L’orgoglio dei paladini di Numenor

Care lettrici, cari lettori,
in questo articolo continuerò a raccontarvi la storia del Drago Morluin e della sua sete di vendetta contro i Numenoreani, colpevoli di aver ucciso i suoi cuccioli (potrete leggere o rileggere questa parte della storia qui: La collera di Morluin). Nessuno dei Numenoreani avrà il coraggio di sfidare il grande rettile…ad eccezione di uno.

[SPOILER] Questo racconto, comunque, ad onor del vero, presto o tardi (attualmente sarei più propenso per la seconda opzione) dovrebbe subire una revisione, almeno parziale: come è possibile, infatti, che non appaia per nulla una figura come quella di Miriel? Quando Erfea si rivolge a suo padre, il re di Numenor, per chiedergli la sua benedizione per affrontare il drago, sembra alquanto improbabile che Miriel non fosse al suo fianco. La risposta che spiega questa anomalia risiede nelle cronologia “esterna” dei capitoli del Ciclo del Marinaio: questo racconto, infatti, fu scritto prima di introdurre il personaggio di Miriel, ma, dal punto di vista della cronologia “interna” della biografia di Erfea, sarebbe successivo all’inizio della tormentata relazione fra Erfea e Miriel (potrete notare questa discrasia temporale qui: Cronologia della vita di Erfea e dei racconti del Ciclo del Marinaio).[FINE SPOILER]

«Il terrore si mutò in follia, e il popolo si recò da Tar-Palantir per chiedere consiglio ed avere conforto, sebbene essi sapessero che in tutta Elenna[1] non esisteva un mago o un guerriero così potente da poter contrastare il pericoloso drago.

Grande fu la sorpresa, quando all’interno del Consiglio dello Scettro una voce squillò forte e decisa: “Mio re e signori di Numenor! Non vi è altra speranza per noi che quella di attendere nelle nostre dimore la morte triste con le braccia e la mente sconvolte dalla paura? Grande invero è il potere dei draghi, ma non si è detto che fu un uomo il primo a sconfiggere il primo tra i Grandi Vermi? Io Erfea, figlio di Gilnar, della casata degli Hyarrostar[2], affronterò la creatura che tormenta la nostra isola, a meno che qualcuno non dissenti dalla mia proposta!” Un lungo silenzio seguì quelle parole, ché grande era lo stupore dell’uditorio, consapevole che mai nessun uomo sarebbe riuscito a portare a termine una simile missione. Tra coloro che formavano il Consiglio dello Scettro, vi erano alcuni che appartenevano ai Numenoreani neri, gente corrotta e malvagia che aveva regnato a lungo sull’isola, prima di essere sconfitti da Tar-Palantir, portandola al disordine e alla crisi; tuttavia, muovendosi nell’ombra, mai essi avevano destato sospetti nel popolo, e pochi erano in grado di contrastarli. Tanta era la loro malizia, che perfino Tar-Palantir non avrebbe sospettato alcunché, dal momento che, negli anni del suo governo, i signori Neri si erano nascosti nell’ombra, nell’attesa che i tempi diventassero loro nuovamente propizi.

Le storie di quei lontani giorni, narrano che tra i nove Nazgul[3], i più potenti servi dell’oscuro signore di Mordor, Sauron l’Aborrito[4], tre fossero stati in vita grandi signori dei Numenoreani neri, e che ebbero parte a molti eventi che avvennero in quell’epoca: Er-Murazor, Adunaphel, Akhorahil erano i loro nomi, ormai obliati; eppure essi vivevano, perché grandi erano i poteri conferiti loro dagli Anelli, ed i Nazgul, accanto a Sauron si ergevano o crollavano.

Poche sono le storie giunte fino a noi dagli anni oscuri, perché la stirpe degli immortali più non è tra noi e i ricordi della seconda stirpe sono ormai obliati; eppure fu detto che, tra gli uomini, coloro che possedevano gli Anelli, sarebbero stati in grado, fin quando il loro padrone avesse stretto nelle sue grinfie l’Unico, di assumere forma umana, nonostante la loro immagine reale fosse ormai sbiadita dai tempi remoti.

