Un erede al trono di Numenor?

Su suggerimento di un mio lettore, il quale, giustamente, mi faceva notare come, nella prima parte del racconto «La Rosa e l’Arpa», da me intitolata «Ritratto di una principessa», si trovi un riferimento a una figura che nel racconto non compare affatto, ossia l’erede al trono di Numenor, mi è sembrato giusto dedicare un articolo alla figura di questo personaggio, la cui genesi, come leggerete nel testo che qui troverete trascritto, è volutamente oscura. L’ispirazione per la genesi di questo personaggio mi è venuta dalla lettura di un passaggio del «Ritorno del Re», nel quale Ioreth, la donna addetta alla Casa della Guarnigione, cerca di spiegare alla cugina chi siano Frodo e Sam:

«No, cugina, non sono bambini», disse Ioreth alla sua parente d’Imloth Melui che era in piedi accanto a lei. «Sono dei Periain, della lontana terra dei Mezzuomini, e dicono che siano principi di grande fama. Io so tutto, perché ne avevo uno da curare nelle Case. Sono piccoli ma valorosi. Pensa, cugina, uno di essi è andato nella Terra Nera solo con il suo scudiero, ed ha combattuto contro l’Oscuro Signore appiccando fuoco alla sua Torre. O almeno queste sono le voci che corrono in Città». Il Ritorno del Re

In questo caso, come si può notare, Ioreth non si mostra in grado di fornire le notizie corrispondenti alla verità alla sua parente: si limita, infatti, a raccogliere le voci che in quei giorni giravano a Minas Tirith peri imbastire una storia plausibile allo scopo di dimostrare a una donna ignara dell’Anello come mai gli Hobbit fossero stati resi tributari di così grandi onori da parte dei reali di Gondor. Oggi la defineremmo una «fake-news»: Ioreth non si preoccupa di verificare se le sue fonti siano o meno attendibili e si limita a fare da cassa di risonanza a una storia che altri hanno elaborato. Naturalmente, in questo caso, la menzogna non intacca il valore di Frodo e Sam, anzi, paradossalmente, ne aumenta i meriti, raffigurandoli come grandi maghi e guerrieri in grado di tenere testa a Sauron in persona, arrivando addirittura a sconfiggerlo!

Il meccanismo di costruzione della menzogna elaborato da Ioreth, dunque, mi ha portato a riflettere sulle implicazioni pericolose di questa forma mentis: mi sono chiesto: «cosa accadrebbe se la diffusione di una fake-news a Numenor portasse con sé pesanti ombre sull’identità del figlio di Miriel e Pharazon?» La risposta la troverete nel seguente brano estratto dal racconto «La Rosa e l’Arpa». Buona lettura!

«Si narra che in quel giorno almeno quindicimila Fedeli, accorsi al porto per ascoltare gli echi dell’arpa del loro principe, abbiano intonato il canto di sfida nei confronti di Ar-Pharazon e del suo mentore Sauron e che costoro abbiano avuto tema non solo di arrestarli, ma anche di uscire fuori dai postriboli lussuriosi nei quali gli unici suoni che si ascoltavano erano i gemiti delle schiave colà percosse per il loro perverso piacere: fra coloro che erano dei Numenoreani Neri, solo un uomo sorrise e, dopo aver abbandonato la sala d’armi nella quale era intento ad accrescere la propria violenza, si diresse, occultato dalle arti oscure che aveva appreso, alla spiaggia di Andunie, ove mirò l’imponente adunata dei Fedeli ivi accorsa.

Il Nero rise in silenzio, infine si allontanò con la stessa velocità con la quale era colà giunto: non vi erano motivazioni per le quali egli dovesse condividere la preoccupazione di suo padre, né egli era sensibile alle emozioni che si erano impossessate del cuore della madre; freddo era il suo spirito ed esso era lungimirante, ché sapeva essere codesto rigurgito di ribellione dei Fedeli l’ultimo cui il regno avrebbe assistito sino alla sua ascesa al trono che sperava giungesse lesta sulle ali del vento dell’est, ché egli aveva nome Vareneli, erede di Ar-Zimraphel e di Ar-Pharazon. Non vi era uomo fra quanti abitavano le contrade di Numenor il quale si fosse rivelato in grado di scorgere letizia o rabbia sul volto del principe e questo accadeva perché egli era abile nell’occultare le sue emozioni, sicché si mormorava che non scorresse solo sangue mortale nelle sue vene e che egli fosse stato concepito dall’Oscuro Signore in persona, donde proveniva il malizioso detto che i suoi seguaci menzionavano di continuo [1]: nessuno, tuttavia, seppe accertare la veridicità di una simile diceria e ciò accadeva a causa della ritrosia che la sovrana mostrava nel discorrere con i suoi ospiti del figlio.

“Si rallegri pure la gente di Amandil, ché essi provino ancora una volta la delusione che accompagna la letizia immotivata e sappiano trarre da essa il medesimo dolore che provò il Morluin allorché si avvide che Ar-Zimraphel, alla quale aveva volto inutilmente il cuore, sarebbe andata in sposa a colui che detestava sopra ogni altro uomo: nessuno di essi sfuggirà al giusto castigo che attenderà i loro animi ed essi arderanno per la gioia del mio Signore”».

[1] “L’autorità di Sauron si estende ovunque domini il sovrano, finanche nel talamo reale”. Varaneli nacque nel 3256 S. E., un anno dopo che Ar-Pharazon si fu impadronito dello scettro di Numenor e si narra che le levatrici che assistettero la regina nel parto fossero state tutte colpite da un misterioso morbo che le aveva condotte alla pazzia ed infine alla morte; sebbene Ar-Pharazon avesse sollevato l’infante dalla culla secondo l’uso e la tradizione dei suoi antenati, assegnandogli il nome, pure erano in molti a dubitare della sua reale paternità, ché il giovane principe era di gran lunga il più bello fra i Numenoreani, sembrando essere più simile ad un Vanya quale Sauron stesso si spacciava, che non ad uno della stirpe dei Secondogeniti: i suoi capelli, infatti, erano chiari come le piume dei gabbiani ed i suoi occhi, scuri come le profondità degli abissi di Ulmo, erano sì luminosi che ben pochi fra gli Uomini erano in grado di reggerne lo sguardo.

Fu dunque la sua inquietante somiglianza con Annatar ad indurre alcuni fra i Saggi di Numenor a ritenere che sotto le sue spoglie mortali si celasse un terribile segreto e che l’Oscuro Sire avesse infine ottenuto l’erede al quale affidare il comando dei suoi eserciti: quale che fosse stata la verità, Varaneli fu tosto iniziato alle Arti Oscure, nelle quali mostrò un’abilità quale neppure il Re degli Stregoni, che era nel loro dominio maestro, seppe mai possedere; non era ancora giunto alla maggiore età che era già divenuto esperto di ogni malefizio ed i Nazgul, molti dei quali si recavano periodicamente dal loro Padrone durante il suo soggiorno a Numenor, presero a chiamarlo “Signore” e a rivolgerli i medesimi tributi che erano soliti recare a Sauron. Non vi era affetto o amore nel cuore di Varaneli nei confronti di sua madre, sebbene egli fosse cauto e mascherasse il suo disprezzo sotto forma di un arido formalismo; altresì, poco o punta stima rivolgeva a colui che chiamava padre, ché ne derideva la lussuria, alla quale non fu mai dedito, considerando le donne come frivoli passatempi con i quali trastullarsi durante le fredde sere di Inverno, e la vanagloria, che stimava essere propria degli uomini deboli.

Temuto dai Neri e dai Fedeli, Varaneli trascorse gli anni della sua pur breve esistenza, se paragonata a quella dei suoi padri, avendo in animo l’intenzione di scovare e di annientare Erfëa, che egli riteneva il massimo tra i suoi avversari: il dolore che gli procurò l’irrealizzabilità di tale desiderio accorciò drasticamente i giorni della sua vita ed egli perì prima ancora della Caduta.

