Storia di Miriel – Una promessa mancata

Concludo con questo articolo il racconto del «Marinaio e della Principessa»: dopo essere stata designata da suo padre Palantir come nuova regina di Numenor, Miriel deve affrontare nuove sfide, mentre un pericolo inquietante si staglia all’orizzonte e un rapporto, faticosamente ricostruito, rischia di incrinarsi forse per sempre…
Non sarà questo, tuttavia, l’ultimo racconto a narrare le vicende di Erfea e Miriel: al contrario, essi torneranno nei prossimi due racconti, i più oscuri e tragici tra quelli che ho scritto, che narreranno le vicende che, attraverso una crudele guerra civile, condussero all’instaurarsi del regno di Pharazon

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Tale fu dunque l’esito di una giornata che in seguito fu ricordata dagli esuli nella Terra di Mezzo come l’inizio della Caduta: infatti né il Senato, né il Consiglio dello Scettro riuscirono a portare avanti i loro lavori, ché i Numenoreani fedeli a Pharazon abbandonarono Feneria, in aperta sfida alla nuova sovrana, non riconoscendone l’autorità.

Pharazon abbandonò il Consiglio per ultimo, ridendo in modo beffardo, mentre si allontanava; egli non si curava di quanto accaduto, ché sapeva bene come la sua vittoria sarebbe giunta comunque, sebbene apparentemente risultasse sconfitto. Molti alleati e poteri sostenevano Pharazon, gli stessi che un giorno ancora distante lo avrebbero condotto a percorrere il sentiero della follia, fino alla sua rovina e a quella di Numenor.

Nessuno dei Dunedain, rimasti fedeli a Tar-Miriel[1], tuttavia, osava immaginare quali sarebbero state le conseguenze di quel giorno infausto. Erfea si avvicinò ad Elendil e così gli si rivolse: “Salute e te erede della casa di Andunie! Grande eloquenza hai dimostrato oggi di possedere, unita a saggezza e coraggio. Possa la tua stirpe continuare a prosperare, ché in essa sarà preservata la memoria degli antichi Vala e dei Giorni Remoti[2]”. Lieto, Elendil fece un breve inchino, infine prese la parola: “Grati mi giungono i tuoi complimenti; tuttavia a te, Erfea, figlio di Gilnar, della casa degli Hyarrostar, colui che chiamano il Morluin, dico che quando il tuo seme andrà perduto, allora Numenor cadrà, ché ben pochi fra noi possono competere con te in potenza e lungimiranza. Possa Manwe proteggere sempre la casa degli Hyrrostar, paladino di Elenna”. A tali parole, Erfea si inchinò a sua volta, e così i due uomini si congedarono.

Il figlio di Gilnar, tuttavia non abbandonò Feneria, ma ivi rimase, finché Tar-Miriel non lo ebbe raggiunto, quando ormai il crepuscolo era calato, e più nessuno vi era nell’ampio spiazzale, ed altro suono non si udiva se non l’eco del canto di Ulmo salire dolcemente dal basso.

A lungo Erfea e Tar-Miriel si osservarono, cercando ciascuno di sondare il pensiero altrui, infine Erfea prese la parola: “Salute a te, regina di Numenor! Non ti dissi forse che il nostro prossimo incontro sarebbe avvenuto quando entrambi avessimo assunto un nuovo nome? Ebbene, ora siamo in tal luogo, di pace e serenità, eppure scorgo nei tuoi occhi la stessa ansia e infelicità di allora. Non sono forse veritiere le mie parole?”

“Mio signore – replicò Tar-Miriel – all’epoca del nostro primo incontro non mi avvidi della tua lungimiranza. Intorno a me è caduta una cortina oscura, tale che i miei sensi ne sono offuscati e la mia anima si duole per questo. Il mio destino è ormai scritto a chiare lettere e a esso io non mi sottrarrò. Non dirò però se esso mi risulti gradito o meno; tuttavia sono lieta che Elendil di Andunie ed Erfea Morluin siedano con me al Consiglio dello Scettro”.

Ciò detto un sorriso illuminò lo spento viso di Tar-Miriel, come un raggio di luna che si fosse posato su un diamante, facendolo risplendere. Erfea si alzò e presale la mano la baciò dolcemente: “Così dovrà essere, ché innanzi a me io scorgo innumerevoli disagi e pericoli, davanti ai quali, forse, l’isola del Dono è destinata a soccombere. Non ti indicherò, Tar-Miriel quale dovrà essere il sentiero da percorrere; se non sarai tu in grado di tracciare la giusta rotta, allora nessun altro potrà farlo. Io però voglio farti una domanda alla quale ti prego di rispondere”.

Rise allora Tar-Miriel e l’eco del suo riso incuriosì e meravigliò ogni forma di vita che si trovava in quel luogo: rami parvero tendersi verso di lei, mentre innumerevoli animali si approssimarono ai suoi piedi, invisibili agli occhi umani; finanche le grandi e maestose aquile di Manwe si levarono in volo, senza avvicinarsi troppo tuttavia, essendo quello un luogo sacro, ma limitandosi ad osservare la bionda fanciulla, per mezzo della loro vista acuta.

Tar-Miriel rise ancora, poi fece un inchino ad Erfea: “Davvero, principe di Hyarrostar, tu chiedi questo? Eppure, tale è la tua lungimiranza, che la mia riposta invano potrebbe essere elusiva o falsa. Tu domandi una risposta che possiedi dentro di te”. Sorrise compiaciuto Erfea: “Potente è invero il dono della lungimiranza, eppure non ritengo di sbagliarmi affermando che esso giunge alla maggior età, divenendo molto forte negli eredi di Elros”. Rise nuovamente Tar-Miriel, e parve davvero che il velo d’oscurità che l’aveva turbata, sfumasse come nebbia al sole: “Invero, non ti sfugge alcun dettaglio, figlio di Gilnar. Suvvia! Entrambi conosciamo quale sia l’interrogativo e quale sia la risposta. Non negherò che a lungo ho temuto questo momento, eppure ora tale paura è scomparsa, lavata via da questa notte benedetta. Forte è la tempra degli uomini, se essi così a lungo attendono e infine gioiscono”. “E ancor più splendente è Tar-Miriel, sovrano di Numenor, se la sua luce trafigge l’oscuro velo che a lungo l’aveva imprigionata”. Sorrise l’erede di Elros, mentre porgeva il proprio braccio ad Erfea, raggiungendo Armenolos, perla di Numenor, l’uno fianco all’altra; giunti che furono innanzi al palazzo, così si congedò Tar-Miriel dal suo ospite: “Erfea, possono gli dei ricompensare il tuo valore e la tua saggezza, con quanto il tuo cuore arde di ottenere.”

“Invero, Tar-Miriel, giusta ricompensa è stato per me questo incontro. Sono lieto che tu abbia accettato questo incarico nel tuo cuore”.

“Davvero Erfea, credi che la mia forza sia stata sufficiente a dirigere in tale direzione il mio percorso? No, principe di Numenor, un’altra volontà oltre alla mia ha deciso che così dovesse essere; grata sono ad essa, ché ancora la mia deve crescere e svilupparsi. Non è stato detto forse che il seme è lento a germogliare? Attendo dunque che fiorisca”.

“È stato anche detto che dal buon virgulto, si sviluppa la vite dai dolci frutti” le rispose Erfea sorridendo, e così i due si lasciarono, ripromettendosi di vedersi l’indomani.

Molti eventi funesti, impedirono che Erfea e Tar-Miriel potessero nuovamente incontrarsi, che nell’anno 3255 della Seconda Era, la guerra civile scoppiò per la seconda volta a Numenor e per molti mesi si combatté per mare e per terra, nell’isola e nel continente della Terra di Mezzo.

