; dopo tale conversazione, dunque, feci ritorno alla Terra di Mezzo, ove ripresi le mie ricerche ad Umbar, mostrando, tuttavia, molta cautela, perché capivo essere quella una strada pericolosa da percorrere.

Null’altro trovai nell’archivio della città, ché erano passati molti secoli da allora e nulla era rimasto a testimonianza dei tempi remoti; pure, iniziai a comprendere di seguire la giusta direzione, ché, sebbene non fosse nelle mie possibilità recuperare il corpo del principe, pure era probabile che la sua scomparsa fosse da attribuire ad altre cause che non a quelle di un improvviso e fortuito decesso.

L’unica traccia sulla quale potevo basarmi, tuttavia, era la pergamena nella quale veniva ceduto il feudo di Umbar a Er-Mûrazôr; molte volte la rilessi, sperando che mi rivelasse qualcosa che la luce del giorno era impossibilitata a mostrarmi; pure, grande fu la mia sorpresa, allorché alcune sere dopo, mentre poggiavo la mia sacca sullo spoglio tavolo della sala ove io mi trovavo, il mio sguardo non cadde su di un oscuro messaggio, ché a lungo avevo preservato tra i miei effetti personali; doloroso fu per me rileggerlo, ché esso rievocava in me dolorosi ricordi, legati alla mia giovinezza[3] – ed egli qui si fermò, come se un’improvvisa oscurità fosse calata su di lui – tuttavia, rimpiansi di non averlo tenuto prima in considerazione: il testo, che il mio sguardo aveva colto, infatti, era stato vergato dalla medesima mano che aveva sottoscritto l’atto di cessione.

Stupore misto ad ebbrezza si impadronì allora del mio animo, ché compresi essere Er-Mûrazôr implicato negli oscuri complotti che si erano tenuti allorché era ancora sovrano Ar-Gimilzôr e Palantir non era che l’erede di un trono vacillante; rapidi, allora, baluginarono nella mia mente immagini e parole legate a quell’evento lontano nel tempo e nello spazio, sicché ricordai volti a me ignoti e che pure avevano provocato nel mio cuore grande paura”.

“Devono essere stati, allora, eventi degni di essere ricordati – interloquì Oropher, sovrano degli Elfi che vivevano a Nord – ché mai mi è parso di ricordare Erfëa Morluin indietreggiare dinanzi ad un avversario o ad un pericolo”.

Vi era del sarcasmo nella voce del Sindar, tuttavia Erfëa così gli rispose: “È vero; eppure, Oropher, è stato detto che neppure i Signori degli Eldar possono resistere al potere del Signore dei Nove, ed io avevo ragione di credere che egli fosse stato quell’uomo che si era erto innanzi a me. Dopo tale rivelazione, mi sovvenne che egli non era solo, ché era accompagnato da altri due individui; di uno, Akhôrahil, conoscevo il sembiante, mentre della donna che era con lui nulla sapevo; a lungo riflettei su tali elementi, finché non compresi che costoro potevano essere i tre signori númenóreani di cui si diceva fossero stati irretiti da Sauron; di Akhôrahil, infatti non v’era alcuna traccia nei Rotoli del Re e nessuno sapeva dire donde provenisse.

Incoraggiato da tali promettenti sviluppi, mi recai da un mercante di Umbar: egli aveva nome Draphis ed aveva sangue haradrim nelle vene; non era tuttavia crudele, anzi mi aveva offerto la sua amicizia e sovente deliziava il mio animo, raccontandomi delle leggende e dei canti che aveva udito in contrade remote; allorché mi presentai dinanzi al suo cospetto, gli mostrai la pergamena che un dì ormai remoto avevo recuperato dalla dimora dei principi del Mittalmar, ché egli mi rivelasse da quale contrada provenisse, dal momento che era esperto delle mercanzie straniere.

A lungo tastò con fare esperto la superficie resa ormai imbrunita dal tempo e dall’incuria cui l’avevo sottoposta, infine pronunciò il suo verdetto:

«O principe dei Númenóreani, codesta pergamena non proviene dalle contrade dell’occidente, bensì dalle città della mia patria».

Era chiaro che un Vala, forse Manwë stesso, aveva decretato che la mia cerca dovesse aver successo, sicché pregai il mio compagno di condurmi in quelle contrade: con gioia accettò costui, ché da molto desiderava far ritorno alla sua dimora, ed egli si prodigò di farmi da guida in quelle perigliose contrade, di cui molti hanno sentito parlare, ma che pochi hanno osato mirare con i propri occhi e ancor meno hanno avuto la sorte di poterle descrivere ai propri congiunti.

Sappiate, amici, che ivi si ergono antichi palazzi, le cui mura sono rischiarate da immensi bracieri che ardono da mane a sere, nonostante il Sole illumini quelle terre per molte ore al dì; maestosi minareti sovrastano ampi cortili, ove si aggirano bestie esotiche, fra cui riconobbi solo il temuto mumakil, che alcuni fra noi chiamano olifante.

Non vi sono solo sabbia ardente, né guerrieri sprezzanti della vita e dell’onore in quelle contrade, ché io vidi Uomini coraggiosi e leali e la mia guida mi salvò la vita in più di una occasione; lento fu il viaggio, ché, sebbene molte ed ampie siano le strade che attraversano codesta regione, pure esse sono sovente abbandonate all’incuria, sicché impiegammo circa quattro settimane per giungere a Khatiza, la fiorente capitale dell’Harad”.