Ritratto di un principe

Concludo il racconto iniziato nell’ultimo articolo: la regina Miriel, ormai adulta e sposata con Ar-Pharazon, racconta al giovane Anarion, cresciuto con il “mito” del paladino Erfea, un episodio risalente alla loro adolescenza, nel quale emergono caratteri inediti dei due personaggi, ancora acerbi e in via di formazione. Per una migliore comprensione di questo racconto, suddiviso in due articoli, è bene tenere presente alcune premesse: Erfea ha 20 anni quando incontra per la prima volta Miriel, più giovane di lui di 5 anni; egli non sospetta ancora che la fanciulla di cui è innamorato sia la figlia di Palantir, perché ella è stata reclusa nel palazzo reale per paura di ritorsioni da parte dei sostenitori di Gimilkhâd (padre di Pharazon). La principessa, tuttavia, stufa di essere prigioniera nella sua stessa casa, di tanto in tanto, con la complicità delle sue dame, si allontana dalla sua dimora, indossando abiti semplici per non destare sospetti, per conoscere la sua gente e la sua terra: in una di queste fughe si imbatte in Erfea, al quale rivela di essere la figlia di un pescatore e di avere nome Earien. Per questa ragione, è sorprendente che Erfea abbia deciso di chiamarla Miriel, attribuendole, in realtà, il suo vero nome senza conoscere la sua reale identità. In questa seconda parte del racconto, Erfea deve mettere alla prova la sua giovanile impazienza nel tentativo di risolvere un enigma che gli pone il suo maestro Numendil, nonno di Elendil.

Buona lettura!

La Rosa e l’Arpa (parte seconda)

«Una settimana prima della Cerimonia dei Nomi [1], il mio Maestro Numendil, che all’epoca si mostrava ben poco nei corridoi e nelle aule dell’Accademia a causa dei palesi contrasti che erano fra lui e i principi dell’avversa fazione, chiamatomi in disparte, così mi parlò “Figlio di Gilnar, alcuni Maestri riferiscono che tu sei lesto nell’apprendere, sebbene disdegni gli altrui consigli e mostri insofferenza verso coloro che osano mettere in dubbio la tua preparazione”.

“Maestro – gli risposi io, non prima di essermi inchinato con referenza – dite piuttosto che l’insofferenza nasce negli animi di coloro che non scorgono altra Via se non quella che essi così stoltamente e pericolosamente percorrono.”

Numendil sospirò: “La Via è unica, tanto per i figli di Iluvatar, quanto per la prole di Morgoth e per quelli che segretamente lo onorano. Credi forse che i miei occhi siano ciechi, che non scorgano la corruzione che serpeggia in questi antichi corridoi? No, giovane Ëarel, tu hai colto solo un aspetto della Via e ti sei limitato ad apprendere quanto il tuo cuore desiderava fare suo. Sei abile con le armi e pochi possono tenere il confronto con la tua favella; eppure, pur essendo tu lesto con la mente, non lo sei altrettanto con il cuore ed esso disdegna il confronto. Il tuo sguardo è rapace nel cogliere le altrui debolezze, eppure questa è un’abilità di infima importanza, che non farà di te un Signore come un tempo ve n’erano a Numenor. Sai riconoscere le conseguenze delle azioni che tu ed i tuoi compagni compite, ma non sei in grado di cogliere l’origine di esse ed il tuo animo disdegna profondamente sentimenti come amore e pietà.”

“Mettetemi alla prova, Signore – lo provocai io, ferocemente – non vi deluderò”.

Numendil sospirò profondamente ed un’ombra di inquietudine parve occultargli il volto, infine parlò: “Sia dunque come tu desideri: ti affiderò il seguente Saitië [2].” Rifletté per un attimo, infine batté per tre volte le mani e parlò: “Tu puoi sentire il suono di due mani quando battono l’una contro l’altra. Ora mostrami qual è il suono di una mano sola.”

Inchinatomi in silenzio, abbandonai la sua aula e mi diressi nella mia dimora per meditare; quella sera, mio padre dava una festa ed i bardi trascorsero l’intero pomeriggio ad accordare gli strumenti: affacciatomi dalla balaustra ove ero intento a riflettere, mi avvidi che molti fra loro erano soliti compiere gli esercizi musicali con una mano sola; allora, certo di aver compreso, il giorno seguente tornai da Numendil e gli feci ascoltare i suoni che gli artisti il giorno prima avevano prodotto. Il principe di Andunie guardò i miei gesti, infine mi congedò con queste parole: “No, no, questo suono non corrisponde a quello che una mano sola sarebbe in grado di eseguire. Non hai compreso nulla, va’ a meditare ancora”.

Irato, lasciai che i miei passi mi conducessero altrove, nei grandi giardini della reggia di Armenelos, nei quali, già a quei tempi, non era solito recarvisi più alcuno fra i signori di questa terra: ancora furioso per lo smacco testé subito, mi sedetti su di un basso scranno di pietra consunto dall’umidità e dal tempo, e nel silenzio di quelli stessi luoghi nei quali oggi noi discorriamo, ebbi sentore dello sgocciolio dell’acqua lungo il mio sedile e ne fui affascinato; pian piano, esso entrò nella mia mente ed io esultai, perché mi parve di aver raggiunto la soluzione al quesito che il Maestro mi aveva posto. Non appena feci ritorno da lui, tuttavia, mi avvidi che egli non condivideva affatto il mio pensiero: “Cosa sarebbe, dunque, questo? La pioggia è il canto di Manwe, non quello di una mano sola! Va’ e medita ancora!”.

Confuso e ormai prossimo alle lacrime, fui colto dall’ira e sguainata la corta lama che pendeva al mio fianco, tranciai di netto una mano marmorea che apparteneva ad una statua lì situata: “Il suono che emette una mano sola – ringhiai allora, accecato dalla collera – è dolore e morte, ché se questa statua fosse stata costituita da carne e non da candida pietra, molto ne avrebbe avuto a soffrire.” Temevo – ora non ho esitazione nel confessarlo – che il mio Maestro avrebbe punito duramente il mio sfogo; con mio sommo stupore, al contrario, egli si limitò a sguainare la sua nobile lama e ad assumere la posa che tutti i Cynd seguono allorché sono intenti nella meditazione [3]. Confuso ed ignorando quale significato potesse avere il suo comportamento, abbandonai la sua dimora e mi diressi lontano, finché i miei occhi non riconobbero più i luoghi ove mi trovavo ed i miei piedi non furono troppo stanchi per proseguire oltre. Il capo chino su un costone roccioso, versai lacrime amare e mi abbandonai allo sconforto, finché il dolore per il mio comportamento errato non fu trascorso ed io non avvertii null’altro se non una grande tranquillità: per cinque notti meditai sul silenzio e mi parve che esso risuonasse al mio orecchio, più forte del grido di dolore che un uomo privato della sua mano avrebbe emesso, più forte dello sgocciolare dell’acqua sulle rocce, più forte della musica che i bardi creano nelle notti d’estate per alleviare i nostri animi dalle pene e dai dolori. Lieto in volto, corsi allora da Numendil e lo trovai nella sua dimora che chiacchierava piacevolmente con suo figlio Amandil, il quale sarebbe divenuto mio Signore allorché fosse giunta l’ora: allorché egli mi scorse, congedò con gentili parole suo figlio e si accinse ad ascoltarmi: “Mio Signore – esordì io prostrandomi a terra – poiché non vi era alcun suono che  potessi immaginare essere prodotto da una mano sola, ho superato il canto del gufo, lo stormire del vento tra gli alberi e il canto degli amanti nel giorno di mezz’estate ed ho raggiunto il suono senza suono.”

Numendil allora, con mia grande meraviglia, si levò dal suo scranno e dopo essersi inginocchiato dinanzi a me, alla maniera degli uomini di questa contrada, parlò: “Hai dunque udito il suono di una mano sola, il silenzio ed hai dato ad esso un nome: d’ora in avanti, esso non ti atterrirà più, perché saprà sempre parlare al tuo cuore e nel suo regno troverai conforto.”