A lungo i capitani dei Dunedain opposero una fiera resistenza ai Numenoreani Neri, aiutati nel loro compito dai cavalieri del Rhovanion, degli elfi di Gil-Galad, e dai nani di Durin IV. Invano Erfea vinse una grande battaglia, strappando la città di Tharbad[3] ai Numenoreani Neri; invano ché nulla poteva il coraggio dei Dunedain contro il Signore di Mordor; cospiratori egli inviava per sobillare le feroci genti dell’Harad e gli Esterling del Rhun contro i popoli liberi e sebbene questi guerrieri della steppa e del deserto, non marciassero ancora tra le stesse file dei Numenoreani Neri, mai capitò che i seguaci di Pharazon cadessero vittima di agguati di tali popoli. Molti capitani esperti e valorosi, furono torturati e trucidati dai servi di Mordor, e laddove non si poté giungere con la spada o con l’inganno, gli agenti dell’Oscuro Signore si servirono dell’oro corruttore. In tal modo la guerra fu vinta da colui che sarebbe divenuto l’ultimo re dei Numenoreani, Ar-Pharazon il Dorato; eppure mai, finanche nel periodo di massimo splendore del suo regno, egli si rese conto dell’enorme prezzo che la sua vittoria aveva richiesto, ché Sauron di Mordor, e non già Ar-Pharazon fu il vincitore del conflitto. Forte divenne allora il potere dell’Ombra sugli uomini, ed ecco, essi non badavano più alla loro discendenza, ma in sale vuote e sepolte nel profondo della terra, trascorrevano la loro folle esistenza alla ricerca dell’immortalità, mentre eruditi ormai obliati, stilavano libri d’araldica delle stirpi di uomini vissuti nei tempi remoti; su alte torri, folli astronomi senza volto domandavano segreti inaccessibili ai mortali alle fredde e silenziose stelle di Varda.
Tale fu l’esito della guerra a Numenor; tuttavia, poiché il dolore superò la comprensione, ben pochi tra gli Elendili si occuparono di annotare quanto accadde in quei giorni lontani e scarsa è la nostra documentazione a proposito.
Tuttavia, fu detto che Erfea a lungo abbia tentato di parlare alla sovrana, e che quando ci fu riuscito, tali parole la sua bocca abbia pronunciato:
“Salute a te, regina di Numenor, Tar-Miriel figlia di Tar-Palantir, erede di Elros! Ecco che l’Oscurità incalza ed io Erfea Morluin, ammiraglio di Numenor, ti pongo questa supplica, affinché quello per cui combattiamo non vada perduto. Pharazon è il generale dei rivoltosi, ed erede anch’egli della stirpe di Earendil. Ti prego affinché venga messo in catene, prima che la fine giunga nelle nostre dimore”.
Accorato fu l’appello di Erfea; tuttavia triste fu la risposta di Tar-Miriel: “Salute a te, ammiraglio di Numenor! Risposta non ho da darti, ché mai riusciresti a comprenderne il motivo. Solo questo posso dirti: una speranza ho dato ai Dunedain ma non ne ho serbato una per me. Ti prego, in nome di Eru e della nostra amicizia di non porgermi altra domanda”.
Sconcertato, Erfea chinò il capo e abbandonò la sala del trono: alcuni mesi più tardi Ar-Pharazon fu incoronato sovrano di Numenor e prese come moglie sua cugina Tar-Miriel, contro la sua stessa volontà e la legge di Numenor, che proibiva il matrimonio tra consanguinei.
Più le mani di Erfea e Tar-Miriel si sfiorarono, mentre Feneria venne abbandonato e le sue colonne andarono in rovina; eppure vi è stato chi fra gli Esuli ha creduto di aver compreso il rifiuto della sovrana di Numenor ad acconsentire alla richiesta del suo ammiraglio. È stato detto, infatti, che ella abbia rifiutato e in seguito abdicato, perché costretta dalla minaccia di Ar-Pharazon, che in caso contrario avrebbe condannato a morte Erfea. Fino alla fine dei suoi giorni Tar-Miriel soffrì per il giuramento fatto al proprio sposo e solitaria trascorse la propria esistenza sino alla Caduta, quando tra le urla e lo sgomento ella perì, vittima del ricatto e dell’antica profezia che Manea anni prima aveva rivelato alle orecchie del sovrano».

Note

[1] Al termine della cerimonia che conferiva il titolo di re all’erede prescelto, costui poneva dinanzi al suo nome l’appellativo di Tar, che nella favella dei Noldor indicava colui che è nobile, e per estensione, il sovrano stesso.

[2] Nel corso della Seconda Era, progressivamente, i secoli precedenti vennero indicati impropriamente con tale locuzione; i Giorni Remoti, tuttavia, dovrebbero includere solo le Ere precedenti la creazione del Sole e della Luna.

[3] Tharbad era la capitale delle colonie numenoreane poste nelle contrade nord-occidentali di Numenor; in seguito tale titolo fu conferito alla città di Annuminas, allorché venne costituito il regno del Nord ed Elendil, figlio di Amandil, divenne sovrano dei Dunedain in esilio.

Storia di Miriel – Un’ascesa al trono contrastata

Con questo articolo presento una parte importante relativa al funzionamento della politica numenoreana nella tarda Seconda Era, ossia i meccanismi che designavano l’ascesa al trono del nuovo sovrano. Su questi aspetti non ho potuto basarmi, se non superficialmente, sui testi tolkieniani: il professore, infatti, si occupò in rare circostanze di questo argomento, accennando solo brevemente alla presenza, nel racconto di Aldarion ed Erendis, di un Consiglio dello Scettro, composto dai nobili di più alto lignaggio, che acquisì col tempo un ruolo e un potere sempre maggiori. Per scrivere questa parte del racconto, dunque, ho dovuto basarmi soprattutto sulle strutture politiche del passato, in particolare della società classica; ho concepito, seguendo queste ispirazioni, due organi di governo: uno, cioè il Senato, eletto dalle Gilde nelle quali erano concentrati i poli produttivi dell’Isola, e l’altro, per l’appunto, il Consiglio dello Scettro, che costituiva una camera ristretta, fissata a cinque membri più il sovrano, il cui voto valeva doppio. Può essere che qualche lettore trovi questa parte un po’ noiosa, perché si dilunga sul funzionamento di questi meccanismi amministrativi: me ne rendo conto, tuttavia è necessaria per la comprensione dell’evoluzione che la civiltà numenoreana stava vivendo in questa fase e della quale tratterò più approfonditamente in un prossimo articolo.
Ad ogni modo aspetto i vostri commenti, buona lettura!

«Giunse infine il giorno del Consiglio dello Scettro, ché molti eventi futuri avrebbe decretato: fin dalla prima ora del giorno, legati inviati da tutte le circoscrizioni di Numenor, avevano occupato i propri posti alle falde del Menalterma; era lì, infatti, che sorgeva la grande dimora che ospitava i membri del Consiglio e gli Ataranya[1] del Senato: Feneria, veniva chiamato, luogo del silenzio ché mai, tranne in tali occasioni, si udiva altro suono che non fosse lo stormire dei rami e l’eco della furia del mare. Qualunque altro suono taceva; perfino le grandi aquile di Manwe, sebbene ivi avessero i loro nidi, mai levavano grida, né sorvolavano lo spiazzale, limitandosi ad osservarlo dall’alto delle loro rocce aguzze: tale era la maestosità del luogo, che finanche nei giorno oscuri, quando Sauron ebbe corrotto definitivamente il cuore del re, mai egli osò mettervi piede, temendo la collera di Manwe.

Feneria occupava tale area da tempi immemorabili, fin da quando Numenor emerse dalle acque; al centro vi era un albero, simile a quello, bianco, che allietava il giardino del sovrano: Vardariana era il suo nome, consacrato alla regina dei Vala, e si diceva che dalla gloria della dea ricavasse nutrimento e splendore. Taluni marinai che nelle epoche successive si avventurarono, per sorte o per follia, ai confini del mondo, riferirono che l’albero era ancora lì, a fondamento della maestà dei Vala e faro per le genti oppresse da Morgoth e dai suoi servitori. Scarsi sono i racconti su Numenor, sopravvissuti dopo Atalante[2]; tuttavia, essi menzionano quali fossero le consuetudini e i rituali che aprivano le riunioni dei due massimi congressi di Elenna. Primi fra tutti, facevano il loro ingresso i sacerdoti di Manwe e le sacerdotesse di Varda, i quali dopo aver intonato canti e litanie in onore dei reggenti di Endor, liberavano due colombe bianche, simboli della pace e della concordia che dovevano trionfare in quel luogo; dopo aver svolto queste mansioni, essi si inchinavano davanti al sovrano, e sedevano nei posti riservati ai loro ordini, per far largo al sovrano, seguito dalla consorte e all’erede designato a prenderne il posto. Una volta che la famiglia reale avesse preso posto, il sovrano si rialzava nuovamente e apriva le porte di eog[3] del tempio di Eru Iluvatar, dichiarando, con tale gesto, che l’assemblea era aperta: nel seguente ordine facevano il loro ingresso i principi di Numenor, seguiti dai capitani della flotta, della fanteria e della cavalleria e infine dai rappresentanti dei mercanti, dei contadini, dei pescatori e dei pastori. In alcune occasioni anche gli ambasciatori di reami stranieri potevano presedere al consiglio, per sottoporre un problema all’attenzione del sovrano e della corte intera; nelle riunioni che erano indette nel mese di Yaramie[4], inoltre, i nuovi capitani dell’esercito eletti durante l’estate dalle gilde cui essi appartenevano, giuravano fedeltà al sovrano di Numenor.

Il Senato, composto dalla totalità degli uomini e delle donne appartenenti agli ordini sopra descritti, con l’eccezione del sovrano e dell’erede al trono, discutevano di quanto accadeva nella propria isola e nella Terra di Mezzo, fino a stilare un documento, che nel pomeriggio veniva consegnato nelle mani del re, il quale, dopo averne esaminato i contenuti, riuniva il Consiglio dello Scettro: tale era dunque l’organizzazione del potente centro amministrativo di Elenna, che ben pochi osavano disconoscere le decisioni in esso prese. Molti furono i temi dibattuti nel corso dei secoli, eppure tra gli esuli Dunedain che ancora dimorano nella Terra di Mezzo, è sempre viva l’immagine della sessione del Senato e del Consiglio dello Scettro che si tennero nell’Yaramie del 3154 Seconda Era.