S’interruppe per un istante, mirando il Sole che era prossimo ad immergersi nei profondi flutti dell’oceano, indi riprese a parlare: “Se anche avessi il tempo di Valinor, pure non potrei raccontare tutte le vicende che vissi in quella straniera terra, ché ben m’avvedo essere questo solo un capitolo di una più vasta storia; vi basti sapere, dunque, che giunto a tale cittadina, fummo bene accolti dal governatore locale, il quale non aveva alcuna intenzione di porre Númenor contro il suo impero fiorente, sicché fui libero di poter indagare a mio piacimento, sebbene impiegassi qualche tempo per apprendere la lingua e le usanze del luogo.

Infine, allorché era trascorso un mese dacché mi ero stabilito nell’Harad e la gioia iniziale aveva lasciato lo spazio alla delusione, mi avvidi che vi erano alcuni fra i pastori di gregge che lamentavano la perdita dei loro più pregiati capi di bestiame; stupito, per un oscuro presentimento domandai loro chi avesse compiuto tali furti e questa fu la risposta che essi pronunciarono alle mie orecchie:

«O possente Thundan[4], se le storie che si raccontano dinanzi ai bivacchi notturni sono veritiere, è possibile che esse siano state sottratte da coloro che noi chiamiamo i servi del dragone».

Sulle prime, attribuii una tale dichiarazione alla fervida immaginazione degli Haradrim, ché, se vi fosse stato un drago in quelle contrade, allora egli avrebbe preferito dirigersi su Khatiza, anziché accanirsi sulle misere greggi dei pastori della sabbia; pure, rimembrai che i guerrieri di Akhôrahil erano soliti adoperare usberghi di maglia ed elmi sui quali era impresso il simbolo di un dragone dorato; compresi, allora, di aver intrapreso il giusto sentiero, sicché domandai loro ove credevano fossero edificate le dimore dei servi del drago.

Con stupore essi mi osservarono ed invero, devo essere apparso un folle al loro sguardo; infine, il più anziano fra loro così mi rispose:

«Nessuno fra noi si è recato in quelle maledette sale, ché la luce del Sole non vi fa mai il loro ingresso, né, si narra, vi siano solo guardiani mortali a custodirne l’ingresso».

Annuì, infine sospirai profondamente, ché non sapevo come comportarmi: da un lato, infatti, avevo premura di raggiungere la fortezza quanto prima ed abbisognavo ancora dei servigi della mia guida; dall’altra, invece, temevo che avrei condotto me e lui ad una triste sorte: infine, gli domandai di procurarmi quanto servisse per un viaggio lungo e periglioso, ché intendevo recarmi ove erano gli uomini del drago.

Inutilmente Draphis tentò di dissuadermi, ché io vidi il terrore nei suoi occhi ed egli era divenuto pallido come il latte appena munto; infine egli acconsentì, seppure a malincuore, e mi concesse quanto gli avevo richiesto, sicché all’indomani fui pronto per recarmi ove nessuno avrebbe avuto il coraggio di addentrarsi».

Fine I parte – continua

Note

[1] Giugno, nella lingua dei Noldor

[2] Nel 3170 S. E. Erfëa aveva compiuto 63 anni.

[3] Si veda anche “Il Racconto del Marinaio e del Messere di Endórë”.

[4] Contrazione e deformazione dell’elfico “Dúnadan”.

Uvatha, il Cavaliere, il Nono

Per la biografia dell’ultimo Nazgul mi sono ispirato a un modello fin qui assente: quello dell’assassino fine a sè stesso, educato in un clima di estrema violenza e abituato a fare uso di questo unico «linguaggio» in qualunque occasione. Volevo che questo Nazgul simboleggiasse la degradazione umana allo stato più abietto, l’incapacità di essere empatici propria di alcuni tristi protagonisti della storia umana. Non a caso, perciò, si narrerà di un uomo la cui tribù risultava già essere tributaria di Sauron, venerato come una divinità. Buona lettura!

«Il nono Nazgul nacque nel 1970 della Seconda Era, nelle cave di Olbamar nel Khand orientale con il nome di Uvathar Achef; egli era il figlio di un principe esiliato e l’infelicità di suo padre presto divenne la sua. Uvathar trascorse i primi dieci anni della propria esistenza nelle steppe del Khand, ove apprese le arti della caccia e della guerra, le uniche che riscuotessero il suo interesse; feroce e orgoglioso divenne il suo animo e ancor prima di aver compiuto sedici anni si era macchiato del sangue di numerosi uomini e sapeva cavalcare come nessun altro Variag. Diciottenne, chiese e ottenne il comando dell’esercito del padre, portandolo a ottenere svariate vittorie, che gli procurarono il trono del Khand superiore: non soddisfatto da tale successo, il giovane Uvathar sconfisse il re del Khand inferiore, Urig Urpod, unificando per la prima volta nella sua storia l’intera nazione dei Variag sotto un’unica corona: all’età di venticinque anni, in seguito alla morte del padre, Uvathar divenne il nuovo signore della guerra del Khand, attirandosi l’attenzione dell’Oscuro Signore, il quale gli offrì l’ultimo degli Anelli del Potere degli Uomini nell’anno 2006. Uvathar accettò senza esitazione alcuna, ché il suo popolo era stato da sempre tributario di Mordor, e molti fra loro veneravano Sauron come una divinità: nei secoli successivi, Uvathar mutò il proprio nome in quello di Uvatha secondo la lingua nera di Mordor, e conquistò vaste contrade a Sud di Mordor, con l’aiuto delle armate di Ren il Folle; nell’anno 3262, dopo la cattura del suo mentore, Uvatha si rifugiò a Mordor, nei pressi del lago di Nurn, ove addestrò numerose armate. Dopo la Caduta di Numenor, Uvatha partecipò, come gli altri otto Nazgul all’assedio di Osgiliath, non riuscendo tuttavia a impadronirsi della città; egli allora si recò al passo di Cirith Ungol ove impedì ai Dunedain di condurre nuove forze contro Mordor. Troppo tardi Uvatha giunse con i suoi eserciti alla Barad-Dur, ché Sauron era caduto ed egli svanì nelle ombre».