Himel si arrestò un attimo, mentre la sua mano carezzava dolcemente il mio viso – e qui parve ad Anarion che Ar-Zimraphel seguisse con lo sguardo un movimento che era a lui invisibile – infine proseguì a parlare: “Puoi ben immaginare quanto fosse grande la mia felicità nell’apprendere che l’interpretazione era corretta; tuttavia, poiché la mia curiosità superava ogni altro sentimento, non riuscii ad esimermi dal domandare a Numendil perché mi avesse posto quel Saitië, pur sapendo che egli non avrebbe mai potuto rispondermi: “Giovane figlio di Gilnar, a questo punto dovresti aver compreso quale intento mosse il mio intelletto a porti una simile domanda. Non ti ha insegnato nulla questa esperienza?”

Riflettei a lungo, infine gli risposi: “Mio Signore, ho appreso come il Suono ed il Non Suono siano entrambi presenti e necessari alle nostre esistenze per conservare l’equilibrio e che se talvolta privilegiamo l’uno a favore dell’altro, questo non significa che quanto abbiamo escluso con la scelta venga meno.”

“Così è – rispose il sire di Andunie – eppure, bene sarebbe se tu rapportassi quanto hai testé pronunciato ad una realtà che ti è prossima: non ignorare quanto i tuoi sensi desiderano e non sacrificare l’unità del tutto in nome di una parte.”

Arrossii, infine compresi: “Voi sapete quale nome sceglierò domani, ché, ve lo leggo negli occhi, siete un uomo sì lungimirante come pochi altri potrebbero esserlo a Numenore: eppure, ora mi sovviene che esso non è adatto che ad indicare solo uno fra i piani della mia esistenza e non vorrei nel suo nome rinunciare a quanto è nel mio cuore; come il terzo appellativo è per le grandi occasioni, così il quarto lo è per tutte, piccole o illustri che siano. Non rinuncerò alla mia essenza più profonda ed essa darà luce al mio nome”. Riflettei ancora qualche istante, infine sussurrai all’orecchio sinistro del mio Maestro la mia scelta; egli acconsentì, infine, aperta una piccola scatola intarsiata che teneva sul massiccio tavolo di taek che troneggiava imponente nella sua dimora, ne trasse un gioiello, lo stesso che ora vedi brillare nel mio pugno e lo lasciò cadere nelle mie mani, pronunciando queste parole: “Diverrai un grande Paladino e l’indegna prole di Morgoth temerà a lungo il tuo nome; io temo, tuttavia, che i pericoli più grandi per te giungeranno non dall’esterno ma dal tuo cuore, ché esso sarà sottoposto a molte privazioni e non tutte saranno dovute alle tue incapacità. Prendi questo gioiello che secoli or sono la mia gente ricevette dagli elfi del Vespro e donalo a chi intreccerà il suo percorso con il tuo: possa essere la tua scelta giusta e saggia, perché in esso vi è intriso un grande potere.”

Pronunciate queste parole, Ëarel allora tacque e afferrata la catenina d’argento la cinse con dolcezza al mio collo e si approssimò a lasciare il luogo nel quale così a lungo avevamo discorso; prima che il suo nero mantello volgesse ad oriente, alla casa dei suoi padri, egli tuttavia si voltò e, sorridendo, pronunciò queste parole: “Hai dunque appreso il mio nome, signora dell’Andunie. Se il tuo cuore lo vorrà, io ti chiamerò Miriel, Colei che risplende ove ogni altra luce sembra perire”. Commossa ed intenerita da quelle parole, mi levai per sfiorargli ancora una volta il viso, ma egli era già sceso lungo il pendio boscoso e solo il pesante incedere dei suoi stivali riecheggiò ancora nella notte.

“Ignoravo questa storia, mia signora – interloquì allora Anarion, che affascinato dal suo racconto aveva ascoltato le sue parole in silenzio – eppure non sono sorpreso, ché Erfëa era solito parlare di voi in siffatti termini e riteneva che nessuna altra figlia di Iluvatar potesse eguagliare la vostra beltà e la vostra saggezza”.

“La saggezza l’ho perduta; quanto alla bellezza – rispose lei tristemente – non mi è oggi di alcuna utilità”. Sospirò, infine si congedò dal principe dell’Andunie con queste parole: “Oggi avete allietato il mio cuore: possano i Valar ricompensarti con quanto ambisci ottenere.” Ar-Zimraphel si voltò e si accinse a lasciar quel luogo; infine, ritornata su i suoi passi, si inginocchiò accanto ad Anarion e lo pregò di prendere il gioiello che un tempo era stato suo e di restituirlo ad Himel allorché l’ora fosse giunta: il figlio di Elendil, tuttavia, rifiutò, accompagnando il suo diniego con queste parole: “Il mio Signore lo affidò in voi in nome di un amore che il tempo e la lontananza non hanno eroso; a quale pro, dunque, rimetterlo nelle sue mani? Un simile atto indicherebbe ai suoi occhi che lo avete voluto dimenticare: è forse questo il vostro disio? Siete certa di quanto il vostro braccio ha intenzione di compiere?”

Stupefatta, Ar-Zimraphel mirò a lungo il bel viso del giovane Numenoreano, infine mormorò: “Sia così, dunque; anche quando la tenebra sarà intorno a me, la sua stella continuerà a brillare, come accadeva nei giorni che sono ormai fuggiti all’Occaso. Siete invero saggio, figlio di Elendil: in voi sopravvive la tempra del vostro Signore che i miei occhi sanno non poter più mirare per il resto della mia esistenza terrena”.

“In questa vita, forse – le fece eco Anarion – eppure, nessuno fra coloro che sono dei Secondogeniti ha appreso che cosa attenda i nostri spiriti allorché si compie il Fato di Mandos ed il mio cuore mi dice che non tutti i vincoli muoiono allorché giunge l’ora dell’addio.”

Ar-Zimraphel sorrise e per un istante parve ad Anarion che il fardello degli anni e del rimorso le fosse stato rimosso dal viso e dalle mani: infine si voltò e, mentre percorreva la strada che l’avrebbe ricondotta alla sua dimora, la stella di Himel brillò sì forte sul suo petto che Sauron, il quale fu l’unico a scorgerla allorché giunse a tarda ora al palazzo reale, ne fu sbigottito e si allontanò da qualche tempo da Armenelos, cercando la salvezza presso roccaforti e cunicoli che i suoi servi avevano edificato in gran segreto, ove punti o pochi uomini vi si avventuravano e ancor meno ne tornavano indietro per raccontare cosa vi avevano veduto.

Anarion, dopo aver a lungo meditato su quanto era accaduto quel dì, fece anch’egli ritorno alla sua città, ove alcuno gli pose domanda ed egli non pronunciò alcunché in merito a quanto era accaduto: nei giorni seguenti, sovente si avventurò al di fuori dei cancelli della contrada di Andunie, ove invano attese che Erfëa facesse ritorno alla sua patria; i venti del mondo erano però mutati ed egli non lo rivide più, ritto sul pontile della sua imbarcazione, giungere ad Andor come in passato e trascorsero molti anni prima che potesse scorgerlo, ancora fiero come nei giorni della sua gioventù, durante un mattino dorato, alle foci dell’Anduin, un giorno d’autunno».

Fine

[1] La Cerimonia dei Nomi (Arkhonator, nella favella dei Numenoreani) aveva luogo nell’Accademia Reale tra il decimo e l’undicesimo mese dell’anno e vi prendevano parte i giovani cavalieri allo scopo di essere consacrati secondo il nome che sceglievano e del quale, tuttavia, non avevano facoltà di parlare prima che fosse giunto il venticinquesimo anno di età. Non stupisce, pertanto, che Miriel abbia dimostrato un simile stupore dinanzi alla rivelazione che Erfëa fece riguardo al suo vero nome.