Tosto parve chiaro a quanti erano presenti che una grande decisione stesse per aver luogo: un silenzio minaccioso si levò dagli scranni, quando, dopo aver compiuto i rituali e i sacrifici, il sovrano Tar-Palantir alzò la mano per prendere la parola:
“Salute a voi Numenoreani, principi e rappresentanti del popolo. Prima che il Consiglio inizi a deliberare, voglio annunziare ai presenti, che in questo giorno cedo scettro e trono alla mia erede: ella sarà regina con il nome di Tar-Miriel e presterà giuramento dinanzi a voi”. Lentamente Miriel si alzò dallo scranno e si fece strada verso il trono di Tar-Palantir: un’ombra pallida sotto il sole, come se una cappa le avesse coperto il volto, l’erede sarebbe stato investito in quel momento, se improvvisa come la discordia, non si fosse alzata una voce del basso, interrompendo la cerimonia.

“Sovrano di Numenor, ataranya e voi membri del Consiglio dello Scettro, vi chiedo di prestarmi ascolto. Ar-Pharazon sono e vengo da voi per porre alla vostra attenzione un problema gravoso che implica soluzioni drastiche e repentine. I nostri informatori mi riferiscono che l’Oscuro Signore di Mordor ha ripreso i suoi antichi progetti di conquista, e che le nostre colonie e le nostre città sono minacciate dalle armate di orchi e altri schiavi di Sauron. Chiedo dunque a voi, come possa essere utile al nostro impero un sovrano che non può impugnare le armi in difesa del suo popolo. Non metto in dubbio il valore della principessa – ciò dicendo fece un beffardo inchino rivolto a Miriel – e le sue qualità morali, né dubito che il governo di Tar-Palantir abbia ormai segnato il suo corso, tuttavia ritengo doveroso che il Consiglio applichi una soluzione diversa”.

Gravi erano le parole pronunciate da Ar-Pharazon e ancor più grave era la procedura di cui si era servito per poter esprimere il suo personale dissenso: non era infatti consentito ad altri che al sovrano stesso, opporre cambiamenti alla scelta del proprio erede e questo solo nel caso che fosse venuta meno la salute del prescelto o quando vi fosse stato più di un probabile candidato, di modo che il primo avesse facoltà di rinunciare.

Mormorii di disappunto si levarono dai Dunedain ed Elendil, figlio di Amandil chiese ed ottenne parola:

“Sovrano, principi e voi rappresentanti del popolo, non è forse in tali frangenti che il lupo si traveste da pecora, il cacciatore da preda per ingannare gli incauti? Ar-Pharazon sostiene che il nemico è pronto a sferrare un massiccio attacco alle nostre città; afferma altresì che la regina Tar-Miriel non possiede le capacità per guidare una nazione in assetto di guerra. Questo egli ha riferito, e non dubito che avrebbe altre prove da addurre a quanto sostiene, se solo ne avesse il tempo; tuttavia io chiedo al principe perché egli in qualità di rappresentante delle città oltre mare, non abbia chiesto in precedenza l’aiuto al sovrano, considerata la gravità della situazione. Se l’emergenza è divenuta tale negli ultimi tempi, inoltre, per quale motivo Ar-Pharazon non ha disposto egli stesso dei piani di difesa, necessari per affrontare il primo assalto, in qualità di comandante reale e insignito dal sovrano di pieni poteri?”

Applausi vi furono da parte di molti Dunedain e alcuni fra questi si congratularono con Elendil per la saggezza che aveva dimostrato nel suo intervento. Ar-Pharazon non si turbò affatto; attese che il silenzio fosse tornato a regnare sovrano, poi chiese di avere nuovamente parola:

“Atarynia, invero Elendil della casata di Andunie mi accusa di aver male agito, per incapacità o codardia, questo non saprei. Tuttavia, se mi è concesso esporre le mie ragioni, allora intendo ricordare a tutti i presenti in quanti modi sia stato io ostacolato nello svolgimento del mio compito da coloro che adesso osano definirsi paladini della verità! Ebbene, sono profondamente dispiaciuto nel dover ammettere che ormai la nostra isola è dominata dall’ipocrisia e dall’arroganza.”

Concluso il suo intervento, Ar-Pharazon sedette, lieto in volto nello scorgere quanti Numenoreani condividessero il suo pensiero in quell’ora. Alta però si levò la voce di Erfea:

“Ben dici, Ar-Pharazon, quando affermi che mai sei rimasto ozioso nella Terra di Mezzo! Mi chiedi cosa vedono i miei occhi, principe? Ebbene, non ti nascondo che la follia sarebbe giunta prima in questo consenso, se i poteri e l’oro a te concessi si fossero dimostrati di misura superiore. No – concluse poi – non credo certo che la colpa sia da addebitare a chi non ti prestò ascolto. Bene fecero quanti operarono in tal senso, impedendoti di operare altre oscure macchinazioni, come quella che vedo dinanzi a me. Eppure Ar-Pharazon, non tutto quello che la tua bocca pronuncia è figlio del tuo pensiero, ché l’eco di altre voci ascolto ora, oscure e minacciose”. Ar-Pharazon era sul punto di replicare duramente, quand’ecco Tar-Palantir alzò nuovamente la mano: “Giovane cugino della sovrana, devo forse rimembrarti quali siano i tuoi doveri nei confronti della corona? Se la mia scelta non è di tuo gradimento, è affar tuo e di quanti sostengono la tua causa. Miriel diventerà la regina di Numenor, e questa è la mia ultima disposizione da regnante”.

Detto questo, Tar-Palantir si spogliò dello scettro e della corona e assegnateli nelle mani della figlia, le si chinò innanzi e pronunciò le parole di saluto che la tradizione imponeva: “Ricevi questa corona e questo scettro dalle mie mani, perché ti indichino quale debba essere il percorso da seguire e quali doveri soddisfare. Eru Iluvatar, Manwe, Varda e gli altri reggenti di Valinor mi siano testimoni”».

Note

[1] Gli Ataranya (“padri”, in adunaico) erano i senatori di Numenor, eredi delle famiglie nobili dell’isola.

[2] Tale termine, nella lingua dei Noldor (Quenya) indica l’inabissamento di Numenor e l’occultamento di Valinor al termine della Seconda Era.

[3] L’Eog era un metallo rarissimo, di origine siderale: chiamato da alcuni, “Vero Ferro”, l’eog era impiegato sovente nella lavorazione della lega di galvorn per conferirle maggior resistenza ai colpi: tale tecnica di forgiatura, sconosciuta agli uomini, fu divulgata solo presso gli Eldar e i Nani di Durin; i primi, realizzarono per Elros Tar-Minyatur le porte del tempio di Eru a Numenor.

[4] Mese di Settembre nella lingua degli Elfi.

Storia di Miriel – La minaccia di Pharazon

Continuo in questo articolo la narrazione degli eventi che condussero alla fine del regno di Numenor e alla presa del potere da parte di Pharazon, cugino di primo grado della principessa Miriel. Fino a questo momento, salvo un breve accenno contenuto nell’articolo Sauron, il politico, di questo importante personaggio non è stato ancora detto molto; ebbene, questo è il primo articolo nel quale assisteremo a un incontro fra lui ed Erfea, nel quale si coglierà la profonda antipatia esistente tra i due principi, per altro coetanei…risentimento che, a ben vedere, non può essere (solo) dovuto alla presenza di Miriel, ma che riguarda, più in generale, due opposte concezione politiche sul futuro di Numenor…

