Erfea & Miriel – bozze figurini

Continuo ad aggiornarvi sulle bellissime illustrazioni che Anna Francesca Schiraldi sta disegnando in queste settimane, aventi come oggetto Erfea e Miriel, i protagonisti principali del Ciclo del Marinaio. Dopo avervi mostrato gli schizzi veloci dei visi dei due personaggi, che potete visionare nell’articolo Studi per nuovi ritratti, posso adesso mostrarvi con grande soddisfazione i bozzetti delle due figure intere. Vi ricordo la pagina facebook https://www.facebook.com/HirviSketch/ dove potrete ammirare le fantastiche creazioni di Anna Francesca…aspetto i vostri commenti!

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Ritorno a Numenor

Continuo in questo articolo la narrazione delle avventure che Erfea visse nella Terra di Mezzo durante la sua giovinezza, fino al suo ritorno a Numenor per essere insignito del titolo di cavaliere.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Lesti trascorsero i mesi, e gli anni, né alcuna notizia giungeva da occidente; pure, sebbene nel suo cuore Erfëa fosse lieto e nulla gli fosse venuto meno, egli avvertì crescere nel suo animo una profonda nostalgia della sua gente e della sua dimora. Esitava, tuttavia, ad abbandonare il regno del Lindon, ché egli era convinto di non aver mostrato ai suoi ospiti sufficiente gratitudine per quanto aveva ricevuto ed avrebbe voluto compiere per il suo anfitrione gesta valorose.
Yavië[1] era giunto e ancora nessun’occasione per mostrare il suo valore gli si presentava, allorché Gil-Gilad gli parlò: “Giovane figlio di Gilnar, il tuo animo è insoddisfatto, perché inebriato dai racconti che ha udito in queste sale. Ambisci ottenere la gloria imperitura che i bardi riservano a quanti compiuto grandi gesta; pure, non aver fretta di voler dimostrare il tuo valore, ché questi sono ancora giorni di pace e se essi verranno meno, il tuo spirito sarà lesto a dolersi”.
“Mio signore, poiché tu mi hai esposto il tuo pensiero, lascia che io possa essere sincero con te: ho appreso quanto desideravo conoscere ed ho duellato con maestri d’arme quali non ci sono nella mia patria; pure, sebbene io ti sia profondamente grato per quanto hai permesso che io imparassi, il mio animo è invero insoddisfatto, ché esso brama la gloria dei miei avi”.
Un’ombra apparve allora sul volto di Gil-Galad ed egli sospirò a lungo; infine, avvedendosi che l’erede di Gilnar era impaziente di misurare la sua abilità, così gli parlò, tentando di dissuaderlo:
“Erfëa, se anche tu potessi affrontare in singolar tenzone Sauron, l’Oscuro Sire di Mordor in persona, credi che il tuo animo recupererebbe quella pace che invano cerchi? Non è in tal modo che si ottiene la vera gloria, ché essa risiede nella nostra capacità di servire la potenza di Ilúvatar. In tempi di pace, Uomini ed Elfi dovrebbero godere della vita così come era prefigurata prima che Melkor intonasse un canto nuovo e diverso, orribile ad udirsi”.
L’ira avvampò nel cuore del Númenóreano ed egli a stento la dominò: “Mio sire, se Morgoth ha reso irrequieti i cuori degli Uomini, non è ignorando le sue azioni che potremo conoscere pace e letizia! Concedimi, dunque, di stanare le sue creature che ancora dimorano nel vasto mondo, affinché io sia degno delle potenze di Arda”.
Secca fu la replica di Gil-Galad: “Non ho alcun potere su di te, Erfëa, figlio di Gilnar, e se ti ho aperto il cuore è per evitare che tu cadessi vittima delle tue stesse debolezze. Va’ pure, se lo desideri, non sarò io a contrastarti: possano i tuoi passi non tradirti”.
Erfëa si inchinò dinanzi al sovrano, e lasciò la sua dimora, sebbene il suo cuore fosse dubbioso ed egli temesse le parole che il Sovrano dei Noldor aveva pronunciato; pure, non avrebbe rinunciato a portare a termine la sua missione, per paura che la sua codardia risultasse maggiore della sua vergogna. [continuare la lettura del racconto con l’articolo Il Messere di Endore]
[…] Erfëa non rispose e, voltatosi, si incamminò ove ricordava di aver subito l’assalto del servo di Morgoth; trovata l’immonda bestia, si appropriò della sua nera pelle. Dopo alcuni giorni di cammino giunse finalmente alla dimora di Gil-Galad. Lieti furono i Priminati allorché lo scorsero; timoroso in volto, il principe di Númenor si inchinò dinanzi al sovrano degli Eldar e gli donò quanto la sua caccia aveva procurato. Sorrise, allora, Gil-Galad, ché il cuore del suo ospite aveva allontanato l’ombra che ne incupiva l’animo, mostrandosi pentito.
A lungo il figlio di Gilnar parlò dinanzi al suo sovrano di quanto i suoi occhi avevano scorto nelle remote selve che si estendevano nelle contrade al di là delle montagne. Nel suo sguardo vi erano ancora meraviglia e stupore, ché mai avrebbe obliato l’anziano e gaio Messere della foresta e la sua graziosa dama del fiume. Al termine del racconto, Gil-Galad si levò dal suo scranno ed estratta una pesante chiave dalla sua veste, si diresse verso un antico forziere che giaceva in fondo alla sala: apertolo, ne estrasse una lama quale gli uomini di Númenor più non ricordavano, essendo le loro menti molto più rapide ad obliare di quanto non lo siano quelle dei Primogeniti. Stupito, Erfëa la osservò con fanciullesca curiosità: non gli sembrava possibile che una simile lama fosse stata forgiata, finanche dai fabbri dei Noldor, i quali avevano appreso l’arte da Fëanor il Grande, l’artefice dei Silmaril[2] e delle Palantíri.
Un’elegante elsa stringeva nel suo forte pugno l’Alto Sovrano dei Noldor ed essa era arricchita da delicati intarsi in ithildin[3], i quali rappresentavano le sette porte che un tempo custodivano Gondolin la Segreta dalla malizia dell’Oscuro Nemico. Il forte pomo in acciaio era attraversato da sottili fili di mithril: pareva risplendere di luce propria allorché un raggio di sole o di luna si posava sulla sua chiara superficie. Quale arte fosse stata in grado di concepire una simile meraviglia, Erfëa non avrebbe saputo dire: perfino le orgogliose lame dei suoi padri gli parevano poca cosa, se paragonata all’arma che Gil-Galad impugnava.
La guardia, solitamente realizzata in bronzo, era invece fabbricata in acciaio cavo, risultando leggera nell’impugnarla. La lama, la cui luminosità, perfino in una giornata soleggiata, era tale da abbagliare coloro che l’avessero mirata troppo a lungo, si estendeva per cinquanta pollici: sulla sua lucida superficie, rune di grande potere rilucevano splendenti.
Sorrise il Sovrano dei Noldor: “Sappi, Dúnadan, che questa lama fu forgiata da Curufin, figlio di Fëanor, celebre fabbro, agli albori della Prima Era, quando il mondo era giovane e gli Edain ancora dormivano. Donata al sovrano di Gondolin[3] Turgon la spada servì i Signori della sua casata, finché non essi non perirono durante la sua caduta. Idril, figlia del re, la trasse in salvo dal disastro e la condusse con sé allorché fuggì da Gondolin; attraverso gli anni giunse agli eredi di Eärendil e giacque a lungo nei forzieri di Imladris la Nascosta, che un giorno, forse, visiterai tu stesso. Elrond mi ha chiesto di consegnarla nelle tue mani, come dono degli Elfi a colui che si accinge a divenire cavaliere di Númenor. Io la rimetto al fianco di Erfëa, figlio di Gilnar e principe di Númenor, con profonda commozione: possa essere per te un valido sostegno, come il nodoso bastone lo è per il viandante”.
Grande fu la gioia che si dipinse allora sul volto di Erfëa, ché non credeva possibile che un simile dono fosse destinato ad un mortale: “Mio grazioso signore, se l’artefice della lama stessa reclamasse quanto la sua arte ha forgiato, pure mi mostrerei riluttante nel concedergliela, ché essa sembra non già la creazione di uno dei Figli di Ilúvatar, quanto quella del Signore dei Fabbri, Aulë il Vala. Per tale motivo, il mio braccio è troppo debole per impugnare una simile lama; pure, se tale è la volontà del Sovrano degli Eldar, io la accetterò, ché possa essere mia fedele compagna negli anni a venire”. Con prudenza, il Dúnadan accettò la spada eppure, nelle sue esitanti mani, essa parve prendere vita. Erfëa non avvertì più alcun timore, e gli sembrò che la lama fosse fiera del suo padrone. Raggiante in volto, il principe di Númenor la lanciò in aria e ripresala al volo, lesse ad alta voce le rune che vi erano impresse, chiamandola con il nome che l’artefice aveva scelto per lei:
“Sulring di Gondolin, avversaria dell’Oscuro Nemico del Mondo e dei suoi immondi servi”. Inspirò profondamente: “Possa la sua lama incutere terrore agli eserciti di Sauron, il crudele signore di Mordor”.
Congedatosi dal sovrano dei Noldor e da quanti erano nella sua corte, Erfëa si accinse a fare ritorno alla terra natia: erano ormai trascorsi sedici anni dalla sua dipartita e molto era cresciuta nel suo cuore la nostalgia per coloro che aveva abbandonato allorché, ancora giovinetto, si era imbarcato alla volta della Terra di Mezzo. Nel viaggio di ritorno lo seguì Arthol: grande amicizia era stata stretta fra i due principi ed essi, sovente, aprivano l’un l’altro i reconditi segreti che i loro cuori custodivano.
Al termine di una lunga traversata, il marinaio di vedetta sulla coffa, annunciò essere prossime le spiagge di Rómenna, il porto orientale di Númenor. Alte grida di giubilo si levarono dall’equipaggio: lesti, i marinai si accinsero ad ammainare le vele, ché il vento era caduto ed essi avrebbero dovuto proseguire a remi, né questo parve lavoro troppo grave a chi era imbarcato; la vicinanza della propria dimora, infatti, aveva accresciuto in tutti la forza e le notti insonni parevano un ricordo del passato.
Spronata da una simile forza, la nave giunse dunque al porto di Elenna, ove fu accolta da una folle festante. Da alcuni giorni, infatti, si era sparsa la voce che avrebbero fatto ritorno alla terra natia i giovani principi. Ritto sulla fiancata della nave, Erfëa scorse Gilnar e Nimrilien attenderlo e il suo cuore fu colmo di gioia; sbarcato sul pontile, il giovane principe dell’Hyarrostar fu accolto dal suo popolo ed essi lo mirarono stupiti, ché Erfëa era divenuto invero un uomo quale pochi fra loro erano, ed alto e bello a vedersi era il suo sembiante. Parve a molti, abbigliato come era nelle vesti che gli Eldar della Terra di Mezzo gli avevano donato, che Erfëa fosse divenuto simile ai Primogeniti.
Lungo il tragitto che lo condusse a Minas Laurë, sua città natale, molte domande gli posero i suoi genitori, pregandolo di soddisfare la loro curiosità; eppure, ora che il figlio di Gilnar aveva mirato i volti cari, nel suo cuore era delusione ed essa trapelò nel suo volto. Questa non sfuggì, tuttavia, a Nimrilien ed ella così gli parlò:
“Nobile figlio, devi essere davvero molto stanco, dal momento che la tua lingua è muta e non presti attenzione alle domande che ti sono poste. Il tuo spirito è affranto ed il tuo sguardo spento”.
Silente e scuro in volto, così Erfëa le rispose: “Veneranda madre, ogni tua parola corrisponde a verità; io però non intendo rivelare quale sia l’origine del mio male, per paura che il mio dolore possa sembrarmi maggiore, se fosse rivelato qui innanzi a voi”.
Scuro in volto divenne allora Gilnar: egli non gli pose più alcuna domanda, né alcun suono si levò dalla sua bocca, ché oscure gli parevano le parole del figlio ed egli non ne comprendeva il significato.
Nei giorni successivi, crebbe l’inquietudine nel cuore di Erfëa ed egli prese a vagabondare da solo, sicché a molti parve che non avrebbe potuto scegliere nome migliore. Si recava sovente nei giardini di Armenelos, ove, qualunque fosse l’intento che lo conducesse in tale luogo, pure non sembrava appagato. L’umore di Erfëa mutò solo quando si sparse la voce che Numendil avrebbe invitato tutti i pari del Regno nella sua dimora: egli manifestò allora grande impazienza, sebbene nessuno riuscisse a comprenderne il motivo».