[2] I Saitië erano degli esercizi mentali che i Maestri ponevano agli allievi affinché fossero spronati a meditare e accrescessero la loro forza spirituale.

[3] Quando un Cundo meditava, era solito sedersi con le gambe incrociate sulla nuda roccia ed appoggiare la fronte sull’elsa della propria lama, la quale era sguainata e posta fra il capo e l’incavo che la posizione degli arti inferiori veniva a configurare; questo comportamento era dettato dalla triplice necessità da un lato di mostrare quanto il Paladino fosse un tutt’uno con la sua arma, dall’altro di apprendere, tramite il contatto fisico, le virtù proprie della spada e infine di rimembrare a coloro che erano dell’Ordine dei Paladini quanto i loro corpi fossero caduchi, mentre i valori per i quali essi combattevano e che erano incisi su ogni lama, fossero immortali: essi erano, nell’ordine in cui erano riportati, Comprensione, Amore, Pietà e Perdono.

Ritratto di una principessa

Abbandono temporaneamente la narrazione dell’assedio di Gondor, sulla quale tornerò per spiegare in quale occasione Anarion sia stato ferito, per dedicarmi a uno dei personaggi più affascinanti dei miei racconti, nei confronti del quale ho un debito letterario: Miriel, principessa e poi regina di Numenor. Scrivo così, perché, dopo aver terminato il corpus principale dei miei racconti, mi sono reso conto di non aver approfondito particolarmente questa figura, sulla quale, invece, avrei voluto soffermarmi maggiormente. Inizialmente, infatti, la figura femminile di riferimento di Erfea avrebbe dovuto essere Elwen, la Mezzelfa: immagino di essere stato influenzato in questa scelta dall’interesse suscitato in me dalla storia di Aragorn e di Arwen, che avrei voluto capovolgere, mostrando le difficoltà di essere a metà fra gli Uomini e gli Elfi, fra la mortalità e l’immortalità. Una mattina, invece, casualmente, iniziai a leggere il mito greco di Ifigenia, figlia del re Agamennone, uccisa con un inganno per permettere alla flotta greca di salpare alla volta di Troia e iniziare così il celebre assedio. Naturalmente conoscevo già, a grandi linee, la vicenda di Ifigenia; rileggendola, tuttavia, fui colpito da un aspetto che sino a quel momento avevo trascurato: il senso di profonda tragedia insita nella sua vita, dovuta all’inganno del quale era stata vittima. Suo padre, infatti, per non confessare alla moglie e alla figlia che questa avrebbe dovuta essere sacrificata alla dea Artemide, aveva mentito ad entrambe, giustificando la necessità di avere Ifigenia al campo greco con una ragione di stato alla quale la figlia non avrebbe potuto sottrarsi: il matrimonio con il più forte (e bello) degli eroi greci, il prode Achille. Nella riduzione a prosa della sua tragedia, mi commosse il profondo senso di fiducia che Ifigenia mostrava nei confronti del padre, prima di conoscere la terribile verità: non si sarebbe sposata con Achille, ma la sua vita sarebbe stata presa in pegno per permettere ai Greci di raggiungere Troia. La mia commozione e il senso di pietà nei confronti della fanciulla, tuttavia, raggiunsero lo zenith, quando lessi della sua reazione alla condanna a morte che posava sul suo capo: mentre sua madre giurava di farla pagare ad Agamennone (realizzando il suo proposito dopo la fine della Guerra di Troia, ma questa è, come si suol dire, un’altra storia), Ifigenia accettava di essere vittima della «Ragione di Stato» con un coraggio pari solo al senso di profonda rassegnazione mostrata in quella circostanza.

Perdonate questa lunga digressione, tuttavia era necessaria per spiegarvi le ragioni che mi spinsero ad affiancare ad Elwen, bella, capricciosa, un po’ immatura forse, ma anche dotata di grande orgoglio e voglia di vivere, un personaggio femminile diverso, sul quale gravasse il senso di una tragedia che avrebbe colpito non solo lei, ma tutto il suo popolo e la sua terra. Come Ifigenia, anche Miriel è una principessa: entrambe, inoltre, sono figlie di due sovrani molto potenti (Tar-Palantir era il sovrano del più ricco regno umano, così come Agamennone era il re di Micene, considerata la più potente città degli Achei). Entrambe sono cresciute seguendo un rigido codice comportamentale, come accade di solito a quanti vengono educati per assumere, da adulti, posti da comando: entrambe, infine, non si sono opposte al destino di morte che aleggiava su di loro, finendo comunque col sacrificarsi invano. Miriel accetta il matrimonio con suo cugino, Pharazon, sperando di mitigare gli aspetti più «controversi» del suo carattere, senza successo, anzi finendo con l’annegare durante la caduta di Numenor; Ifigenia, d’altro canto, accetta di morire per permettere alla flotta greca di raggiungere Troia e perpetuare così un ciclo di massacri e vendette che non avranno termine neppure alla caduta della città di Priamo. Entrambe, infine, avranno una vita sentimentale che avrebbe potuta essere molto diversa da quello che accadde realmente. Ifigenia, la più sfortunata delle due (forse), non ebbe neppure il tempo di viverla, ma solo di immaginarla; Miriel, invece, ebbe almeno qualche breve momento di felicità intima prima di legarsi indissolubilmente a Pharazon.

Il brano che vengo qui a presentarvi è una sorta di lungo flash-back, narrato da una Miriel ormai adulta a un giovane Anarion, nel quale, forse, la regina di Numenor rivedeva il suo amore perduto. La seconda parte del racconto, intitolata volutamente «Ritratto di un principe» sarà pubblicata nei prossimi giorni. Buona lettura!

La Rosa e l’Arpa

«Ar-Zimraphel avrebbe dovuta essere la legittima sovrana di Numenor, ma cedette agli inganni del cugino e di Er-Murazor, il Signore dei Nazgul: aveva, dunque, abdicato al trono e condannato la sua patria all’infame schiavitù da parte degli Uomini del Re, che adesso si facevano chiamare Numenoreani Neri; vi erano pochi, perfino fra i Fedeli, che conoscevano le motivazioni che avevano spinto la figlia di Tar-Palantir a rinunciare allo scettro del regno e ancor meno numerosi furono coloro che compresero la sua scelta: tuttavia, poiché ferite che ella credeva si fossero ormai rimarginate erano state riaperte a causa dell’incontro con Erfëa e dalle notizie che costui le aveva comunicato, ed ella era invero infelice, prese la migliore tra le decisioni che le si prospettavano e decise di aprire il suo cuore a quanti erano della stirpe degli eredi di Silmariel.

Accadde così, dunque, che una sera Miriel giungesse al cancello di Andunië e chiedesse udienza presso i principi di quella contrada: non appena l’ebbe ricevuta, ella fu condotta lungo una bianca galleria che collegava il cancello con la piazza centrale della città: ivi, ella scorse due giovani guerrieri che sfidavano un ugual numero di automi e per lungo tempo i suoi occhi e la sua mente furono impegnati a seguire i rapidi movimenti con i quali essi si difendevano o, al contrario, attaccavano i loro avversari. Non appena i combattimenti cessarono, ella si approssimò ai due othar e chiese loro di abbassare la visiera che ne celava i volti; allora il più grande fra i due parlò e la sua voce fu dura come l’eog che i fabbri di Ost-In-Edhil lavoravano molti secoli or sono: “Orsù, donna, non vedi che io e mio fratello siamo impegnati in simili combattimenti? La cotta di maglia madida di sudore ed il sangue non si addicono a quelle della tua stirpe, ché esse, lo so bene, sono abituate ai ricchi cuscini degli altezzosi palazzi! Vieni meco Anarion, lasciamo che codesta dama si trastulli con le finzioni e con i trucchi che i cortigiani di palazzo agitano dinanzi ai suoi occhi al solo scopo di avere un cenno della sua approvazione!”