Il Ciclo del Marinaio, pp. 395-396.

12

Suggerimenti di lettura:

I Nazgul

Er-Murazor, il Primo dei Nove

Khamul, il Secondo, l’Ombra dell’Oriente.

Dwar di Waw, il Terzo, il Signore dei Cani

Indur, la Morte dell’Alba, il Quarto

Akhorahil, il Re Tempesta, il Quinto

Hoarmurath di Dir, il Re del Ghiaccio, il Sesto.

Adunaphel l’Incantatrice. La Settima

Ren il Folle, l’Ottavo

Ren il Folle, l’Ottavo

Per la biografia dell’ottavo Nazgul mi sono ispirato all’origine degli Spettri dell’Anello così come è riportata da Tolkien nel Silmarillion: cito, a memoria, «che a prescindere dal Bene e dal Male insito in ognuno di loro [cioè dei Nazgul], essi prima o poi caddero nell’Ombra». Non si può negare che, per quanto riguarda le biografie dei Nazgul che fino a questo momento ho descritto, un ruolo preponderante sia attribuito alla loro ambizione, declinata sotto forma di volontà malvagia, di ottenere posti di comando e di potere all’interno del proprio popolo o presso genti confinanti. Perfino Dwar di Waw, il Terzo, il più «umile» come origine dal punto di vista sociale, è spinto a cercare vendetta in nome dei suoi parenti, sino a trasformarsi in uno spietato tiranno. La domanda che mi sono posto nel descrivere la biografia di Ren, l’ottavo Nazgul, è stata dunque la seguente: cosa accadde a un Uomo la cui vita, apparentemente, avrebbe potuto prendere una piega totalmente diversa rispetto a quella di diventare schiavo dell’Oscuro Signore?

Per provare a rispondere a questa domanda, mi sono ispirato anche a una storia molto significativa dell’epopea di Batman: «The Killing Joke», nella quale si spiega l’origine di uno dei personaggi più significativi e importanti dell’epopea del Cavaliere Oscuro: il temibile Joker. Il pubblico ha avuto modo di apprezzarlo nelle varie interpretazioni sul grande schermo, tuttavia la storia del Joker non è mai stata, fino a questo momento, particolarmente approfondita al cinema. Basti ricordare l’ultima interpretazione di Heath Ledger nei panni del pericoloso criminale: ogni qual volta accennava all’origine delle sue cicatrici sul volto, inventava una storia diversa, probabilmente allo scopo di impressionare il suo variabile uditorio. Leggendo questa storia, invece, si apprendono molti particolari tristi sul passato e sull’origine del Joker: non voglio anticipare elementi per non rovinare la sorpresa a quanti non l’abbiano mai letto, tuttavia ciò che si apprende dimostra come Joker non desiderava essere un criminale. Una drammatica sequenza di eventi, purtroppo, lo spinsero verso una direzione senza ritorno: ciò, naturalmente, non vuol dire che il destino di ogni uomo sia determinato unicamente da fattori esterni. Semplicemente, si tratta di un invito a riflettere sulla presenza di Bene e Male all’interno di ciascun Uomo, che possono prevalare l’uno sull’altro quando uno meno se lo aspetta. Buona lettura!

«Nato nella città di Ulk Jey Ama, nell’anno 1969 della Seconda Era, Ren era il figlio di un incantatore e nipote del Signore dei Chey: ebbe un’infanzia tranquilla, senza che alcun evento lasciasse presagire quanto sarebbe accaduto una volta divenuto adulto. Nel 1992, Ren prese in moglie Elyen, una donna del suo stesso lignaggio e si trasferì presso le Ered Harmal, ove dimorò per i sei anni successivi; nel 1998, tuttavia, una grave pestilenza sconvolse le terre dei Chey, e Ren ne fu colpito gravemente, sebbene il suo corpo sopravvivesse alla lunga malattia che ne impedì il risveglio per molti mesi: infine si destò dal coma, tuttavia la sua salute mentale era stata compromessa. Ren aveva obliato molto di quanto aveva appreso in gioventù, finanche il proprio nome; eppure, nonostante la sua mente vacillasse, egli si illudeva di avere acquisito una saggezza e una lungimiranza superiore a quella di qualsiasi altro Uomo: sovente, nelle lunghe veglie notturne, la moglie lo ascoltava mormorare nel sonno parole arcane e oscure, mentre, durante il giorno, chino sul proprio seggio, egli urlava essere il figlio del fuoco, l’incarnazione della fiamma vitale stessa. Elyen tentò disperatamente di curare la follia del marito, convocando al suo capezzale erboristi provenienti finanche dal Khand occidentale, eppure le cure di costoro si rivelarono ben presto inefficaci: Ren si autoproclamò re dei Chey e i suoi seguaci praticarono numerose violenze, oltraggiando le donne e sacrificando gli infanti alla fiamma sacra.