Akhorahil, settimo tra i Nove, in virtù degli inganni perpetuati dai suoi servi, sedeva ora tra i membri del Consiglio dello Scettro, senza riuscire a nascondere il proprio odio nei confronti di Erfea: “Prendo la parola sire e signori di Numenor, perché non si dica che vi siano stati sulla terra uomini più coraggiosi di Earendil[5] e Turin Turambar! Onore e gloria alle loro gesta! Tutti i presenti dovrebbero sempre tenere viva nella loro memoria il ricordo di simili avi, affinché i loro nomi non siano obliati e sia splendente l’immagine della gloria degli uomini. Può un simile uomo, che ha da poco compiuto la maggior età, aspirare a conseguire una simile vittoria? Funesta ed effimera è la volontà dei giovani, ed ecco, uno tra loro, ha l’arroganza di affrontare un simile male! Sciagura attende chi macchia di colpa tanto grave quanto la superbia, la propria casata! Onore e gloria riceverà invece l’uomo saggio e cauto. Costui, non afferma forse che vincerà il drago con la saggezza? Ebbene non dimostra certo di possederne la giusta misura se tali sono le sue ambizioni in rapporto alle forze che possiede”.

Soddisfatto della sua orazione, il volto coperto da una maschera dorata, il Nazgul sedette, nell’attesa che il sovrano prendesse la parola. Ed ecco, così rispose il re di Numenor: “Figli della seconda casa, ascoltate le parole del re! Onora il saggio ed educa il giovane; queste sono state le leggi tramandateci dai nostri avi, pervenuteci ancor prima che l’isola del Dono fosse sollevata dalle acque. Da un lato il dubbio, dall’altro il timore: quale sarà la mia scelta? Mi preme rispondere, ché invero il tempo fugge via e l’ora è grave. Tali sono le leggi del nostro popolo, ed io intendo onorarle, col metterle in pratica: sia dunque educato il giovane Erfea, che gli sia concesso, se questo è il suo desiderio, di affrontare il drago. Dimostrerà allora il suo valore e la sua saggezza. Non è forse vero che nei tempi remoti agli uomini erano imposte delle prove per verificare la loro forza e il loro coraggio? Sia questa dunque la prima tra le tante prove che il giovane Erfea dovrà affrontare, perché il mio cuore dice che non sarà l’ultima e il suo destino giace lontano dal mare, pur essendo a lui legato”.

Questo fu il discorso del re; e coloro che gli erano vicini cedettero di vedere un’ombra sostargli accanto  per un attimo, prima di allontanarsi e infine scomparire tra le brume della sera. Uno ad uno i presenti abbandonarono il salone, mentre fuori il brusio della folla cresceva in intensità, man mano che la paura e il panico aumentavano la loro presa sugli animi degli uomini. Ultimo ad alzarsi fu Akhorahil, il quale si avvicinò silenzioso ad Erfea, pronunciando parole beffarde: “Con quali ali[6] andrai incontro alla sorte che ti attende, Erfea Hyarrostar? Saranno spoglie e orribili a vedersi, come gli alberi della Terra di Mezzo durante la stagione invernale. Sappi che un solo potere è in grado di placare l’ira dell’orribile drago, ma non è nella tua stolta mente, né nelle tue impacciate mani. Va dunque e soddisfa pure la tua follia!” Rise allora, un suono sgradevole a sentirsi; tuttavia Erfea ribatté: “Forse è come dici tu: tuttavia preferisco che i freddi denti del drago trafiggano la mia carne, lasciando così questo mondo, piuttosto che terminare i miei giorni tra gli ozi e i piaceri lussuriosi ai quali ti abbandoni quotidianamente, Akhorahil”.

Il Nazgul non rispose, ma si limito ad osservarlo con il suo sguardo velenoso, finché Erfea non si fu allontanato; gioì allora nel profondo del suo cuore avvizzito, certo di aver assolto il suo dovere. Il Numenoreano nero, infatti, era ben conscio del fatto che non esistesse alcun guerriero o mago in grado di vincere Morluin; tale pensiero gli procurava grande soddisfazione ed egli si ritirò nelle sue stanze, seguito dalla moltitudine dei suoi servi e soldati.

Note


[1] L’isola di Numenor

[2] Regione di Numenor, posta a sud est: la sua capitale era Minas Laure, la torre dorata.

[3] I Nazgul (Linguaggio Nero: spettri dell’anello), erano i servi di gran lunga più potenti dell’Oscuro Signore, resi immortali dalla nequizia degli anelli degli uomini che erano stati affidati loro; un’unica volontà seguivano, ché, attraverso tali artefici, l’anello sovrano comandava le loro menti ed essi erano i luogotenenti di Sauron e i suoi generali.