Sulle prime, Anarion non pronunciò parola, ché egli era rimasto alquanto turbato: la dama era simile ad un sole che tramonta, ché il rosso le adornava le chiare gote ed i suoi capelli color dell’oro erano rischiarati dall’ultima luce morente che l’astro reca seco quando si diparte da Endor. Saggezza e lungimiranza erano in lei, sebbene un velo di malinconica bellezza le coprisse i chiari occhi e rendesse la sua voce simile ad un eco remoto che giunga dalle profondità di Osse. Lesto, il secondo figlio di Elendil si chinò dinanzi alla donna, non prima di aver calato il suo elmo: il suo volto, che mai nessun nemico aveva atterrito era ora rosso come il rame che adornava i tetti della dimora paterna; stupefatto lo mirò il fratello maggiore, che così aspramente gli si rivolse: “Cosa significa, dunque, questo comportamento? Mai avrei detto che mio fratello sarebbe stato così codardo da obbedire ad una donna. Non ricordi cosa il nostro Signore e Maestro ebbe a dirci allorché riprese la strada per l’esilio? Egli esortò i nostri spiriti a concludere le imprese senza che alcuna distrazione potesse impedirci di portarle a termine: così, dunque, tu verresti meno all’amore che egli ha dimostrato per noi in innumerevoli occasioni, per ottenere le lascive attenzioni di una pallida dama?”

“Fratello mio, i tuoi occhi sono divenuti sì ciechi da non riconoscere colei che è dinanzi a noi? Ella è la regina di Numenor, dama Ar-Zimraphel, sicché dovresti mostrarle maggior rispetto”.

Isildur sostenne a lungo lo sguardo della sovrana e a Miriel parve simile ad Himel allorché questi era giovane ed il fardello degli anni trascorsi in esilio non gravava ancora sulle sue spalle; infine parlò e la sua voce fu sì tagliente da risultare simile alle spade che Maeglin forgiava in Gondolin nei Giorni Remoti: “Come il cervo riconosce il lupo allorché fiuta il suo lercio umore nella boscaglia, così l’uomo probo avverte il pericolo che si cela nelle tenebre di questi giorni ancor prima che questo si manifesti. L’identità di tale donna non mi è sconosciuta, né potrebbe essere altrimenti, che dalla sua sopravvivenza è dipesa la dipartita del nostro Maestro. Rammenta quanto ti dico: ella conduce seco grandi disgrazie”.

Incerto, Anarion chinò il capo dubbioso: poco o punto note gli erano all’epoca le vicende del principe degli Hyarrostar ed egli non aveva ancora conseguito la maggior età quando il conflitto tra Fedeli e seguaci di Pharazon imperversava nella sua patria e nelle colonie; infine, poiché riteneva il silenzio ben più grave di qualunque offesa ed il suo era un animo incline al perdono e alla clemenza, così rabbonì il fratello:

“Amico mio, quanto tu affermi io non posso negare, ché all’epoca ero troppo giovane per ricordare simili eventi e sovente la memoria produce inganni ben più di gravi di quelli che conducono seco le parole pronunciate frettolosamente: lascia, dunque, che la regina parli dinanzi a noi o se non vuoi ascoltare quanto ella intende rivelarci, lascia che io rimanga in sua compagnia”.

Isildur mirò il fratello ed il sospetto che aveva dipinto sul volto fu sostituito dall’affetto, senza che esso, tuttavia, trovasse modo di scalfire la dura maschera che il principe di Andunie recava onde indurre i nemici a temerlo; speranza fugace si dimostrò questa negli anni a venire, che egli confuse arroganza con orgoglio e fece della sua rabbia una forza che non seppe controllare a lungo e che, al termine della sua vita, non gli giovò affatto; tuttavia, poiché altrove si narra di quanto accaduto al termine della seconda era, qui non si troverà altro cenno.

“Dal momento che la tua clemenza si è dimostrata di gran lunga superiore alla tua – e qui parve che la voce di Isildur si incrinasse per un attimo – comprendo perché il Maestro nutra una tale fiducia nei tuoi riguardi, fratello mio. Puoi rimanere, se tale è il tuo desiderio; io perseverò nell’allenamento, ché non sarà lontano il giorno in cui le Orde che costei ha così impunemente introdotto nel nostro reame saranno nuovamente affamate ed il loro Signore reclamerà quanto in passato non è riuscito ad ottenere con l’inganno e con la corruzione”.

“Nostro padre non condivide il tuo parere, fratello” mormorò Anarion e l’eco delle sue parole si perse nella bruma della sera.

“Elendil della casa di Andunie ignora molte cose – adesso il tono di Isildur era divenuto nuovamente cupo – né dovrò attendere a lungo prima che possa mutare parere”. L’erede di Silmariel sospirò, infine parlò nuovamente prima di prendere congedo: “Mostra cautela nei confronti di codesta dama, ché non si dica che tu sia caduto nel medesimo errore di chi in passato mostrò infinita stima ed amore nei suoi confronti”.

Non si era ancora spento l’eco delle sue parole che la lieve, ma stanca voce di Ar-Zimraphel si levò: “Figlio di Elendil, sei molto simile al tuo Maestro nel portamento e nella fierezza e se la mia lungimiranza non è del tutto scomparsa, dirò che verrà il tempo in cui lo supererai per fama e per abilità nelle arti del combattimento; tuttavia non sembri aver ereditato da lui la medesima cortesia e comprensione”.

“Così è – replicò lui fiero – dove l’hanno condotto, infatti, simili pregi? In tale epoca di terrore e di disperazione, io li considero poco più che lussi per quanti non possono o non vogliono rinunciare a qualcosa che non esiste o che è stato tale solo molti anni fa”.

“Non conosci gli avvenimenti di cui così impunemente discuti con me e con tuo fratello!” replicò lei, irata per la risposta che suo cugino aveva pronunciato.

“Conosco quanto il mio cuore sa essere vero; le tue menzogne non hanno presa sul mio animo, né la mia mente intende farle sue: credi, forse, che io abbia obliato quando accadde diversi anni fa? Ero giovane, è vero, eppure sufficientemente abile a discernere il vero dal falso, la mente dal cuore: se un tempo colui che rivolse i suoi pensieri a te fosse stato ispirato da un volere simile al mio, forse il destino di quanti oggi vagano per questa terra martirizzata dalla guerra sarebbe stato diverso”.

“Sei abile nelle parole, giovane othar – gridò Ar-Zimraphel, e nei suoi occhi comparve la rossa fiamma della collera – ma vi sono ancora molte abilità che ti sono precluse e che forse lo saranno fin quando Mandos non recederà i fili della tua vita!”

Isildur impallidì, ché egli temeva la morte sopra ogni altra cosa; tuttavia, poiché non desiderava che il suo avversario approfittasse del suo stato d’animo, fattosi forza replicò: “L’ora in cui Mandos reclamerà il mio spirito è sconosciuta ad entrambi, donna; mostri ipocrisia reclamando un simile dono di lungimiranza, ché esso è quanto di più lontano da te adesso ed io questo non lo ignoro.” Rise a lungo e dopo averle rivolto un inchino beffardo, si allontanò svelto.

Anarion gli rivolse un ultimo sguardo prima che sparisse, infine sospirò a lungo: “Perdona mio fratello per le parole avventate che ha pronunciato dinanzi a te; il suo animo non ha trovato più pace dal momento in cui Erfëa ha abbandonato questa contrada ed egli cova nel suo animo vendetta contro chi l’ha tradito.”

Sulle prime Ar-Zimraphel nulla ribatté, infine parlò e la sua voce fu compassata come lente sono le foglie a cadere nel grigio meriggio di un giorno d’autunno: “Non è l’ira di Isildur che io temo, ché egli poco o punto conosce di me ed i suoi ricordi sono distorti dal rancore di chi più non è qui e vaga lontano, in contrade remote”.