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«Trascorso qualche tempo, ecco che nuovamente il sovrano convocò ad Armenelos l’erede della casata degli Hyarrostar.Sofferente parve ad Erfea Tar-Palantir, quando gli fu di fronte, come se anni interi gli fossero piombati repentinamente sulle spalle; eppure, in fondo allo sguardo, covava ancora la luce dei giorni ormai andati all’occaso e fiera echeggiava la sua voce nel salone del trono:
“Salute a te, figlio di Gilnar! Poiché il tempo è ormai giunto a maturazione, ecco che ti ho convocato nuovamente innanzi a me. Anziani sono diventati i miei occhi e il ricordo delle cose che furono comincia lentamente a sbiadire, come la luce del giorno morente. Non ti tratterrò a lungo in tale luogo, onya, ché sono solo il latore di due messaggi”.
Sorrise il sovrano, ma era il suo un riso amaro, quasi beffardo: “Suvvia principe! Entrambi conosciamo il motivo per cui ti ho convocato e se non hai parlato è solo perché non ti ho ancora dato tale diritto; tuttavia non dubito che in tutto questo tempo abbia taciuto per una ragione nota solamente a te, la quale posso bene immaginare”.
Erfea attese a lungo, infine prese la parola: “Infiniti sono i sentieri che le menti degli uomini devono percorrere per raggiungere i medesimi obiettivi, le une più lunghe, le altre più brevi. Qual è il senso di tutto questo, mi chiedi? Ebbene, non credere che io voglia mancarti di rispetto, tuttavia è innegabile che il mandante dei messaggi non abbia fatto che aumentare la tua apprensione”.
“Tutto quanto chiedi richiede tempo, giovane Dunadan” ribatté il sovrano.
“Tempo? – ribatté Erfea – Tempo?  Forse è come dici tu; io però non ho il potere di modificarlo, né di prevedere quale sia il suo fine ultimo. Non mi sbaglio, affermando forse che il primo messaggero altri non è che mio padre Gilnar? Ben mi avvedo di quanto il contenuto del messaggio mi riguardi; tuttavia se è in mio potere chiederti una grazia, ti imploro di valutare a lungo la seconda proposta”.
Tale fu la replica di Erfea, e il sovrano parole non trovò per opporvisi, ché in quel momento Pharazon, nipote del re e capitano dei Numenoreani Neri, fece il suo ingresso nella sala, senza che l’araldo avesse avuto il tempo di annunciarlo, tanta era la fretta che costui mostrava.
Giunto che fu innanzi al trono, il principe si inchinò leggermente, pronunciando tali parole:
“Sovrano di Numenor, salute e onore a te! Lieto sono nel vederti in buona salute, nonostante l’età che implacabilmente avanza. Non occuperò il tuo prezioso tempo a lungo, che ben vedo quali altri graditi ospiti attendono in disparte, – soggiunse poi alludendo ad Erfea – vorrei però che tu prendessi seriamente in considerazione l’idea che tempo fa ti proposi. Non ho altro da aggiungere, se non rimembrarti che il Consiglio dello Scettro è ormai prossimo. Quanto a voi, principe degli Hyarrostar – si rivolse poi ad Erfea – avremo occasione di approfondire la nostra conoscenza, affinché essa possa essere proficua per entrambi”.
Rise Pharazon, mentre si allontanava a grandi passi, ma la voce di Erfea lo bloccò sulla soglia della porta:
“Il Consiglio dello Scettro è prossimo Pharzon; tuttavia, ora comprendo quali siano realmente le vostre intenzioni. La mia scelta dovrà forse essere quella di sottomettermi a Sauron, oppure al suo burattino? Ebbene io percorrerò una terza via, che voi lo vogliate o no”. Stupito Tar-Palantir osservò Erfea Morluin, in cuor suo chiedendosi se davvero avesse udito parole di sfida; tuttavia, lesta fu la reazione di Pharazon, tale da impedirgli la possibilità di intervenire:
“Attento principe, voi vi inimicate molto più che il fato o il vostro destino; voi sfidate il suo artefice” concluse beffardo il nipote del re. Erfea non ripose, ma lo fissò a lungo negli occhi, finché Pharazon furioso non si portò la mano alla spada.
“In questo luogo è proibito adoperare armi, figlio di Gimilkhad[1]. Ti ordino di allontanarti immediatamente dalla mia vista. Tar-Palantir è ancora il sovrano”. Così potente aveva risuonato la voce del re di Numenor che Pharazon rinfoderò la spada, furente ed irato: “Sappi, o re, che vi sono al mondo altri poteri, sui quali esercito il mio dominio. Sono anch’io un sovrano, non lo sapevi?”.
Non appena il giovane capitano dei Numenoreani Neri si fu allontanato dalla sala, così si rivolse Tar-Palantir ad Erfea: “Dure come adamante sono state le tue parole; tuttavia non saprei dire quanto veritiere. I miei sensi si indeboliscono ogni giorno di più e dell’antico potere è rimasto ben poco”.
“Mio signore – gli rispose Erfea – sono fermamente convinto di quanto ho affermato, e sarei pronto a pronunciare ancora tali parole, se necessario. Troppo a lungo Pharazon ho tenuto a freno la sua ira, troppo a lungo ha atteso la sua vendetta. Egli è potente ora, proprietario di numerosi cantieri navali e di armerie. Ha molti alleati nelle nostre fortezze della Terra di Mezzo, specialmente nel sud-est del continente. Umbar è ormai caduta sotto il suo controllo e così pure altre città della costa. Non solo Numenoreani lo seguono, ma anche mercenari senza scrupolo e altri esseri malvagi. Devi considerare attentamente la mia preghiera, signore di Elenna. Entrambi vogliamo preservare il bene di Numenor e conosciamo quale debba essere la strada da percorrere”. Tar-Palantir lo ascoltò con attenzione, infine sospirò: “Quanti anni sono trascorsi da quando le ultime vele giunsero alle mostre spiagge da Eressea, onya? Invano ho atteso, durante tutto questo tempo, un segno dei Signori dell’Occidente. Eppure, mentre la tenebra comincia ad infilarsi persino nel mio cuore morente, mi chiedo se la mia attesa debba  ormai concludersi qui. Non ho la forza di attendere quel giorno, giovane Dunadan. Non più.”

Triste, Erfea si congedò dal sovrano, ché la sua vista e il suo udito avevano osservato e ascoltato pensieri tali da rendere il suo animo stanco e depresso.

Rapidi, trascorsero i giorni di Laire[2], mentre Ulmo riposava sotto le calme acque dell’oceano; e ancor più fulminei, ecco che nubi gravide di sventura si abbatterono su Numenor. Ombre si aggiravano, silenti eppure mortali: parola mai essi adoperavano, che altrove risiedeva la loro voce, ma osservavano, afferravano e istigavano, invisibili agli occhi dei mortali, eccetto quelli che si piegavano al volere che le comandava.
Molto crebbe in numero e potenza il partito dei Numenoreani Neri ed ecco essi ebbero un nuovo signore a guidarli. Lungo tempo egli aveva trascorso in esilio, lontano da Elenna, dimorando negli aridi deserti del Khand e del Variag; figlio e nipote di re, aveva raggiunto un potere quale mai nessun mortale era stato in grado di apprendere. Er-Murazor veniva chiamato, Il Principe Nero; mai rivelò quale fosse la sua vera ascendenza, ché ben pochi tra i mortali erano in grado di sopportarne anche solo la vicinanza. In seguito, tuttavia, si apprese che egli era il Signore dei Nazgul, inviato da Sauron di Mordor, per seminare discordia tra i Numenoreani, e sebbene egli celasse la sua vera natura sotto spoglie mortali, pure il suo mortale potere ebbe modo di manifestarsi in innumerevoli occasioni, durante la sua permanenza a Numenor; presto entrò in contatto con Pharazon e lo trovò utile per i suoi malvagi scopi. Naturalmente, ben poche di queste notizie giunsero a Tar-Palantir, ché egli prestava ascolto solo ad antiche vicende accadute in tempi remoti; sovente si recava alla grande torre che dava sulla baia di Elenna[3], scrutando l’oceano in cerca delle vele provenienti da Tol-Eressea, senza fortuna.
Infine, non potendo ritardare oltre, Tar-Palantir si decise a convocare il Consiglio dello Scettro e il Senato per valutare attentamente la situazione che si era venuta a costituire.
In quei giorni crebbe il timore per una nuova guerra civile, ché i Numenoreani Neri avevano accresciuto di molto la loro influenza, destando preoccupazione tra i Dunedain; non appena fu deciso che il Consiglio dello Scettro e il Senato si sarebbero dovuti tenere a Yaramie[4], a metà del mese, entrambe le parti compresero l’importanza che le decisioni prese in quella assemblea avrebbero comportato.
Una sera d’Urime[5], Erfea camminava pensoso lungo un boschetto di malinorne[6], quand’ecco gli si appressò Amandil, signore della casata di Andunie:
“Salute a te, figlio di Gilnar! La tempesta è vicina e giunge l’ora in cui le nostre spade dovranno essere sguainate insieme, a difesa della nostra Numenor”.
“Mio signore Amandil, molto temo l’approssimarsi del Consiglio dello Scettro, ché ben mi avvedo quanto il braccio di Sauron sia diventato lungo. Tuttavia, ogni speranza non è vana, finché Tar-Palantir detiene lo scettro”.
Amandil sospirò, poi lentamente rispose: “Erfea Morluin, non ti nascondo che le tue paure sono anche le mie, ché molte sono le cose da temere in questi giorni oscuri. Se il sovrano è intenzionato a compiere la sua scelta, allora egli avrà bisogno di tutto l’aiuto possibile”.
Erfea annuì, poi replicò: “Le tue parole sono sagge, ma sono il parto di una mente lucida. Io e te sappiamo bene che la mente del sovrano vacilla: temo che egli non si opporrà, come dovrebbe essere suo diritto, qualora il Consiglio dello Scettro dovesse rendere nulla la sua scelta. E’ questo che io pavento maggiormente”.
A lungo Amandil considerò quanto il figlio di Gilnar aveva detto, poi continuò: “Davvero bizzarri paiono i destini dei mortali! Siamo nella nostra dimora e ivi dobbiamo temere il nemico! Se tale si configura il corso degli eventi, non oso immaginare quali possono essere le conseguenze”.
“No Amandil, questa situazione è  figlia della follia degli uomini. Noi siamo come costruttori: possiamo edificare mura e torri elevate, pari a quelle di Valinor, ma non possiamo impedire che la follia prenda il sopravvento sulla ragione, portando il nemico dove mai sarebbe giunto altrimenti. Abbiamo vegliato su Numenor per molti secoli, tuttavia è necessario che la scelta del sovrano sia giusta, se non vogliamo che non rimanga nessuna terra da difendere”.
Annuì Amandil, e parole i due uomini più non pronunciarono, sebbene la sensazione di opprimenza e di sconforto non abbandonasse nessuno dei due.