In breve tempo Sauron comprese che il folle illusionista sarebbe stato un valido servitore, sicché, nel 2005, gli offrì l’ottavo Anello del Potere degli Uomini, con la promessa che gli avrebbe mostrato la fonte ove prendeva vita il fuoco sacro: tosto Ren accettò, e spinto da una irrefrenabile follia, aggravata dal potere corruttore dell’Anello, organizzò le sue armate affinché conquistassero tutta la Terra di Mezzo centro-orientale; nel volgere di un secolo, le sue truppe, alleate con quelle del Khand di Uvatha, presero a dominare un impero quale mai nessun Uomo delle loro stirpi aveva mai governato fino a quel momento. Ren si stabilì nella sua città natia, dopo aver fatto sacrificare i figli e la moglie al fuoco purificatore, la cui fonte si trovava nel regno di Mordor; abbandonò la capitale del regno di Chey solo in occasione dell’arrivo di Erfea Morluin a Numenor, allorché si unì agli altri Nazgul in una ricerca infruttuosa. Dopo la caduta, Ren si recò a Mordor con le sue poderose armate e partecipò all’assedio di Osgiliath, fallendo tuttavia per l’arrivo delle truppe dell’Ultima Alleanza; durante l’assedio di Barad-Dur, il Re Stregone gli ordinò di occupare il valico di Cirith Ungol, per tema che altre truppe di Gondor potessero giungere da ponente: tale strategia, tuttavia, si rivelò inutile, ché l’Anello fu preso e Ren affondò nella Tenebra».

Adunaphel l’Incantatrice. La Settima

Per tutti quelli che credono che le donne siano meno pericolose (ed efficaci) degli Uomini…altro che sesso debole! Immagino che la scelta di un Nazgul donna possa non piacere a tutti, perciò sono preparato a obiezioni in questo senso; tuttavia, ritengo che accanto a donne elfiche come Galadriel, schierate fra i «buoni», non sfigurino degli alter ego militanti nella parte avversa. Nasce così la figura di Adunaphel, una sorta di Mata Hari della Terra di Mezzo, letale, seducente e pericolosa spia al servizio di Sauron. Buona lettura!

Principessa del Forastar in Numenor, dama Adunaphel era nata nell’anno 1823 della Seconda Era nella città di Armenelos, figlia di Inizildun, principe e comandante della flotta del re; fin da tenera età ella si distingueva dalle sue compagne per una mente acuta e una bellezza simile a quella delle donne elfiche: crescendo, Adunaphel affinò le sue doti, e numerosi Uomini le chiesero la mano, sedotti dal suo fascino e dalla sua volontà d’acciaio. Adunaphel, tuttavia, disdegnava tali proposte non reputandole all’altezza della propria fama; molto temeva la morte e mai obliò le sofferenze che l’anziano padre aveva patito durante la lenta agonia che l’aveva condotto al suo decesso, provocate dal suo folle disio di abiurare la morte stessa, perdurando nel suo corpo mortale. Poco affetto c’era tra la dama di Forastar e la madre, ché costei sosteneva la causa degli Eldar ed era avversa al partito del sovrano, cui invece la figlia aderì con entusiasmo: alla corte del sovrano ella conobbe il principe Atanamir, e il suo cuore fu colmo di passione nei suoi confronti, reputandolo superiore a coloro che aveva respinto in passato; grande fu la sua ira allorché l’Erede al trono la respinse ed ella giurò sulla memoria del padre che avrebbe ottenuto la testa del principe.

Nel 1914 S. E., Adunaphel abbandonò Numenor per fondare una colonia nella Terra di Mezzo e sottomettervi i suoi abitanti; a lungo ella viaggiò verso ponente, finché sbarcò nelle terre dei Variag, ove impose la sua legge: per alcuni anni il regno di Ard la Vanitosa, come ella si faceva chiamare dalla sua gente, espanse i suoi confini a Est e a Sud, finché Adunaphel, stanca di dover pagare un tributo al suo re, colse l’occasione per dichiarare la propria indipendenza: Atanamir, nel frattempo divenuto sovrano di Numenor, ne decretò la condanna a morte ed ella allora fuggì verso Oriente, mentre il suo regno veniva occupato dalla armate di Numenor. Rabbia e ira covò nel suo cuore e a lungo vagabondò nei deserti del Khand, fino al giorno in cui fu catturata da una tribù di Variag, il cui signore ne fece la schiava preferita; ella pazientò, finché non sedusse le guardie del suo padrone e non fu certa di aver appreso le arti della spada e della lancia. Dopo un anno Adunaphel sgozzò nel sonno il re dei Variag e si proclamò regina di quel popolo: Sauron allora ebbe sentore della signora di Numenor e la convocò a Mordor, promettendole vendetta contro i guerrieri di Atanamir. Adunaphel accettò l’offerta dell’Oscuro Signore e ricevette il settimo Anello degli Uomini, giurando eterna fedeltà al suo padrone, nell’anno 2004 della Seconda Era.

Nei successivi mille anni, il Nazgul ebbe dimora nella capitale del suo impero, che in lingua elfica aveva nome Minas Gulwen (Torre della Fanciulla Strega), ordendo la caduta di Numenor; nell’anno 3277 Sauron la inviò a Umbar, ove ella sedusse il luogotenente di Ar-Pharazon, sicché l’influenza del Maia Caduto si estese al porto. Erfea Morluin visitò la roccaforte di Adunaphel due anni dopo e ne sconfisse i servi con l’aiuto del principe elfico Morwin: furente, Adunaphel allora affrontò i due guerrieri e avrebbe riportato la vittoria, se in quel momento il Sole non si fosse levato in tutta la sua possanza umiliando il suo nero spirito. Dopo Atalante, le armate di Adunaphel presero la città di Minas Ithil e si diressero verso Osgiliath, venendone duramente sconfitte durante il primo assedio: in seguito, ella fu vicino a realizzare il suo obiettivo, allorché giunsero gli eserciti degli altri Ulairi e Gondor parve crollare; tuttavia, l’arrivo della forze dell’Alleanza sconvolse i suoi piani ed ella ripiegò alla Dagorlad, ove venne sconfitta nuovamente. Negli ultimi anni dell’assedio partecipò con gli altri Nazgul alla difesa di Barad-Dur, precipitando nell’oblio allorché Sauron cadde.