“Mia signora – rispose Anarion dolcemente – quanto più cara fu la persona che inferse la ferita, tanto più essa procura dolore in chi la riceve”.

“Cosa credi, dunque? – e la collera della regina fu nuovamente visibile – che il mio cuore non sanguini per quanto accaduto? Solo perché la sua ferita è visibile, tuo fratello riceve i conforti che nessuno ha mai rivolto al mio animo: tutto in questa terra mi è ostile, compresi quanti dovrebbero tutelare la mia esistenza!”.

Il secondogenito di Elendil le prese la mano destra e portandola al cuore, pronunciò sagge parole di conforto: “Non conosco bene quali timori e quali angustie turbino l’animo della mia regina, tuttavia ella potrà trovare in me un amico con il quale dissipare i propri dubbi. Suvvia, dunque, raccontatemi dei giorni passati, allorché colui che adesso chiamano il Principe Ramingo era il Signore di una contrada oggi abbandonata”.

Stupita, Ar-Zimraphel mirò a lungo il giovane uomo che infinita premura aveva mostrato nei suoi riguardi e per lunghi istanti solo la voce del ricordo parlò in lei: infine, quasi che fosse stata risvegliata da un lungo torpore, ella si mosse e gli cinse le forti spalle ed il robusto petto, ed essi rimasero a lungo l’uno nelle braccia dell’altro, trovando quel conforto che altrove era stato loro negato.

“Himel, che voi chiamate Erfëa, era abile con le parole così come lo era con la spada, né voi siete da meno: la mia gratitudine nei vostri confronti in questo momento supera il dolore che a lungo ha attanagliato il mio cuore. Ho da rivolgervi, dolce amico, una preghiera: sapreste allietare il mio animo con l’ausilio di un dolce strumento? In cambio, io accompagnerei la vostra musica con il mio canto”.

Sorrise a lungo Anarion, ed il suo fu tuttavia un triste gioire, ché egli era lungimirante e capiva che altro la sovrana non vedeva in lui se non un’ombra di colui che era stato in passato il suo Maestro: non volle, tuttavia, declinare il suo invito, ché egli sapeva quanto ella fosse volubile e temeva che la pazzia latente che covava nel suo sguardo sarebbe divenuta tosto un morbo che avrebbe finito con il divorare quanto ancora serbava dell’amore che aveva ricevuto un tempo; era ancora un giovinetto allorché Erfëa aveva ottenuto il titolo di paladino che gli spettava di diritto e sebbene di quei remoti giorni avesse preservato un pallido ricordo, pure era stato fra coloro che avevano rifiutato di prestare giuramento a Pharazon ed aveva appreso molto dal suo Maestro allorché era stato ospite di Amandil nei mesi trascorsi.

Lesto, un servo della dimora condusse al suo Signore l’arpa che un tempo era stata di Gilnar e che Erfëa gli aveva regalato allorché si era congedato da lui, ed Anarion suonò una ballata che gli elfi di Gil-Galad avevano insegnato ai suoi avi: lesta, la chiara voce di Ar-Zimraphel intonò un canto triste sulla caduta del Doriath: incuriositi ed affascinati da quanto si udiva riecheggiare tutt’attorno, uomini e donne, infanti ed anziani, aprirono i loro usci che la saggezza di quei tristi giorni consigliava tener ben chiusi e si diressero, dapprima incerti ed inquieti, verso il mare, ed i loro silenti sguardi furono testimoni di quanto più non avrebbero visto nel corso delle loro pur lunghe vite. L’erede minore di Elendil sedeva sulle rocce che la furia di Ulmo aveva smussato nel corso dei lunghi secoli ed i lunghi capelli neri che egli ora recava sciolti parevano ondeggiare seguendo il ritmo delle note che dalla sua arpa si sprigionavano: accanto a lui, la voce della sovrana di Numenor si librava chiara nell’aere e le sue tristi lacrime si mescolavano con quelle fiere e rabbiose di Ossë. Non vi era pietà, né cordoglio negli sguardi di coloro che erano del popolo di Andunie, ché essi erano dei Fedeli ed erano cresciuti in numero negli ultimi anni, da quando il decreto di Ar-Pharazon aveva costretto quanti erano di quel partito ad abbandonare le loro avite dimore per trasferirsi nel feudo degli eredi di Silmariel: con loro erano anche quanti dello Hyarrostar erano sopravvissuti alla guerra civile e non avevano ancora abbandonato i lidi a loro cari, non obliando tuttavia il ricordo di quei giorni infelici, né la fedeltà ad Erfëa; essi, ad ogni modo, compresero che il dolore di colei che un tempo chiamavano Miriel e che amavano sopra ogni altra dama della casa reale, era quello di chi aveva ceduto la sua libertà per preservare l’esistenza di una persona a lei cara. Non avevano, forse, anch’essi rinunciato a quanto avevano di più caro, accettando di trascorrere i loro giorni nell’amara agonia del rimorso? Non avevano, forse, respinto quanto i loro cuori agognavano per prestare fede al giuramento che nessun sovrano, per quanto crudele fosse, avrebbe mai potuto spezzare, neppure con la più crudele delle torture? Non era, forse, vero che anch’essi avevano amato Erfëa quanto la loro sovrana ed erano in questo accomunati dalla perdita? Dapprima esitarono, che il cantare era reputato disdicevole in simili giorni di terrore, infine, alcuni, fra i più giovani, acquisirono coraggio e così rimproverarono quanti ancora erano incerti sul da farsi: “Orsù, dunque, voi che combatteste contro colui che si fece tiranno calpestando le leggi e la tradizione di questo regno, avete obliato il ricordo della felicità dei tempi passati? Cantate, ché nessuno possa dire i Fedeli essere sì prostrati da aver tema di esprimere simili sentimenti! Cantate, voi che sovente avete narrato a noi giovinetti quanto forse i nostri occhi mai mireranno! E forse, giacché la nostra vista mai si soffermò su giorni più felici, il nostro cuore può fare a meno di ignorare il desiderio di inneggiare a quanto ci sarà per sempre negato? Cantiamo, dunque, ché i tiranni odano l’eco delle nostre voci e seppur indaffarati nel tetro gozzovigliare delle loro orge, temano il nostro canto come un tempo temevano le nostre lame!”

In principio, dunque, fu solo un giovane a levare il suo canto ed Anarion, che pure aveva udito poco o punto di quanto i Fedeli avevano discusso, comprese che la sua musica non era più consona ai sentimenti che egli, di gran lunga il più lungimirante fra i principi presenti, comprese essere vivi nei cuori dei suoi sudditi e mutò gli accordi sull’arpa, levando una melodia che egli non sapeva donde derivasse e che in seguito non seppe più riprodurre: Ar-Zimraphel, che era discesa lungo il crinale della scogliera, lasciando che la brezza marina le scompigliasse i lunghi capelli e l’acqua le lambisse i lembi inferiori del lungo abito grigio, resasi conto, seppur in ritardo rispetto al cugino, del mutamento che il canto del popolo aveva indotto nel suo cuore, mutò il proprio canto di dolore in uno che fosse colmo della medesima letizia che aveva colto gli animi che erano con lei e le sue lacrime cessarono di scorrere sulle gote che il vento percuoteva con forza. […]

Anarion, il quale era intento a pizzicare le corde della sua arpa, pur non riuscendo a scorgere l’oscuro sembiante dell’erede al trono di Numenor, né ad ascoltare le parole che costui aveva pronunziato a bassa voce, ebbe però il cuore turbato da un improvviso male, sicché abbandonò lo strumento ed il suo canto tosto tacque: Ar-Zimraphel, che era in basso ed aveva il mente ed il cuore colmati dalla possente voce di Ossë, se ne avvide in ritardo e stupita gli si volse con codeste parole: “Perché hai dunque arrestato il tuo canto? Perché le tue forti dita non stringono più le corde della tua arpa? Vi è forse qualcosa o qualcuno che turba il tuo cuore?”