Note

[1] Fratello di Tar-Palantir e capitano della fazione dei Numenoreani Neri: morì durante un’imboscata tesagli dai Variag del Khand nel 3175 della Seconda Era.

[2] L’estate, nella lingua degli Eldar.

[3] Baia posta nel versante occidentale di Numenor, nei pressi della città di Andunie.

[4] Settembre, nella lingua degli Eldar.

[5] Agosto, nella lingua degli Eldar.

[6] Specie vegetale appartenente alla famiglia delle quercie, endemica di Numenor.

Storia di Miriel – Una festa a lungo attesa…

Quando scrissi «Il Racconto del Marinaio e della Principessa» non avevo ancora immaginato quale ruolo avrebbe assunto il personaggio di Miriel all’interno del «Ciclo del Marinaio»: il ruolo della protagonista femminile, infatti, fino a quel momento era ricoperto dalla mezzelfa Elwen, come ho raccontato nell’articolo che illustra la genesi dei miei racconti: In principio era…Othello, ovvero come nacque il Ciclo del Marinaio.
Per questa ragione, mi concentrai essenzialmente su alcuni aspetti della sua relazione con Erfea, in particolare su quello che – fino a quel momento – doveva essere il loro primo incontro «narrato»; per essere più precisi, cioè, si dava per scontato che Erfea e Miriel si fossero già frequentati in passato, ma senza entrare nel merito. Successivamente riorganizzai «Il Ciclo del Marinaio», facendo della principessa di Numenor il principale protagonista femminile e approfondendo perciò il suo carattere e, naturalmente, la sua interazione con gli altri personaggi del volume, a partire proprio da Erfea.
Ciononostante, il brano che mi appresto a presentarvi non ha perso nulla della sua capacità evocativa: al suo interno, come potrete leggere, i protagonisti si confronteranno sul concetto di Bellezza, dopo essere rimasti ammaliati dal fascino di quella che – mi piace ricordarlo – era considerata la più bella donna della sua epoca.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Da lungo tempo nel palazzo reale di Armenolos non veniva organizzato un simile banchetto; già fervevano i preparativi e alti risuonavano gli splendidi suoni dei corni e dei violini, delle viole e degli archetti. Un’immensa processione di luce venne posta ad entrambi i lati della strada, simile ad un immenso serpente di fuoco, che dal mare saliva in alto, verso il Menalterma.
Carrozze di ospiti illustri giungevano da tutto il paese per rendere omaggio alla principessa, ansiosi di apprendere quali sarebbero state le parole che il sovrano avrebbe pronunciato, ché nonostante il clima allegro e festoso, ben pochi riuscivano ad assaporare fino in fondo il sapore di una gioia improvvisa quanto violenta, circondata come era da nubi cariche di sventura e paura.
Finalmente tutto fu pronto e la festa ebbe inizio: per primi entrarono i principi di Numenor, coloro che sedevano al Consiglio dello Scettro. Il primo a far il suo ingresso fu Numendil, della casa di Andunie[1], seguito dal figlio Amandil, e dal nipote, che, ancora giovane, avrebbe in seguito assunto una notevole fama: Elendil era il suo nome, e la gente stupefatta lo osservava, perché in lui splendeva immensa la luce di Aman e il suo viso non erano ancora toccato dal crepuscolo, ma fiero brillava alla luce della sala. Stupito, ma lieto, il giovane principe, replicava con gesti cortesi al pubblico, che lo scrutava con timore, rapito dalla sua maestà sublime. Erano, gli eredi di Amandil, i parenti più prossimi del sovrano e grande era l’influenza che esercitavano all’interno del Consiglio; onorati dai Fedeli, mai essi avevano mancato alla parola data e infiniti atti di valore i loro animi avevano compiuto, spinti dalla necessità di quei giorni oscuri.

Dopo aver atteso alcuni istanti, ecco che fecero seguito Gilnar, sua moglie Nimrilien ed Erfea della casata degli Hyarrostar: alla loro vista, molti dei presenti inchinarono il capo, ché erano del gruppo di coloro che onoravano gli dei, e ben conoscevano il valore del figlio di Gilnar, e ne ammiravano l’orgoglio e la fermezza del carattere. Non tutti, però mostrarono un simile atteggiamento, e anzi alcuni tra i più arroganti esponenti dei Numenoreani neri mostrarono odio e disprezzo per coloro che consideravano ospiti fastidiosi, quanto mai sgraditi alla loro vista, sebbene non osassero manifestare apertamente il loro dissenso con parole o atti crudeli, ché ancora non erano giunti i loro signori e i loro sottoposti avevano ricevuto disposizioni ben precise a tal proposito.
A stento, perciò, i nemici del re trattennero le lingue biforcute, senza mai distogliere i loro eloquenti sguardi dalla famiglia Hyarrostar, ma, levando al contrario alte grida di giubilo, quando fecero il loro ingresso, seguiti dai loro servi e guerrieri, i principi di Numenoreani a capo della fazione ribelle. I principi del Forastar, seguiti dai loro pari grado di Onostar e di Huarnustar[2], erano gli oppositori di Tar-Palantir: grandi ricchezze detenevano e la loro ingordigia di preziosi era pari solo alla lussuria che essi dimostravano; indossavano ornamenti preziosi e le dame ostentavano gioielli macchiati del sangue delle numerose guerre che i loro uomini avevano combattuto per impossessarsene. Lentamente, i principi dei Numenoreani Neri attraversarono la sala, rivolgendo cenni di saluto solo ai propri pari, mentre uno stuolo di cortigiani cospargeva il suolo di petali di rose e aspergevano nell’aria essenze profumate ed oli orientali; giunti che furono innanzi a Tar-Palantir, essi non proferirono saluto, né accennarono ad un inchino, limitandosi a passargli accanto, in aperta sfida alla sua autorità, atto questo che parve molto irriverente agli occhi dei Dunedain, sebbene non fosse l’unico e il più grave perpetuato a danno del sovrano, tra quelli che avevano compiuto, fin da quando la guerra civile era scoppiata a Numenor alcune centinaia di anni prima.

Nell’ordine, giunsero poi i sacerdoti di Eru Iluvatar e delle altre divinità, gli ammiragli della flotta, della fanteria e della cavalleria, gli ambasciatori dei reami alleati, e infine i rappresentanti del popolo di Armenelos e dell’intera nazione. Grande fu la curiosità, quando entrarono nella sala del trono gli araldi di Durin IV e di Gil-Galad, ché da molti anni gli uomini di Numenor non posavano i loro occhi sui figli di Aule e sui Primogeniti: tuttavia, perfino in tale circostanza, solo i principi dell’Andunie e dell’Hyarrostar si alzarono dai loro scranni e si inchinarono innanzi agli ambasciatori; e furono sempre i principi dei Dunedain a invitare nani ed elfi ad accomodarsi vicini a loro, come si soleva fare in quelle occasioni, fin dalla nascita dell’isola.

Finalmente, non appena gli ospiti si furono sistemati alle proprie tavole, gli araldi suonarono nelle loro trombe e i visi dei presenti si voltarono nel medesimo istante, come per obbedire ad un ordine silenzioso: parola più non si udì in tutta la sala e mentre la Luna si levava in tutta la sua bellezza argentata, una musica, triste e lieto si levò da un’invisibile orchestra, isolando il pubblico in un’estasi indescrivibile.
Una figura apparve in cima allo scalone e qualche istante dopo Miriel, l’erede al trono di Numenor fece il suo ingresso tra i presenti. Molti furono coloro che si chiesero se Lorien[3] non avesse confuso le loro menti mortali, mostrando la bellezza di Varda, sposa di Manwe e regina dei Vala, ché mai si era visto in quel luogo un simile chiarore, simile a quello emanato dalle più nobili stelle del creato. Assorti, ciascuno nel proprio silenzio, i presenti non riuscivano a distogliere il proprio sguardo dal viso della principessa, mentre i loro pensieri vagavano confusi e commossi da tanta bellezza.1

Finanche i nani di Khazad-Dum, rimasero affascinati da tale visione: “ Se mai durante la mia esistenza ho lavorato laen e adamante[4], ebbene polvere e ruggine mi paiono questa sera, ché mai prima d’ora avevo ammirato l’essenza stessa della fiamma imperitura. Invero – sussurrò uno di essi ad Erfea che sedeva accanto a sé – l’isola di Numenor custodisce tesori che saranno sempre di là dalle ambizioni dei mortali, fossero anche i loro cuori e le loro menti mille e ancora mille volte ricolmi d’amore”. “Quanto affermi è giusto – gli rispose Erfea Morluin – perché i nostri animi sono come viandanti sfiniti che giungano alla fonte di montagna dopo lungo viaggio; per quanto la loro arsura sia grande, ecco che essa sarà spenta dall’acqua sorgiva, ché mai nel berne il dolce nettare, si esaurirà tuttavia il dolce diletto che essa procura. Allo stesso modo i nostri animi sempre aneleranno all’essenza della bellezza, senza che questa venga meno, anche quando, svanita la forma, essa non sarà più percepibile ai sensi dei mortali”.

