Al solito, adopero un titolo un provocatorio per fare luce su una questione di cui lo stesso Tolkien pose le basi molti anni fa. Come è noto, il romanzo del Signore degli Anelli si conclude con la dipartita dei tre portatori degli anelli elfici dalla Terra di Mezzo che inaugura in forma simbolica il dominio degli Uomini nella Quarta Era. Dico simbolica perchè, in fondo, le altre razze non scompaiono – o almeno non subito -: su questo punto Tolkien stesso non offre molte indicazioni. Anche l’opera cinematografica di PJ mostra molto bene questo passaggio di consegne: il ruolo di guida che per tanti secoli avevano avuto gli Elfi e gli Istari, passa di mano ad Aragorn, nel suo nuovo ruolo di sovrano dei regni unificati di Gondor e Arnor.
Meno nota, invece, è la bozza di un romanzo che Tolkien iniziò a scrivere dopo aver terminato il Signore degli Anelli e che intitolò – provvisoriamente – New Shadow, ossia la Nuova Ombra. La trama è presto spiegata: l’autore immaginò che ai tempi di Eldarion, figlio di Aragorn, una nuova ombra – da cui il titolo – si fosse risvegliata nel regno di Gondor, colpendo soprattutto i ragazzi che tendevano a comportarsi come orchi. A dire il vero, un abbozzo abbastanza deludente, più una spy story che un racconto epico, che Tolkien marchiò piuttosto severamente con queste parole in una lettera datata 13 marzo 1964:
«Ho iniziato una storia che si svolge circa cento anni dopo la Caduta [di Mordor], ma si è rivelata sinistra e deprimente. Dato che abbiamo a che fare con uomini è inevitabile che si debba prendere in considerazione una delle caratteristiche più deprecabili della loro natura: il fatto che presto si stancano del bene. […] in epoche così antiche ci fu un fiorire di trame rivoluzionarie, incentrate su una religione satanica segreta; mentre i ragazzi di Gondor giocavano a travestirsi da orchi e andavano in giro a fare danni. Avrei potuto ricavarne un thriller con il complotto e la sua scoperta e la sua sconfitta – ma non ci sarebbe stato altro. Non ne valeva la pena».
Non c’è dubbio, dunque, che Tolkien non fosse soddisfatto della sua opera; chiunque in vita sua abbia provato a cimentarsi con la scrittura di un testo, d’altra parte, sa che ciò è inevitabile: non tutte le ciambelle riescono con il buco, tanto per usare una frase fatta. Quello che proverò a dimostrare in questo articolo, dunque, non è la necessità che Tolkien portasse a termine il lavoro indipendentemente dalla sua volontà: non sarebbe eticamente corretto. Confesso poi che, personalmente, trovo poco convincente l’idea dei ragazzacci-orchi, per cui non ho nulla da rimprovere all’autore per non aver terminato la scrittura di questo testo.
Ciò che voglio tentare di comprendere, invece, è la ragione per la quale Tolkien aveva un rapporto così difficile con le storie nelle quali gli Uomini sono assoluti protagonisti (o quasi). Se infatti consideriamo altri racconti che Tolkien iniziò a scrivere ma che non concluse, è possibile osservare che ve ne sono almeno altri due che hanno come “attori” i membri della razza umana. Uno è quello intitolato “Tal-Elmar” nel quale l’autore descriveva la colonizzazione della Terra di Mezzo da parte di Numenor, vista però da un’ottica diversa (ossia quella degli Uomini selvaggi), che fa luce sull’intenso sfruttamento cui furono sottoposti i boschi di Endor per costruire l’imponente flotta numenoreana. L’altro, invece, aveva come tema una sorta di viaggio nel tempo di alcuni uomini dei giorni nostri che si trovavano catapultati a Numenor (Tolkien aveva sostenuto che le ere della Terra di Mezzo corrispondevano a un antico passato della nostra Terra).
Per cercare di comprendere queste difficoltà, secondo me, bisogna partire da un dialogo intercorso fra Legolas e Gimli poco prima della partenza dell’esercito dell’Ovest alla volta del Morannon:
“Indubbiamente le migliori opere in pietra sono le più antiche e risalgono ai tempi della prima costruzione” – disse Gimli. “Ed è sempre così per tutte le cose che gli Uomini incominciano: una gelata in primavera, o la siccità in estate; ed essi non portano a compimento la loro promessa”. “Eppure è raro che i loro semi non germoglino”, disse Legolas. “Anche in mezzo alla polvere o al marcio, li si vede improvvisamente spuntare nei luoghi più imprevisti. Le azioni degli Uomini sopravvivranno alle nostre, Gimli”. “Riducendosi però dopo tutto a potenzialità fallite, suppongo”, disse il Nano. “A ciò gli Elfi non sanno rispondere”, disse Legolas. [Il Ritorno del Re, p. 173]
Trovo che questo brano sia significativo perché illustra una questione fondamentale dell’epica tolkieniana: un’ambiguità di sentimenti che Tolkien mostra nei confronti della razza umana. Intendiamoci: nelle sue opere gli eroi dei Secondogeniti non scarseggiano di certo e un loro elenco sarebbe lungo: pensiamo a Beren, Bard, Elendil, Turin, Aragorn, tanto per citare i primi che mi vengono in mente. Tuttavia, è difficilmente negabile come le parole di Gimli colgano nel segno: nei semi della grandezza umana è sempre nascosta la loro rovina. Simbolo di questo tragico destino è in fondo Isildur: egli sconfigge il più pericoloso nemico della sua gente e si trova però a dover cadere vittima del suo stesso potere. E non finisce qui, se si pensa che nel racconto che narra della sua morte a Campo Gaggiolo, Tolkien fa intuire che avrebbe voluto recarsi a Rivendell per chiedere consiglio a Elrondo sull’Anello. Un segno di pentimento della sua decisione di prenderlo con sè dopo la sconfitta di Sauron? Non lo sapremo mai, tuttavia una costante emerge da questi esempi: l’estrema fragilità degli uomini, sempre divisi tra Bene e Male, spesso oscillanti e incerti sulle scelte da prendere.
Tolkien ne aveva stima, certo (altrimenti, per fare un esempio, non avrebbe pensato a Turin come l’esecutore finale di Morgoth, in quella che avrebbe dovuto essere la battaglia finale del Mondo), ma dai suoi scritti traspare una diffidenza nei loro confronti che neppure i migliori eroi di quella razza sono riusciti a fargli passare. Sarà stata questa la ragione per cui non ha mai portato a termini i racconti menzionati in precedenza?