«Il Ciclo del Marinaio», pp. 392-393

 

10

adunaphel

Suggerimenti di lettura:

I Nazgul

Er-Murazor, il Primo dei Nove

Khamul, il Secondo, l’Ombra dell’Oriente.

Dwar di Waw, il Terzo, il Signore dei Cani

Indur, la Morte dell’Alba, il Quarto

Akhorahil, il Re Tempesta, il Quinto

Hoarmurath di Dir, il Re del Ghiaccio, il Sesto.

Ren il Folle, l’Ottavo

Uvatha, il Cavaliere, il Nono

Ritratti – Adunaphel l’Incantatrice

Hoarmurath di Dir, il Re del Ghiaccio, il Sesto.

Nato nell’anno 1954 della Seconda Era a Emurath di Uab, nella foresta di Dir posta all’estremo Nord della Terra di Mezzo, Hoarmurath era un discendente di una stirpe di rozzi montanari e cacciatori: sua madre era stata la grande matriarca del regno di Urdar finché la morte l’aveva colta durante una delle numerose guerre condotte contro le genti del Forochel, lasciando il trono nelle mani della figlia maggiore Amurath, secondo le leggi del suo regno; in tale occasione Hoarmurath divenne il Signore della Casa, raggiungendo in tal modo la carica più ambita che un Uomo potesse desiderare nella contrada di Urdar. Tosto, tuttavia, l’ambizione di Hoarmurath giudicò la propria posizione insufficiente per realizzare i grandi obiettivi che la mente di costui aveva maturato durante un soggiorno tra le genti del Khand; ivi si era convinto che il manto regale spettasse a un uomo e che sua sorella dovesse essere deposta: fatto ritorno a Urdar reclutò molti sostenitori fra coloro che detestavano Amurath, proclamando apertamente la ribellione.

Oltraggiata dall’insulso comportamento del fratello, la matriarca di Urdar ne ordinò l’arresto e ne dispose l’esilio; seguirono scontri armati tra le due fazioni, finché Amurath cadde sotto i colpi dei sicari di suo fratello, il quale pose sul suo capo la corona di Urdar nell’anno 1992; reso arrogante dai successi ottenuti, Hoarmurath si accinse a conquistare i territori dei Lossoth. Nulla temeva, ché era invero un grande guerriero, eppure la regina sua sposa non riusciva a dargli quell’erede maschio che avrebbe assicurato la sopravvivenza della sua dinastia: allora lo prese la paura della morte ed egli si rivolse a un suo alleato, Khamul l’orientale, il quale gli offrì, su ordine di Sauron, il sesto Anello degli Uomini; accecato dalla follia, egli lo accettò senza porsi alcuna domanda e cadde in preda al potere dell’Ombra, nell’anno 2003 della Seconda Era.

Nei successivi quattrocento anni, espanse i confini del suo reame, conquistando le terre dei Lossoth e spingendosi finanche nel Rhovanion, ove sottomise numerose tribù di Esterling: infine, dopo aver ucciso la prima moglie e aver assicurato un erede al proprio regno, partì per Mordor, ove servì il suo signore fino alla cattura di costui da parte dei Numenoreani. Dopo la Caduta, fece ritorno a Urdar, ove comandò gli eserciti di Dir nelle battaglie contro i cavalieri del Rhovanion che ancora non si erano sottomessi alla volontà di Sauron, sconfiggendoli in battaglia presso il fiume Celudin; richiamato tuttavia all’assedio di Gondor, il Re del Ghiaccio, come lo chiamavano i suoi guerrieri, condusse il suo esercito a Sud.

Dopo la sconfitta per opera dell’Ultima Alleanza, Hoarmurath partecipò alla difesa di Barad-Dur, precipitando nell’ombra allorché Isildur si impossessò dell’Unico Anello.

9

Suggerimenti di lettura:

I Nazgul

Er-Murazor, il Primo dei Nove

Khamul, il Secondo, l’Ombra dell’Oriente.

Dwar di Waw, il Terzo, il Signore dei Cani

Indur, la Morte dell’Alba, il Quarto

Akhorahil, il Re Tempesta, il Quinto

Adunaphel l’Incantatrice. La Settima

Ren il Folle, l’Ottavo

Uvatha, il Cavaliere, il Nono

Akhorahil, il Re Tempesta, il Quinto

Nato nell’anno 1888 della Seconda Era, Akhorahil era il primo figlio di Ciryamir, appartenente al medesimo lignaggio del re di Numenor, Tar-Ciryatan; sebbene fosse un Uomo dotato di una forza prodigiosa e di una mente lungimirante, Akhorahil fu corrotto dalla sua sfrenata ambizione. Nel 1904, Ciryamir ottenne una licenza dal sovrano per fondare e amministrare una colonia reale nel meridione della Terra di Mezzo. L’anno successivo, Akhorahil navigò con la sua famiglia fino a sbarcare con il suo esercito presso il porto di Hyarn, in Endor e di lì, attraverso il fiume Aronduin, giunse alla cittadella, recentemente fondata, di Barad-Caramun (Torre del Tramonto). Ivi, Ciryamir fondò il reame di Ciryatandor, ed esso si estendeva dal mare fino ai contrafforti delle Montagne Gialle.