“Sagge sono le tue parole, nobile Numenoreano – interloquì un alto uomo che sedeva di fronte a lui – Imracar Folcwine è il mio nome, cavaliere di una terra a nord di Boscoverde il Grande; mai avevo creduto che un simile piacere si potesse ricavare dalla contemplazione. Il nostro è un popolo rude, guerriero, fiero avversario di colui che non nominiamo. Non temiamo né la morte, né il dolore, e nessun avversario è in grado di abbatterci, ad eccezione del disonore e della codardia che massimamente temiamo: fiere e coraggiose sono le nostre donne, eppure mai ho ritenuto che fossero così remote e distanti da quella che chiamiamo la vita degli uomini. Le Eothraim[5] cacciano, scendono in guerra, partecipano ai nostri consigli al fianco dei loro padri, fratelli sposi e figli, gareggiando nelle medesime competizioni di noi uomini, sovente ottenendo la vittoria. Tuttavia, ritengo di aver assistito questa sera ad una competizione nella quale difficilmente un uomo avrebbe vinto”.

“Erfea Morluin, principe dell’Hyarrostar sono e a te dico che mai il mio cuore ha provato un’emozione così dolce, tale che al confronto la primavera dei Mortali sembra di gran lunga inferiore. Sii felice e non turbarti, nobile cavaliere! Il passato sarà lieto come il presente se sarai in grado di preservare intatto quanto i tuoi occhi hanno visto”.
“Così farò – rispose Imracar chinando il capo – e possa il ricordo della luce illuminarmi quando la tenebra sarà intorno a me”.
Simili commenti stupiti si levarono dagli uomini e dalle dame sedute ai loro tavoli, sussurri che si interruppero quando Miriel ebbe alzato la candida mano:
“Miei graditi ospiti, signori di Numenor, e voi, ambasciatori i cui paesi sostengono la nostra causa, siate benvenuti nella reggia di Elenna. A voi rivolgo il mio più cordiale saluto, augurandomi che la letizia che si respira questa sera possa nuovamente echeggiare anche in altre dimore dei Popoli Liberi”. Tacque per qualche istante, poi afferrato il calice, lo levò in alto, pronunciando parole di buon auspicio, indi si sedette e i festeggiamenti per il raggiungimento della maggior età della principessa Miriel ebbero inizio.
Molti idiomi furono in quella sera uditi ad Armenolos, frammisti a risa e canti: argomenti lieti e meno lieti furono trattati, mentre le stelle sbocciavano ad occidente, diamanti su una tela oscura. Al culmine della notte, infine, si diedero inizio alle danze, dopo che i bardi ebbero a lungo cantato le gesta della casa dei sovrani di Numenor, fin da quando Elros Tar-Minyatur[6] fece il suo ingresso nell’isola del dono; i signori invitarono le dame a danzare nel grande parco che si estendeva dal colle fino al mare, mentre abili musicisti e menestrelli deliziavano i presenti con ballate d’occasione.

Erfea Morluin osservava quanto accadeva, con lo sguardo perso nel ricordo di eventi passati; tuttavia ratto si voltò, quando un lieve tocco lo distrasse dalla sua meditazione. Miriel lo guardava, silenziosa, senza proferire parola alcuna; fattogli poi un rapido cenno lo invitò a seguirlo in una radura poco distante dal luogo in cui si svolgevano le danze. A lungo la principessa osservò Erfea, poi lentamente prese la parola:
“Salute a te, principe della casa degli Hyarrostar! Fresca è la notte e ancor lungi dal terminare sono i festeggiamenti! Tale è la ricorrenza, per cui ogni ospite mi deve un dono, un dono che sia a me gradito. Non ho forse ragione nel ritenere che voi abbiate obliato questo dovere?”
“Mia signora – così le si rivolse Erfea – veritiere sono le vostre parole e non sarò io a negarle. Tuttavia, verrei meno alla mia dignità, se non vi facessi notare che è facoltà degli ospiti ritenere se esista gioiello tale che la sua luce possa adombrare il vostro sembiante”.
Cristallino risuonò nella notte il riso della principessa, mentre rispondeva al suo interlocutore: “Ben mi avvengo di quanto la vostra lingua non sia meno pronta della vostra spada! Devo forse interpretare il vostro gesto come un complimento? E se così fosse, davvero vi aspettate che io lo gradisca?” Sorridendo, Erfea le si inchinò: “Una domanda pericolosa, la vostra, mia signora, alla quale non offrirò riposta. Tuttavia, per porre ammenda alla mia dimenticanza, vi porgerò la possibilità di rivolgermi una seconda domanda, alla quale non esiterò a rispondere”.

A lungo dovette attendere Erfea, ché molto Miriel meditò; infine, quando fu certa di quello che le premeva sapere, così formulò il quesito: “Conoscete forse le parole che pronunzierà mio padre dinanzi al Consiglio dello Scettro?”
Tosto il viso di Erfea si rabbuiò, sebbene la su voce non mostrasse esitazione alcuna: “La vostra domanda è legittima, ma superflua. Questo io posso rivelarvi: è destino che le nostre strade si incontrino nuovamente, tuttavia quando questo accadrà, avremo assunto ruoli diversi, sebbene i nostri animi non saranno mutati”.
Miriel lo ascoltò attentamente, infine parlò a voce bassa, quasi temendo di essere ascoltata da altri che non fosse il suo interlocutore: “Quanto amarezza nel constatare che il mio destino altri hanno forgiato! Come lo schiavo legato ai ceppi, così io ho atteso questo giorno, con timore, ché ben sapevo quali catene avrebbero soffocato, lentamente, la mia esistenza. Voi – gemette – voi davvero credete che io ignori quale decisione Tar-Palantir prenderà quando sarà giunta l’ora? Se io non sapessi – concluse infine – almeno potrei vivere nell’illusione della speranza, ma anche tale privilegio mi è stato privato molti anni or sono”. Tacque qualche istante finché Erfea non le ebbe baciato la mano: allora alzò lo sguardo e scorse tra le lacrime il viso del principe degli Hyarrostar. “Non confondete la speranza con l’illusione, la realtà con la finzione! A voi dico che quest’oggi dovete temere massimamente la paura degli uomini. Altro non mi è permesso dire”.

Tali furono le parole che pronunciò Erfea Morluin, ed esse furono le ultime quella sera, ché egli mai più fu visto dai commensali».

Note

[1] Contrada situata all’interno del grande golfo che i promontori dell’Onostar e dell’Huarnostar creavano nelle acque del Balegaer, il Grande Mare Occidentale, che prende il nome dall’ononima città: feudo degli eredi di Silmariel, primogenita di Tar-Elendil, quarto sovrano di Numenor, essa fu la dimora di molte genti fedeli agli Eldar e ai Vala.

[2] Forostar, Onostar e Huarnustar erano i nomi di alcune contrade di Numenor: la prima si trovava nel nord, la seconda nel nord-ovest e la terza nel sud-ovest del paese.

[3] Vala dei sogni e delle visioni, chiamato dagli Eldar  Irmo.

[4] Il Laen era una roccia di origine magmatica, la cui peculiarità fisica consisteva nel conservare il proprio stato solido alle temperature più alte, mutandolo invece allorché  era immerso in azoto liquido: prodotto durante la cosiddetta “lavorazione a freddo”, il cui segreto non fu mai divulgato né dai nani di Durin, né dagli elfi di Eregion, il Laen si rivelò di grande utilità durante la costruzione delle mura di Osgiliath, in seguito alla Caduta di Numenor; esso si presentava di colore bianco allo stato naturale, ma attraverso i diversi procedimenti attuati nelle aule dei fabbri elfici e nani, poteva mutare aspetto e assumere tonalità più scure. L’adamante, anch’essa una roccia di tipo vulcanica, era reperibile solo in remote contrade di Endor; simile di aspetto al diamante, si caratterizzava per una notevole resistenza agli urti: fu utilizzata durante la realizzazione delle fondamenta di Barad-Dur.

[5] Un popolo di uomini del Nord, imparentati con quanti della stirpe di Hador chiomadoro non attraversarono gli Ered Luin (I Monti Azzurri) e si stanziarono presso le rive dell’Anduin e nelle steppe del Rhovanion.

[6] Figlio di Earendil ed Elwing, fratello gemello di Elrond; scelse una vita mortale e divenne il primo sovrano di Numenor.

Storia di Miriel – Una profezia infausta?