[4] Noto in origine come Gorthauron l’Aborrito, Sauron, in principio il più possente fra i Maia di Aule il Fabbro, fu sedotto da Morgoth durante la Primavera di Arda e ne divenne fedele luogotenente durante la Prima Era: condotto innanzi ad Eonwe, l’araldo dei Valar, al termine della Battaglia d’Ira, mostrò pentimento; tuttavia, avendo vergogna a comparire dinanzi a Manwe per essere giudicato, fuggì lungi ad est, ove riacquistò una nuova forma, gradevole a vedersi, ché egli voleva corrompere i cuori degli Eldar e dei secondogeniti per farne i suoi schiavi.

[5] Earendil, figlio di Idril e Tuor di Gondolin, trucidò Ancalangon il Nero, il più grande drago che le storie menzionino, in un duello a singolar tenzone durante la Battaglia d’Ira.

[6] Il riferimento è a Earendil che affrontò il Signore dei draghi alati a bordo della sua nave alata, il cui nome era Vingilot.

La collera di Morluin

Care lettrici, cari lettori,
l’articolo della scorso settimana, dedicato al grande drago Ando-Anca (potrete leggerlo o rileggerlo qui: Miniature & Co. – Il Drago Ando-Anca), mi ha ricordato che non avevo ancora riportato sul mio blog la parte iniziale del racconto dedicato al primo incontro avuto da Erfea con questi esseri affascinanti quanto crudeli…
Buona lettura, aspetto i vostri pareri!

«All’epoca di Tar-Palantir[1] v’era in Numenor[2], un capitano di grande esperienza, ché molto aveva viaggiato per gli ampi oceani, dimora di Ulmo, e numerose leggende aveva conosciuto, apprendendole dalle genti che aveva frequentato nel corso del suo peregrinare. Erfea venne chiamato dagli Elendili[3], e il suo nome ancor oggi risuona nelle fumose locande di Endor, cantato dai bardi senza tempo, i quali dalle sue avventure traevano ispirazione per comporre saghe e ballate di quella antica era, quando il Sole e la Luna erano giovani e Valinor ancora visibile agli occhi dei tristi mortali.

Si narra che Erfea conoscesse più di ogni altro figlio di Eru Iluvatar[4] le vaste profondità oceaniche, sebbene egli non trovasse godimento nel percorrerle, ché la sua mente era sempre volta alle foreste della Terra di Mezzo, dove molti Priminati in quei giorni avevano dimora.

Questa storia, tuttavia, non narra di quegli eventi, né di quanto accadde dopo, ma della giovinezza di Erfea, prima che scoppiasse per la seconda volta la guerra civile a Numenor.

Numerosi, sebbene agli occhi dei mortali invisibili, eppure temuti, erano i grandi draghi[5] in quei giorni, ché dimoravano in terre remote, distanti da quelle degli uomini, prediligendo le lande montuose e aride che si estendevano a Nord, oltre le montagne Grigie; grande era la perfidia e il potere dei servi di Morgoth, ché sempre desideravano le ricchezze degli uomini e mai ne erano sazi.

Uno tra i grandi Vermi più possenti aveva nome Morluin, e dimorava nelle acque che circondavano il promontorio di Belfalas, dove secoli dopo sarebbe sorta la città di Dol Amroth; tale drago molto aveva sentito parlare delle ricchezze possedute dai Numenoreani e a lungo il suo cuore nero aveva desiderato impadronirsene, senza mai tuttavia mettere in atto i suoi propositi, ben conoscendo il potere e la magnificenza dei Numenoreani all’apice della loro civiltà.

Un giorno, tuttavia, un drago della sua covata, allontanatosi troppo dalla sua tana, fu catturato da alcuni pescatori e trucidato; quando tale notizia pervenne a Morluin, grande fu la sua ira e il suo desiderio di vendetta. Ringhiò, vomitò fuoco e fumo, scosse le profondità dell’oceano con i suoi artigli, senza placare la propria rabbia, finché il suo ruggito echeggiò fino a Numenor; allora paura e terrore presero i cuori degli abitanti dell’isola, al punto che molti si accasciarono per terra invocando l’aiuto degli dei, mentre altri correvano ad armarsi, suonando le campane, che mai avevano echeggiato in quella era, consci che il pericolo era prossimo, proceduto da ira e sangue.