Note

[1] L’Autunno.

[2] Le “pietre veggenti” affidate, secondo la tradizione, dagli Eldar ai Númenóreani; si veda anche “Il Racconto del Marinaio e delle Palantíri”.

[3] Una lega metallica composta da alluminio e mithril, riflettente i raggi della Luna.

[4] Gondolin, dimora del re elfico Turgon, fu costruita nei recessi di una remota valle occultata dai monti del Dorthonion, nel Beleriand settentrionale. Per secoli la sua ubicazione fu nota solo a pochi tra gli Eldar: tuttavia, al termine della Prima Era, Maeglin, il traditore, desideroso di vendicarsi di Idril, principessa di tale città e da lui a lungo amata invano, rivelò tale segreto all’orecchio di Morgoth che ordinò alle sue armate di raderla al suolo.

Studi per nuovi ritratti

Care lettrici e cari lettori,
sono molto felice di potervi presentare i bozzetti di studio per l’elaborazione dei nuovi ritratti dei due protagonisti principali del «Ciclo del Marinaio», Erfea e Miriel, preparati dalla bravissima illustratrice Anna Francesca Schiraldi. Aspetto i vostri commenti, dal canto mio posso dirmi pienamente soddisfatto delle ottime basi che sono state poste…spero di poter fornirvi nuovi dettagli quanto prima! Potete ammirare le bellissime illustrazioni di Anna Francesca anche sulla sua pagina https://www.facebook.com/HirviSketch/

P.S. A chi indovinerà a quali personaggi reali sono stati ispirati i volti dei due Numenoreani riserverò un piccolo dono…

 

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L’incontro fra Erfea e Gil-galad

Come scritto nel precedente articolo Infanzia di un paladino. Lontano dal mare… l’infanzia e l’adolescenza degli esseri umani rappresentano, senza alcun dubbio, due momenti molti complessi della vita di ciascuno di noi. Anche Erfea non fa eccezione a questa regola: dopo aver incontrato per la prima volta Miriel (sotto mentite spoglie) (Ritratto di una principessa), il giovane paladino di Numenor deve scontrarsi con l’impossibilità di poter conoscere il proprio destino prima del tempo e imparare a gestire le proprie ambizioni. Un incontro con uno dei più grandi sovrani elfici della Seconda Era, tuttavia, potrebbe essere di grande aiuto per la maturazione del giovane principe numenoreano…

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Al termine dell’anno, Eärél dovette scegliere, secondo le tradizioni degli antenati e la legge di Númenor, se preservare il nome che gli era stato attribuito dal padre alla nascita, oppure mutarlo con uno di suo gradimento. Alla cerimonia partecipavano i parenti del giovane uomo: non avevano facoltà alcuna nella scelta, ché era a discrezione del prescelto e non poteva più essere mutata. Uno scriba prendeva nota della decisione che in tale consesso era raggiunta e il cittadino di Númenor era registrato nei rotoli degli archivi di Elenna con il nome che sceglieva liberamente in tale occasione. Il giorno della festa di Yestarë[1], dedicata ad Eru Ilúvatar e ad ogni sua creazione Eärél, accompagnato dalle Dame e dai Signori dei Fedeli, si recò alla corte del principe Numendil, affinché questi ascoltasse quale sarebbe stata la sua scelta. Era opinione comune che egli non avrebbe preservato il nome paterno, ché non era amante del mare ed esso gli pareva estraneo: nessuno fra loro, tuttavia, avrebbe saputo presagire quale sarebbe stata la scelta di Eärél.
A lungo Numendil scrutò il volto del principe dell’Hyarrostar, infine, avvedutosi che la sua decisione era stata presa, così parlò:
“Giovane Eärél, dinanzi a questa corte riunita e all’Unico che è sopra i Reggenti di Arda, dovrai pronunziare il nome con il quale sarai d’ora innanzi noto alle Genti Libere e a coloro che seguono il vessillo dei seguaci di Morgoth; sia dunque la tua scelta libera e sincera, ché se così non fosse, possa l’ira di Ilúvatar abbattersi su di te”.
Tosto, la chiara voce di Eärél echeggiò nella sala pronunciando il nome che aveva prescelto: “Mio signore, dinanzi alla maestà dei Valar e di Eru Ilúvatar, giuro solennemente che prenderò il nome di Erfëa e sarò Erfëa degli Hyarrostar, principe e signore di Númenor”.
Stupiti, si levarono nella sala mormorii increduli, eppure i volti di quanti ascoltarono la profezia di Manëa non mostrano sorpresa alcuna, ché ben compresero quanto le parole della Veggente si fossero rivelate veritiere. Numendil, che era stato fra quanti avevano assistito alla nascita di Eärél, sospirò, infine parlò: “Sia dunque rispettata la tua volontà, Erfëa, figlio di Gilnar, principe dell’Hyarrostar e signore di Númenor: che la tua scelta si riveli lieta e che il tuo cuore non abbia da pentirsi per quanto la tua voce ha testé annunciato”.
Pronunciate queste parole, il signore di Andúnië si accinse ad abbandonare la sala, allorché echeggiò, per la seconda volta, la voce del figlio di Gilnar e le sue parole sorpresero nuovamente coloro che le ascoltarono: “In verità, Numendil della stirpe di Elros Tar-Minyatur, mi è parso che le vostre parole alludessero a quanto la mia mente ed il mio cuore ignorano; cosa temete, dunque? Cosa vi spinge a parlare in siffatto modo dinanzi all’erede di Gilnar? In nome dei Valar e dell’Unico, non nascondete i vostri pensieri a riguardo, ché vedo il dubbio rendere inquieto il vostro animo”.
Non vi era arroganza nelle parole che Erfëa aveva adoperato; tuttavia, per lunghi mesi, coloro che assistettero a tale cerimonia ricordarono quale inquietudine dimorasse nel cuore di Numendil, mentre si accingeva a rispondere al figlio di Gilnar: “Invero, Erfëa di Númenor, sappi che innumerevoli sono i percorsi che i nostri animi intraprendono, gli uni dettati dal libero arbitrio, gli altri dalla necessità e non tutti conducono al medesimo luogo. Qualunque sia il mio pensiero in tale faccenda, non rivelerò nulla di quanto ho appreso sul tuo destino, né troverai in questa sala e fra codeste persone, alcuno disposto a divulgare simile notizie. Il tuo cuore è ancora giovane e non è bene che apprenda anzitempo ciò che riguarda il futuro”.
Profondamente ferito nel suo acerbo orgoglio, Erfëa abbandonò la sala, senza pronunciare parola alcuna, essendo il suo spirito furente per l’umiliazione che credeva di aver subito. Non vi furono parole che placarono la sua insulsa ira ed egli trascorse alcuni giorni immerso in un profondo silenzio. Al termine di tale periodo, si presentò innanzi al padre e gli domandò consiglio:
“Padre, ben m’avvedo, ora che l’ira è scemata e la mia anima è nuovamente lieta, che le parole di Numendil furono sagge. Egli volle così mettermi in guardia contro l’arroganza che in talune occasioni si impadronisce dei nostri animi. Mi rendo conto, infatti, di essere privo di quella saggezza che terrebbe a freno la mia lingua: permettimi dunque di recarmi nella Terra di Mezzo, affinché i saggi consigli degli Eldar possano mitigare il mio carattere”.
“Se tale è il tuo volere figlio mio – rispose Gilnar – non mi opporrò. Parti dunque, e reca i miei saluti all’Alto Re dei Noldor, Gil-Galad, figlio di Fingon”.
Raggiante in volto, Erfëa si inchinò dinanzi al padre e non pronunziò più parola alcuna, ché i suoi pensieri erano volti alla partenza. Impaziente come lo sono solo tutti i giovani, prese a studiare le mappe e ogni altra pergamena fosse reperibile nella biblioteca paterna e che riguardasse la stirpe dei Primogeniti: avide, le sue mani accarezzavano i delicati rotoli racchiusi nei neri cilindri ornati di rune argentate, ché molto il suo cuore ambiva conoscere le nobili gesta della schiatta di Fëanor. Infine, allorché ogni cosa fu pronta, un vascello salpò da Númenor, recando a bordo Erfëa e Arthol[2], l’erede della casata del Mittalmar[3]. Grande amicizia era sorta tra i due giovani, ché erano fratelli nel sangue e nelle armi, essendo entrambi discendenti di Elros Tar-Minyatur e othar[4].