Giovane nella mente e nel corpo, Akhorahil godette della sua nuova dimora, ma il suo spirito ambiva incutere timore in quanti lo circondavano; tale era la sua ambizione che si applicò con ferrea volontà allo studio della arti oscure, eppure i risultati ottenuti in tale campo non soddisfecero appieno la sua fama di potere. Non trascorsero molti anni che il suo cuore iniziò a reclamare il trono del padre, finché nel 1918 egli promise a un anziano sacerdote dell’Harad che avrebbe scambiato i suoi azzurri occhi con le due Gemme del Dominio, le stesse che avevano permesso al suo precedente possessore di diventare il maggior esperto delle Arti Oscure nel regno degli Haradrim.

Tosto, il crudele Numenoreano adoperò tali artefatti per controllare la mente del padre e condurlo alla pazzia e infine al suicidio: in tal modo, colui che ormai si faceva chiamare il Re Tempesta, ottenne il trono paterno e sposò la sorella Akhoraphil.

Nel corso del ventesimo secolo, Akhorahil conquistò vaste contrade nel meridione della Terra di Mezzo, suscitando l’interesse di Sauron, il quale voleva appropriarsi di tale reame: un ambasciatore fu inviato presso il Re Tempesta, con il segreto incarico di offrire al Numenoreano il quinto Anello del Potere degli Uomini, promettendogli una conoscenza illimitata e una gloriosa immortalità. Consumato dall’avidità e dall’ambizione, Akhorahil legò la propria anima a quella dell’Oscuro Sire, ottenendo il suo Anello nell’anno 2002.

Nei successivi duecentocinquanta anni, il Re Tempesta non fu visto da alcuno dei suoi sudditi, mentre sua moglie e il suo primogenito abbandonarono la corte, sconvolti dalla metamorfosi che aveva subito il folle Numenoreano; il Nazgul, tuttavia, decretò prematuro rivelarsi al mondo e continuò a pagare i tributi a Numenor, ché non voleva destare sospetti alla corte del sovrano. Infine, allorché ritenne i tempi maturi, proclamò l’indipendenza di Ciryatandor, beffandosi dei tentativi del suo sovrano, Tar-Ancalimon, di riportare il suddito all’obbedienza: dopo alcuni anni, le armate di Numenor annientarono il reame del Re Tempesta; tuttavia, costui era fuggito nell’ultima contrada ove i suoi nemici l’avrebbero cercato, ed elesse Elenna stessa a sua nuova patria, dimorando nell’isola del Dono fino al regno di Tar-Palantir, il quale si dimostrò incorruttibile all’azione dei suoi servi. Nel profondo dell’Harad, il Nazgul aveva fondato una fortezza imprendibile e ivi si diresse allorché fuggì da Numenor; con suo grande disappunto, tuttavia, Erfea Morluin si addentrò nei tenebrosi meandri della sua dimora, ivi scoprendo le vere identità degli Ulairi. Grande ira covò nel suo cuore il Re Tempesta allorché la sua cittadella fu violata e furente giurò di trucidare con le sue stesse mani colui che aveva osato compiere un simile atto.

8

Suggerimenti di lettura:

I Nazgul

Er-Murazor, il Primo dei Nove

Khamul, il Secondo, l’Ombra dell’Oriente.

Dwar di Waw, il Terzo, il Signore dei Cani

Indur, la Morte dell’Alba, il Quarto

Hoarmurath di Dir, il Re del Ghiaccio, il Sesto.

Adunaphel l’Incantatrice. La Settima

Ren il Folle, l’Ottavo

Uvatha, il Cavaliere, il Nono

Indur, la Morte dell’Alba, il Quarto

Nato nella città di Korlan nel 1935 della Seconda Era, Ji Indur era l’erede di una ricca famiglia della repubblica di Koronande; possedette fin dall’adolescenza un carattere molto ambizioso, divenendo il più giovane governatore eletto in quella contrada. Allorché divenne un membro del consiglio di Koronande, egli promosse una politica volta a contrastare l’influenza di Numenor sulla sua patria; sotto il regno di Tar-Ciryatan, infatti, navi da guerra numenoreane erano per la prima volta apparse nelle acque della repubblica, destando notevole preoccupazione nell’animo del governatore.

L’influenza dei Numenoreani minò le basi sociali e politiche di Koronande, al punto tale che Indur temette per la stessa sopravvivenza del suo potere: reso timoroso da tale minaccia, con un colpo di stato, Indur sciolse l’assemblea nazionale e si proclamò re di Koronande. Tale soluzione politica non era tuttavia condivisa dalla maggior parte della gente di Korlan, ché essi erano fieri della loro libertà, né avrebbero permesso a Indur di estendere il suo potere: nei successivi ventitre anni, si verificarono una serie di guerre civili e ribellioni. L’intervento dei coloni Numenoreani di Tantarak, che mal tolleravano simili disordini, portò Indur ad appropriarsi nuovamente del suo regno, ma un’ultima sommossa popolare, comandata dal governatore di Korlan, una delle piazzeforti del nuovo regno, condusse il sovrano all’esilio e restaurò la repubblica.

Ji Indur fuggì nel Mumakan, sede di molti agenti di Sauron fin dal diciottesimo secolo della Seconda Era: ivi egli trovò ospitalità e la salvezza, ché era noto all’Oscuro Signore, il quale pensava di servirsi del re caduto per estendere il suo potere a Sud e gli offrì un nuovo trono.