“Sì – replicò dopo un lungo silenzio il figlio minore di Elendil – tuttavia non desidero farne parola con colei che tollera un dolore ben più forte del mio”.

Ar-Zimraphel, tacque, a sua volta irretita dalle parole che suo cugino aveva adoperato; infine, dopo che il popolo si ebbe ritirato nelle sue dimore, ella prese per mano Anarion e lo condusse nei pressi di un’isolata cala, ove solo gli uccelli e le foche osavano disturbarne la quiete: sospirò, infine parlò: “Non credere che io ignori quanto il tuo cuore crede di essere l’unico a conoscere, né che io non comprenda la tua ritrosia nel parlarne: sii felice, piuttosto, di non essere stato turbato allo stesso modo e di non dover rimembrare, ogni dì ed ogni notte, i terribili spasimi e le atroci sofferenze che accompagnarono la sua nascita”.

Anarion, profondamente infelice, volse il suo sguardo al mare, ed esso gli parve terribile a vedersi: sconvolto da tale paura, egli si risolse ad osservare una grigia foca che pareva fissarlo intensamente da uno scoglio; la sovrana, alla quale non era sfuggito il timore che il suo giovane amico aveva tosto mostrato nei confronti del mutevole dominio di Ulmo, sorrise e mirò lungi all’orizzonte: “Scorgo nei tuoi occhi il medesimo timore che agitava lo sguardo di Himel  allorché egli era giovane ed insieme percorrevamo i sentieri degli ormai abbandonati giardini della reggia di Armenelos”.

Anarion, al quale non era sfuggita la malinconia che pareva impossessarsi della sovrana allorché discorreva del suo antico amante, non poté tuttavia sorprendersi dalla domanda che pose alla sua interlocutrice: “Per quale motivo Himel mostrava inquietudine allorché scorgeva il mare?”

“Al tempo in cui avvennero i fatti di cui ti racconterò adesso, Himel non era ancora maggiorenne e, sebbene io lo chiamassi con il medesimo nome con il quale ancora oggi lo rievoco, pure egli era ancora noto con il patronimico[1]”.

La regina arrestò per un istante la narrazione, quasi che la sua mente andasse a quei lontani tempi, indi parlò nuovamente:

“All’età di quindici anni, per alcuni mesi, fui solita trascorrere le mie giornate in compagnia di Himel e credo che egli fosse felice della mia presenza, sebbene non fosse solito rivelarmi apertamente i suoi sentimenti: nessun altro si univa a noi ed il tuo Maestro non rivelava inquietudine per quanto accadeva e, sebbene io fossi più giovane di lui di alcuni anni, pure il suo viso esprimeva grande letizia allorché gli porgevo la mano perché lui la baciasse dolcemente. Accadde, dunque, che un caldo giorno di primavera, avendo intenzione di mirare le prime navi di pescatori che giungevano ai porti occidentali dopo aver trascorso in mare aperto la prima settimana di pesca, lo pregassi di seguirmi lungo lo stesso sentiero che abbiamo percorso questa mattina; egli era esitante e, per la prima volta dacché l’avevo conosciuto, sembrò intimorito: ancor più bello mi parve il suo sembiante, tuttavia, ché egli, finalmente, si mostrava a me senza che i suoi pensieri reali fossero stati occultati dalla maschera che era solito indossare. Himel, tuttavia, non comprese il mio sguardo, o forse, al contrario, lo intese fin troppo bene ed andò in collera: “Perché mi guardi così? Credevi forse che io non fossi un Uomo e che in me non scorresse lo stesso sangue che è nelle tue vene? Ho timore delle distese di Ulmo e nel mio cuore è forte il timore che esse, sollevandosi un dì, cancelleranno quanto vi è di più caro su questa isola ed i giorni di Numenor termineranno bruscamente. Non desidero che i tuoi occhi si posino sulle acque oscure che la luce di Anor non riesce a penetrare, né gradisco che il tuo animo sia preso dal desiderio di solcarne le remote vie che i Secondogeniti non dovrebbero mai voler percorrere.”

“I miei occhi, che in principio erano stati ricolmi delle lacrime che la durezza di quelle parole avevano suscitato in me, furono infine colmi di amore, ché mi avvidi per la prima volta – sebbene in me il dolce sospetto fosse presente già da qualche tempo – che Himel mi amava a tal punto da temere che qualche sciagura potesse abbattersi sul mio capo; allora, intenerita, gli presi la mano e la portai al mio volto da fanciulla, ove la mia pelle l’avvertii calda al tatto: per lungo tempo rimanemmo immobili lì ove gli oleandri affondano le loro radici nelle grigie scogliere che dai monti corrono al mare e non udimmo altro suono che l’eco delle onde infrangersi sulla battigia. Eppure, ben presto, avvertii un altro suono più dolce ad udirsi e mi avvidi che i battiti del mio cuore si susseguivano senza tregua l’uno dietro l’altro: arrossii allora e feci per svincolarmi dalla mano di Himel, eppure egli non intendeva lasciarmi andare via; avvicinò la sua bocca al mio capo e mi parlò dolcemente: “Perdona il mio accesso d’ira: era la paura a parlare in me, ché forte sarebbe nel mio cuore il dolore se dovessi perderti ed io non avrei voluto che tu abitassi sì vicino ai feudi di Ossë; tuttavia, poiché tale mio disio non è per il momento realizzabile, vorrei che tu potessi trovare in me sostegno ed affetto: Himel è il mio nome ed io ti chiamerò Miriel, ché non vi è altra fanciulla su questa isola in grado di eguagliare la tua bellezza.”

Arrossii in volto, sebbene le luci del tramonto occultassero, almeno in parte, il mio imbarazzo e risi, nel vanto tentativo di smorzarlo: “Il principe dello Hyarrostar è invero un uomo astuto, ché vuole cancellare dalla mia mente il ricordo della sua ira, sostituendo a tale eccesso un altro non meno falso, figlio della sua gentilezza: egli non abbisogna, tuttavia, di simili mezzi per ottenere il mio perdono, ché altrimenti sarebbe vana ogni mia parola ed essa suonerebbe alle sue orecchie niente altro che una cortese replica alle osservazioni che mi ha rivolto.”

Gli occhi di Himel, la cui luce splendeva nelle tenebre più chiara di quella che un diamante emette quando un raggio di sole vi si posa sopra, erano su di me ed io avvertii, per la prima volta nella mia vita, ritrosia mista ad una profonda eccitazione: arrossii nuovamente, tuttavia incrociai le braccia in segno di diniego e cercando di mostrargli quanto forte fosse il mio orgoglio, serrai le labbra ed assunsi un espressione certo buffa a vedersi; Himel rise, ma non vi era malizia nella sua voce, ché il suo volto aveva assunto la stessa tonalità del mio ed era vittima dello stesso artificio, sicché si limitò a pormi questa domanda: “E se invece ogni parola si fosse rivelata vera ed in me non avesse parlato la cortesia, bensì un sentimento più profondo, quale sarebbe stato il tuo parere?”

Esitai a lungo prima di rispondergli, perché avevo tema di quanto potere le parole che avrei potuto pronunciare in quella ora avrebbero potuto esercitare nei nostri animi, così timorosi eppure infinitamente inebriati dal nettare che il caldo vento del sud recava seco; infine, avvedendomi che la mia volontà di resistere veniva meno e che le mie braccia tendevano al suo forte e aggraziato collo, gli posi una domanda che non avevo mai avuto il coraggio di porgli, essendo stata fino a quel momento la mia paura superiore alla curiosità.

“Himel – gli domandai, assaporando lentamente quel nome mentre lo pronunciavo – all’Accademia Reale sono soliti chiamarti Erfëa, che nella lingua degli Eldar significa “Spirito Solitario” e corre voce che tu, anziché disdegnare questo nome, ne vada fiero, al punto tale che lo preferisci a quelli che tuo padre e tua madre ti hanno assegnato allorché eri in culla. Se tali voci sono veritiere, perché adesso hai rivelato il tuo vero nome alle mie orecchie, conscio del valore che esso ha presso il tuo popolo e, ancor più, presso di me?”