Lunghe settimane trascorsero, né alcun evento infausto turbò il viaggio dei Númenóreani alla volta dei lidi rocciosi della Terra di Mezzo. Infine, all’alba del quarantesimo giorno dacché essi avevano abbandonato Rómenna[5], il marinaio che era di vedetta lanciò un grido ed essi scorsero, remote all’orizzonte, alte vette la cui cima pareva sfiorare il cielo. Affascinato da tale visione, Erfëa avanzò fino alla poppa e da lì poté scorgere uccelli, le cui sembianze il giovane Númenóreano aveva scorto solo in antichi tomi polverosi, prendere vita innanzi a lui, sostenuti dalla leggera brezza che spirava da occidente.
Il cuore del Númenóreano fu colto da grande emozione, ché mai avrebbe immaginato che luoghi a lui così estranei gli sarebbero sembrati familiari come le contrade di Andor: il suo animo e quello dei suoi compagni, colmati di euforia, si accinsero ad effettuare i preparativi per lo sbarco. Allorché ogni manovra fu compiuta e lo sbarco prossimo, alcuni fra i marinai più anziani, i quali erano stati ricevuti in passato alla corte di Gil-Galad, così parlarono ai giovani passeggeri: “Non abbiate timore! Alti signori dei Noldor, la cui maestà è tale che nessuno fra noi potrebbe eguagliarne lo splendore dimorano in palazzi ricoperti d’oro ed argento; splendenti dame, le cui vesti leggiadre ondeggiano al ritmo di invisibili orchestre, allietano i banchetti che i magnanimi principi degli Eldar offrono a quanti di noi si recano presso le loro contrade”.
Sbarcati dalla nave, i Númenóreani furono accolti da Elfi avvolti in chiari abiti; costoro si inchinarono loro, suscitando negli uomini sorpresa e confusione. Nessun giovane trovò o seppe solo immaginare parole tali che potessero sembrare degne degli eredi di Fëanor: meschine e superflue, infatti, sembravano loro le cortesi espressioni apprese durante l’infanzia. Gli Elfi, tuttavia, non parvero notare l’imbarazzo dei Dúnedain, consapevoli di quanto provavano nei loro cuori i giovani principi.
Alte guardie, i cui usberghi in maglia splendevano alla luce del Sole, fecero loro segno di seguirli presso la reggia di Gil-Galad, ché costui era impaziente di farne la conoscenza. Nel momento in cui essi furono dinanzi al sovrano elfico, egli rivolse loro cortesi parole di benvenuto:
“Le nostre stirpi, Dúnedain, sono sorelle, ché esse hanno diviso le medesime pene, né è mai venuta meno l’alleanza che i vostri padri strinsero con i nostri sovrani, allorché il mondo era giovane e l’Oscuro Nemico opprimeva i nostri popoli. Sia dunque piacevole il vostro soggiorno nelle nostre dimore”. Terminato questo breve discorso, egli si rivolse ad ognuno di loro e con un cortese cenno del capo invitò i Númenóreani a prendere posto accanto a sé, ché era l’ora in cui gli Eldar erano soliti desinare.

In verità, sebbene i Dúnedain non avessero preso riposo dall’alba e fossero affamati, pochi fra loro riuscirono a mangiare: scarsa era l’attenzione che essi riservarono alle vivande riposte nei piatti d’argento, essendo i loro sguardi rivolti ai nobili signori e alle soavi dame che seduti al loro fianco. Erfëa, assorto dalla visione di simili Priminati, non pronunziò parola alcuna, né si mosse dal suo scranno finché non fu udito l’eco di una campana risuonare argentino. Lesti, i Signori degli Eldar si levarono allora dagli scranni ed invitarono i loro ospiti a seguirli in una vasta sala le cui finestre davano ad occidente; ivi si sedettero nuovamente e convocati bardi e menestrelli pregarono i Dúnedain di discorrere su quanto accadeva nell’Isola del Dono, ché, come riferì loro Gil-Galad, “ben poche erano divenute negli anni le visite degli eredi degli Edain alle aule dei Primogeniti”.
A turno, i giovani principi di Númenor si levarono in piedi e raccontarono le vicende delle proprie casate e di quanto accadeva nei loro possedimenti: assorto nell’ascolto di tali parole, Gil-Galad annuiva sovente e i suoi scribi annotavano su preziosi tomi ogni parola pronunciata dagli ospiti. Infine, dopo che molti ebbero parlato, Erfëa si levò dal suo scranno e si rivolse all’Alto Re dei Noldor con tali parole:
“Cosa vuoi che ti racconti, o re? Non dubito che i miei compagni abbiano rivelato alle tue orecchie quanto desideravi apprendere. Nessuna storia che narri le vicende degli uomini, tuttavia, mi pare adatta alle tue nobili sale, sicché io nulla dirò su tali eventi”.
Curiosa parve invero al figlio di Fingon tale risposta ed egli domandò al suo ospite cosa volesse narrare, ché era stato il solo fra gli ospiti a non pronunciare parola ed il sovrano era ansioso di ascoltarne la chiara voce. Erfëa, tuttavia, scosse il capo e formulò tale richiesta: “Mio signore, giungemmo da Númenor per apprendere la scienza elfica e tale fu la ragione che spinse il mio spirito ad imbarcarmi sul nostro vascello; vorrei, dunque, che fosse la vostra voce a narrare una storia dei tempi remoti, quando la Luna ed il Sole dormivano e l’Oscuro Nemico del Mondo tesseva le sue tele di inganno nel periglioso settentrione. Ben dicesti, infatti, allorché affermasti che rade sono divenute le visite di noi Dúnedain alla tua dimora, sicché io ti prego di narrarci quanto i nostri cuori hanno obliato”.
Mormorii di sorpresa si levarono da Elfi e dagli Uomini e molti si domandarono se le parole di Erfëa non fossero state troppo avventate; esse, tuttavia, piacquero al Signore dei Noldor, sicché egli raccontò ai suoi ospiti molte storie della Prima Era, le quali i Dúnedain avevano obliato o di cui nulla sapevano. Spentasi l’ultima nota del menestrello, Gil-Galad congedò i suoi ospiti con cortesi parole e si raccomandò ai suoi servitori affinché il loro riposo non fosse turbato da altro suono che non fosse quello dello stormire delle fronde degli alberi e dei canti che i Silvani[6] intonavano fino a tarda notte.
Rapidi trascorsero i giorni nella dimora di Gil-Galad ed Erfëa era lieto, ché gli Elfi gli mostravano grandi onori e sovente lo invitavano a disquisire di quanto aveva appreso. Gil-Galad si avvide che il giovane era lungimirante e sapiente quanto alcuni del suo popolo, pur non avendone la medesima saggezza, ché era sovente impetuoso e restio ad accettare consigli, a meno che questi non fossero ispirati da voleri simili al suo. L’alto sovrano dei Noldor molto si doleva dell’irrequietezza del suo pupillo; tuttavia, allorché il suo sguardo era colmo di sottile inquietudine, il suo araldo, Elrond il Mezzelfo, lo rincuorava, rimembrandogli che Erfëa era giovane e che presto sarebbero giunte anche per lui le prove che ne avrebbero forgiato l’animo. Gil-Galad allora annuiva e mostrava maggior indulgenza nei confronti del Númenóreano, seppure l’ombra della inquietudine non abbandonasse mai il suo spirito».

Note

[1] Il primo giorno dell’anno.

[2] Arthol, (Sindarin) “Nobile Elmo”.

[3] Contrada situata nell’entroterra di Númenor.

[4] Gli othar (scudieri in Quenya), presso i Númenóreani, erano quanti non avevano ancora raggiunto i gradi e l’esperienza dei cavalieri (Q. roqueni).

[5] Porto orientale di Númenor.

[6] Chiamati anche Moriquendi, costoro non avevano mai veduto la luce di Aman ed erano rimasti nella Terra di Mezzo, anziché seguire i loro congiunti a Valinor.

Infanzia di un paladino. Lontano dal mare…

Gli articoli pubblicati fino ad oggi si sono concentrati particolarmente sulla vita adulta di Erfea e degli altri protagonisti del Ciclo del Marinaio, portando alla luce, in qualche caso, alcuni episodi accaduti durante l’adolescenza di Erfea e di Miriel, in particolare in relazione al primo incontro tra questi due personaggi (che potrete leggere in Ombre sinistre su Numenor…). Molto poco, sino a questo momento, è stato rivelato sulla loro infanzia: in particolare, ci sfuggono le connessioni tra Erfea e i suoi genitori, sui quali credo di aver rivelato sino ad ora solo i nomi o poco più, e le circostanze che resero Erfea diverso dagli altri principi che frequentavano la scuola di Armenelos, riservata ai rampolli delle grandi famiglie nobiliari di Numenor.
L’infanzia, si sa, è un periodo molto complesso della nostra esistenza: senza dubbio ci capita di riflettere sulla sua potenza evocativa, capace di influenzare le nostre scelte e le nostre decisioni, anche a distanza di molti anni. Per alcuni personaggi, addirittura, ciò che è accaduto nell’infanzia si dimostra in grado di segnare profondamente la loro personalità e la loro esistenza per molti anni a venire, come succede, ad esempio, ad Harry Potter.
Erfea, naturalmente, non può sfuggire a questo meccanismo: anche la sua infanzia e la sua fanciullezza sono segnate da eventi fondamentali per la sua successiva maturazione e dall’incontro con personaggi in grado di lasciare nel suo animo un segno profondo, come avrete modo di capire leggendo questo nuovo articolo, che spero possa illuminarvi sulle ragioni che mi hanno indotto ad attribuirgli una titolazione così curiosa…

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Gilnar era il ventiquattresimo signore dell’Hyarrostar[1], erede di Atanalcar, quarto figlio di Elros Tar-Minyatur[2], primo re di Númenor. Gilnar era un gran capitano di navi ed un valoroso paladino del partito dei Fedeli[3], coloro che si opponevano agli uomini del Re, adoratori della Morte, che temevano sopra ogni altra cosa. Al tempo in cui questi avvenimenti ebbero luogo, Gilnar aveva acquisito notevole fama: lungimiranti erano i suoi consigli, sicché non vi era Númenóreano che non onorasse la saggezza che gli proveniva dall’aver viaggiato molto nelle inesplorate contrade della Terra di Mezzo, il grande continente che si estendeva a levante dell’isola di Elenna[4]. Nobile era il suo sembiante, sicché perfino i suoi nemici non osavano contrastarlo apertamente e quanti erano della sua fazione ne ammiravano la ferrea volontà. La casata del sovrano di Elenna sosteneva le ambizioni di Gilnar, grata per le gesta che questi aveva compiuto allorché era giovane e vi era stata guerra e discordie fra Palantir[5] e suo fratello minore Gimilkhâd[6], eredi al trono di Númenor. Palantir, sostenuto dagli Elendili[7] e dal diritto di quella contrada, aveva ereditato il trono, nonostante i partigiani dell’infame congiunto gli si fossero rivoltatati contro; essi erano stati tuttavia sconfitti e banditi da Númenor.