Un’oscura alleanza fu siglata tra il giovane re e Sauron, e il Maia corrotto gli donò il quarto Anello degli Uomini nell’anno 2001: Ji Indur divenne uno schiavo dell’Oscuro Signore.

Il nuovo re del Mumakan mutò il suo nome in Ji Amaav II, affinché il popolo credesse che egli fosse davvero il discendente del precedente sovrano, il primo che avesse posato sul suo capo la corona ricavata dall’avorio del mumakil: il Nazgul regnò per milleduecentosessantadue anni, riuscendo a sottomettere la colonia numenoreana di Tantaruk, finché, con l’arrivo delle armate di Ar-Pharazon, egli dovette fuggire, rifu- giandosi nelle giungle dell’Harad.

Nei successivi anni, apprese dagli Haradrim le loro strategie di combattimento e ne divenne il sovrano. Durante l’assedio di Gondor, condusse i suoi eserciti in prima linea e pochi erano coloro che potevano osservare senza provare sgomento la corona del Re Mumakan; al termine della guerra, tuttavia, egli cadde nella Tenebra insieme al suo Oscuro Signore, quando costui fu privato del suo Anello.

7

Suggerimenti di lettura:

I Nazgul

Er-Murazor, il Primo dei Nove

Khamul, il Secondo, l’Ombra dell’Oriente.

Dwar di Waw, il Terzo, il Signore dei Cani

Akhorahil, il Re Tempesta, il Quinto

Hoarmurath di Dir, il Re del Ghiaccio, il Sesto.

Adunaphel l’Incantatrice. La Settima

Ren il Folle, l’Ottavo

Uvatha, il Cavaliere, il Nono

Dwar di Waw, il Terzo, il Signore dei Cani

Dendra Dwar nacque nel 1949 della Seconda Era, nell’isola di Waw, figlio di un pescatore Wolim di nome Dendra Wim e di una lavandaia, Ombril, che morì dandolo alla luce. Dwar ebbe un’infanzia difficile, segnata dal dolore per la perdita della madre e dal duro lavoro che dovette praticare fin dall’età di sette anni: taciturno e malinconico, il giovane pescatore nutriva tuttavia una smisurata ambizione che crebbe con lui e ne determinò l’amaro destino; angusta gli sembrava la sua isola ed egli desiderava esplorare le coste della Terra di Mezzo che, nelle chiare albe d’Estate, erano visibili dalla barca ove egli lavorava.

L’isolamento di Waw dal continente di Endor terminò nel 1965, allorché i guerrieri del K’Prur di Hent sbarcarono nell’isola, saccheggiando Horn, la città natale di Dwar: le forze nemiche trucidarono selvaggiamente gli abitanti Wolim, bruciandone le case e i porti; Dwar, suo fratello Dwem e suo padre Wim trovarono rifugio nelle cave che si estendevano sotto le scogliere della costa occidentale. Wim, gravemente ferito durante la fuga da un giavellotto nemico, morì alcune settimane dopo: il giovane Dendra giurò sullo spirito del padre che avrebbe sterminato gli aggressori del loro popolo e si preparò al duro compito che tale giuramento obbligava a compiere.

Dendra navigò verso Nord, diretto alla terra di Wol, per apprendere le strategie di guerra delle tribù Wolim che ivi avevano dimora: Dwar sapeva che in tale contrada gli sarebbero state rivelate le conoscenze per allontanare il nemico dalla sua terra natia e prestò servizio nelle armate dei Wolim per molti anni.

In breve tempo Dwar acquisì grande fama presso quelle genti, ché era divenuto un guerriero feroce e implacabile: in qualità di esploratore delle armate di Wol, egli apprese le Arti della parola e del comando necessarie per addomesticare i feroci mastini da guerra che terrorizzavano i guerrieri di Hent, i cui corpi erano protetti da leggere armature in cuoio; tuttavia, sebbene Dwar fosse considerato dai suoi commilitoni un prode guerriero, egli ambiva ottenere conoscenze quali mai un Uomo della sua stirpe aveva appreso: nel 1974, Dendra divenne allievo di Embra Silil, un anziano sacerdote del culto di Morgoth e questi gli svelò le arcane Arti Oscure. A lungo il giovane mago si applicò in tali studi, dimostrando un talento quale pochi fra i Secondogeniti potevano vantare di possedere. Nel 1980, Dwar assunse la carica di Signore dei Cani e condusse un contingente delle sue truppe contro la cittadella di Alk Waw e la strappò al controllo dei guerrieri Hent: adoperando le sue Arti Oscure e le sue legioni di cani guerrieri, dopo un anno d’assedio, spezzò le linee dei suoi nemici.

Durante questi lunghi mesi, grazie all’azione combinata di duemila cani da combattimento e dei suoi Uomini, egli estese la sua influenza a tutta l’isola: ottenuta la vittoria, Dwar si proclamò Alto Custode dell’isola e rifiutò di riconoscere l’autorità del Consiglio degli Anziani.

Waw divenne nota come l’Isola dei Cani, governata dalle severe leggi emanate dal signore dei Wolim in persona; eppure, nonostante suo padre fosse stato vendicato, Dwar posò i suoi avidi occhi sulle terre circostanti, non pago di aver soddisfatto il suo giuramento, ché grande era divenuta la sua ambizione ed essa ora si misurava in virtù delle conquiste che egli presagiva ottenere: nel volgere di pochi anni, Wol, Brod, Cimonienor ed Hent caddero sotto il suo controllo e nel 1998, il potere di Dendra si era esteso in tutto l’estremo levante della Terra di Mezzo.