Ed ecco, il mare si sollevò, nascondendo le spire del grande verme, ma non la sua voce, che sembrò echeggiare dalle profondità dell’abisso: “Gente di Numenor! Conducetemi il bieco assassino di mio figlio! Chi tra voi si è macchiato del suo sangue, maledirà tutta la sua terra e la sua famiglia! Sangue sarà ripagato con il sangue! Che egli venga fuori e misuri la sua forza con me!. Avanti, dunque! Giustizia sia fatta!”

Il terrore si mutò in follia, e il popolo si recò da Tar-Palantir per chiedere consiglio ed avere conforto, sebbene essi sapessero che in tutta Elenna[6] non esisteva un mago o un guerriero così potente da poter contrastare il pericoloso drago.


[1] Tar-Palantir, ventiquattresimo sovrano di Numenor e figlio di Ar-Gimilzòr. Per Numenor, vedi nota successiva.

[2] Numenor era la patria degli uomini (Sindarin: Edain), che durante le guerre della Prima Era tra gli eredi di Feanor e il Grande Nemico, sostennero la causa dei primi, subendo gravi sventure e sofferenze: per ricompensare tale coraggio, i Valar sollevarono dalle acque un isola cui fu dato il nome di Numenor, isola del Dono e l’affidarono agli eredi degli Edain; costoro furono chiamati Numenoreani o Dunedain che nella favella degli elfi grigi significa “uomini dell’occidente”.

[3] Le genti numenoreane che si mantennero fedeli all’amicizia con gli Elfi e che continuarono a venerare i Valar anche quando tale devozione fu dichiarata fuori legge.

[4] Il Padre di Arda e delle sue forme di vita.

[5] I Grandi Draghi, chiamati anche Vermi di Morgoth, il Vala rinnegato, furono creati da costui nel corso della Prima Era per fronteggiare gli assalti di Elfi, Uomini e Nani, durante i numerosi scontri che le sue schiere sostenevano contro costoro. Glaurung il Dorato fu il padre dei draghi e corruttore dei cuori dei figli di Iluvatar: egli, tuttavia, incapace di spiccare il volo, fu trucidato da Turin, figlio di Hurin. Durante la Battaglia d’Ira, Morgoth levò contro le schiere di Valinor una nuova razza di draghi, di cui il più possente fu Ancalangon il Nero, colui che per primo si levò nei cieli di Endor per contrastare le aquile di Manwe e che, negli spasmi della sua agonia, rase al suolo i pinnacoli di Thangodrim: molti della sua specie sfuggirono tuttavia alla morte e trovarono rifugio presso le Montagne Grigie e tra i monti di Mordor, mentre altri si rifugiarono nel profondo delle acque, lì ove saccheggiavano e affondavano numerose imbarcazioni.

[6] L’isola di Numenor

Link utili:
Una sfida mortale

Una sfida mortale

Arrivato alla soglia dei 20 articoli su questo blog, mi sono reso conto che, rispetto alle promesse iniziali, ho trascurato quello che doveva essere l’argomento principale, ossia le storie del Ciclo del Marinaio. Inizio a rimediare a questa mancanza raccontando della sfida fra il principe Erfea e il terribile drago femmina (draghessa non mi convince) Morluin. Buona lettura!

La bellissima illustrazione in copertina mi è stata gentilmente fornita dal bravissimo illustratore Emauele Manfredi: potrete ammirare altre creazioni di questo artista alla sua pagina facebook: https://www.facebook.com/EmanueleManfrediGallery/

«Rapida si diffuse nell’isola la notizia che Erfea avrebbe affrontato il Grande Verme; la gente accorreva dalle campagne e dai porti per mirare il folle che avrebbe affrontato Morluin, quando molte voci si levarono dalle navi, angosciose, trasformando l’entusiasmo dilagante in terrore: “Fuggite, fuggite, il Grande Drago è qui!”. Il panico si impadronì allora degli spettatori, che corsero a rifugiarsi all’interno degli edifici del porto, fino a che tutte le banchine non rimasero deserte. Il cielo si incupì, lentamente le tenebre strisciarono dall’Ovest e l’ultima luce si spense tra i ruggiti del mare tempestoso: la notte si approssimava, tuttavia Morluin non si contorceva più nella sua furia, ma attendeva, osservando i volti dei Numenoreani nascosti, deridendone la paura, schiacciandone le menti con il suo odio feroce.

La notte avanzava, ma Erfea ancora indugiava nei pressi del porto, invisibile agli occhi dei presenti; sentì le sue membra tendersi verso lo sforzo finale, mentre con le rapide dita si allacciava l’armatura di suo padre Gilnar.