Sangue era stato versato in quei giorni ormai remoti ed i cuori dei Dúnedain, seppure fossero trascorsi molti anni da tali eventi, non avevano obliato i massacri che i seguaci di Gimilkhâd avevano perpetrato ai loro danni, ché i nomi di tali sventurati erano stati mormorati nelle contrade che lo scettro degli eredi di Elros dominava. Molti paladini erano morti, trafitti non solo dal crudele ferro di mercenari senza scrupolo ma anche dalle armi dei propri congiunti: i figli trucidavano i padri e questi la loro progenie. Vani erano stati per lungo tempo i tentativi dei Fedeli di sconfiggere gli uomini di Gimilkhâd: costoro, infatti, erano sostenuti da molti signori e capitani discendenti da Elros ed avevano i forzieri ricolmi dell’oro e dell’argento che avevano strappato alle stirpi dei Secondogeniti stanziati all’Est e al Sud di Endor.

Al termine di numerosi scontri, infine, il valore dei Principi dei Fedeli aveva permesso a costoro di trionfare e di imprigionare coloro che si erano macchiati di crimini indicibili, quali solo gli Orchi allevati dall’Oscuro Potere sono soliti perpetrare. Gilnar e Amandil[8], signore della casata di Andúnië, discendente di Silmariel ed erede a sua volta di Elros, avevano esortato Tar-Palantir a condannare a morte il fratello Gimilkhâd, per tema che costui, se lasciato libero, avrebbe potuto assoggettare i regni degli Uomini in Endor e condurre contro Númenor orde di predoni. Il nuovo sovrano, tuttavia, non ebbe il coraggio di levare la mano contro colui che era un suo congiunto nel sangue, e lo condannò all’esilio perpetuo nella colonia di Umbar[9], sperando che si ravvedesse e che il suo destino non fosse segnato dai crimini di cui si era macchiato in gioventù. L’erede minore allo scettro di Númenor, tuttavia, radunò nuove armate con l’intenzione di riprendere la guerra. Un’imboscata tesagli da alcuni mercenari ribelli del Variag[10] impedì però che le ostilità avessero nuovamente inizio. I cuori dei Fedeli, allorché tale novella giunse a Númenor, presero ad esultare: essi, tuttavia, ignoravano che la consorte di Gimilkhâd era sopravvissuta e con lei suo figlio. All’interno delle fortezze edificate dai loro avi secoli prima, i Númenóreani Neri celarono l’erede del fratello minore di Tar-Palantir alla sorveglianza delle schiere dei Fedeli, nell’attesa che i tempi fossero maturi per la vendetta.

Molti anni prima della morte di Gimilkhâd, quando il padre, Ar-Gimilzôr, era ancora il sovrano di Andor[11] e i seguaci dei Valar e degli Eldar invisi ai suoi mercenari e guerrieri, profondi erano i legami che intercorrevano fra i Signori di Andustar[12] e dell’Hyarrostar. Entrambi, infatti, servivano la medesima causa, sebbene Gilnar fosse più audace e risoluto nell’opposizione al sovrano di quanto non lo fosse Numendil, padre di Amandil. Questi aveva una sorella minore, chiamata Nimrilien, ché sovente era abbigliata di vesti bianche e sembrava, a coloro che dal mare la vedevano ergersi, durante le tempeste invernali, simile ad un faro nell’oscurità incipiente. Nimrilien volse il suo pensiero al principe dell’Hyarrostar, e Numendil era lieto per tale sentimento: non avrebbe desiderato, infatti, un cognato migliore di Gilnar, ammiraglio di Númenor. Erano trascorsi dodici anni[13] dacché Ar-Gimilzôr[14] era asceso al trono, allorché la bianca dama di Andúnië diede alla luce un maschio, nelle cui vene scorreva il sangue di Elros. Lieta, la donna consegnò l’infante al congiunto affinché lo chiamasse e lo accettasse all’interno della famiglia, secondo la tradizione e la legge di Elenna. “Mio figlio sarà principe dell’Hyarrostar e del mare – queste furono le parole che Gilnar pronunciò – del quale Ossë[15] ha consentito a noi Secondogeniti di solcare le vaste profondità. Eärél sarà dunque il suo nome, ché egli sarà invero un grande ammiraglio e oserà esplorare contrade che i Dúnedain mai hanno percorso con le loro leste imbarcazioni”.

I Signori di Andúnië recarono visita ai loro congiunti, esprimendo grande letizia per la nascita dell’erede di Gilnar; i Noldor di Gil-Galad colmarono il bimbo di doni preziosi e si rallegrarono della nascita del principe númenóreano: per ultima, giunse colei che i mortali chiamavano Manëa La Veggente[16]. Alcuni mormoravano che la donna fosse araldo dei Valar del remoto occidente, ché sapeva scrutare nei cuori degli Uomini e la sua sapienza era pari solo alla sua saggezza. La veggente, preso il bambino tra le anziane ma ancora vigorose braccia, lo guardò sorpreso, sicché tutti coloro che erano nella sala del palazzo di Minas Laurë[17] osservarono, angosciati, il suo viso oscurarsi. Infine, dopo aver riposto delicatamente l’erede di Gilnar nella sua culla, sospirò e pronunciò tali parole: “Signori di Númenor, mai mi era capitato, nel corso della mia lunga esistenza, di guardare un simile bambino. Eärél è stato chiamato, eppure sappi, Gilnar figlio di Nardil, che egli muterà il suo nome allorché giungerà l’ora. Il destino di tuo figlio sarà solitario e si concluderà in terra straniera: non si vincolerà a nessuna mortale o immortale, a meno che non deciderà di abbandonare il percorso che gli eventi cui sarà partecipe lo costringeranno a seguire”.

Inquieti, i volti di Gilnar e di Nimrilien osservarono in silenzio la Veggente; infine, la dama dell’Andúnië parlò e la sua voce era rosa dal dubbio e dal timore: “Vuoi forse dire che il nostro primogenito avrà una vita travagliata? Non domandavo per mio figlio ricchezze o vita lunga; eppure, il mio cuore piange presagendo quali conseguenze avranno le parole da te pronunciate”.

Il volto di Manëa rimase impassibile, come le rocce rese impenetrabili alla salsedine del mare: “Non temere Figlia di Andúnië, ché egli è destinato a grandi imprese e se il suo cuore resterà saldo, acquisterà grande fama tra le Genti Libere di Endor ed il suo nome non sarà obliato”.

La veggente si inchinò lentamente e afferrata la sua bianca verga si accinse ad abbandonare la sala; giunta, tuttavia, alla soglia della porta, si voltò e parlò ancora una volta: “Colui che ora dorme nella culla vivrà a lungo e la sua vita si spegnerà a tarda età: se la sorte non gli sarà contraria, solo Elros Tar-Minyatur avrà avuto un’esistenza più lunga della sua. Amerà, signora di Andúnië e sarà a sua volta amato. Se dolorosa sembrerà a tuo figlio la separazione allorché giungerà l’ora, sappiate che non perderà quanto sarà caro ai suoi occhi, ché il destino dei Figli Minori di Ilúvatar si compie al di fuori del mondo: i mortali, tuttavia, non lo comprendono, mentre coloro che sono degli Eldar lo ignorano. Ho parlato”.

Nessuno fra i presenti osò sovrapporre la propria voce a quella di Manëa: essi, infatti, pur onorandola, la temevano, ché, sebbene avesse sembiante umano, pure percepivano che non era della stirpe dei Figli di Ilúvatar e che aveva assunto tale aspetto solo per confondersi fra loro.

Gli ospiti, al termine dei festeggiamenti, abbandonarono la dimora di Gilnar, recandosi ciascuno nei propri domini: negli anni seguenti serbarono nel proprio cuore il ricordo di quanto era avvenuto quella notte, consapevoli che se il sovrano o uno dei suoi vassalli avesse appreso la profezia, non avrebbe esitato a sopprimere il figlio di Gilnar. Trascorsero dunque dieci lunghi anni, ed Eärél crebbe forte e vigoroso nel corpo e nella mente, sebbene parlasse poco e le sue parole fossero oscurate da una ombra di pallida malinconia. Stupiti, i suoi genitori lo vedevano parlare sovente con i gli anziani che avevano dimora nella città di Minas Laurë: Eärél, infatti, aveva un animo curioso ed era ansioso di conoscere le leggende ed i racconti che il suo popolo aveva tramandato; nelle ore serali consultava i manoscritti e le pergamene che giacevano nelle grandi e silenziose sale sotterranee di Minas Laurë.

Gilnar, suo malgrado, si avvide che il primogenito non volgeva quasi mai lo sguardo al mare: se i suoi occhi grigi si soffermavano per qualche istante sulle tumultuose onde che si abbattevano fragorosamente sulle sponde rocciose dell’Hyarrostar, ne restavano turbati. Ben presto, in cuor suo, Gilnar si rese conto che le parole pronunciate anni prima da Manëa si erano mostrate veritiere e che mai il suo erede si sarebbe dimostrato un esperto marinaio.

Grande fu dunque la sorpresa che Gilnar nutrì, allorché scorse il figlio avvicinarsi ai possenti stalloni che aveva ricevuto pochi giorni prima come dono da parte dei popoli della Terra di Mezzo. Eärél non sembrava mostrare alcun timore e le bestie lo lasciavano avvicinare al loro chiaro pelame, mostrando di gradire i suoi affettuosi buffetti.

Stupefatto, il Signore dell’Hyarrostar condusse l’erede da colui che un tempo era stato il suo scudiero, Manveru[18], perché gli insegnasse quanto era nelle sue conoscenze riguardo ai figli di Oromë[19]. Eärél trascorse molte ore nei boschi e nelle praterie battute dal soffio di Manwë[20], mentre il suo maestro lo istruiva, meravigliandosi che un Númenóreano si mostrasse abile nell’apprendere esercizi che i Dunédain comprendevano a fatica, essendo per lo più i loro cuori rivolti al mare e non ai destrieri delle contrade settentrionali.

Da mane a sera, il figlio di Gilnar apprendeva i rudimenti dell’arte di cavalcare e Manveru, ancorché fosse anziano e la sua vista era venuta meno, nutriva nel suo cuore soddisfazione per quanto il suo allievo mostrava di imparare e non mancò di farlo notare al suo Signore. Non meno stupito di quanto non lo fosse l’anziano scudiero, Gilnar si mostrava compiaciuto, ché ben si avvedeva quanto abile fosse Eärél ed era orgoglioso di un simile erede.

Trascorsero gli anni ed il giovane principe dell’Hyarrostar prese a frequentare le lezioni dei precettori reali ad Armenelos[21], capitale di Númenor. L’animo del giovane principe era colmo di meraviglia: l’arte e la scienza dei Númenóreani erano allora all’apice delle loro vette e non esistevano palazzi sì imponenti come quelli che si ergevano lungo i viali della capitale di Andor. Eärél mostrava grande interesse per ogni forma vivente di Arda e studiava i tomi che gli eruditi del suo popolo avevano scritto centinaia di anni prima sulle bestie del cielo e della terra di Endor a loro note. Sovente, allorché i suoi compagni giacevano nei loro dorati giacigli, egli afferrava un antico lume e si recava nella biblioteca di Armenelos, ove i suoi occhi, intenti a decifrare le antiche scritture dei savi, non conoscevano riposo.