Dopo avervi presentato, nei precedenti articoli, la storia della gioventù di Erfea, passo adesso a dedicare la mia attenzione all’altro personaggio protagonista del «Ciclo del Marinaio»: Miriel, l’unica figlia di Tar-Palantir, destinata a diventare regina di Numenor. Un prima descrizione di questa bellissima e sfortunata donna potrete leggerla ai seguenti articoli: Miriel; Post-scriptum su Miriel; Ritratto di una principessa. In questi nuovi articoli, invece, leggerete dell’infanzia della principessa Numenoreana e degli oscuri presagi che, sin dalla sua nascita, gravarono sul suo destino. Questo racconto mi è stato ispirato dalla lettura di un’antica leggenda, intitolata «La bella Deirdre»: essa mi affascinò sin da quando era piccolo, perché il destino della protagonista, figlia di Conchobar, re d’Irlanda, mi aveva ispirato sentimenti di pietà e di commozione. Il nome di questa fanciulla, infatti, in gaelico era traducibile con «minaccia» e sulle sue spalle gravava un tremendo destino: la sua bellezza, quando fosse cresciuta, avrebbe scatenato grandi spargimenti di sangue, senza, tuttavia che lei potesse attribuirsi qualche colpa per queste sciagure, perché non avrebbe potuto fare nulla per evitare queste disgrazie. L’impossibilità di cambiare il proprio fato, nonostante tutti gli sforzi intrapresi in direzione opposta, rappresenta una delle punte più alte delle tragedie umane; basti pensare alla vicenda dell’eroe greco Edipo, «condannato» da una profezia a uccidere il proprio padre e a sposare la madre (non conoscendo la loro reale identità), sovvertendo così le leggi naturali, senza tuttavia avere alcuna intenzione di macchiarsi di tali crimini, ma finendo vittima di un Fato contro il quale non ci si può ribellare. Per gli antichi Greci, infatti, il Fato era una divinità così potente da atterrire perfino Zeus, il padre degli Dei dell’Olimpo…

Buona lettura, aspetto i vostri commenti! Il racconto che trascriverò nei prossimi articoli è uno di quelli che più mi hanno appassionato nel corso della sua ideazione: mi auguro che possa piacervi, così come a me è piaciuto scriverlo!

«Sul finire della Seconda Era della Terra di Mezzo, grande era diventata la potenza dei Numenoreani, fondatori di un impero quale mai fino a quel momento si era visto: grandi forzieri ricolmi di oro e pietre preziose, tra le più belle di Endor, riportavano in patria i possenti vascelli della flotta del re degli uomini.
Cresceva la gloria dei mortali, e altresì il malcontento e l’invidia, ché mai i Numenoreani erano sazi dei tributi che gli Edain della Terra di Mezzo inviavano loro e sempre desideravano l’immortalità degli elfi, al punto che disdegnavano le loro pur lunghe vite, ritenendole indegne e misere. Agenti di Sauron erano fra loro in quella epoca, ché anche questa era opera sua, ed egli si deliziava ascoltando, chiuso nella sua torre a Mordor, quali frutti avevano fatto germogliare i suoi semi avvizziti. Oscuri erano in quei giorni i pensieri dei Numenoreani, ed ecco essi non volsero più i loro chiari occhi alle limpide acque a levante, lì ove aveva sede Anor, ma presero a desiderare ardentemente le cerulee acque di Tol-Eressea e di Valinor, sede degli dei immortali.
Messaggeri furono inviati da Aman per placare la follia degli uomini, ma a nulla valsero la saggezza e la prudenza.
“Quale diritto hanno i Priminati, per custodire sì gelosamente l’ingresso alle Terre Imperiture? Perché gli dei hanno permesso che i nostri destini fossero mortali? Come bestie trascorreremo dunque le nostre vite, fin quando il presente non sarà più, e il passato e il futuro saranno ricolmi del fetore della morte? Se la nostra esistenza supera in durata quella degli uomini dell’oriente, dobbiamo forse ritenere che essa sia un dono? Dovremmo forse rallegrarci di trascorrere gran parte della nostra vita elevandoci per forza e possanza, per poi doverle cedere di colpo? Come un vascello che trascorre lunghi inverni, sfidando le impietose acque dell’oceano, per poi arenarsi e affondare triste quando le gomene sono strappate e le vele lacere, così la nostra vita si consuma e infine declina. Ahinoi! Tale è dunque il nostro destino, che sarebbe di gran lunga preferibile non godere del dolce ed effimero tepore della vita, piuttosto che doverlo soffocare nel freddo abbraccio della morte!”
Simili parole gli uomini levarono irati verso gli dei, senza mai aver tuttavia la pazzia o la sfrontatezza di invadere le beate terre di Aman.
Per lunghi secoli, essi rovesciarono il loro odio sulle popolazioni della Terra di Mezzo; tale fu dunque l’inizio della guerra tra Numenor e gli altri popoli, sì rovinosa che mai altra sventura portò conseguenze così amare per la stirpe degli uomini. Molti furono i vascelli che gettarono le loro pesanti ancore, colmi di saccheggiatori ingordi e arroganti, nelle verdi baie di Endor; bene conoscevano quelle acque, i Numenoreani, ché all’epoca della prima guerra contro Sauron, quando i loro cuori non erano ancor volti all’oscurità, essi avevano sollevato dalla miseria gli sfortunati e infelici abitanti, sbaragliando le armate dell’Oscuro Signore. Ora invece giungevano da padroni, bruciando villaggi e razziando tutto quello che le loro turpi mani riuscivano ad arraffare; alto allora si levò il grido di agonia e di dolore, e il rosso sangue macchiò le foreste che mai mano umana aveva osato deturpare.
Non tutti i Numenoreani, però, intrapresero la strada senza ritorno della follia; i Fedeli furono chiamati costoro, ché continuavano ad onorare gli antichi dei, mantenendo in vigore l’antica alleanza e amicizia sia con gli Eldar sia con i liberi popoli mortali. A quella epoca il più coraggioso e saggio tra loro aveva nome Erfea Morluin, figlio di Gilnar, della casata degli Hyarrostar, acerrimo nemico di Sauron e dei suoi servi. Numerose imprese il prode Numenoreano compì e grande fu la fama che raggiunse in quelli oscuri e perigliosi anni, quando le armate di Mordor dominavano sulla Terra di Mezzo e i lupi selvaggi scendevano dai monti del Nord in cerca di prede; molti viaggi intraprese Erfea, sia per mare che per terra, e a lungo visitò i boschi e le valli di Endor, subendone il fascino e ammirandone l’antica maestà e bellezza, sì che il suo cuore sempre desiderò riposare in quei luoghi ameni, e ivi attese il dono di Mandos, quando giunse l’ora. A lungo i bardi narrarono delle gesta che Erfea e i suoi compagni compirono in numerose occasioni; tuttavia questo racconto non tratta di quelli eventi, ma di un periodo precedente, prima che il Signore degli Stregoni cadesse innanzi al cancello di Edhellond e Erfea visitasse la fortezza di Umbar[1].

Sul finire di quell’anno[2] nuovamente si era accresciuto il potere dei Numenoreani Neri, ed essi ormai dominavano sia in Senato che nel Consiglio dello Scettro, allora preseduto da Tar-Palantir, che ben si avvide della loro grande influenza sul popolo; non era tuttavia lieto di quanto accadeva, ché i suoi pensieri andavano alla casa della madre, nota ai Fedeli per il suo carattere indomito e fiero.
Tar-Palantir aveva un’unica figlia, Miriel, la cui bellezza era simile alla chiara notte estiva, quando alta splende Ithil sulle bianche montagne di Avallone[3]; luminosa era il lei la bianca luce di Earendil, ché era nata durante la notte di mezza-estate, quando Vingilot lasciava cadere le sue lacrime argentate sulle terre dei mortali. Grande era stata la gioia a corte e già echeggiavano i canti festosi, quando Manea la Veggente[4] si fece strada attraverso una folla ora ammutolita ed atterrita dalla sua venuta inaspettata. Dopo aver atteso che il silenzio ebbe dominato assoluto nella sala, ella levò alto il suo bastone e pronunciò parole terribili ad udirsi: “La sventura è caduta su voi, figli di Numenor! Terribile il giorno nel quale Anor tarda a morire e Ithil dorme nell’oceano profondo! O folli, che attendete lieti l’annunzio terribile, sappiate che la nuova nata domina sul vostro destino, ancor prima di reclamare la corona della Stella! Ascoltatemi dunque: grande sarà la tenebra che avrà come padre il giorno più lungo, ché la fine di Numenor si appresta, e già odo il sangue amaro mescolarsi con il mare salato, mentre il modo è travolto e l’isola sprofonda. Ricordate quanto dico: mai il sangue dell’erede dovrà amare il suo riflesso, mai il suo cuore dovrà essere soffocato dal suo stesso seme, ché altrimenti la fine giungerà trionfante sugli uomini sconfitti!”
Grave divenne allora il silenzio nella sala e i visi dei presenti impallidirono, come foglie sugli alberi spogli, che il vento freddo del Nord sfiora con il suo tocco gelido, solo per prolungarne l’agonia.
A lungo Tar-Palantir osservò l’indovina e rifletté sulle sue amare parole; mai egli aveva temuto i frutti della preveggenza, ché tante volte gli aveva assicurato la vittoria, eppure ora ne scorgeva i limiti amari. Forse egli aveva il coraggio di afferrare con forza il destino futuro che ora così velocemente si ritirava dalla sua mano, niente altro che sabbia soffocante sulla spiaggia di Andunie?
Infine, vedendo crescere in sé la paura e l’angoscia, incapace di domarli ancora, si sforzò di parlare: “Se tale è dunque il suo destino Manea, che cosa desideri che faccia ora? Vuoi che la mano che l’ha accolta al mondo, la rigetti nelle braccia di Mandos? Non chiedermi una tale follia! Eppure se tu sei qui, vi è un motivo ben preciso che entrambi conosciamo: se, infatti, la tenebra cadrà e il modo degli uomini affogherà nell’oblio di una notte senza fine, allora il nostro compito sarà quello di assicurare che la speme possa sopravvivere anche negli anni di là a venire, quando le ceneri del re saranno confuse con quelle del pescatore e insieme giaceranno nel dolce sonno delle morte. Manwe ti ha inviata da me come suo messaggero e di questo ben mi avvedo; forse un altro uomo, preso dal dolore e dallo sconforto chiederebbe agli dei vendetta. Io però non leverò con astio e rabbia le braccia verso il cielo, né spegnerò nelle lacrime la mia triste vita, ché bene conosco quali effetti possano avere i sentimenti degli uomini, anche quando mirano a realizzare il giusto Fato. Ti chiedi se io voglia conoscere il luogo ove si realizza il destino degli uomini? Volere non è potere, e la risposta giace lontana da me quanto da te, ché se alcuni tra noi possono spingere le loro menti di là degli esili confini del presente, tuttavia nemmeno il più potente e saggio tra noi, può prevedere il senso segreto che è dietro ogni esistenza, ogni nostro gesto, ogni nostra parola”.