Una pallida Luna si levò all’orizzonte, mentre l’ira del mare non accennava a placarsi, ruggendo contro le navi e i porti di Numenor, sferzando i legni con la fresca spuma dell’Oceano.

Giunto infine alle rive del crudele mare, Erfea levò una preghiera a Manwe: “O signore dei cieli, delle aquile e dei venti tempestosi! Ascolta le mie invocazioni, affinché in questo frangente la tua forza sia la mia, il tuo coraggio il mio, e la tua lama la mia: rapida si appresta l’ora della pugna, e lontano dalla soglia di casa mi strappa rapace la morte traditrice dagli occhi funesti e dalle ali nere. A te, che conosci il destino di ogni Uomo, affido questa supplica, affinché il mio fato non si compia tra il mare e la città in questa oscura notte. Tuttavia, se tale deve essere la conclusione del mio viaggio, per cui più avrò la possibilità di rivedere la bianca spuma di Osse e ascoltare il canto lamentoso dei gabbiani, ebbene fa che il disonore non colga il mio corpo e la mia isola”.

Aveva da poco terminato questa invocazione, quando il mare ruggì nuovamente, ed ecco, il sinuoso collo di Morluin apparve in tutta la sua grandezza; troppo a lungo aveva atteso e ora la sua rabbia era cresciuta, simile a quella del fiume, quando rotti gli argini, semina morte nella verde campagna. Crudele il pensiero del Grande Verme, e agili le sue membra, ché molto aveva appreso della natura degli uomini e numerosi erano i suoi poteri; tuttavia alla vista di Erfea, piccola ombra sotto una Luna inquieta, non poté trattenersi dal ridere, mentre pronunciava parole di scherno e di odio: “Salute a te guerriero numenoreano! Codardi a tal punto sono diventati gli Uomini di quest’isola, razza infime, da inviarmi come loro paladino, il più giovane fra quanti impugnano le armi? Non nego, Numenoreano, che grande è il piacere che provo nello scorgere la tua paura strisciare fuori dal tuo cuore per ghermirti; come un leone afferra la sua preda, quando questa crede di essere al sicuro nella sua tana, così io colpirò voi tutti!”

Così parlò e le sue parole erano veleno per le orecchie degli stolti, che strisciarono via in fretta, lasciando Erfea silente, come l’aurora a Oriente: ed ecco egli estrasse la sua spada e fu una luce nelle tenebre; tuttavia non l’alzò contro il Grande Verme, ma la tenne vicino al suo forte petto, come la rosa che l’amato stringe a sé per non abbandonare all’oblio i dolci pensieri che il suo cuore nutre.

Furente allora lo guardò Morluin e mai nessun Grande Verme odiò con tanta ferocia un mortale, fin dai tempi in cui Turin Turambar incontrò e uccise il padre di tutti i draghi; rapida tuttavia l’ira si dileguò e Morluin diventò fredda, ché l’avvicinarsi dell’alba l’aveva placata e ora attendeva come un serpente nella sua tana il malcapitato essere che vi sarebbe caduto: era ancora forte e l’odore del sangue lo chiamava sé. “Ben mi avvedo, guerriero, del tuo coraggio e della tua forza: lascia che io ti dia il premio che ti sei così meritato. Ti proporrò tre enigmi; se a essi saprai dare la giusta risposta, io mi dichiarerò vinta e abbandonerò Numenor. Sappi però che se la tua risposta sarà sbagliata o attesa da lungo tempo, niente sarà in grado di arrestare la mia ira”.

“Comincia, dunque – replicò Erfea – ti ascolto”.

Morluin rifletté alcuni istanti, poi formulò il primo dei quesiti: “Dimmi, allora, qual è l’albero che ha le foglie tinte di nero su una superficie e di bianco sull’altra?”

Erfea rimase in silenzio, fissando la Luna sull’orizzonte, poi, sospirando rispose: “Drago, l’albero di cui tu parli è il tempo, ché Ithil illumina nella notte un verso, mentre le luminose dita di Anor sfiorano l’altro al mattino. Non è forse questa la giusta risposta alla tua domanda? Rispondi, dunque!”

Imperturbabile rimase Morluin, come il duro ghiaccio nei gelidi antri delle terre dei Lossoth: “Ecco, dunque, il mio secondo enigma, o mortale. Prima degli Elfi immortali furono creati, ma già nati, vennero alla luce in seguito”. Sorrise, il cuore malvagio di Morluin, perché questo era un segreto noto solo a pochi tra gli immortali, i quali però non ne facevano volentieri parola con i membri delle altre stirpi.