Dell’interesse del giovane Eärél per le creature di Yavanna si è detto, eppure esso era superato da quello verso le antiche tradizioni e storie del suo popolo. Il principe dell’Hyarrostar sfogliava avidamente tomi polverosi, di cui nessuno ricordava più l’esistenza, sfiorandone delicatamente la superficie. Eärél considerava tali cimeli simili a tesori e si rammaricava che le biblioteche reali conservassero pochi scritti sulle stirpi di uomini che abitavano le contrade della Terra di Mezzo; per tale ragione, dunque, crebbe nell’animo del Númenóreano l’amore per le vaste distese che si estendevano al di là del mare a oriente ed il suo animo fu preso dal desiderio di esplorarle.

I precettori reali, ai quali non era sfuggito la passione che il loro allievo dimostrava nello studio di tali discipline, pur nutrendo nel loro animo incredulità, non osavano mostrarla apertamente, per tema di incorrere nell’ira del sovrano o di uno dei suoi vassalli. La schiatta dell’Hyarrostar, infatti, era invisa ad Ar-Gimilzôr, perché lo contrastava apertamente; sovente, il silenzio era l’unica risposta che tali uomini fornivano ad Eärél. All’indifferenza fece presto seguito l’ostilità: gli altri allievi, rampolli delle stirpi del Forostar, dell’Orrostar e dell’Hyarnustar[22], presero a chiamarlo Erfëa, che nella lingua degli Eldar significa “spirito solitario”, giacché egli aveva preso l’abitudine di trascorrere molto tempo lontano da loro, ignorando le crudeli risa che gli altri principi riversavano sul suo conto e poco o punto curandosi dell’odio che muoveva i loro animi ad agire in tale modo. I rampolli dei vassalli di Ar-Gimilzôr, infatti, temevano il figlio di Gilnar e ne invidiavano la saggezza e la lungimiranza che, in maniera precoce, si erano rivelate in lui».

Note

[1] Regione di Númenor, posta a Sud Est: la sua capitale era Minas Laurë, la Torre Dorata.

[2] Figlio di Eärendil ed Elwing, fratello gemello di Elrond; scelse una vita mortale e divenne il primo sovrano di Númenor.

[3] Le genti númenóreane che si mantennero fedeli all’amicizia con gli Elfi e che continuarono a venerare i Valar anche quando tale devozione fu dichiarata fuori legge.

[4] Altro nome dell’isola di Númenor, “Terra della Stella” nella lingua degli Eldar.

[5] Tar-Palantir, ventiquattresimo sovrano di Númenor e figlio di Ar-Gimilzôr.

[6] Fratello di Tar-Palantir e capitano della fazione dei Númenóreani Neri: morì durante un’imboscata tesagli dai Variag del Khand nel 3175 S. E.

[7] “Amici degli Elfi” nella lingua dei Noldor.

[8] Figlio di Numendil, fu signore di Andúnië e Sovrintendente del Regno fino alla sua dipartita dal mondo, la quale, in mancanza di testimoni oculari – ché egli si era recato all’Ovest per chiedere grazia per la sua gente – si ritiene avvenuta nel 3319 della S. E., l’anno della Caduta di Númenor.

[9] Roccaforte degli uomini del Re, e in seguito, dei Númenóreani Neri, fu edificata presso l’omonimo promontorio da alcuni coloni nell’anno 2280 S. E.

[10] Landa desertica situata a Sud di Mordor, ove erano stanziate tribù bellicose e superstiziose di uomini dell’Est; alcuni credono che costoro siano i discendenti degli Orientali che servirono sotto Morgoth e che sopravvissero alla rovina del Beleriand.

[11] “Terra di Dono”, (Númenor).

[12] Contrada situata all’interno del grande golfo che i promontori dell’Orrostar e dell’Hyarnustar creavano nelle acque del Balegaer (il Grande Mare Occidentale) prende il nome dall’omonima città: feudo degli eredi di Silmariel, primogenita di Tar-Elendil, quarto sovrano di Númenor, l’Andustar fu la dimora di molte genti fedeli agli Eldar e ai Valar.

[13] Si era dunque nell’anno 3112 S. E.

[14] Ar-Gimilzôr, ventitreesimo sovrano di Númenor, nacque nel 2960 S. E. e morì nel 3177 S. E.: perseguitò a lungo i Fedeli e proibì che costoro adoperassero le lingue elfiche.

[15] Uno spirito che entrò in Arda (il Mondo) allorché esso fu creato; seguace e servitore di Ulmo, Vala e Signore delle Acque.

[16] Veggente ed astronoma, Manëa predisse le sorti di numerosi uomini e donne di Númenor, compresa quella di Erfëa Morluin. Nessuno, tuttavia, fu in grado di apprendere il suo vero nome o la sua ascendenza ed ella era solita ripetere che non vi erano favelle atte a pronunciarlo. Sebbene in altri scritti si accenni ad una sua dipartita dal mondo, nessuno conobbe il luogo ove fu sepolta. Secondo interpretazioni postume, Manëa sarebbe stata l’incarnazione di Varda, Valië e Signora delle Stelle: non tutti, però, credettero a questa rivelazione, ed il suo nome fu obliato al termine della Seconda Era.

[17] Capitale dell’Hyarrostar e dimora degli eredi di Atanalcar.

[18] È curioso che il nome di quest’uomo sia espresso in Quenya, anziché in una delle lingue degli uomini del Nord, alle quali stirpi egli apparteneva; è tuttavia probabile che costui abbia fatto proprio l’appellativo con il quale lo chiamava il suo signore, adoperandolo come fosse un nome proprio. In base ad una nota riportata in calce al manoscritto, sembra che il suo vero nome sia stato “Ridderman”, “(Colui che) Doma il Cavallo”.

[19] Oromë, Vala e Signore dei Cavalli; presso gli uomini del Nord era anche noto come Bema.

[20] Manwë Súlimo, Vala Reggente di Arda e Signore del Cielo.

[21] Capitale di Númenor e dimora degli eredi maggiori di Elros.

[22] Forostar, Orrostar e Hyarnustar erano i nomi di alcune contrade di Númenor: la prima si trovava nel Nord, la seconda nel Nord-Ovest e la terza nel Sud-Ovest del Paese.

Erfea e l’Albero Bianco

Uno degli elementi più affascinanti della storia della Terra di Mezzo è costituito dalla presenza dell’Albero Bianco a Gondor, erede della più antica pianta che un tempo ornava la dimora dei sovrani di Numenor. Nelle pagine del Silmarillion è narrata la vicenda che portò Isildur a sottrarre, a costo della sua stessa vita, un frutto dell’albero dalla reggia di Ar-Pharazon per preservarne l’esistenza, dal momento che era ormai chiaro ai Fedeli l’infausto destino che l’albero avrebbe conosciuto per mano di Sauron, che sobillava il sovrano affinché lo bruciasse. L’odio dell’Oscuro Signore nei confronti di questa pianta era spiegato in virtù delle sue nobili origini, che risalivano addirittura ai due Alberi di Valinor, la terra degli dei, scomparsi ormai da epoche immemorabili. Attraverso i secoli, nella Terza Era, si mantenne l’usanza di coltivare un esemplare dell’Albero Bianco, la cui sopravvivenza, in qualche modo, era legata a quella stessa di Gondor e della linea di successione di Isildur e Anarion: purtroppo, però, nell’anno 2852 di quell’epoca, l’ultimo esemplare conosciuto di Albero Bianco cessò di vivere e, in mancanza di un suo sostituto, fu deciso di conservarne le spoglie ormai rinsecchite. Nacque così la leggenda dell’Albero Morto, il cui sembiante è visibile anche nel terzo capitolo cinematografico del Signore degli Anelli: in questo film, tuttavia, l’albero rifiorisce dopo lungo tempo (oltre 150 anni più tardi), presumibilmente perché avverte l’arrivo dell’erede di Isildur, ossia di Aragorn. Per quanto la scena della prima rifioritura dell’Albero Bianco dopo così tanto tempo sia davvero suggestiva, nel romanzo gli eventi prendono una piega differente: il vecchio albero, infatti, è ormai irrecuperabile ed Aragorn, prossimo ad essere incoronato re di Gondor, si mostra piuttosto preoccupato per la mancanza di un nuovo virgulto. Gandalf, tuttavia, lo conduce attraverso sentieri ignoti verso un luogo remoto sul Monte Mindolluin che sovrasta la città di Minas Tirith: in quei luoghi l’ultimo erede di Isildur trovò un nuovo alberello. Alla legittima domanda mossa da Aragorn in merito alla provenienza di quel virgulto – che si trovava laddove nessun essere umano si recava più da anni – così rispondeva enigmaticamente Gandalf: «In verità questo è un alberello della linea di Nimloth il Bello; seme di Galathilion e frutto di Telperion dai molti nomi, il più antico degli Alberi. Chi può dire come mai si trovi qui all’ora indicata? Ma questo è un luogo antico, e prima che i re si estinguessero e che l’Albero appassisse, fu indubbiamente deposto qui un frutto. Perché dicono che benché il frutto dell’Albero maturi di rado, la vita in esso può tuttavia covare per lunghi anni, e nessuno può prevedere quando si desterà». (Il Signore degli Anelli, p. 731).