Anarion annuì, infine parlò a sua volta: “Se davvero hai posto un simile quesito a Morluin, allora egli ha amato l’unica donna che avrebbe potuto comprenderlo. Ignoravo che fossi a conoscenza del suo nome reale, ché egli ha sempre taciuto su ciò e parlava raramente del suo triste passato, se non quando rimembrava a me e a mio fratello le storie che aveva appreso presso lontani popoli che ancora oggi dimorano, forse, in contrade che nessun altro Numenoreano sarebbe più in grado di rintracciare; della sua vita privata, tuttavia, era sempre molto restio a parlare ed egli non si confidava né con mio padre né con mio nonno: fu con me, allorché fece ritorno alla terra natia, che aprì il suo cuore. Ignoro per quale motivo abbia agito in siffatta maniera, ché non sono sì lungimirante da intendere quanto è nell’animo del mio Maestro: tuttavia, egli ebbe a dire che sovente intravedeva nei due eredi di Elendil i propri figli e, sebbene abbia trascorso poco tempo con noi, non è mai stato parco di affetto o di consigli nei nostri confronti”.

Ar-Zimraphel sorrise e parlò dolcemente: “Ignoravo quanto testé la tua voce ha pronunciato dinanzi a me, ché Himel di rado si confidava con qualcuno e quando ciò avveniva era a causa di grandi turbamenti”.

Anarion annuì, sebbene non osasse rivelarle che a nessun altra donna od elfa, neppure ad Elwen, che pure godeva di infinita stima nel cuore del Principe e della quale molto aveva sentito narrare dalla sua bocca, era stato rivelato il proprio nome segreto e ciò per tema che l’animo della sovrana, da tempo provato dal dolore e dall’infelicità di quei giorni amari, avesse a soffrirne ulteriormente, rimpiangendo con maggior forza la sua folle scelta; trattenuta a stento, dunque, la sua curiosità giovanile, egli domandò ad Ar-Zimraphel cosa avesse risposto Erfëa al quesito che gli aveva posto.

“Egli rimase in silenzio per lunghi istanti – proseguì allora la figlia di Tar-Palantir – ed io, seppure non sapessi presagire che tipo di reazione avrebbe avuto, pure non venni meno alla mia domanda e non distolsi lo sguardo dai suoi occhi; infine, il suo volto, che ascoltando le mie parole era divenuto scuro e silente, parve rischiararsi ed egli parlò, dapprima con tono di voce basso, infine riacquistando la sicurezza che gli era propria: “Non avrei mai immaginato – rispose – che tu mi avessi posto un simile quesito e questo non perché dubiti del tuo coraggio o della tua lungimiranza, ma a causa della diffidenza che il mio corpo sembra alimentare in coloro che mi circondano e della quale, tuttavia, tu sembri essere esentata: possa la tua fiducia nei miei confronti non venire mai meno negli anni successivi”.

Ar-Zimraphel si interruppe e proruppe in un grido angoscioso da udirsi, piangendo a lungo: “Himel, Himel, manan hehtanelyen?[2] Infine, la fresca brezza dell’oceano parve giovarle ed ella si riprese, sebbene fosse riluttante nel proseguire la sua narrazione; tuttavia, poiché in Anarion scorgeva molto della gentilezza e della mitezza del suo signore – ché egli, invero, sapeva essere dolce come miele, sebbene il suo carattere abituale stridesse palesemente con tale affermazione – si fece forza e proseguì il racconto: “Himel, dopo aver accarezzato più volte il mio viso, sorrise e mi invitò ad osservare la volta celeste, che nel frattempo era stata rischiarata dalla luce degli astri notturni: restammo a lungo vicini, il mio capo appoggiato alla sua spalla ed egli infine, mi domandò se sapessi per quale motivo Ithil fosse sì pallido rispetto ad Anor.

Non sapevo per quale motivo mi avesse posto una simile domanda ed ero al momento decisa ad ignorare l’indecisione che mostrava nel rispondere al mio quesito iniziale, sicché mi limitai a sorridere ironicamente; egli allora mi sollevò il mento ed approssimò il suo volto al mio: “Ithil è pallido perché Amore lo indebolisce, mentre Anor è rosso, ché è divorata dalla gelosia nei confronti del congiunto: quaggiù, infatti, vi sono astri che brillano a tal punto da confondere le menti degli Ainur.”

Arrossii; infine, ignorando il disio più grande che avevo nel cuore, gli chiesi perché esitasse a rispondere alla mia domanda, tuttavia egli non parve inquietarsi e riprese a parlare: “La mia risposta poteva attendere ancora qualche istante, né era nel mio animo la volontà di ignorare quanto desideri apprendere; sappi, infatti, che da lungi desideravo tu mi ponessi un simile quesito. Sospirò per un istante, infine aprì una tasca all’interno del suo mantello e ne trasse un minuscolo gioiello: la chiara luce di Ithil ne rischiarava la superficie ed esso brillava intensamente. Himel lo accarezzò a lungo, infine, con un lesto movimento della sua mano, lo mostrò ai miei curiosi occhi ed io non potetti trattenermi dal lanciare un piccolo grido. Nessun occhio femminile, mi rivelò, aveva scorto quel gioiello, ché non dalla fucina di un uomo di Numenor o dai porti elfici nella Terra di Mezzo proveniva, bensì da Tol-Eressea o, forse, dalla gloriosa Valinor che si ergeva al riparo della sua mole; rimasi in silenzio a fissare quanto la sapiente arte dei Vanya aveva creato ed esso mi parve risplendere della luce di tutte le stelle di Varda, né tale pensiero mi parve inappropriato: appesa ad un’esile catenella di fine argento, come solo Celebrimbor nei giorni remoti sarebbe stato in grado di forgiare, vi era infatti una bianca stella. Affascinata, sfiorai l’oggetto con le mie dita e mi accorsi, con sommo stupore che, nonostante la gran quantità di luce che essa emanava, la sua superficie era fredda come l’Oceano ed il mio cuore ne fu turbato: tali erano i miei pensieri, in quell’ora incerta, che in principio non mi avvidi delle parole che Himel prese a pronunciare dinanzi a me, dapprima a bassa voce, indi con tono crescente».

Fine (I parte)

[1] Presso i Numenoreani, che avevano mutuato questa tradizione, come molte altre, dai figli di Fëanor, era consuetudine assegnare ad ogni nascituro non solo il nome del quale il padre se ne serviva per riconoscerlo come proprio figlio e attraverso il quale avrebbe esercitato la patria potestà fino al compimento della maggior età di costui, ma anche il matronimico. Giunto alla maggiore età, il Numenoreano aveva la facoltà di confermare il patronimico o di mutarlo a suo piacimento; accanto al nome “pubblico” che egli sceglieva in tale occasione, vi era anche il suo nome “privato”, che secondo alcuni rappresentava il vero nome e che veniva segretamente custodito, sicché non compariva neppure nei registri reali, per tema che qualcuno potesse scoprirlo; esso, di norma, veniva confidato solo agli amici più intimi e al proprio coniuge, dopo che con questo avesse trascorso la prima notte di nozze. Per tale ragione, dunque, è da ritenersi un atto di estrema fiducia quello che Erfëa compì nei confronti di Miriel, allorché le rivelò il suo vero nome; secondo le scarse testimonianze sopravvissute alla Caduta e che furono raccolte da Meneldil, quartogenito di Anarion, i nomi dell’ultimo principe dell’Hyarrostar furono questi: Ëarel (patronimico) Mîrmoth (matronimico) Erfëa (nome pubblico) Himel (nome privato ossia vero nome).

[2] “Himel, Himel, perché mi hai abbandonata?” nella favella degli Elfi Noldor.