Erfea, tuttavia, aveva conosciuto molti Eldar, quando, ancora ragazzo, giungevano da Valinor la splendente, a bordo di vascelli dorati e argentati, recando doni di là di ogni immaginazione e racconti dei Tempi Remoti, in gran parte sconosciuti agli Uomini di Numenor: leggende di epoche precedenti al ritorno dei Noldor nella Terra di Mezzo e alla guerra dei Silmaril, quando ancora Ungoliant non aveva fatto scempio degli Alberi di Varda e il loro nettare fluiva negli alti tronchi. Molto aveva appreso Erfea dagli Eldar e dai loro poemi di conoscenza, e ora la sua memoria, spinta dal bisogno, rintracciò la giusta risposta:

“Drago, sono i Figli di Aule, quelli che tu chiami Priminati. E invero quanto dici non è lungi dalla verità, ed essi furono davvero i primi esseri del mondo creati dal volere degli dei; tuttavia, poiché diversamente aveva disposto Eru Iluvatar, e il loro momento non era ancora giunto, i Nani dormirono nella roccia, come le braci che ardono sempre vive sotto la caliginosa cenere del focolare. Non è forse questa la risposta giusta? Rispondimi, dunque!”

Morluin lo fissò a lungo, quasi a voler misurare con il suo sguardo l’abilità e l’intelligenza che il Numenoreano opponeva alla sua volontà; eppure ella non cedette, ché le forze non le erano venute meno e la sfida era ancora lungi dall’essere conclusa:

“Ecco, dunque, il mio terzo e ultimo quesito, o mortale: quali nomi ebbero in vita i nove Spettri degli Anelli? Lesta sia la tua risposta, ché la notte muore, mentre la mia ira cresce impetuosa”.

Letale era stata la domanda di Morluin, perché, finanche nelle terre di Numenor, obliati erano i nomi e le stirpi degli Uomini che un tempo si appropriarono dei Nove Anelli del Potere, svanendo così nel mondo delle tenebre.

Chino, divenne allora il capo di Erfea; allora, grande, invero, fu la gioia di Morluin, ché lesse negli occhi del suo avversario il timore e l’incertezza. Come serpe dal crudele veleno, così il Grande Verme avvolse le sue spire attorno alle gambe del Numenoreano; già la sua mente gustava il dolce sapore del suo crudele inganno, quando, rapida come la prima luce del giorno, così la lama di Erfea le squarciò le carni.

Terrore e meraviglia presero Morluin, che mai nessuno tra i figli di Eru aveva osato infliggerle un colpo tanto potente, da spezzare la sua corazza intessuta di diamanti e rubini, penetrando all’interno; alto squillò il corno del figlio della casata degli Hyarrostar, che con tali parole si rivolse al nemico ormai vinto: “Verme di Morgoth, ascolta ora la risposta che Erfea, figlio di Gilnar, intende dare. Fallace e ingannevole è stata la tua domanda, ed ecco ora tu ti chini su di me, simile a un leone che si getta sul cervo non ancora sconfitto. Non sarò io la tua preda, né alcuno di questa isola, perché morte è la risposta che ti devo. Quale vita può, infatti, esistere nell’ombra? Quale nome può avere chi non più vive? Tutto questo viene con la morte obliato, mentre se qualcosa di noi sopravvive, come un seme all’interno della terra, ecco, esso germoglierà solo se nella vita abbiamo contribuito a dargli il giusto sostentamento. Non vi è speme nell’odio, né odio nel sacrificio supremo. Allontanati, dunque, servo di Morgoth! Ritorna alle profondità oceaniche!”

Folle di rabbia, sconfitta proprio nel momento in cui sembrava aver trionfato, Morluin agitò la coda tra gli spasmi del dolore, finché tra maledizioni e imprecazioni, si allontanò da Numenor, inabissandosi nell’oscuro pelago. Mai più avrebbe turbato l’isola del dono, con la sua ferocia e la sua ira, servo di Morgoth e di Sauron dei tempi remoti; si narra che per molti anni a venire, dinanzi alla spiaggia di Andunie, si potesse ascoltare ancora l’eco della rabbia e della collera di Morluin, vinto da Erfea, principe di Numenor, quando ancora le stelle splendevano pure e limpida era agli occhi dei mortali la bianca spiaggia di Tol Eressea di là dei mari del mondo».