Questo passaggio mi ha incuriosito fin dai tempi della mia prima lettura del Signore degli Anelli: per questa ragione ho deciso di ispirarmi alla misteriosa presenza di un virgulto dell’Albero Bianco in un luogo così inospitale per tracciare un filo invisibile in grado di legare Erfea ai suoi più lontani discendenti…ma non voglio anticiparvi altro, vi auguro buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Grandi distanze egli percorse, e mai nessuno gli si parò innanzi; la sua venuta a Feneria non passò tuttavia inosservata, ché se gli occhi dei mortali sovente sono accecati da empi pensieri, altri sguardi, più acuti, avevano osservato quanto era accaduto nel bianco santuario: le grandi aquile di Manwe, infatti, riconobbero le sembianze del Dunadan e alto levarono un grido di gioia.
Quella notte esse avevano udito squillare il possente olifante di Earendil, ed ora le parole di Erfea Morluin risuonavano al loro udito come una sfida rivolta a Sauron e ai suoi servi; veloci, le ambasciatrici di Manwe si librarono in volo, raggiungendo infine la maestosa città di Andunie. Ivi avevano dimora i discendenti di Silmariel, congiunti dei sovrani di Numenor: Amandil era in quei giorni il loro capostipite e sagge e gradevoli ad udirsi erano le sue parole; Elendil l’Alto, assistito dai suoi eredi Isildur e Anarion, uomini d’arme valorosi, erano con lui. Numerose gesta essi avevano compiuto ed erano altresì esperti di tradizione, tuttavia grande fu lo stupore che essi palesarono, allorché Ar-Thoron, sovrano delle aquile, si inchinò dinanzi a loro.
“A te Amandil del seme di Elros Tar-Mynatur e ai tuoi eredi auguro che mai il vento cessi di soffiare sotto le vostre ali!”
Amandil, che conosceva quale fosse la giusta risposta, replicò inchinandosi: “Possano il sole e la luna splendere ovunque le tue grandi ali ti conducano, araldo di Manwe Sùlimo! Quale motivo ti ha spinto lungi dalla tua remota dimora? Invero questa notte il mio sonno è stato turbato da uno squillo di corno e poi da un altro e da un altro ancora. Rapido mi vestii e, sceso in strada, mi apprestavo a seguirne l’eco, quand’ecco che la Tenebra fu tutta intorno a me e smarrì il sentiero: dovetti attendere l’alba, ché scacciasse le tenebre, per tornare alla mia dimora; tuttavia, molti dei miei congiunti hanno udito il medesimo suoni e si pongono simili quesiti.”
“La mia venuta in questo luogo e quanto accaduto questa notte sono fatti di estrema importanza e tra loro intrecciati, Amandil, ché i miei occhi hanno scorto colui che ha turbato il tuo riposo.”
“Dov’ è costui? – l’interruppe il signore di Andunie – Deve essere stato un uomo di grande vigore, se l’eco del suo olifante è giunto da sì lontano.”
Annuì lentamente Ar-Thoron, mentre con il suo becco adunco lisciava il suo prezioso piumaggio: “Quanto affermi, corrisponde a verità, figlio di Numendil, ché invero possente è Erfea dell’Hyarrostar, che il tuo popolo chiama il Morluin.”
Palese divennero allora il sollievo e la gioia sui visi dei signori di Andunie, ché il figlio di Gilnar era loro noto e ne conoscevano il fiero valore. Tosto Elendil soffiò nel suo magnifico olifante il cui nome era Culkarak [1], ché era stato ricavato da una zanna di mumakil, che oggi si dice viva ancora nelle remote foreste dell’estremo Harad; forte e limpido echeggiava il suo suono, ed ecco, ora convocava  tutti i fedeli che avevano dimora nella signoria di Andunie.
Non dovette attendere a lungo il figlio di Amandil, ché tosto uomini e donne, possenti giovani e canuti anziani, si radunarono all’ingresso della sua dimora.
“Non tutti i Numenoreani sono sottoposti al volere di Sauron”, fece notare Amandil, mentre la folla inneggiava agli Eldar e all’Uno che è sopra i custodi di Arda; finanche Ar-Thoron rimase sorpreso nello scorgere la moltitudine di Fedeli che si erano ivi radunati: “Se tale è il corso del mondo, per cui tutto debba andare in rovina, tuttavia oggi dico che la speme sopravvivrà a lungo fintanto che la tua stirpe, Amandil di Andunie, perduri.”
Isildur, giunto in quel momento, ascoltò quanto l’aquila aveva detto e serbò nel suo cuore la sua ultima osservazione, ché presagiva quale valore la sua casata avrebbe conservato nei giorni a venire, quando la stirpe di Ar-Pharazon sarebbe stata consumata dallo stesso odio che gli aveva permesso di giungere al potere; parola però non pronunciò, ma afferrata la propria spada, la levò in alto in un impeto di gioia e rise a lungo.
Frattanto, Amandil aveva pregato l’aquila di raccogliere quante più informazioni possibili, ché egli era cosciente di quale minaccia gravasse il peso sulle spalle di Erfea, mentre alcuni fra la sua gente, uomini abili e furtivi, si erano offerti di rintracciare il Morluin prima che la luna tramontasse.
Lunga sarebbe stata però la cerca, ché non solo i Fedeli, ma anche agenti dei Nazgul erano stati inviati in ogni contrada dell’isola, spinti dal medesimo obiettivo, né Sauron l’Aborrito si era dato per vinto, ché covava nel suo nero cuore la speranza di avere in dono le spoglie del paladino quanto prima.

Erfea Morluin, sebbene il fardello sulle sue spalle non fosse svanito e il capo gli dolesse per la stanchezza, era riuscito, a costo di grandi fatiche, a far perdere le proprie tracce ai seguaci dei Nazgul, mentre percorreva l’antica strada che dal Luogo del silenzio conduceva ad Armenelos, sede dei re e dimora dell’Albero Bianco, erede del frutto di Nimloth il Bello, germoglio dell’Albero di Tirion, che si diceva fosse l’immagine vivente di Telperion il Bianco, che in epoche passate reggeva le sorti del mondo.
Il Dunadan attraversò le strade di Armenelos, celato dal suo manto scuro, mentre intorno a lui bambini si rincorrevano senza alcuna sosta fra i vicoli sporche e senza luce; giunto infine dinanzi alla valle di Noirinan, ove erano conservate le spoglie mortali dei monarchi di Elenna, il Dunadan arrestò il proprio passo, ché era sua intenzione onorare l’ultima dimora di Tar-Palantir, sovrano di Numenor e padre di Tar-Miriel. A lungo egli vagò, in cerca di quanto i suoi occhi desideravano, finché si prostrò innanzi al suo sepolcro: questo era imponente, edificato con marmo pregiato e intarsiato di laen nero e non era meno nobile delle sepolture che tutto intorno si ergevano; eppure l’opera del tempo corruttore non l’aveva risparmiato, corrodendo le iscrizioni ivi scolpite. Nessuno fra i mortali udì le silenziose parole che Erfea, figlio di Gilnar, pronunciò in quell’ora, ché nessuno era con lui in tale luogo ed esse sono per noi perdute: tuttavia egli non sostò a lungo, ché il giorno giungeva al meriggio e non aveva completato ancora la sua missione; allora si levò, e fatto scivolare il suo lungo manto, egli rivelò il suo sembiante al sovrano, in segno di eterna riconoscenza. Infine, abbandonato quel luogo deserto, affrettò il passo, ché una minaccia gli opprimeva il cuore ed egli era confuso e stanco, ostinato tuttavia nel voler portar a termine il proprio compito: dopo aver percorso dieci miglia, sospirò, ché, sebbene avesse raggiunto la sua meta, pure il suo cuore era turbato e tetro.

Silenzio si poteva udire per molte leghe intorno, disturbato solo dal pesante incedere dei passi del ramingo perso nella cupa nebbia, repentinamente levatesi.
“Una potenza malefica è all’opera – mormorò Erfea, rabbrividendo nel pronunciare simili parole, ché mai aveva avvertito un simile orrore sulla cima del Menalterma, ed egli era solo e privo d’aiuto; tuttavia il tempo non s’era arrestato, ed egli si mosse nuovamente, sguainando la sua lunga lama, Sulring la splendente, forgiata secoli addietro dalla sapiente arte dei fabbri di Gondolin; grande era il legame che vincolava Erfea alla propria arma, ché le era stata consegnata anni prima direttamente dalle mani del supremo re dei Noldor Gil-Galad; tuttavia, soffocato com’era dalla nebbia insidiosa, egli si avvide tardivamente dell’apparizione di una luce azzurra, in principio tenue, poi vivida sulla lama della sua possente spada, latrice di grave pericolo; tale era infatti il comportamento delle armi forgiate a Gondolin, quando esse si imbattevano nei servi di Morgoth, fossero orchi o di altra razza.
Improvvisa, una voce si levò nella tenebra: “Tarda è l’ora di Numenor, figlio di Gilnar, e ancora più tarda è la tua venuta in questo luogo. A lungo hai percorso il tuo cammino nelle tenebre tessute di inganni, eppure sappi che nulla può essere celato al nostro sguardo.”
Pronta fu la risposta del Dunadan, ché non gli era sconosciuta l’identità del suo invisibile interlocutore, ed era conscio della presenza di altri nemici tutto intorno a lui: “È lecito supporre da parte mia che quanto tu dica sia vero, perché negarlo sarebbe insensato e pericoloso. Tuttavia, sebbene il vostro dominio su quest’isola debba perdurare per dolorosi anni, essa sarebbe solo un frammento di Arda e non Arda stessa.”
Rise un’altra voce nella Tenebra: “Parole artificiose le tue, Morluin, dettate da una mente ormai vacillante. Non è forse Elenna prossima a Tol-Eressea, cancello dell’immortalità? Cos’altro potrebbe essere la conquista di questo avamposto per le Terre Imperiture, se non la promessa di un successo, del raggiungimento di un fine?”
“Il vostro padrone – ribatté Erfea, tenendo accanto al proprio corpo la spada, ché sapeva essere prossimo un attacco – non può dimostrarsi al tempo stesso corruttore ed ispiratore, dominante e dominato. Presto egli rivelerà il suo vero sembiante e palese diverranno le sue intenzioni.”
“Veritiere sono le tue parole, Numenoreano – pronunciò una terza voce nell’oscurità – temo tuttavia che tu non possa impedire in alcun modo al nostro signore di reclamare il proprio dominio su questa isola; già le mie orecchie odono i cuori degli uomini avvizzire e consumarsi nel lungo gelo della loro lenta agonia.” Luminosa era ora la spada di Erfea Morluin, ché egli era prossimo a raggiungere l’ingresso della sala e i suoi nemici gli erano prossimi; tuttavia non esitò a parlare nuovamente: “Quale ricompensa vi ha riservato il vostro signore? Oppure ritenete che la schiavitù eterna sia un dono sufficientemente grande da placare la vostra insaziabile ambizione?” Risa orribili ad udirsi riecheggiarono nel cortile deserto, ora distanti, ora prossime al guerriero di Numenor; infine una voce stridula si levò sopra le altre: “Non essere sciocco, Dunadan! Credi che le nostre orecchie siano sorde e ciechi i nostri occhi? Se nessuno ha ancora levato la propria spada contro di te avviene perché altri sono i nostri scopi.”
Beffardo ripose Erfea: “Forse quanto affermi corrisponde a verità, eppure mi è sconosciuta la vostra risposta alla mia domanda! Avanti dunque, servi di Sauron, rivelate i vostri scopi!”
Una quinta voce si levò nel grigiore della sera, ed era colma di scherno: “Nessun intelletto mortale può comprendere quali ricchezze i nostri spiriti abbiano accumulato: saggezza infinita si è dischiusa innanzi alle nostre menti, lungi dalla vostra scienza.”
Rabbiose ululavano adesso le voci dei servi di Sauron, ché essi erano impazienti di distruggere il loro nemico, intrappolato dagli oscuri lacci della negromanzia di cui erano esperti usufruitori, ed ora seguitavano a parlare senza interruzione alcuna: “Qualunque mortale può impugnare codeste armi e indossare tali cenciosi stracci elfici! Morte è il tuo destino, ché ignoti sono a te e a quanti si oppongono al nostro dominio, gli artifizi per giungere a una sorte diversa.”
“Così è – fece eco una settima voce – dal momento che Eru Iluvatar è fuggito dal mondo e gli Ainur si sono dimostrati imbelli nel governarlo, ché il loro dominio è prossimo a crollare. Grandi saranno le ricompense per coloro che si riuniranno sotto lo stendardo di Melkor, il padrone del Fato: immenso è il suo potere e inevitabile la sua vittoria”. Un ottavo essere proseguì nel parlare: “Egli è dio delle Verità, ed esse sono infinite. Io sono una Verità” concluse, ridendo beffardo.
Più parola venne pronunciata, mentre il lieve tintinnare dell’acciaio risuonava fosco alle orecchie del Dunadan; egli tuttavia attese ancora, infine parlò nuovamente: “Ho ascoltato le voci di ciascuno di voi, ed esse non mi sono ignote, al pari dei vostri nomi: Uvatha, Ren, Adunaphel, Hoarmurath, Akhorahil, Indur, Dwar e Khamul, gli spettri dell’Anello, servi di Sauron. Tuttavia, esitate ad attaccarmi, ché non avverto la presenza del vostro capitano, essendo egli lontano: altri incarichi gli ha affidato il signore di Mordor in sua assenza, e non può soccorrervi.” Rise, dapprima in modo sommesso, infine con forza, poiché il momento del confronto era giunto: “Aure entuluve! Il giorno risorgerà!” e così dicendo soffiò nel proprio corno con forza. I Nazgul, tuttavia, non scomparvero, ché era desiderio del loro padrone impossessarsi di Erfea onde corromperlo e acquistarlo alla propria causa, cosicché avanzarono lentamente, con le lunghe lame protese in avanti: scintille schizzarono via, quando le spade furono a contatto, si ché la nebbia fu illuminata da bagliori simili a stelle remote ed effimere nella notte. Lesta era la mano di Erfea e potente il suo braccio; tuttavia vana sarebbe stata la sua difesa, se non fosse intervenuto tempestivamente Ar-Thoron, re dei Venti. Forte gridò Erfea, quando riconobbe il magnifico uccello che gli si parava innanzi, e il suo cuore fu colmo di gioia e sorpresa, ché aveva obliato le grandi aquile di Manwe e la loro lungimiranza: rapido si aggrappò al possente grinfio illuminato dalla luna e presto fu sollevato in aria, mentre al suolo, gli Ulairi chiamarono con urla stridule il loro capitano. Il Re-stregone, tuttavia, avrebbe dovuto percorrere circa settecento leghe a volo d’uccello, cosicché egli non fu in grado di soccorrerli tempestivamente, ragion per cui essi si ritirarono nella Tenebra, delusi e sconfitti, recando notizie di cattivo auspicio al Maia decaduto. Nessuno fra i Numenoreani dormì quella notte, ché il loro sonno fu turbato da fantasmi ed arcane paure, sebbene levatisi al mattino, conservarono solo un pallido ricordo di quanto era apparso loro in sogno.
Più furono visti i Nazgul a Numenor, ché l’Oscuro Signore destinò i loro spiriti ad altri incarichi, ed essi mutarono nuovamente sembianza, risultando così irriconoscibili agli occhi dei mortali; pure, è stato detto che essi covassero nel profondo dei loro cuori neri odio indicibile per Erfea Morluin, e non smettessero mai di dargli la caccia, fin quando la Seconda Era non fu conclusa ed essi scomparvero nell’ombra.

“Figlio di Gilnar, non è la prima volta che i miei occhi si posano sulle tue sembianze mortali, ché ieri ti vidi discorrere a lungo con la sovrana di Numenor. Ar-Thoron è il mio nome, re dei venti e messaggero di Manwe Sùlimo. Quali notizie porti dalle contrade ove hai trascorso il tuo lungo esilio? Quali auspici ti spinsero a recarti in luoghi ove la Tenebra regna sovrana? Pochi sono coloro che fra i mortali possono opporsi ai nove servi di Sauron, e ancora meno coloro che conoscono i loro nomi.”
“Temo che niente di quanto ho compiuto nei miei tristi pellegrinaggi sia per te ignoto” gli rispose Erfea, mentre sorvolavano ampi pascoli e borghi fatiscenti.
“Acuto è il mio udito, e molti racconti giungono dinanzi al re degli uccelli, eppure finzioni e realtà sovente si accompagnano. Tuttavia, quanto dici è vero, ché sebbene tu abbia compiuto imprese degne di nota, in luoghi remoti e oscuri, le aquile di Manwe sono ancora vigili e nulla di quanto i figli di Eru compiono è motivo di sorpresa. Rapido è il nostro volo, silenzioso nella bruma della sera, tale che ben pochi fra gli Edain e gli Eldar avvertono la nostra presenza; eppure, l’Oscuro Signore è vigile e le sue spie sono ovunque. Il mio cuore mi dice che verrà un tempo in cui il loro potere si estenderà all’intera Numenor, e noi saremo costretti a fuggire altrove.” A lungo meditò Erfea, infine gli rispose: “La grande guerra contro Sauron è prossima, ché se anche Elenna fosse avvolta nella tenebra corruttrice, ecco che altri popoli prenderebbero le armi per battersi contro Mordor e le sue schiere. I cuori della Seconda Stirpe non sono stati tutti corrotti, e la speme vive ancora, nelle aule dei nani nelle profondità delle montagne, così come tra le foglie dei boschi della Terra di Mezzo, ove dimorano ancora gli Eldar, nei ricchi palazzi dei signori e nelle umili capanne dei pescatori del Belfalas[2]. Finanche a Numenor alcuni oppongono resistenza a Sauron, ed essi sono miei leali congiunti. Dove è la dimora di Amandil, figlio di Numendil, signore di Numenor? Conducimi presso la sua città, te ne prego, ché grande è il mio desiderio di discorrere con lui.”
Rise la grande aquila di Manwe: “Curiosi sono invero i destini dei mortali, e lungimiranti i figli di Elros Tar-Minyatur! Sappi, infatti, Erfea Morluin, che codesta è la meta del nostro viaggio, ché altri sanno della tua presenza qui ad Elenna e non tutti fra essi sono tuoi nemici. Sii paziente, e narrami le vicende che ti hanno spinto ad attraversare il tempestoso dominio di Osse, conscio della condanna che grava sul tuo capo.”

A lungo Erfea gli parlò di quanto era accaduto nella Terra di Mezzo durante il suo esilio, narrandogli dei suoi viaggi da Tharbad a Rhun[3], da Mordor fino all’estremo Harad, ove le costellazioni sono differenti dalle nostre. Ar-Tharon ascoltò con attenzione, infine sospirò profondamente: “Mi erano giunte voci sulle tue peregrinazioni, eppure non avrei mai creduto che un mortale si fosse spinto finanche a Gorgoroth[4]! Eppure, Erfea, sei un uomo di grande valore, né leggo malizia o inganno alcuno nei tuoi occhi. Ahimè – continuò – pondererò quanto mi hai riferito; sappi tuttavia che il fato è immutabile così come lo è la Profezia di Mandos; cupi sono stati i miei pensieri in questi giorni disperati, eppure il tempo dell’attesa è ormai terminato.”
Tacque Ar-Thoron, e parola non pronunziò più Erfea, affascinato dalla visione che gli si schiudeva in basso: come un fiore in primavera dischiude lentamente il suo calice, trepidando di gioia per l’evento, così ora le bianche nuvole si sollevarono ed egli vide una grande città di uomini; bianca e remota pareva, eppure egli ne conosceva ogni segreto recondito, ché quella era Andunie la Bella, fortezza dai potenti bastioni e feudo di Amandil il Lungimirante, della stirpe di Elros Tar-Minyatur. Breve fu la discesa, ché l’aquila puntò su una grande piazza, lì ove molti uomini e donne si erano radunati: fra essi vi erano tre imponenti guerrieri, la cui l’altezza superava quella di ogni altro tra i presenti.
Lieto divenne il volto di Erfea, quando riconobbe i volti di coloro che l’attendevano trepidanti; tuttavia, ancora prima di porgere loro il saluto, egli si congedò dalla sua possente guida e salvatore: “Possano i giorni dei Valar perdurare allorché la Tenebra calerà i suoi velenosi strali sui regni degli Eldar e degli Edain! Non tutto mi è dato di conoscere, tuttavia, se il mio cuore non si inganna, sappi che all’ora prestabilita dal Fato, quando ogni speme sembrerà perduta, ci rincontreremo e molti altri della tua stirpe saranno con noi.”
“Possa quel giorno non tardare – gli rispose l’aquila, mentre Erfea le si inchinava grato – sebbene numerosi mali debbano sopraggiungere in quell’ora disperata. A lungo squillerà il tuo olifante, che la pugna sarà feroce e la morte prossima, tuttavia esso infiammerà molti cuori e non tutto andrà perduto.” Prostratosi a sua volta, Ar-Thoron volò via, mentre il tripudio della folla accoglieva festante l’esule Numenoreano: bardi e cantori presto accorsero da ogni contrada e ivi fu celebrato un grande banchetto, ché la venuta di Erfea era a tutti gradita. Balli e canti animarono il lungo festino, eppure il volto di Erfea, dopo aver al principio gioito, adesso era scuro e neppure le luci dei grandi bracieri si riflettevano nei suoi occhi: a lungo egli ristette solo, tormentato da numerosi pensieri, ignoti a quanti lo circondavano.
Infine Anarion, il secondogenito di Elendil, gli si avvicinò: “Quali angustie ti tormentano, signore di Minas Laure? Talvolta il desio irrealizzabile causa profondi dispiaceri; ignoro quale sia il motivo per cui parola non pronunci, tuttavia non pretenderò di conoscerne la causa, se il tuo parere sarà contrario.”
“Mio signore, invero lungimirante  è stato  il tuo pensiero. Sono prigioniero delle medesime paure inflittemi in questi anni di tormento, e sebbene il mio cuore desideri recarsi al di là del mare nella ridente Edhellond, ove ogni cosa è a me cara, qui ha dimorato per lungo tempo la mia anima ed essa esige il suo riscatto.” Parola più non pronunciò Erfea, ma fatto cenno al giovane principe di seguirlo, cavalcò a lungo nella notte, e dopo alcuni giorni raggiunse la sua città natia.
Silenziosi erano i colli e le stelle splendevano vivide e remote nell’oscura cappa che avvolgeva Endor: giunti che furono innanzi al cancello, nessuna voce li accolse, né alcun suono allietò l’animo di colui che era stato capitano sotto Tar-Palantir. Solo il silenzio diede il suo benvenuto ai due viaggiatori, e solo l’eco di quello che un tempo era stato echeggiava ora nel cuore di Erfea, mentre egli si aggirava tra rovine corrose dall’incuria del tempo. Nessuno, ad eccezione dei piccoli animali furtivi della notte, scorse i due uomini, ed essi mai fecero parola con altri di quanto avevano scorto.
Nulla fu detto del loro viaggio a ponente e i ricordi furono gelosamente custoditi; tuttavia gli storici ritengono che da quell’episodio sia sorta la forte amicizia che Erfea ed Anarion strinsero e che perdurò fino alla morte di quest’ultimo, durante l’assedio a Barad-Dur.

Trascorse alcune settimane nella città di Andunie, alla vigilia di Loende[5], Erfea si recò alla dimora di Amandil e gli rivolse la parola: “Forte è in me il richiamo delle spiagge della Terra di Mezzo, ed ecco il mio cuore anela ad esse. Giungo alle aule del signore di Andunie per salutarlo, affinché il suo destino possa essere diverso dal mio ed egli non abbia a disgiungersi dagli affetti che lo circondano.”
Silenzio regnò nella sala, mentre Amandil accarezzava la sua corta barba; infine così rispose al suo ospite: “Erfea, figlio di Gilnar, della casa degli Hyarrostar, le porte della mia dimora e di quelle della mia gente saranno sempre aperte per te. Ahimè! Qualunque sia il tuo compito in questa contrada, esso deve essere di gran lunga più arduo di quanto io possa immaginare: tuttavia, se tale è il tuo volere, possa la mia benedizione accompagnarti fino alla fine dei miei giorni, ché verranno tempi in cui il tuo volere plasmerà le sorti di tutti noi. Sono lieto di aver dato a te la mia più calda ospitalità, tuttavia rimpiango il poco tempo che ci è stato concesso per discutere di quanto hai appreso in questi sofferti anni d’esilio. Va’ ora e che la buona sorte ti accompagni ovunque si dirigano i tuoi passi!” [qui consiglio di leggere il seguente articolo: Sauron, il politico]

Erfea, sebbene non avesse sentore di quanto accadeva, pure avvertì tangibile la presenza di un’Ombra, la quale si dileguò rapidamente così come era giunta; allora, egli si recò nel cortile dell’Albero Bianco e ivi inginocchiatosi, ché esso era emblema di Varda e benedetto da Yavanna, ne colse un frutto, che ripose poi nella propria sacca. Rapido allora si allontanò, percorrendo sentieri sconosciuti ai servi di Mordor, finché, al calar del sole, non giunse al porto di Romenna, ove recuperò il suo naviglio; tardivi furono i guerrieri di Sauron, ed essi non lo seguirono in mare, ché temevano la collera di Osse di gran lunga rispetto a quella del loro padrone, né questi aveva potere sulle vaste acque del Belagaer. Calma era adesso la notte e il vento spirava nella direzione corretta, tuttavia Erfea non prese riposo, ma ritto sulla poppa, mirò allo specchio che Celebrian gli aveva donato, e il suo cuore ne fu sollevato, ché da tempo non osservava il dolce sembiante di colei a cui volgeva il pensiero grato. Lunga fu la sua navigazione ed egli molto dovette penare, eppure al termine di Yaramie, giunse alle bianche spiagge di Harlindon, ove Cirdan lo attendeva lieto. “Ben m’avvedo che quanto cercavi hai ottenuto, tuttavia non vi è letizia nei tuoi occhi.” Triste Erfea lo osservò, infine rispose: “Lungimirante è la mente di Cirdan del popolo dei Sindar! Invero un grande dolore alberga nel mio cuore ed esso non potrà mai essere lieto, salvo che il destino del mondo venga mutato e quanto accaduto di recente svanisca dalle menti ottenebrate.” Altre parole non pronunziò, congedandosi in tal modo dal Signore dei Porti: questi però scosse il capo e a lungo sospirò, ché i suoi occhi scorgevano in profondità negli animi degli Eldar e degli Edain più di chiunque altro nella Terra di Mezzo, ed egli tosto comprese quanto il silenzio del Dunadan avesse occultato.

Erfea Morluin, allontanatosi dal Lindon, si diresse in seguito alla volta della città di Tharbad, ove un tempo aveva vinto una grande battaglia contro i seguaci di Ar-Pharazon; tuttavia, pochi fra i cittadini serbavano ricordo di quell’evento e ancora meno osavano farvi accenno, ché molti e potenti erano i seguaci di Sauron e del re al Nord; abbandonata allora la città, egli intraprese un grande e periglioso viaggio, che lo condusse, attraverso la breccia del Calhenardon e i guadi dell’Angren[6], fino a Sud, alle dorate sponde dell’Anduin il Grande.
Altri uomini avevano occupato quelle contrade deserte e grande fu lo stupore di Erfea, allorché comprese che essi non erano soldati del sovrano, ma suoi consanguinei ed amici degli Eldar, fuggiti da Numenor alcuni anni prima. A lungo Erfea rimase presso codesti esiliati, condividendone le pene e la rabbia che covavano nei loro cuori: alcuni, infatti, avevano compreso che Numenor era per loro perduta e che mai più vi avrebbero fatto ritorno; altri, invece, figli di Numenoreani e delle donne locali, non erano stati ben accetti agli arroganti sostenitori del Re, che consideravano corrotta la loro discendenza, e fuggivano da essi.
Grandi edifici furono innalzati, e presto gli esuli ebbero dimore confortevoli situate su entrambi gli argini del Grande Fiume: in tal modo ebbe dunque origine la città di Osgiliath, che sarebbe divenuta la capitale del regno di Gondor nei secoli futuri, quando Numenor sprofondò negli abissi. All’epoca, tuttavia, ben pochi fra gli esuli avrebbero immaginato una simile rovina; sebbene, infatti, le opere che edificassero in quei giorni allontanassero dai loro cuori la nostalgia e le privazioni delle loro esistenze, esse non erano altro che pallide imitazioni di quanto i loro animi desideravano con veemenza e sapevano non poter più mirare. Torri e manieri, porti e santuari essi eressero a guardia di quelle contrade, ché il Nemico era molto potente ed essi temevano le scorrerie che gli orchi compivano nella notte: i reami degli Haradrim a meridione e quelli degli Esterling a settentrione ne segnavano i confini, mentre a levante, le lugubri fortezze di Mordor pullulavano di creature ricolme di nequizia; pure sarebbe giunta alla fine la vittoria, sebbene lo scotto che i Popoli Liberi avrebbero pagato sarebbe stato arduo da obliare.

In quei giorni Erfea prestava la sua collaborazione a quanti la richiedevano e cavalcava velocemente, percorrendo numerose leghe: ad est i suoi passi lo conducevano, per respingere l’Oscurità di Mordor, eppure il suo cuore ambiva alla splendente luce del Vespro, ed egli sovente guardava nello specchio donatogli da Celebrian di Rivendell. Una grande inquietudine si agitava nel suo animo, ché Inrive[7] era prossimo e nessun segno gli era giunto; infine una notte di Ringare[8], in sogno gli apparve Tar-Silwen, un tempo regina di Numenor e madre di Tar-Miriel, morta anni prima: a lungo ella gli parlò, sì ché il Dunadan comprese che il segno da lui atteso era finalmente giunto. Il mattino seguente, egli cavalcò ratto diretto al Mindolluin, un monte posto all’estremità orientale degli Ered Nimarais[9]; ivi giunto, percorse sentieri impervi, ignoti ai mortali, finché non raggiunse la vetta: il sole era appena tramontato e grandi nubi riflettevano i variopinti colori del tramonto. Erfea, compresa che l’ora prestabilita era giunta, scavò una fossa profonda un piede e larga altrettanto, ove ripose il seme dell’Albero Bianco; quando ebbe terminato, una voce parlò nella sua mente: “Hai operato bene, figlio di Numenor ed io farò sì che nessuno possa disturbare la sacra quiete di questo luogo, finché l’Erede non venga a reclamare il suo trono.”
Lentamente Erfea si chinò e ivi rimase in silenziosa preghiera, ché il suo compito era ora svolto; infine si levò, e l’ultimo scintillio del sole fu catturato dall’elmo in mithril che egli recava con sé, mentre discendeva lungo i declini scoscesi: più il figlio di Gilnar vi fece ritorno, finanche quando stabilì definitivamente la propria dimora nel regno di Gondor, ché smarrita era in lui la memoria di codesto luogo.
Eppure, lungimiranti furono i Valar e benedetto il coraggio del Morluin, ché Aragorn figlio di Arathorn, discendente di Elendil, fu incoronato Re di Gondor, e come narrano le cronache di quei giorni, insieme a Mithrandir[10] individuò e diede dimora al germoglio dell’Albero Bianco, erede del seme che il Dunadan aveva recato da Numenor, affinché fosse vivida testimonianza della maestà e della bellezza degli Antichi Giorni e auspicio di prosperità per i tempi futuri».

Note

[1] “Corno rosso” nella favella dei Noldor.

[2] Promontorio situato nella regione di Gondor, a sud delle Montagne Bianche.

[3] Regione di Mordor.

[4] Contrada posta ad est del fiume Celudin e abitata dagli Esterling.

[5] Il centottantatreesimo giorno dell’anno, detto anche di Mezza Estate.

[6] Il Calhenardon era una contrada posta a nord di Gondor e scarsamente abitata; durante gli anni del dominio di Sauron, tale regione fu fortificata e ne fu impedito l’accesso a chi non fosse servo dell’Oscuro Signore: codeste fortezze andarono tuttavia in rovina negli anni in cui Sauron fu tratto in catene a Numenor. L’Angren, chiamato dagli uomini del Rhovanion Inondagrigio, attraversava la breccia del Calhenardon nella sua lunghezza ed era immissario dell’Anduin.

[7] “Inverno”, nella favella degli Elfi Grigi.

[8] “Dicembre” nella favella degli Elfi Grigi.

[9] I Monti Bianchi.

[10] Mithrandir era uno degli Istari (stregoni) giunti da Valinor per aiutare le genti libere nella loro lotta contro i servi di Morgoth; egli era anche noto con il nome di Gandalf presso gli uomini del Nord, Tarkhun presso i nani ed Incanus nelle terre del Sud; pochi furono in grado di comprendere la reale identità che lo stregone celava sotto mentite spoglie, tuttavia in seguito alla sua di partenza si seppe che egli era un Maia di Manwe, il cui nome nelle lingua degli elfi di Valinor era Olorin.