A lungo ascoltò Manea, poi con voce remota eppure forte così rispose: “O signore dell’isola del dono, bene hai parlato, sebbene abbia tenuto nascosti i tuoi pensieri. Seguimi dunque e ti mostrerò quanto ho appreso nel corso della mia lunga meditazione”. Nessuno, tra coloro che furono presenti quel lontano giorno, ascoltò le silenziose parole che si scambiarono il re e la veggente e mai nessun mortale riuscì a scoprire cosa si celasse dietro la profezia di Manea, fin quando il velo del modo venne squarciato e ogni cosa divenne sì luminosa da accecare per sempre la vista degli stolti e degli usurpatori.
Trenta lunghi anni trascorsero e mai Tar-Palantir dimenticò le parole della Veggente, sebbene questa riposasse ora nelle case degli avi e il suo segreto giacesse con lei.
Mai il sovrano fece parola con alcuno di quanto aveva appreso; egli vedeva sua figlia crescere sotto i suoi occhi, rallegrarlo con il canto e la grazia della giovinezza, senza che mai la sua luce riuscisse a rischiarare le tenebre che si infittivano, tristi, ogni giorno in misura maggiore.
Infine, stanco di non poter condividere il suo dolore con altro uomo, Tar-Palantir prese la decisione che riteneva la migliore fra quante si prospettavano e mandò a chiamare il suo migliore capitano, Erfea figlio di Gilnar, della casata degli Hyarrostar, che il popolo chiamava il Morluin, perché quando era ancora giovane aveva sconfitto un drago così chiamato; quando gli fu innanzi, il sovrano congedò i suoi attendenti e prese la parola:
“Grave è la causa che mi ha spinto a chiamarti, capitano degli Hyarrostar. Sei stato un mio leale paladino, fin da quando hai giurato di servire la nostra causa. È giunto ora il momento di mostrarmi le tue vere qualità, Erfea figlio di Gilnar, ché molti destini dipenderanno dalla tua volontà.”
Tacque per qualche momento, poi lentamente riprese a parlare, rivolgendosi più a sé stesso che ad Erfea:
“La Seconda Era della Terra di Mezzo volge ormai al crepuscolo. Lo sento nell’aria, lo sento nel mare, lo sento nel cuore degli uomini. Io non vedrò tramontare l’ultimo sole”, concluse osservando alcune navi di pescatori ondeggiare placide sulle calme acque; poi con grande fatica proseguì: “Io sono vecchio Erfea, molto vecchio. Il mio tempo si appresta a terminare. In passato i sovrani di questa terra, istruivano i propri eredi al trono nella difficile arte di governare: ma quale popolo governerà un giorno la mia discendenza?”
Si alzò dallo scranno, guardando fisso innanzi  sé, quasi che con i suoi occhi volesse penetrare la tenebra che si infittiva: “Noi siamo divisi, Erfea figlio di Gilnar, divisi come il dì e la notte”. Sospirò un istante, poi riprese a parlare con voce sempre più rauca, finché fu poco più che un bisbiglio soffocato dallo scrosciare del mare:
“Io l’ho visto – rantolò infine – ho scorto il destino che attende Numenor. Non posso dirti cosa i miei occhi abbiano scrutato nelle nebbie del tempo, né in che modo sia venuto a conoscenza di quanto ho detto; sappi invece che vi è ancora una speme, alla quale gli uomini potranno aggrapparsi, per non precipitare nelle profondità dell’Abisso”.
“Quale ancora mio signore? – domandò Erfea, osservandolo attentamente con i suoi occhi, grigi come la spuma marina all’alba – Quali uomini oseranno aggrapparsi a tale speme? La vostra lungimiranza è superiore a quella di ogni altro mortale, pari a quella dei figli di Feanor; tuttavia, mi chiedo per quale motivo il consiglio dello Scettro e il Senato dovrebbero sostenere la nostra causa”. Rifletté un attimo, poi riprese a parlare, con tono malinconico: “Sempre meno uomini si rifiutano di prestare ascolto alle menzogne del Nemico. Ho mirato navi sempre più possenti e massicce, reclamare il loro tributo di sangue. Ho scorto la follia danzare selvaggiamente negli sguardi dei soldati e dei marinai. Ho visto la morte, rapida come il colpo di una lama ben assestato, recidere i fragili fili della esistenza umana.”
Tacque un attimo, rimembrando quegli orrendi momenti, cui aveva assistito in numerose occasioni della sua vita. Poi, con voce roca e bassa, proseguì il suo racconto: “Io ho visto con questi occhi ricolmi di tristezza e di dolore gli immensi arsenali di guerra che il Nemico ha realizzato in questi lunghi anni, mentre tra la gente di Numenor l’ombra andava crescendo. Non vi è alternativa per i Popoli Liberi della Terra di Mezzo, se non quella di distruggere Sauron, prima che tutti i reami siano occupati e annientati. Ost-in-Edhil ha già dovuto soccombere, Khazad-Dum e Lorien sono assediate, così come il Lindon e Rivendell[5].”

Erfea si alzò, dirigendosi verso una terrazza, desideroso di respirare la fresca e salubre aria del Vespro, prima che la notte sopraggiungesse. Nonostante fosse giunto Narie[6], una rapida brezza si alzava dalla baia di Eldalonde[7], facendo gemere gli alberi e sollevando lacrime di Ulmo.
Si voltò poi, lentamente, come se stesse soppesando le sue parole; infine, le pronunciò, guardando fisso avanti a sé: “Mio sire, se la speranza sopravvivrà nei cuori degli uomini, allora tornerà per qualche tempo la Primavera, che sino a poco fa, spandeva delicatamente i suoi profumi; ma finché essa rimarrà imprigionata nelle buie prigioni della disperazione, ebbene non posso che temere per tutti noi.”
Tar-Palantir annuì lentamente: “Le tue parole sono figlie della saggezza e della lungimiranza di Numenor: sempre risuoneranno graditi i tuoi passi nella mia reggia e mai la mia amicizia ti verrà meno. Temo tuttavia che i tuoi lunghi pellegrinaggi ti abbiano stancato; sei giovane e forte, eppure Erfea Morluin, a te dico che deve ancora giungere il momento in cui la tua forza verrà posta alla prova. Suvvia, ora riposati e fa sì che il tuo fardello non gravi troppo sulle tue spalle. Questa sera – proseguì, dopo essersi fermato un istante – darò un ricevimento nel corso del quale festeggeremo il compimento della maggior età di mia figlia Miriel. Ti prego di essere presente” concluse il sovrano, ritirandosi nelle sue stanze private».

Note

[1] Si veda “Il Racconto del marinaio e della mezzelfa”.

[2] Come risulta dal “Calcolo degli anni” posto nell’appendice B, tale anno risulta essere il 3146 della Seconda Era

[3] Aman.

[4] Veggente ed astronoma, Manea predisse le sorti di numerosi uomini e donne di Numenor, compresa quella di Erfea Morluin; nessuno, tuttavia, fu in grado di apprendere il suo vero nome o la sua ascendenza ed ella era solito ripetere che non vi erano favelle atte a pronunciarlo; sebbene nel presente testo si accenni ad una sua dipartita dal mondo, nessuno conobbe il luogo ove era sepolta e vi fu chi, negli anni seguenti, credette di aver compreso che ella non fosse altri che l’incarnazione di Varda, Vala e Signora delle stelle: non tutti, però, prestarono fede a tale rivelazione, ed il suo nome fu obliato al termine della Seconda Era.

[5] Gloriosi regni della Terra di Mezzo durante la Seconda Era, tutti abitati dagli Eldar e dai Moriquendi, ad eccezione di Khazad-Dum, dimora dei nani della stirpe di Durin.

[6] Giugno, nella lingua Sindar o degli elfi grigi: il calendario a Numenor era ispirato a quello degli elfi in esilio e simili fra loro erano i nomi dei mesi e delle maggiori festività dell’anno.

[7] Tale era il nome del litorale sabbioso che si estendeva a poche miglia dalla città di Armenelos, capitale di Numenor.