Il signore dei Cani, tuttavia, non era soddisfatto di quanto la sua brama di potere gli aveva consentito di acquisire e temeva la morte sopra ogni altra cosa, ché a essa ambiva sfuggire qualora fosse giunta l’ora: lesto allora afferrò l’offerta di immortalità che Sauron di Mordor gli offrì ed egli cadde sotto il dominio dell’Ombra, accettando il terzo degli Anelli degli Uomini nell’anno 2000.

Lentamente il suo sembiante fu consumato dalla malvagità dell’Anello e Dwar infine si mutò in uno spettro immortale, al servizio dell’Oscuro Signore di Mordor; pure egli poteva assumere forma fisica qualora lo desiderasse e in tale veste controllò l’operato del nipote Dendra II, il quale ora deteneva la carica di Alto Custode di Waw. Per duecentocinquanta anni, il terzo fra i Nazgul rimase all’ombra della torre di Alk Waw, finché non ebbe condotto le sue legioni nella terra di Mordor, ove servì il suo Oscuro Signore nei successivi secoli della Seconda Era.

6

Suggerimenti di lettura:

I Nazgul

Er-Murazor, il Primo dei Nove

Khamul, il Secondo, l’Ombra dell’Oriente.

Indur, la Morte dell’Alba, il Quarto

Akhorahil, il Re Tempesta, il Quinto

Hoarmurath di Dir, il Re del Ghiaccio, il Sesto.

Adunaphel l’Incantatrice. La Settima

Ren il Folle, l’Ottavo

Uvatha, il Cavaliere, il Nono

Khamul, il Secondo, l’Ombra dell’Oriente.

Il secondo dei Nove in potenza, aveva nome Komul I ed era nato nell’anno 1799 della Seconda Era nella città di Laeg-Goak, posta all’estremo Est della Terra di Mezzo: egli era il figlio più anziano di Hionvar Mul Tanul di Womaw, e aveva avuto come nutrice Dardarian, moglie di un principe degli Elfi Avari, la quale, in seguito, era divenuta la sua prima consigliera, fino alla sua ascesa al trono nell’anno 1849. L’influenza dell’ambiziosa Elfa fu molto forte nei confronti di Komul, tanto da spingerlo a desiderare sopra ogni altra ambizione l’immortalità; egli infatti, pur avendo sangue elfico nelle vene, non era della stirpe dei primogeniti, e la durata della sua esistenza, nonostante fosse maggiore rispetto a quella dei suoi sudditi, gli pareva ben poca cosa. Il regno di Womaw era il più potente fra coloro che si estendevano all’Est della Terra di Mezzo, e i suoi abitanti erano soggetti all’influenza degli Elfi Avari, dai quali avevano appreso le arti della parola e della lavorazione del legno: essi discendevano dai medesimi padri dei Numenoreani, e la loro ricchezza superava in splendore quella dei regni circostanti.

Komul I era affascinato dalla grandezza degli eredi degli Edain, e sotto il suo regno, l’influenza degli ambasciatori di Numenor aumentò, con grande disappunto del suo popolo, irritato dalla continua intromissione di questi nei loro affari. Sin da quando i Numenoreani avevano iniziato ad avere relazioni commerciali con il regno di Womaw, molte colonie erano state stabilite nei loro territori; durante il regno di Komul, tuttavia, gli Uomini dell’Ovest avevano preso a fortificare i loro possedimenti, ottenendo dal sovrano numerose concessioni, con l’unico risultato di esasperare il malcontento popolare. Dal 1944, la stabilità interna del reame fu minacciata dalle rivolte di molti fra i signori dei Womaw, che vennero meno alla fedeltà nei confronti del loro signore: Komul, disperato e impotente, si rivolse all’antica consigliere Dardarian, la quale lo sedusse con la sua bellezza e la promessa dell’immortalità; egli accettò, e strinse un’alleanza con il regno Avaro di Hekaneg; tale mossa politica gli permise, l’anno successivo, di ritirare le concessioni fatte ai Numenoreani, impedendo che il suo regno si disgregasse; tuttavia, la caduta dei Womaw era stata solo rimandata, ché Dardarian era una spia di Sauron di Mordor e aveva ricevuto da questi l’incarico di corrompere Komul. Nel 1999, l’Elfa consegnò nelle mani del re womaw l’artefatto che gli avrebbe concesso l’immortalità e l’infinita schiavitù sotto il giogo del Signore degli Anelli; la scomparsa di Komul, l’anno successivo, aprì una stagione di lotte sanguinose per il trono. Assassini e intrighi matrimoniali sconvolsero quella che un tempo era una pacifica nazione; infine, cinque anni dopo aver accettato l’Anello, Komul fu costretto ad abdicare al trono, in favore della fazione sostenuta dai Numenoreani, il cui esponente era suo cugino Aon. Nessuno comprese dove fosse fuggito Komul; si venne in seguito a sapere, tuttavia, che al termine di una lunga peregrinazione, raggiunse i cancelli di Barad-Dur nell’anno 2000 e ivi assunse la carica di scudiero dell’Oscuro Signore, mutando il suo nome in Khamul, secondo la lingua nera di Mordor. Il secondo fra i Nazgul rimase a Mordor fino al 3263, allorché il suo padrone fu tratto in catene a Numenor ed egli fuggì verso l’Est, nelle terre dei Chey, ove il suo influsso malefico corruppe tre grandi tribù, i cui guerrieri militarono nelle file di Mordor durante la guerra contro l’Ultima Alleanza.

5
Suggerimenti di lettura: