Erfea e l’Albero Bianco

Uno degli elementi più affascinanti della storia della Terra di Mezzo è costituito dalla presenza dell’Albero Bianco a Gondor, erede della più antica pianta che un tempo ornava la dimora dei sovrani di Numenor. Nelle pagine del Silmarillion è narrata la vicenda che portò Isildur a sottrarre, a costo della sua stessa vita, un frutto dell’albero dalla reggia di Ar-Pharazon per preservarne l’esistenza, dal momento che era ormai chiaro ai Fedeli l’infausto destino che l’albero avrebbe conosciuto per mano di Sauron, che sobillava il sovrano affinché lo bruciasse. L’odio dell’Oscuro Signore nei confronti di questa pianta era spiegato in virtù delle sue nobili origini, che risalivano addirittura ai due Alberi di Valinor, la terra degli dei, scomparsi ormai da epoche immemorabili. Attraverso i secoli, nella Terza Era, si mantenne l’usanza di coltivare un esemplare dell’Albero Bianco, la cui sopravvivenza, in qualche modo, era legata a quella stessa di Gondor e della linea di successione di Isildur e Anarion: purtroppo, però, nell’anno 2852 di quell’epoca, l’ultimo esemplare conosciuto di Albero Bianco cessò di vivere e, in mancanza di un suo sostituto, fu deciso di conservarne le spoglie ormai rinsecchite. Nacque così la leggenda dell’Albero Morto, il cui sembiante è visibile anche nel terzo capitolo cinematografico del Signore degli Anelli: in questo film, tuttavia, l’albero rifiorisce dopo lungo tempo (oltre 150 anni più tardi), presumibilmente perché avverte l’arrivo dell’erede di Isildur, ossia di Aragorn. Per quanto la scena della prima rifioritura dell’Albero Bianco dopo così tanto tempo sia davvero suggestiva, nel romanzo gli eventi prendono una piega differente: il vecchio albero, infatti, è ormai irrecuperabile ed Aragorn, prossimo ad essere incoronato re di Gondor, si mostra piuttosto preoccupato per la mancanza di un nuovo virgulto. Gandalf, tuttavia, lo conduce attraverso sentieri ignoti verso un luogo remoto sul Monte Mindolluin che sovrasta la città di Minas Tirith: in quei luoghi l’ultimo erede di Isildur trovò un nuovo alberello. Alla legittima domanda mossa da Aragorn in merito alla provenienza di quel virgulto – che si trovava laddove nessun essere umano si recava più da anni – così rispondeva enigmaticamente Gandalf: «In verità questo è un alberello della linea di Nimloth il Bello; seme di Galathilion e frutto di Telperion dai molti nomi, il più antico degli Alberi. Chi può dire come mai si trovi qui all’ora indicata? Ma questo è un luogo antico, e prima che i re si estinguessero e che l’Albero appassisse, fu indubbiamente deposto qui un frutto. Perché dicono che benché il frutto dell’Albero maturi di rado, la vita in esso può tuttavia covare per lunghi anni, e nessuno può prevedere quando si desterà». (Il Signore degli Anelli, p. 731).

Questo passaggio mi ha incuriosito fin dai tempi della mia prima lettura del Signore degli Anelli: per questa ragione ho deciso di ispirarmi alla misteriosa presenza di un virgulto dell’Albero Bianco in un luogo così inospitale per tracciare un filo invisibile in grado di legare Erfea ai suoi più lontani discendenti…ma non voglio anticiparvi altro, vi auguro buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Grandi distanze egli percorse, e mai nessuno gli si parò innanzi; la sua venuta a Feneria non passò tuttavia inosservata, ché se gli occhi dei mortali sovente sono accecati da empi pensieri, altri sguardi, più acuti, avevano osservato quanto era accaduto nel bianco santuario: le grandi aquile di Manwe, infatti, riconobbero le sembianze del Dunadan e alto levarono un grido di gioia.
Quella notte esse avevano udito squillare il possente olifante di Earendil, ed ora le parole di Erfea Morluin risuonavano al loro udito come una sfida rivolta a Sauron e ai suoi servi; veloci, le ambasciatrici di Manwe si librarono in volo, raggiungendo infine la maestosa città di Andunie. Ivi avevano dimora i discendenti di Silmariel, congiunti dei sovrani di Numenor: Amandil era in quei giorni il loro capostipite e sagge e gradevoli ad udirsi erano le sue parole; Elendil l’Alto, assistito dai suoi eredi Isildur e Anarion, uomini d’arme valorosi, erano con lui. Numerose gesta essi avevano compiuto ed erano altresì esperti di tradizione, tuttavia grande fu lo stupore che essi palesarono, allorché Ar-Thoron, sovrano delle aquile, si inchinò dinanzi a loro.
“A te Amandil del seme di Elros Tar-Mynatur e ai tuoi eredi auguro che mai il vento cessi di soffiare sotto le vostre ali!”
Amandil, che conosceva quale fosse la giusta risposta, replicò inchinandosi: “Possano il sole e la luna splendere ovunque le tue grandi ali ti conducano, araldo di Manwe Sùlimo! Quale motivo ti ha spinto lungi dalla tua remota dimora? Invero questa notte il mio sonno è stato turbato da uno squillo di corno e poi da un altro e da un altro ancora. Rapido mi vestii e, sceso in strada, mi apprestavo a seguirne l’eco, quand’ecco che la Tenebra fu tutta intorno a me e smarrì il sentiero: dovetti attendere l’alba, ché scacciasse le tenebre, per tornare alla mia dimora; tuttavia, molti dei miei congiunti hanno udito il medesimo suoni e si pongono simili quesiti.”
“La mia venuta in questo luogo e quanto accaduto questa notte sono fatti di estrema importanza e tra loro intrecciati, Amandil, ché i miei occhi hanno scorto colui che ha turbato il tuo riposo.”
“Dov’ è costui? – l’interruppe il signore di Andunie – Deve essere stato un uomo di grande vigore, se l’eco del suo olifante è giunto da sì lontano.”
Annuì lentamente Ar-Thoron, mentre con il suo becco adunco lisciava il suo prezioso piumaggio: “Quanto affermi, corrisponde a verità, figlio di Numendil, ché invero possente è Erfea dell’Hyarrostar, che il tuo popolo chiama il Morluin.”
Palese divennero allora il sollievo e la gioia sui visi dei signori di Andunie, ché il figlio di Gilnar era loro noto e ne conoscevano il fiero valore. Tosto Elendil soffiò nel suo magnifico olifante il cui nome era Culkarak [1], ché era stato ricavato da una zanna di mumakil, che oggi si dice viva ancora nelle remote foreste dell’estremo Harad; forte e limpido echeggiava il suo suono, ed ecco, ora convocava  tutti i fedeli che avevano dimora nella signoria di Andunie.
Non dovette attendere a lungo il figlio di Amandil, ché tosto uomini e donne, possenti giovani e canuti anziani, si radunarono all’ingresso della sua dimora.
“Non tutti i Numenoreani sono sottoposti al volere di Sauron”, fece notare Amandil, mentre la folla inneggiava agli Eldar e all’Uno che è sopra i custodi di Arda; finanche Ar-Thoron rimase sorpreso nello scorgere la moltitudine di Fedeli che si erano ivi radunati: “Se tale è il corso del mondo, per cui tutto debba andare in rovina, tuttavia oggi dico che la speme sopravvivrà a lungo fintanto che la tua stirpe, Amandil di Andunie, perduri.”
Isildur, giunto in quel momento, ascoltò quanto l’aquila aveva detto e serbò nel suo cuore la sua ultima osservazione, ché presagiva quale valore la sua casata avrebbe conservato nei giorni a venire, quando la stirpe di Ar-Pharazon sarebbe stata consumata dallo stesso odio che gli aveva permesso di giungere al potere; parola però non pronunciò, ma afferrata la propria spada, la levò in alto in un impeto di gioia e rise a lungo.
Frattanto, Amandil aveva pregato l’aquila di raccogliere quante più informazioni possibili, ché egli era cosciente di quale minaccia gravasse il peso sulle spalle di Erfea, mentre alcuni fra la sua gente, uomini abili e furtivi, si erano offerti di rintracciare il Morluin prima che la luna tramontasse.
Lunga sarebbe stata però la cerca, ché non solo i Fedeli, ma anche agenti dei Nazgul erano stati inviati in ogni contrada dell’isola, spinti dal medesimo obiettivo, né Sauron l’Aborrito si era dato per vinto, ché covava nel suo nero cuore la speranza di avere in dono le spoglie del paladino quanto prima.

Erfea Morluin, sebbene il fardello sulle sue spalle non fosse svanito e il capo gli dolesse per la stanchezza, era riuscito, a costo di grandi fatiche, a far perdere le proprie tracce ai seguaci dei Nazgul, mentre percorreva l’antica strada che dal Luogo del silenzio conduceva ad Armenelos, sede dei re e dimora dell’Albero Bianco, erede del frutto di Nimloth il Bello, germoglio dell’Albero di Tirion, che si diceva fosse l’immagine vivente di Telperion il Bianco, che in epoche passate reggeva le sorti del mondo.
Il Dunadan attraversò le strade di Armenelos, celato dal suo manto scuro, mentre intorno a lui bambini si rincorrevano senza alcuna sosta fra i vicoli sporche e senza luce; giunto infine dinanzi alla valle di Noirinan, ove erano conservate le spoglie mortali dei monarchi di Elenna, il Dunadan arrestò il proprio passo, ché era sua intenzione onorare l’ultima dimora di Tar-Palantir, sovrano di Numenor e padre di Tar-Miriel. A lungo egli vagò, in cerca di quanto i suoi occhi desideravano, finché si prostrò innanzi al suo sepolcro: questo era imponente, edificato con marmo pregiato e intarsiato di laen nero e non era meno nobile delle sepolture che tutto intorno si ergevano; eppure l’opera del tempo corruttore non l’aveva risparmiato, corrodendo le iscrizioni ivi scolpite. Nessuno fra i mortali udì le silenziose parole che Erfea, figlio di Gilnar, pronunciò in quell’ora, ché nessuno era con lui in tale luogo ed esse sono per noi perdute: tuttavia egli non sostò a lungo, ché il giorno giungeva al meriggio e non aveva completato ancora la sua missione; allora si levò, e fatto scivolare il suo lungo manto, egli rivelò il suo sembiante al sovrano, in segno di eterna riconoscenza. Infine, abbandonato quel luogo deserto, affrettò il passo, ché una minaccia gli opprimeva il cuore ed egli era confuso e stanco, ostinato tuttavia nel voler portar a termine il proprio compito: dopo aver percorso dieci miglia, sospirò, ché, sebbene avesse raggiunto la sua meta, pure il suo cuore era turbato e tetro.

Silenzio si poteva udire per molte leghe intorno, disturbato solo dal pesante incedere dei passi del ramingo perso nella cupa nebbia, repentinamente levatesi.
“Una potenza malefica è all’opera – mormorò Erfea, rabbrividendo nel pronunciare simili parole, ché mai aveva avvertito un simile orrore sulla cima del Menalterma, ed egli era solo e privo d’aiuto; tuttavia il tempo non s’era arrestato, ed egli si mosse nuovamente, sguainando la sua lunga lama, Sulring la splendente, forgiata secoli addietro dalla sapiente arte dei fabbri di Gondolin; grande era il legame che vincolava Erfea alla propria arma, ché le era stata consegnata anni prima direttamente dalle mani del supremo re dei Noldor Gil-Galad; tuttavia, soffocato com’era dalla nebbia insidiosa, egli si avvide tardivamente dell’apparizione di una luce azzurra, in principio tenue, poi vivida sulla lama della sua possente spada, latrice di grave pericolo; tale era infatti il comportamento delle armi forgiate a Gondolin, quando esse si imbattevano nei servi di Morgoth, fossero orchi o di altra razza.
Improvvisa, una voce si levò nella tenebra: “Tarda è l’ora di Numenor, figlio di Gilnar, e ancora più tarda è la tua venuta in questo luogo. A lungo hai percorso il tuo cammino nelle tenebre tessute di inganni, eppure sappi che nulla può essere celato al nostro sguardo.”
Pronta fu la risposta del Dunadan, ché non gli era sconosciuta l’identità del suo invisibile interlocutore, ed era conscio della presenza di altri nemici tutto intorno a lui: “È lecito supporre da parte mia che quanto tu dica sia vero, perché negarlo sarebbe insensato e pericoloso. Tuttavia, sebbene il vostro dominio su quest’isola debba perdurare per dolorosi anni, essa sarebbe solo un frammento di Arda e non Arda stessa.”
Rise un’altra voce nella Tenebra: “Parole artificiose le tue, Morluin, dettate da una mente ormai vacillante. Non è forse Elenna prossima a Tol-Eressea, cancello dell’immortalità? Cos’altro potrebbe essere la conquista di questo avamposto per le Terre Imperiture, se non la promessa di un successo, del raggiungimento di un fine?”
“Il vostro padrone – ribatté Erfea, tenendo accanto al proprio corpo la spada, ché sapeva essere prossimo un attacco – non può dimostrarsi al tempo stesso corruttore ed ispiratore, dominante e dominato. Presto egli rivelerà il suo vero sembiante e palese diverranno le sue intenzioni.”
“Veritiere sono le tue parole, Numenoreano – pronunciò una terza voce nell’oscurità – temo tuttavia che tu non possa impedire in alcun modo al nostro signore di reclamare il proprio dominio su questa isola; già le mie orecchie odono i cuori degli uomini avvizzire e consumarsi nel lungo gelo della loro lenta agonia.” Luminosa era ora la spada di Erfea Morluin, ché egli era prossimo a raggiungere l’ingresso della sala e i suoi nemici gli erano prossimi; tuttavia non esitò a parlare nuovamente: “Quale ricompensa vi ha riservato il vostro signore? Oppure ritenete che la schiavitù eterna sia un dono sufficientemente grande da placare la vostra insaziabile ambizione?” Risa orribili ad udirsi riecheggiarono nel cortile deserto, ora distanti, ora prossime al guerriero di Numenor; infine una voce stridula si levò sopra le altre: “Non essere sciocco, Dunadan! Credi che le nostre orecchie siano sorde e ciechi i nostri occhi? Se nessuno ha ancora levato la propria spada contro di te avviene perché altri sono i nostri scopi.”
Beffardo ripose Erfea: “Forse quanto affermi corrisponde a verità, eppure mi è sconosciuta la vostra risposta alla mia domanda! Avanti dunque, servi di Sauron, rivelate i vostri scopi!”
Una quinta voce si levò nel grigiore della sera, ed era colma di scherno: “Nessun intelletto mortale può comprendere quali ricchezze i nostri spiriti abbiano accumulato: saggezza infinita si è dischiusa innanzi alle nostre menti, lungi dalla vostra scienza.”
Rabbiose ululavano adesso le voci dei servi di Sauron, ché essi erano impazienti di distruggere il loro nemico, intrappolato dagli oscuri lacci della negromanzia di cui erano esperti usufruitori, ed ora seguitavano a parlare senza interruzione alcuna: “Qualunque mortale può impugnare codeste armi e indossare tali cenciosi stracci elfici! Morte è il tuo destino, ché ignoti sono a te e a quanti si oppongono al nostro dominio, gli artifizi per giungere a una sorte diversa.”
“Così è – fece eco una settima voce – dal momento che Eru Iluvatar è fuggito dal mondo e gli Ainur si sono dimostrati imbelli nel governarlo, ché il loro dominio è prossimo a crollare. Grandi saranno le ricompense per coloro che si riuniranno sotto lo stendardo di Melkor, il padrone del Fato: immenso è il suo potere e inevitabile la sua vittoria”. Un ottavo essere proseguì nel parlare: “Egli è dio delle Verità, ed esse sono infinite. Io sono una Verità” concluse, ridendo beffardo.
Più parola venne pronunciata, mentre il lieve tintinnare dell’acciaio risuonava fosco alle orecchie del Dunadan; egli tuttavia attese ancora, infine parlò nuovamente: “Ho ascoltato le voci di ciascuno di voi, ed esse non mi sono ignote, al pari dei vostri nomi: Uvatha, Ren, Adunaphel, Hoarmurath, Akhorahil, Indur, Dwar e Khamul, gli spettri dell’Anello, servi di Sauron. Tuttavia, esitate ad attaccarmi, ché non avverto la presenza del vostro capitano, essendo egli lontano: altri incarichi gli ha affidato il signore di Mordor in sua assenza, e non può soccorrervi.” Rise, dapprima in modo sommesso, infine con forza, poiché il momento del confronto era giunto: “Aure entuluve! Il giorno risorgerà!” e così dicendo soffiò nel proprio corno con forza. I Nazgul, tuttavia, non scomparvero, ché era desiderio del loro padrone impossessarsi di Erfea onde corromperlo e acquistarlo alla propria causa, cosicché avanzarono lentamente, con le lunghe lame protese in avanti: scintille schizzarono via, quando le spade furono a contatto, si ché la nebbia fu illuminata da bagliori simili a stelle remote ed effimere nella notte. Lesta era la mano di Erfea e potente il suo braccio; tuttavia vana sarebbe stata la sua difesa, se non fosse intervenuto tempestivamente Ar-Thoron, re dei Venti. Forte gridò Erfea, quando riconobbe il magnifico uccello che gli si parava innanzi, e il suo cuore fu colmo di gioia e sorpresa, ché aveva obliato le grandi aquile di Manwe e la loro lungimiranza: rapido si aggrappò al possente grinfio illuminato dalla luna e presto fu sollevato in aria, mentre al suolo, gli Ulairi chiamarono con urla stridule il loro capitano. Il Re-stregone, tuttavia, avrebbe dovuto percorrere circa settecento leghe a volo d’uccello, cosicché egli non fu in grado di soccorrerli tempestivamente, ragion per cui essi si ritirarono nella Tenebra, delusi e sconfitti, recando notizie di cattivo auspicio al Maia decaduto. Nessuno fra i Numenoreani dormì quella notte, ché il loro sonno fu turbato da fantasmi ed arcane paure, sebbene levatisi al mattino, conservarono solo un pallido ricordo di quanto era apparso loro in sogno.
Più furono visti i Nazgul a Numenor, ché l’Oscuro Signore destinò i loro spiriti ad altri incarichi, ed essi mutarono nuovamente sembianza, risultando così irriconoscibili agli occhi dei mortali; pure, è stato detto che essi covassero nel profondo dei loro cuori neri odio indicibile per Erfea Morluin, e non smettessero mai di dargli la caccia, fin quando la Seconda Era non fu conclusa ed essi scomparvero nell’ombra.

“Figlio di Gilnar, non è la prima volta che i miei occhi si posano sulle tue sembianze mortali, ché ieri ti vidi discorrere a lungo con la sovrana di Numenor. Ar-Thoron è il mio nome, re dei venti e messaggero di Manwe Sùlimo. Quali notizie porti dalle contrade ove hai trascorso il tuo lungo esilio? Quali auspici ti spinsero a recarti in luoghi ove la Tenebra regna sovrana? Pochi sono coloro che fra i mortali possono opporsi ai nove servi di Sauron, e ancora meno coloro che conoscono i loro nomi.”
“Temo che niente di quanto ho compiuto nei miei tristi pellegrinaggi sia per te ignoto” gli rispose Erfea, mentre sorvolavano ampi pascoli e borghi fatiscenti.
“Acuto è il mio udito, e molti racconti giungono dinanzi al re degli uccelli, eppure finzioni e realtà sovente si accompagnano. Tuttavia, quanto dici è vero, ché sebbene tu abbia compiuto imprese degne di nota, in luoghi remoti e oscuri, le aquile di Manwe sono ancora vigili e nulla di quanto i figli di Eru compiono è motivo di sorpresa. Rapido è il nostro volo, silenzioso nella bruma della sera, tale che ben pochi fra gli Edain e gli Eldar avvertono la nostra presenza; eppure, l’Oscuro Signore è vigile e le sue spie sono ovunque. Il mio cuore mi dice che verrà un tempo in cui il loro potere si estenderà all’intera Numenor, e noi saremo costretti a fuggire altrove.” A lungo meditò Erfea, infine gli rispose: “La grande guerra contro Sauron è prossima, ché se anche Elenna fosse avvolta nella tenebra corruttrice, ecco che altri popoli prenderebbero le armi per battersi contro Mordor e le sue schiere. I cuori della Seconda Stirpe non sono stati tutti corrotti, e la speme vive ancora, nelle aule dei nani nelle profondità delle montagne, così come tra le foglie dei boschi della Terra di Mezzo, ove dimorano ancora gli Eldar, nei ricchi palazzi dei signori e nelle umili capanne dei pescatori del Belfalas[2]. Finanche a Numenor alcuni oppongono resistenza a Sauron, ed essi sono miei leali congiunti. Dove è la dimora di Amandil, figlio di Numendil, signore di Numenor? Conducimi presso la sua città, te ne prego, ché grande è il mio desiderio di discorrere con lui.”
Rise la grande aquila di Manwe: “Curiosi sono invero i destini dei mortali, e lungimiranti i figli di Elros Tar-Minyatur! Sappi, infatti, Erfea Morluin, che codesta è la meta del nostro viaggio, ché altri sanno della tua presenza qui ad Elenna e non tutti fra essi sono tuoi nemici. Sii paziente, e narrami le vicende che ti hanno spinto ad attraversare il tempestoso dominio di Osse, conscio della condanna che grava sul tuo capo.”

A lungo Erfea gli parlò di quanto era accaduto nella Terra di Mezzo durante il suo esilio, narrandogli dei suoi viaggi da Tharbad a Rhun[3], da Mordor fino all’estremo Harad, ove le costellazioni sono differenti dalle nostre. Ar-Tharon ascoltò con attenzione, infine sospirò profondamente: “Mi erano giunte voci sulle tue peregrinazioni, eppure non avrei mai creduto che un mortale si fosse spinto finanche a Gorgoroth[4]! Eppure, Erfea, sei un uomo di grande valore, né leggo malizia o inganno alcuno nei tuoi occhi. Ahimè – continuò – pondererò quanto mi hai riferito; sappi tuttavia che il fato è immutabile così come lo è la Profezia di Mandos; cupi sono stati i miei pensieri in questi giorni disperati, eppure il tempo dell’attesa è ormai terminato.”
Tacque Ar-Thoron, e parola non pronunziò più Erfea, affascinato dalla visione che gli si schiudeva in basso: come un fiore in primavera dischiude lentamente il suo calice, trepidando di gioia per l’evento, così ora le bianche nuvole si sollevarono ed egli vide una grande città di uomini; bianca e remota pareva, eppure egli ne conosceva ogni segreto recondito, ché quella era Andunie la Bella, fortezza dai potenti bastioni e feudo di Amandil il Lungimirante, della stirpe di Elros Tar-Minyatur. Breve fu la discesa, ché l’aquila puntò su una grande piazza, lì ove molti uomini e donne si erano radunati: fra essi vi erano tre imponenti guerrieri, la cui l’altezza superava quella di ogni altro tra i presenti.
Lieto divenne il volto di Erfea, quando riconobbe i volti di coloro che l’attendevano trepidanti; tuttavia, ancora prima di porgere loro il saluto, egli si congedò dalla sua possente guida e salvatore: “Possano i giorni dei Valar perdurare allorché la Tenebra calerà i suoi velenosi strali sui regni degli Eldar e degli Edain! Non tutto mi è dato di conoscere, tuttavia, se il mio cuore non si inganna, sappi che all’ora prestabilita dal Fato, quando ogni speme sembrerà perduta, ci rincontreremo e molti altri della tua stirpe saranno con noi.”
“Possa quel giorno non tardare – gli rispose l’aquila, mentre Erfea le si inchinava grato – sebbene numerosi mali debbano sopraggiungere in quell’ora disperata. A lungo squillerà il tuo olifante, che la pugna sarà feroce e la morte prossima, tuttavia esso infiammerà molti cuori e non tutto andrà perduto.” Prostratosi a sua volta, Ar-Thoron volò via, mentre il tripudio della folla accoglieva festante l’esule Numenoreano: bardi e cantori presto accorsero da ogni contrada e ivi fu celebrato un grande banchetto, ché la venuta di Erfea era a tutti gradita. Balli e canti animarono il lungo festino, eppure il volto di Erfea, dopo aver al principio gioito, adesso era scuro e neppure le luci dei grandi bracieri si riflettevano nei suoi occhi: a lungo egli ristette solo, tormentato da numerosi pensieri, ignoti a quanti lo circondavano.
Infine Anarion, il secondogenito di Elendil, gli si avvicinò: “Quali angustie ti tormentano, signore di Minas Laure? Talvolta il desio irrealizzabile causa profondi dispiaceri; ignoro quale sia il motivo per cui parola non pronunci, tuttavia non pretenderò di conoscerne la causa, se il tuo parere sarà contrario.”
“Mio signore, invero lungimirante  è stato  il tuo pensiero. Sono prigioniero delle medesime paure inflittemi in questi anni di tormento, e sebbene il mio cuore desideri recarsi al di là del mare nella ridente Edhellond, ove ogni cosa è a me cara, qui ha dimorato per lungo tempo la mia anima ed essa esige il suo riscatto.” Parola più non pronunciò Erfea, ma fatto cenno al giovane principe di seguirlo, cavalcò a lungo nella notte, e dopo alcuni giorni raggiunse la sua città natia.
Silenziosi erano i colli e le stelle splendevano vivide e remote nell’oscura cappa che avvolgeva Endor: giunti che furono innanzi al cancello, nessuna voce li accolse, né alcun suono allietò l’animo di colui che era stato capitano sotto Tar-Palantir. Solo il silenzio diede il suo benvenuto ai due viaggiatori, e solo l’eco di quello che un tempo era stato echeggiava ora nel cuore di Erfea, mentre egli si aggirava tra rovine corrose dall’incuria del tempo. Nessuno, ad eccezione dei piccoli animali furtivi della notte, scorse i due uomini, ed essi mai fecero parola con altri di quanto avevano scorto.
Nulla fu detto del loro viaggio a ponente e i ricordi furono gelosamente custoditi; tuttavia gli storici ritengono che da quell’episodio sia sorta la forte amicizia che Erfea ed Anarion strinsero e che perdurò fino alla morte di quest’ultimo, durante l’assedio a Barad-Dur.

Trascorse alcune settimane nella città di Andunie, alla vigilia di Loende[5], Erfea si recò alla dimora di Amandil e gli rivolse la parola: “Forte è in me il richiamo delle spiagge della Terra di Mezzo, ed ecco il mio cuore anela ad esse. Giungo alle aule del signore di Andunie per salutarlo, affinché il suo destino possa essere diverso dal mio ed egli non abbia a disgiungersi dagli affetti che lo circondano.”
Silenzio regnò nella sala, mentre Amandil accarezzava la sua corta barba; infine così rispose al suo ospite: “Erfea, figlio di Gilnar, della casa degli Hyarrostar, le porte della mia dimora e di quelle della mia gente saranno sempre aperte per te. Ahimè! Qualunque sia il tuo compito in questa contrada, esso deve essere di gran lunga più arduo di quanto io possa immaginare: tuttavia, se tale è il tuo volere, possa la mia benedizione accompagnarti fino alla fine dei miei giorni, ché verranno tempi in cui il tuo volere plasmerà le sorti di tutti noi. Sono lieto di aver dato a te la mia più calda ospitalità, tuttavia rimpiango il poco tempo che ci è stato concesso per discutere di quanto hai appreso in questi sofferti anni d’esilio. Va’ ora e che la buona sorte ti accompagni ovunque si dirigano i tuoi passi!” [qui consiglio di leggere il seguente articolo: Sauron, il politico]

Erfea, sebbene non avesse sentore di quanto accadeva, pure avvertì tangibile la presenza di un’Ombra, la quale si dileguò rapidamente così come era giunta; allora, egli si recò nel cortile dell’Albero Bianco e ivi inginocchiatosi, ché esso era emblema di Varda e benedetto da Yavanna, ne colse un frutto, che ripose poi nella propria sacca. Rapido allora si allontanò, percorrendo sentieri sconosciuti ai servi di Mordor, finché, al calar del sole, non giunse al porto di Romenna, ove recuperò il suo naviglio; tardivi furono i guerrieri di Sauron, ed essi non lo seguirono in mare, ché temevano la collera di Osse di gran lunga rispetto a quella del loro padrone, né questi aveva potere sulle vaste acque del Belagaer. Calma era adesso la notte e il vento spirava nella direzione corretta, tuttavia Erfea non prese riposo, ma ritto sulla poppa, mirò allo specchio che Celebrian gli aveva donato, e il suo cuore ne fu sollevato, ché da tempo non osservava il dolce sembiante di colei a cui volgeva il pensiero grato. Lunga fu la sua navigazione ed egli molto dovette penare, eppure al termine di Yaramie, giunse alle bianche spiagge di Harlindon, ove Cirdan lo attendeva lieto. “Ben m’avvedo che quanto cercavi hai ottenuto, tuttavia non vi è letizia nei tuoi occhi.” Triste Erfea lo osservò, infine rispose: “Lungimirante è la mente di Cirdan del popolo dei Sindar! Invero un grande dolore alberga nel mio cuore ed esso non potrà mai essere lieto, salvo che il destino del mondo venga mutato e quanto accaduto di recente svanisca dalle menti ottenebrate.” Altre parole non pronunziò, congedandosi in tal modo dal Signore dei Porti: questi però scosse il capo e a lungo sospirò, ché i suoi occhi scorgevano in profondità negli animi degli Eldar e degli Edain più di chiunque altro nella Terra di Mezzo, ed egli tosto comprese quanto il silenzio del Dunadan avesse occultato.

Erfea Morluin, allontanatosi dal Lindon, si diresse in seguito alla volta della città di Tharbad, ove un tempo aveva vinto una grande battaglia contro i seguaci di Ar-Pharazon; tuttavia, pochi fra i cittadini serbavano ricordo di quell’evento e ancora meno osavano farvi accenno, ché molti e potenti erano i seguaci di Sauron e del re al Nord; abbandonata allora la città, egli intraprese un grande e periglioso viaggio, che lo condusse, attraverso la breccia del Calhenardon e i guadi dell’Angren[6], fino a Sud, alle dorate sponde dell’Anduin il Grande.
Altri uomini avevano occupato quelle contrade deserte e grande fu lo stupore di Erfea, allorché comprese che essi non erano soldati del sovrano, ma suoi consanguinei ed amici degli Eldar, fuggiti da Numenor alcuni anni prima. A lungo Erfea rimase presso codesti esiliati, condividendone le pene e la rabbia che covavano nei loro cuori: alcuni, infatti, avevano compreso che Numenor era per loro perduta e che mai più vi avrebbero fatto ritorno; altri, invece, figli di Numenoreani e delle donne locali, non erano stati ben accetti agli arroganti sostenitori del Re, che consideravano corrotta la loro discendenza, e fuggivano da essi.
Grandi edifici furono innalzati, e presto gli esuli ebbero dimore confortevoli situate su entrambi gli argini del Grande Fiume: in tal modo ebbe dunque origine la città di Osgiliath, che sarebbe divenuta la capitale del regno di Gondor nei secoli futuri, quando Numenor sprofondò negli abissi. All’epoca, tuttavia, ben pochi fra gli esuli avrebbero immaginato una simile rovina; sebbene, infatti, le opere che edificassero in quei giorni allontanassero dai loro cuori la nostalgia e le privazioni delle loro esistenze, esse non erano altro che pallide imitazioni di quanto i loro animi desideravano con veemenza e sapevano non poter più mirare. Torri e manieri, porti e santuari essi eressero a guardia di quelle contrade, ché il Nemico era molto potente ed essi temevano le scorrerie che gli orchi compivano nella notte: i reami degli Haradrim a meridione e quelli degli Esterling a settentrione ne segnavano i confini, mentre a levante, le lugubri fortezze di Mordor pullulavano di creature ricolme di nequizia; pure sarebbe giunta alla fine la vittoria, sebbene lo scotto che i Popoli Liberi avrebbero pagato sarebbe stato arduo da obliare.

In quei giorni Erfea prestava la sua collaborazione a quanti la richiedevano e cavalcava velocemente, percorrendo numerose leghe: ad est i suoi passi lo conducevano, per respingere l’Oscurità di Mordor, eppure il suo cuore ambiva alla splendente luce del Vespro, ed egli sovente guardava nello specchio donatogli da Celebrian di Rivendell. Una grande inquietudine si agitava nel suo animo, ché Inrive[7] era prossimo e nessun segno gli era giunto; infine una notte di Ringare[8], in sogno gli apparve Tar-Silwen, un tempo regina di Numenor e madre di Tar-Miriel, morta anni prima: a lungo ella gli parlò, sì ché il Dunadan comprese che il segno da lui atteso era finalmente giunto. Il mattino seguente, egli cavalcò ratto diretto al Mindolluin, un monte posto all’estremità orientale degli Ered Nimarais[9]; ivi giunto, percorse sentieri impervi, ignoti ai mortali, finché non raggiunse la vetta: il sole era appena tramontato e grandi nubi riflettevano i variopinti colori del tramonto. Erfea, compresa che l’ora prestabilita era giunta, scavò una fossa profonda un piede e larga altrettanto, ove ripose il seme dell’Albero Bianco; quando ebbe terminato, una voce parlò nella sua mente: “Hai operato bene, figlio di Numenor ed io farò sì che nessuno possa disturbare la sacra quiete di questo luogo, finché l’Erede non venga a reclamare il suo trono.”
Lentamente Erfea si chinò e ivi rimase in silenziosa preghiera, ché il suo compito era ora svolto; infine si levò, e l’ultimo scintillio del sole fu catturato dall’elmo in mithril che egli recava con sé, mentre discendeva lungo i declini scoscesi: più il figlio di Gilnar vi fece ritorno, finanche quando stabilì definitivamente la propria dimora nel regno di Gondor, ché smarrita era in lui la memoria di codesto luogo.
Eppure, lungimiranti furono i Valar e benedetto il coraggio del Morluin, ché Aragorn figlio di Arathorn, discendente di Elendil, fu incoronato Re di Gondor, e come narrano le cronache di quei giorni, insieme a Mithrandir[10] individuò e diede dimora al germoglio dell’Albero Bianco, erede del seme che il Dunadan aveva recato da Numenor, affinché fosse vivida testimonianza della maestà e della bellezza degli Antichi Giorni e auspicio di prosperità per i tempi futuri».

Note

[1] “Corno rosso” nella favella dei Noldor.

[2] Promontorio situato nella regione di Gondor, a sud delle Montagne Bianche.

[3] Regione di Mordor.

[4] Contrada posta ad est del fiume Celudin e abitata dagli Esterling.

[5] Il centottantatreesimo giorno dell’anno, detto anche di Mezza Estate.

[6] Il Calhenardon era una contrada posta a nord di Gondor e scarsamente abitata; durante gli anni del dominio di Sauron, tale regione fu fortificata e ne fu impedito l’accesso a chi non fosse servo dell’Oscuro Signore: codeste fortezze andarono tuttavia in rovina negli anni in cui Sauron fu tratto in catene a Numenor. L’Angren, chiamato dagli uomini del Rhovanion Inondagrigio, attraversava la breccia del Calhenardon nella sua lunghezza ed era immissario dell’Anduin.

[7] “Inverno”, nella favella degli Elfi Grigi.

[8] “Dicembre” nella favella degli Elfi Grigi.

[9] I Monti Bianchi.

[10] Mithrandir era uno degli Istari (stregoni) giunti da Valinor per aiutare le genti libere nella loro lotta contro i servi di Morgoth; egli era anche noto con il nome di Gandalf presso gli uomini del Nord, Tarkhun presso i nani ed Incanus nelle terre del Sud; pochi furono in grado di comprendere la reale identità che lo stregone celava sotto mentite spoglie, tuttavia in seguito alla sua di partenza si seppe che egli era un Maia di Manwe, il cui nome nelle lingua degli elfi di Valinor era Olorin.

One last time…

Prendo volentieri a prestito il titolo di una struggente canzone dei Dream Theater, un gruppo progressive-rock, contenuta all’interno dell’album Metropolis Pt. 2: Scenes From a Memory (1999) che, per certi versi, costituisce la colonna sonora di molti miei racconti, per presentarvi un altro estratto dal «Racconto del Marinaio e dell’Albero Bianco», che fa seguito alla narrazione iniziata nell’articolo Ritorno a Rivendell: l’incontro con Celebrian.
Prima o poi tornerò sul rapporto musica-scrittura: per ora mi limito solo a suggerirvi di ascoltare il brano citato mentre leggerete questo articolo. Non intendo svelarvi altri particolari per non rovinare la sorpresa, ma osservando con attenzione l’immagine posta in evidenza dovreste capire di quali personaggi questo brano racconterà…per l’ultima volta!
Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Durante la mattina, egli prese congedo dai signori degli Eldar, ed il figlio di Earendil ebbe per lui parole di conforto e speranza: “Ti saluto Erfea, paladino di Numenor! Possono i tuoi passi echeggiare nuovamente per queste aule. Lieti saranno i festeggiamenti, quando farai ritorno alla mia dimora, ché sempre il benvenuto sarai a Imladris. Giovane eri quando ti conobbi e il peso grave di innumerevoli anni è calato sulle tue spalle; saggezza hai appreso e la lungimiranza, dono della tua stirpe, ti accompagna. Allorché impervio ti sembrerà il tuo cammino, allora questo dono ti riporterà alla mente la bella dimora degli elfi nell’Eregion.”

Un grande corno fu mostrato ad Erfea, ed egli con gioia lo strinse nella sua forte mano. Lucido al tatto era e minuscole figure di avorio ne increspavano la solida superficie: vi erano ritratti Vingilot, il vascello di Earendil, che ogni notte solca il cielo di Endor, e la flotta dell’armata dei Valar in viaggio verso il Beleriand.

“Questo cimelio appartiene al tesoro della mia famiglia: Aegnor, un fabbro di Ost-in-Edhil lo scolpì, molti anni addietro, ché il ricordo della battaglia d’Ira non andasse smarrito. Esso reca incise rune di grande potere e molto gli orchi lo temono, ché tale corno fu reciso dal corpo di Ancalangon il Nero, abbattuto da Earendil in singolare tenzone; allorché le sue note riecheggeranno vivide, il timore atterrerà i tuoi nemici e nuova forza fluirà nel tuo animo e in quello dei tuoi compagni.”

Lieto divenne allora il volo di Erfea, sì che pareva avvolto da nuova luce: “Echeggia il corno dei Valar e gli amici accorrono: Auta i lòme! La notte sta per finire! Non era forse questo il grido di battaglia di Fingon, re degli Elfi, quando il mondo era ancora giovane e chiara splendeva la luce di Aman? Possa suonare nuovamente tale olifante ed atterrire gli schiavi di Mordor! Memoria imperitura conserverò di questa ora, ché, sebbene sia destino che i nostri percorsi dovranno nuovamente intersecarsi, molto tempo trascorrerà fino ad allora. Addio signore degli Eldar! Possa la tua grazia proteggere il tuo popolo e mai la tua saggezza venire meno; molto è stato perduto, eppure è un grande onore serbare il ricordo di Imladris e di quanto le sue mura proteggono.”

“Addio, discendente di Ciryatur[1], ammiraglio di Numenor! Possa quel giorno non tardare troppo! Qui io ti attenderò: che la benedizione dei Valar e di colui che è Uno proteggano i tuoi passi!”

Tale fu l’ultimo saluto tra Erfea ed Elrond ed invero trascorsero molti anni prima che i due si incontrassero nuovamente; tuttavia, poiché altrove[2] si narra di codeste storie, qui non se ne serba memoria. Il Dunadan era prossimo ad attraversare il guado del Bruinen[3], allorché gli sovvenne di non aver salutato dama Galadriel, la più antica e possente tra le donne elfiche; ratto tornò sui suoi passi, eppure non giunse mai dinanzi ai cancelli di Imladris, ché una dolce voce lo chiamò a sé: “Non angustiarti, Erfea, e non ritardare oltre la tua partenza; Galadriel ti nomina Amico degli Elfi, ed è questo il suo dono d’addio. A lungo soggiornerò sotto le chiome argentate di Lorien[4], finché il mio tempo non sarà giunto ed io abbandonerò questi lidi mortali; a te, Dunadan, dico che se la speme non dovesse morire del tutto, allora ella ti sarà accanto quando giungerà la fine.”

Profondamente grato, così le disse addio Erfea, figlio di Gilnar: “Signora degli Eldar, il mio cuore mi dice che questo non sarà il nostro ultimo incontro, ché in questi stessi giardini, quando giungerà nuovamente l’ora, discorreremo nuovamente. Addio, fino a quel momento.”

“Dunadan, sovente i sentieri degli Eldar incrociano quelli degli Edain, sebbene questo accada per ragioni che i Noldor non comprendono appieno. Eppure, se è vero che Earendil è erede di entrambe le stirpi, allora è probabile che i nostri destini siano più intrecciati di quanto sembri. Namarie[5], Amico degli Elfi. Elen sìla lùmenn’omentielvo. Una stella brilla sull’ora del nostro incontro.”

Preso commiato da dama Galadriel, Erfea attraversò rapidamente il guado di Bruinen, dirigendosi verso Brea nell’Eredior, ridente cittadina posta all’incrocio di due grandi strade numenoreane; celere fu il suo viaggio, ché egli era nel pieno delle sue forze e forte era divenuta nel suo cuore la nostalgia di Numenor. Numerose leghe egli percorse, finché non ebbe raggiunto la contrada di Forlindon, ove regnava Erenion, figlio di Fingon, che il suo popolo chiamava Gil-Galad: ivi si recavano i Caliquendi[6], per oltrepassare i confini del mondo mortale e giungere in tal modo a Tol-Eressea, creata dagli dei per quanti, tra coloro che abbandonarono Aman, fossero stati colpiti dalla Prima Profezia di Mandos[7], ma desiderassero altresì abbandonare le terre mortali.

Mithlond, i Porti Grigi, era la capitale del regno di Gil-Galad, l’ultimo Alto Re elfico ad oriente del Belagaer; tuttavia egli viveva nelle aule a nord del golfo di Lhun, mentre il suo capitano Cirdan il Sindar era signore delle navi e dei porti: anziano, eppure vigoroso, egli era saggio tra gli elfi e temuto da Sauron, ché secoli prima egli era stato respinto dal Lindon. In tale terra di splendore non ancora offuscato, simile ad un giardino nel mese di maggio, giunse Erfea Morluin e tre settimane erano trascorse da quando aveva dato addio alla dimora di Elrond di Imladris: lieti lo accolsero gli elfi ed egli non ne fu stupito, ché ben sapeva quanto i Dunedan fossero amati nel regno di Gil-Galad.

Numerosi porti i Numenoreani avevano edificato fin dal loro arrivo nella Terra di Mezzo, tuttavia Erfea non osava avvicinarsi ai loro minacciosi bastioni, ché tutti, ad eccezione di Pelargir nel Sud, erano caduti nelle corrotte mani dei servi di Ar-Pharazon, uomini avidi di scienza malefica e adoratori di Sauron e di Morgoth: costoro avevano l’ordine di trucidare il principe dell’Hyarrostar, qualora fosse ritornato in un dominio di Numenor, per portarne le spoglie al sovrano Ar-Pharazon, avversario di Erfea fin dai tempi in cui Tar-Palantir impugnava lo scettro.

Ai servi di Sauron, tuttavia, era negato l’accesso al regno di Gil-Galad, ed Erfea fu grato a Cirdan allorché questi gli donò un piccolo vascello ad un solo albero.

“Galadriel mi ha annunziato che questo oggi un Dunadan sarebbe giunto da me per imbarcarsi diretto a Numenor, ché una grande missione l’attende in tale contrada. Di rado i Sindar concedono le loro navi agli stranieri, ma io non ho obliato quanto facesti per la mia gente molti anni fa; concedimi dunque di annullare il debito che ho contratto presso di te.”

Rapido Erfea gli si inchinò, infine rispose: “Nessun debito hai mai avuto presso di me, ché le genti libere devono contrastare i servi del Vala caduto ovunque essi si annidino; in codesta occasione agii seguendo il mio credo, ed esso non è oggi mutato. A te, Cirdan, dico che questa sarà la mia ultima navigazione verso ponente, ché nuove frontiere si apriranno e il vecchio mondo cadrà: possano gli Ainur essere clementi, quando sarà giunta l’ora.”

Erano ormai calate le tenebre, quando Erfea veleggiò, la prua rivolta verso occidente; monotono fu il suo viaggio ed egli non scorse alcuna nave numenoreana, circostanza, questa, che lo sorprese non poco: una crescente inquietudine soffocava il suo petto, ché non v’era nulla per miglia e miglia.

Calmo era il mare e l’acqua opaca, sì che il creato sembrava attendere un evento terribile e mortale. Quindici giorni erano trascorsi da quando Erfea aveva abbandonato le coste di Endor, allorché la fitta nebbia che aleggiava il suo capo si dipanò, mostrando Numenor in tutto il suo splendore: colmo di gioia fu il cuore del Dunadan, ed egli levò una preghiera di ringraziamento a Manwe per aver diretto i venti nella direzione a lui favorevole. Tosto, però, la sua gioia si mutò in stupore e poi in sgomento, ché gli apparve, imponente e minacciosa, l’intera flotta numenoreana. Nel porto di Romenna[8], ove il figlio di Gilnar si accingeva a sbarcare, erano ormeggiate le navi che da lungi depredavano e saccheggiavano la Terra di Mezzo, cancellando ovunque la memoria di quanto i Numenoreani avevano compiuto per saggezza e non già spinti da odio e rancore. Imponenti, come torri lignee e d’acciaio, parvero i vascelli di Ar-Pharazon ad Erfea, ché pure aveva appreso la superba maestria degli uomini del mare nel fabbricare grandi imbarcazioni; sgomento parve il figlio di Gilnar, ché non comprendeva per quale motivo l’intera flotta del re giacesse in un unico luogo; tuttavia, allorché comprese, ritto sul suo vascello elfico, egli non poté che reclinare il capo e versare lacrime amare. A lungo pianse Erfea Morluin, ché manifesta gli era divenuta la follia degli uomini della sua patria e più non avrebbe potuto ignorarla; arrogante e vanitosa, Numenor si specchiava nella sua flotta, emblema della sua volontà di dominio sul creato. Come il contadino che mostra orgoglioso il suo campo ben curato, ignorando il deserto che si estende alle su spalle, così Elenna rendeva gloria a sé stessa e ai suoi figli, nutrendosi avida della propria potenza.

Triste spettacolo fu quello, eppure non fu il peggiore tra quanti Erfea ebbe modo di osservare nell’isola: silenzio non si udiva più, finanche negli antichi luoghi di culto, ma canti e urla echeggiavano ovunque; eppure non erano suoni gioiosi, ma risa crudeli, rese ancor più fragorose dall’inquietante silenzio che pareva aleggiare al di là dell’isola stessa. Numerosi uomini giravano pesantemente armati, come se una grande guerra fosse imminente; pallidi erano i loro visi e parola non proferivano, ché essi erano schiavi e non più uomini liberi: Erfea ne fu stupito, ché fin dagli albori del regno mai si erano vedute scene simili; eppure anche questa era opera di Sauron l’Aborrito, ché egli aveva ormai corrotto i cuori dei Numenoreani e molti tra loro avevano preso ad adorare Morgoth e i suoi oscuri poteri. Le menti degli uomini tosto si erano volte al male, sicché Numenor si ergeva come una novella Mordor e il Signore Oscuro ne era divenuto l’infido padrone. Ignote erano ad Erfea simili vicende, sebbene egli avesse appreso a Pelargir[9] racconti sulla spedizione di Ar-Pharazon nella Terra di Mezzo per umiliare Sauron, il quale era infine giunto a Numenor prigioniero; né il capitano dei Dunedan era a conoscenza di quanto in seguito era accaduto, ché Sauron da vassallo era divenuto consigliere, riducendo il sovrano ad un fantasma da pervertire secondo la sua oscura volontà: Ar-Pharazon aveva accettato senza esitazione alcuna, ché il Maia caduto sovente gli aveva ripetuto i grandi uomini prendono con la forza quanto desiderano.

A lungo vagò Erfea, occultato alla sguardo vigile dei servi del re, ma non già a quelli di Sauron, ché questi sapeva il suo avversario essere sull’isola; allora grande divenne la sua ira e chiamò a sé i suoi schiavi più potenti, gli Ulairi[10]: rapidi, gli spettri dell’Anello, si mossero alla ricerca del Dunadan, ché il suo nome era loro noto ed essi a lungo avevano covato odio contro di lui nei loro cuori; infine Khamul l’Esterling[11], il secondo dei Nazgul, ne avvertì la presenza e rapido corse da Sauron per comunicargli quanto aveva visto. Lieto divenne allora il signore di Mordor, ché il suo nemico gli si presentava inerme alla sua mercé, straniero nella sua terra natia; tuttavia, nel medesimo istante in cui il Nazgul aveva scorto Erfea tra la folla, a sua volta il figlio di Gilnar era divenuto conscio della sua presenza: manifeste gli apparvero allora le sue intenzioni, ché egli molto aveva appreso sugli Ulairi, sin da quando si era infiltrato nella loro grande fortezza nell’Estremo Harad, scoprendone nomi ed identità. Consapevole di essere stato individuato, Erfea comprese quale malvagità avesse allungato il suo bieco artiglio su Numenor, ché non aveva obliato quanto odio provasse Sauron nei confronti dei Numenoreani, fin dai lontani giorni dell’assedio ad Eregion e della successiva sconfitta che le sue armate avevano ricevuto per mano delle armate di Elenna.

Rapido divenne allora il passo del ramingo, ed egli si diresse verso Armenelos, ché ivi si trovava il luogo ove avrebbe dovuto compiere la sua missione; sul suo cuore gravava fitta la tenebra di Numenor e Sauron gli opponeva la sua forte volontà, desideroso come era di fiaccarne le forze, ché cadesse nella trappola da lui sapientemente tesa: nota gli era la missione di Erfea, ché grande era il suo potere in quell’ora oscura e solo alcuni fra i signori degli Eldar sarebbero stati in grado di occultare la propria mente dinanzi allo sguardo del più possente tra i servi di Morgoth.

Giunto innanzi al santuario del Menalterma[12], Erfea comprese che un grande potere era all’opera, lo stesso che adesso gli negava l’accesso alla sala dell’Albero Bianco; allora il Morluin suonò nel corno di Earendil e le sue paure svanirono, calpestate da note squillanti. A lungo echeggiò il corno, ed il suo suono fu udito in molte contrade di Numenor: nuove speranze suscitò nei cuori dei Fedeli, ché essi compresero come la Tenebra fosse di passaggio e non dominasse incontrastata, mentre i servi di Sauron chinarono il capo dubbiosi. A più riprese il corno di Erfea squillò nella notte; molte luci si accesero nelle case e la gente uscì per strada, mentre voci si levavo confuse; allora crollò la volontà di Sauron, ché non aveva obliato l’umiliazione inflittagli dai Valar nella Guerra d’Ira ed ecco il corno ricavato dal dragone Ancalangon il Nero spaccava le catene forgiate dalle sue turpi mani; convocati a sé i suoi servi egli abbandonò il luogo sacro ove si annidava, consentendo ad Erfea di entrarvi.

Molti fra gli abitanti di Numenor si destarono quella notte, ché sogni di ogni sorta disturbarono i loro sonni: mai visione fu però sì curiosa come quella che scosse il riposo di Ar-Zimraphel, sovrana dell’isola. Ella sognò di essere nel Luogo del Silenzio, ove mancava da molti anni, eppure non era questo che la sorprese, quanto la presenza di un uomo, il cui nome aveva obliato, accanto a sé: alto si ergeva vicino al santuario, e pur non pronunciando parola alcuna, le parve che la chiamasse a sé innumerevoli volte, prima che giungesse l’alba. Turbata si levò Ar-Zimraphel, ché non capiva quale significato avesse il sogno; infine stanca di attendere ancora, si recò nei pressi del Menalterma, soppesando lentamente ogni passo su un sentiero che ben pochi ormai osavano percorrere. Giunta sulla sommità del monte, si accorse con meraviglia di essere stata preceduta, ché un uomo aveva preso posto su uno degli alti scranni in pietra che il tempo impietoso aveva ormai corroso; sedutagli al fianco, la donna meditò in silenzio per alcuni istanti, infine ormai certa dell’identità dell’uomo, pronunziò lentamente queste parole: “Mai avrei creduto di rivederti in questo luogo, lo stesso che vide il nostro ultimo incontro. Il tempo ha forse offuscato i miei occhi, tuttavia non ho obliato né il tuo nome né il tuo aspetto.”

“Chi può dire perché tutto questo accada?” replicò l’uomo. “A lungo ho vagato, in regioni disabitate e pericolose, ove mai parola viene sussurrata, eppure nessuna contrada è ora ricolma dell’oscuro fetore di Sauron quanto Numenor. Non ti nascondo, figlia di Tar-Palantir, che il mio cuore ora sanguina; poca speranza nutro nella guarigione di questa terra e ancor meno della sua gente.”

“Mio signore – rispose Ar-Zimraphel – questa notte ho udito un corno chiamarmi a lungo, prima che il sole sorgesse: adesso riconosco in te l’uomo che l’impugnava con forza e disperazione.”

“Disperazione? – le fece eco il ramingo – Disperazione, regina di Numenor? Quale azione condotta in tempi oscuri non condurrebbe alla follia? Se il mio animo non dispera, è perché i miei occhi hanno veduto la luce di Aman e ad essa vogliono far ritorno.” Così grande parve l’ira di Erfea, che Ar-Zimraphel dovette chinare lo sguardo, profondamente turbata; tosto tuttavia la voce dell’uomo parve venire meno e la sua luce oscurarsi, ché rapido il suo risentimento decresceva. Silenzio seguì, mentre la regina e lo straniero evitavano l’uno lo sguardo dell’altra; infine non potendo tollerare ulteriormente quanto accadeva, egli prese nuovamente la parola: “Se ti ho recato offesa, domando scusa, ché non era mia intenzione rattristare il tuo animo già provato dall’oscurità di questi giorni.” Sospirò per alcuni istanti, infine le parlò ancora: “Non mi domandi per quale ragione Erfea Morluin sia ritornato nella sua patria, conscio del bando che grava sul suo capo?”

Sorrise Ar-Zimraphel, allorché gli rispose: “Invero, voci mi sono giunte da Endor, dai bianchi porti degli Eldar; quanto la mia mente ha a lungo ignorato, non lo può il mio cuore, ché la verità esso ha appreso.” Rise, ma il suono che echeggiò per la vallata contrastava palesemente con l’espressione che le si era dipinta sul volto: “Non temere, Erfea Morluin! Non provo alcuna rabbia. Se tale è la tua scelta, possa condurti ad un felice avvenire.” Infine si fece seria, e più non sorrise: “Cosa cerchi figlio di Gilnar? Numenor non è più la tua patria, dunque allontanati in fretta dalle sue coste; qualora tu non seguissi il mio avvertimento, ecco che Ar-Pharazon porrebbe fine alla tua esistenza. Va dunque, e che la fortuna non ti volti le spalle, lasciandoti cieco ed inerme.”

Tali furono le parole che adoperò Ar-Zimraphel, sovrana di Numenor, ed ella si apprestava ad abbandonare la recondita valle, allorché Erfea la chiamo dolcemente: “Non ho obliato il tuo nome, Miriel figlia di Palantir, né il tuo grazioso sembiante. Se incauti sono stati i miei passi in questi giorni, tuttavia essi mi hanno condotto ove il mio cuore desiderava giungere.” Immobile, Miriel ascoltò la voce del paladino, infine si voltò e per un attimo ad Erfea parve che l’antica luce brillasse nuovamente nei suoi occhi: “Molto tempo è trascorso da quando le mie orecchie ascoltavano sussurrare questo nome nelle dolci veglie dell’Estate, ché esso è morto anni fa. Tuttavia se Erfea Morluin l’ha pronunciato, un preciso movente l’ha spinto a fare ciò.”

Annuì triste il figlio di Gilnar: “Letale è il veleno che l’Avversario ha sparso in quelli che una volta erano verdi prati e sorgenti cristalline, ed essi ora marciscono, avvizziti ed infettati; tuttavia, con rabbia percepisco quanto dolore alberghi nel tuo cuore, regina di Numenor.”

Rise allora Miriel, e mai suono fu più grottesco e orribile ad udirsi: “Regina? Su cosa eserciterei il mio dominio, Erfea? La dignità, l’onore, l’amore, tutto quanto avevo di prezioso mi è stato sottratto con l’inganno; persino il più povero tra i pescatori della costa gode di miglior fortuna. Una volta mi dicesti che la buona vigna offre un vino senza pari, eppure essa è stata deturpata molti anni fa! Lacrime di sangue e non nettare dolce sprizzano dalle sue ferite! Regina? Direi piuttosto prigioniera delle medesime debolezze che allora frenarono la mia volontà ed oggi mi impediscono di commettere atti di valore.”

Pallido divenne il volto di Erfea, ché aveva compreso a cosa alludesse: “Non confondere coraggio con viltà, mia signora! Forse vi è ancora speranza, finché gli Ainur reggono le sorti del nostro mondo.”

Avvampò d’ira Miriel e grave squillò la sua voce: “Ciechi sono i tuoi occhi e sterile la tua fede! Chi impugna adesso corona e scettro? Non è forse Ar-Pharazon, che la mia debole mano fermò dall’ottenere giusta condanna? Non vi è più speranza alla quale possa aggrapparmi, come naufrago nel fortunale.” Silenzio regnò per alcuni istanti, infine Erfea levatosi e presale dolcemente la mano, così la confortò: “Mente angosciata può partorire incubi aberranti; nulla però ti obbliga a prendervi parte. Qualunque sia il tuo parere su questa faccenda, Miriel, resti ancora una donna e non già una schiava.”

Gravi erano state le parole di Erfea Morluin, ed egli si attendeva dura replica; grande fu il suo stupore, tuttavia, allorché la signora di Numenor gli si accostò, sussurrando tristi parole: “Da lungi la mia mente vacilla, sebbene lontano da me sia l’acredine verso i Valar che ossessiona mio marito; non è a te che imputo la responsabilità per quanto è accaduto, ché un altro cammino avrei potuto percorrere se non avessi dubitato delle tue parole. Sebbene la mia speme nei Valar sia smarrita, tuttavia non è nella mia volontà contrastare l’azione di quanti ancora scorgono i loro disegni; essi sono però alquanto oscuri e la mia vista è offuscata, ché gravi nubi si addensano.”

Altro non disse Miriel e, abbandonato il Luogo Del Silenzio, discese lungo il sentiero che conduceva ad Armenelos, sede dei re; più Erfea Morluin la vide, ché i tempi erano ormai mutati e l’erba avvizziva sotto i suoi piedi: turbato la guardò allontanarsi, figura silenziosa sotto il sole nascente, i suoi biondi capelli svanire come bruma al mattino. “Namarie” le sussurrò Erfea, incurante di non essere udito e infine si mosse, ché l’ora era tarda e il suo compito lungi dal concludersi».

Note

[1] Ammiraglio di Numenor e signore dell’Hyarrostar, sconfisse nell’anno 1700 della Seconda Era le armate di Sauron al termine della guerra che seguì la forgiatura dell’Unico.

[2] Si veda “Il racconto del marinaio e del Re Stregone”.

[3] Tale corso d’acqua segnava il confine tra le terre di Elrond e le distese desertiche dell’Eriador.

[4] Contrada boscosa posta alla confluenza dei fiumi Celebrant e Anduin, governata durante la seconda era dall’elfo Sindar Amdìr: dopo la sua morte nella battaglia della Dagorlad, il reame fu governato dal figlio, Amroth, il quale tuttavia disparve in mare; essendo venuta a conoscenza di tale avvenimento, Galadriel e suo marito Celeborn fecero ritorno a Lorien, ove gli elfi accettarono di buon grado la loro potestà.

[5] “Addio” nella favella dei Noldor.

[6] Gli Eldar che avevano visto la luce dei Due Alberi ed i loro discendenti nati nella Terra di Mezzo.

[7] Mandos, Vala e Signore del Destino profetizzò che nessuno degli Eldar che avevano seguito Feanor, avrebbe fatto ritorno ad Aman; tali parole non furono mai obliate dagli Eldar in esilio ed essi erano soliti narrare della loro triste sorte riferendosi alla “Prima profezia di Mandos”. La Seconda profezia di Mandos concerne la fine del mondo e il fato ultimo dei figli di Eru, tuttavia essa non è mai stata divulgata apertamente e ben pochi, perfino tra i Signori degli Eldar, ve ne fanno cenno.

[8] Porto orientale di Numenor, situato presso la città di Armenelos.

[9] Città fondata nella tarda Seconda Era dai Numenoreani fedeli all’alleanza con gli elfi e i Valar alla foce del fiume Anduin.

[10] I Fantasmi dell’Anello, noti nella favella di Mordor come Nazgul.

[11] Tale termine indica coloro che tra i Secondogeniti si stabilirono ad est del Rhovanion: in senso improprio è talora adoperato per indicare quanti fra i servi umani di Morgoth scamparono all’ira dei Valar nella battaglia che rovesciò Thangodrim e fuggirono nelle regioni Orientali della Terra di Mezzo, ove preservarono il loro odio verso gli Eldar e gli Edain.

[12] Monte di origine vulcanica, sulla cui sommità era stato eretto un tempio dedicato a Manwe Sùlimo.

Ritorno a Rivendell: l’incontro con Celebrian

Abbiamo lasciato Erfea deluso ed amareggiato per non essere riuscito a ricongiungersi con Elwen alla fine del racconto narrato in Il nemico del mio nemico…è mio nemico. Dopo lungo peregrinare, Erfea prende la decisione di far ritorno alla casa di Elrond, a Imladris; è stato già ospite del più sapiente mezzelfo della Terra di Mezzo quando, da ragazzo, prese la decisione di far rotta verso le sponde del Lindon, per conoscere meglio gli efi e la loro cultura. Nella bella valle di Gran Burrone Erfea è alla ricerca di un consiglio che possa mettere pace nel suo animo tormentato…e lo troverà stringendo amicizia con uno dei personaggi meno noti del Signore degli Anelli: Celebrian, moglie di Elrond e madre dei gemelli Elladan ed Elrohir e di dama Arwen.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Tenebrosi divennero i giorni di Numenor, l’isola del dono, al termine della Seconda Era della Terra di Mezzo, ché sedeva sul trono marmoreo Ar-Pharazon il Dorato, mentre i Fedeli fuggivano da Andunie, timorosi della follia e della crudeltà del sovrano.

Anni amari erano trascorsi, tra cupi silenzi e dolorosi rimpianti, ché gli uomini di Endor stentavano ad opporre resistenza agli eserciti che gli Ulairi, gli schiavi dell’Anello, comandavano in battaglia. Molte genti fuggivano ad occidente, ché ivi correva voce si compiessero splendide geste per opera di coloro che si opponevano al nero nemico di Mordor, ora sbaragliandone le sue schiere in battaglia, ora sventandone le subdole azioni che costui perpetuava a danno dei Popoli Liberi.

Negli Ered-Luin, aveva dimora Gil-Galad, l’ultimo degli Alti re elfici ad est del Grande Mare: saggio e lungimirante era il suo pensiero e molte genti lo temevano e lo onoravano, ed egli era il massimo avversario di Sauron di Mordor; finanche il Re-Stregone avrebbe avuto tema di affrontare il figlio di Fingon, ché numerosi erano i suoi poteri e forte il suo spirito, temprato dalle innumerevoli avversità che egli aveva affrontato e vinto nel corso della sua lunga esistenza. Numerosi uomini d’arme si riunirono sotto il suo vessillo, ed il suo regno non conobbe mai le pene dell’occupazione e la schiavitù per mano degli schiavi dell’Oscuro Signore.

L’araldo di Gil-Galad era Elrond il Pheredil[1], figlio di Earendil, il custode del Silmaril e sentinella dei cieli di Endor: grande era la sua saggezza e bello il portamento, ché in lui brillava la luce della stirpe materna, giunta da Valinor in epoche remote di cui pochi adesso si rammentano, ché l’antica stirpe è svanita quasi del tutto e i litorali più non echeggiano del lamentoso canto del gabbiano.

Nei giorni in cui si svolse tale storia, Elrond dimorava nel Rivendell; ivi aveva edificato un palazzo, chiamato Imladris nella lingua elfica, bastione a guardia degli orrori di Mordor: numerosi Eldar erano all’opera in quella valle, nascosti alla nequizia di Sauron e dei suoi schiavi, ed essi sovente accorrevano in aiuto di coloro che sfuggivano la morte o la schiavitù, fossero questi consanguinei o di altre stirpi.

In breve tempo, il nome e la sapienza di Elrond si diffusero in tutta Endor, destando, ovunque gli insegnamenti dei Valar non fossero stati obliati letizia e speranza; eppure il potere del nemico era invero possente e lungo il suo braccio, ché molte vite furono spezzate in quei giorni ormai obliati e il destino del mondo si apprestava a mutare nuovamente, nel lento declino di un’era ormai giunta al termine. Fu in quegli anni che Imladris divenne un rifugio per coloro che fuggivano l’Ombra dell’Est, ed Elrond applicò la sua arte di guarigione innumerevoli volte, ché i veleni diffusi da Sauron avvizzivano il fragile cuore degli uomini, così come la neve in Sùlimo[2] soffoca i virgulti benedetti da Yavanna[3]; tuttavia, mai il Pheredil disperò, in preda a confusione e timore, ché la sua mente non era stata deturpata dalla favella del Nemico e la sua arte lo preservò dalle fatiche e dagli affanni, finché la sua opera non fu compiuta ed egli abbandonò le sponde mortali per recarsi al di là del mare, sancendo in tal modo l’inizio dell’era del dominio degli uomini.

Nell’epoca precedente, tuttavia, forti brillavano i raggi del sole e della luna e negli Eldar l’amore per Endor non era ancora svanito: grandi opere essi compivano ed i Dunedain di Numenor in quei giorni tristi furono sempre al loro fianco. Grande fama aveva tra essi Erfea Morluin, della casata degli Hyarrostar, ed il suo nome era noto sia al Nemico, sia a quanti lo contrastavano. Un durevole legame d’amicizia aveva stretto Elrond con questi, fin da quando Erfea era stato condotto nella Terra di Mezzo dal padre Gilnar, affinché conoscesse ed amasse i Priminati; tosto il giovane Dunadan era stato affascinato dalle arti degli Eldar, ed Elrond aveva compreso quale sarebbe stato l’avvenire di Erfea, ché questi avrebbe acquisito grande fama presso i Popoli Liberi, qualora Sauron si fosse levato nuovamente. Numerose giornate il signore di Gran Burrone trascorse con il giovane Numenoreano, e molto apprese costui delle possenti arti e della scienza degli elfi, sicché in breve tempo si dimostrò esperto di tradizione.

Numerosi anni erano trascorsi dal loro ultimo incontro, tuttavia Elrond presagiva che il capitano di Numenor sarebbe nuovamente giunto alla propria soglia, ché nel mondo la Tenebra si infittiva e dolore e tormento laceravano l’animo di Erfea Morluin; accadde dunque che una notte di Viresse[4], un uomo stanco chiamasse al cancello il sire di Imladris, domandando ospitalità per la notte.

“Mio signore – tali furono le parole che il ramingo pronunziò dinanzi al figlio di Earendil – concedimi di trascorrere qualche ora di riposo nella tua sala, ché il mio corpo vacilla e sulle mie spalle grave pesa la stanchezza.”

“Viandante proveniente da remote regioni, deponi il tuo fardello nella mia dimora, ché l’oscurità rapida cala, e i sentieri si smarriscono nella bruna menzognera. Può un uomo o un elfo percorrere il suo cammino in simili condizioni?”

“Chiedo perdono, grazioso signore, eppure sovente la mente è infida quanto la nebbia vespertina. Pesante è il mio cuore, ché domande attendono risposte smarrite molto tempo addietro.”

“Non turbarti, Ramingo! Lieto sia il tuo cuore, ché questa notte nulla lo turberà. Dormi, e che sia il tuo un sonno benedetto da Elbereth.”.

Inchinatosi profondamente, il viandante fu condotto nella sua dimora, ove tosto cadde preda di un sonno profondo.

La mattina seguente, destatosi al primo sorgere del sole, quando la rosea alba indora le cime lontane di freddi colori, l’uomo si recò nel grande parco che circondava la sala ove aveva trascorso la notte: ivi, egli udì parole frammiste a risa; inquieto, si incamminò allora lungo il sentiero, lasciandosi guidare dall’eco, che ora distinto, ora remoto, gli giungeva.

Il ramingo attraversò graziosi ponti sospesi tra le cristalline e ridenti acque di ignoti torrenti, costeggiò alte siepi e ammirò statue imponenti i cui artisti dimorano ora nelle lontane Terre Imperiture; giunto infine nei pressi di un laghetto egli arrestò i propri passi ché il sole era ormai sorto per reclamare il suo dominio sulla terra mentre le cerulee acque erano increspate da una brezza marina recante con sé la dolce essenza della lontana Elenna. Commosso, il viandante lasciò scivolare via la sua profonda cappa, rivelando una capigliatura corvina e un viso logorato dalla rabbia e dal dolore, figli di quei tempi ormai obliati: a lungo ispirò profondamente, quasi volesse assaporare l’Oceano che, lungi da Imladris, lo invocava alla sua dimora.

“Cosa cercate mortale? Mai vi avevo veduto prima d’ora in tale luogo.” Ratto si voltò Erfea, ed il suo sorriso si deformò in una smorfia incredula, ché davanti a sé aveva una dama elfica avvolta in uno scuro manto, nel cui volto, occultato da un pesante velo, sfavillanti occhi adamantini lo osservavano severi, eppure curiosi. A lungo il ramingo ne sostenne lo sguardo, infine turbato le rivolse la parola: “Credevo di aver ascoltato parole frammiste a canti, ma la mia mente vacilla, ché invero mi era parso di ascoltare il dolce canto di una dama a voi affine.”

“Offuscata è forse la vostra vista, tuttavia, le vostre parole hanno destato in me grande curiosità. Il sole è sorto da poco, e immagino che voi non abbiate ancora desinato. Suvvia! Concedete a Celebrian di Imladris, figlia di sire Celeborn e dama Galadriel, di porre ammenda all’offesa che vi ho recato poc’anzi.” Rise allora e parve che l’intera vallata echeggiasse della letizia che tale suono esprimeva. Tosto lo straniero le si inginocchiò e presale dolcemente la mano la baciò, pronunciando tali parole: “Sono io, mia cortese dama, a domandarvi perdono, ché da lungo tempo conosco i signori degli Eldar, e benedetti sono i loro nomi presso la mia stirpe. Ben m’avvedo adesso quanto simile ai loro visi sia il vostro, tuttavia sovente il desiderio confonde presente con passato, realtà con finzione.”.

A lungo lo osservò Celebrian, infine volto lo sguardo ad occidente, sospirò: “Chi può dire quali siano i destini degli Edain e degli Eldar? Remoti sono ormai i tempi dei due Alberi di Valinor, pure il mio cuore mi dice che non è lontano il giorno in cui le due stirpi si incontreranno nuovamente e allora questa era della Terra di Mezzo giungerà al termine.”

Sospirando nuovamente, si rivolse ancora al suo interlocutore scuotendo il capo: “Mio signore, il vostro arrivo mi era noto da molti giorni, eppure i miei occhi non sono stati pronti nel riconoscervi, Erfea, della casata degli Hyarrostar, colui che chiamano il Morluin nelle contrade di Endor. Non siete forse voi il pellegrino che è giunto questa notte, chiedendo ospitalità a sire Elrond? La vostra vicenda mi è nota, paladino di Numenor, ché possente è la lungimiranza degli Eldar ed amore nutre ancora il loro cuore per la dimora che scelsero in tempi remoti.”

“Ebbene, Celebrian di Imladris, sappiate che numerosi soli e lune ho scorto vagando in terre straniere, ché dubbi e timori oscuravano il mio animo, e molte risposte questo attende. A lungo ho cercato la bella dimora di Elrond, ma il mio cammino è stato ostacolato dagli inganni del nemico, vigile all’interno della sua oscura torre.” Lentamente annuì Celebrian, infine si mosse leggiadra, come una brezza primaverile proveniente dalle Terre Imperiture al di là dell’Oceano; Erfea la seguì ed ella lo condusse attraverso acque e luce, foglie e vento, finche non prese posto su di un altro scranno, invitando con grazia il Dunedan a sederle accanto: questi non tardò a chiederle per quale motivo lo avesse condotto in quel luogo ameno. Lieta in volto così gli rispose l’erede di Celeborn: “Sii paziente, Erfea figlio di Gilnar, ché l’ora da te sì desiderata è infine giunta.”

Breve fu l’attesa, ché d’un tratto due alte figure percorsero il sentiero che conduceva agli alti scranni di pietra: con interesse le esaminò Erfea, eppure le loro fattezze erano celate da un manto grigio e da una cappa di seta bianca che copriva i loro volti. Ignote erano al Dunadan le loro identità, e queste sulle prime non pronunciarono alcuna battuta; tuttavia una grande maestà splendeva come aura sui loro corpi, sì che Erfea a lungo tacque meravigliato.

Infine, Celebrian si levò dallo scranno, e fatto un piccolo ma grazioso inchino rivolto alle due figure, così parlò: “Ecco il capitano di Numenor, Erfea figlio di Gilnar della casata degli Hyarrostar, colui che chiamano il Morluin; egli è qui, ché grande è il suo disio di discorrere con i signori dei Noldor.”.

Lentamente risposero i due esseri: “Grande è invero il dolore che affligge questo uomo, tuttavia gli Eldar sono giunti al crepuscolo e più non si occupano di quanto accade in queste contrade.”

Lesta fu la risposta di Erfea: “Eppure, vi è tra gli Elfi colui che discende da stirpe immortale e mortale. Non è egli forse Elrond di Imladris, signore di questa dimora ove noi ora discorriamo? Se fosse qui, si ricorderebbe di me, ché quanto afferma dama Celebrian corrisponde al vero: il figlio di Earendil mi conobbe tempo addietro, tuttavia non dubito che saprebbe riconoscermi anche adesso.”

Facendo scivolare via la cappa, la figura più alta sorrise mentre tali parole pronunziava: “Non sbagli, figlio di Numenor, che Elrond non ha obliato l’antica alleanza con gli Edain, stretta all’epoca delle guerre contro Morgoth, né il ricordo di Erfea è stato cancellato; le fatiche non gravavano ancora sul tuo capo, quando giovane giungesti a me anni addietro: sappi però che le tue fatiche sono lungi dall’essere terminate, ché l’Oscurità si infittisce e la Terra di Mezzo si consuma nel suo inesorabile logorio. Eppure, finanche in questa ora buia, la speme non è ancora svanita, ché i signori degli Eldar non sono inattivi, e le loro mani leniscono le sofferenze che Sauron, l’Oscuro Signore di Mordor arreca a coloro che gli oppongono resistenza”.

“Ahimè, questi giorni oscuri inaridiranno la speme nel cuore di molti uomini – interloquì l’altra figura – già odo il clangore delle armi e le urla dei guerrieri turbare la pace di Endor; simile ad una pestilenza, così l’ombra di Sauron prospera e si diffonde. Tuttavia, vedo innanzi a me un Dunadan della stirpe di Elenna, capitano dei Fedeli, e il mio cuore si rallegra, ché fin quando la tua stirpe prospererà, allora Galadriel di Eregion canterà lieta nei giardini di Lorien. Suvvia Erfea! L’antica stirpe non è del tutto svanita; sebbene essa viva il suo crepuscolo, è ancora lontano il dì della dipartita dell’ultimo vascello per Valinor. Fino a quel momento, possa regnare la concordia fra le nostre stirpi, ché essa possa essere tramandata a quanti verranno dopo di noi.”

Erfea, inchinatosi profondamente dinanzi ai signori degli Eldar, così parlò: “Mai ho disperato di perdere la speme, ché essa anima il cuore di quanti vagano, raminghi obliati e senza nome, cacciando ovunque i servi di Sauron; eppure il mio spirito è tormentato ché esso anela tornare alla sua terra natia. Quale sarà la mia scelta? Io chiedo ai signori degli Eldar qui presenti, di dissipare i miei dubbi.”

A lungo tacquero i tre elfi, infine Celebrian prese la parola: “Ignoro quale ragione ti spinga a ritornare a Numenor, eppure ben m’avvedo che è tuo desiderio far vela verso la dimora dei tuoi padri. Gli Eldar non sono soliti dare consigli, perché questi sovente si rivelano infidi e oscuri da comprendere; tuttavia, poiché sei stato tu a domandarlo, dirò quanto ho in serbo nel mio animo.” Tacque qualche minuto, infine parlò nuovamente: “Il tempo di Numenor è prossimo a terminare; non vi è alcun ragione che ti costringa a recarti nell’isola del Dono. Sii cauto, Erfea Morluin, ché un grande male è all’opera nella tua patria e io temo per la tua vita: al di là del Belagaer vi è solo morte; piuttosto fa vela ove al tuo animo è stata inflitta offesa, ché il mio cuore mi dice che rivedrai ancora di Elwen di Edhellond prima che questa era finisca.” Tali furono le parole che Celebrian adoperò; eppure mentre parlava, il suo sguardo cadeva sovente sul volto di Elrond e ad Erfea parve che una lieta luce brillasse nei suoi occhi.

Il sire di Imladris attese qualche istante, infine si pronunciò: “Quanto Celebrian sostiene, corrisponde a verità; io, tuttavia, non dirò se il suo consiglio sia buono o meno. Se il tuo cuore anela le bianche spiagge di Elenna, è forse destino che tu debba compiere un’altra impresa in tale contrada, prima che il suo tempo giunga a conclusione. Oscuri sono i disegni dei Valar, e tra i Primogeniti, finanche i Noldor vi possono leggere ben poco.” Così parlò il figlio di Earendil, tuttavia cos’altro il suo cuore presagisse non è stato tramandato.

Per ultima, infine, dama Galadriel prese la parola, ed invero il suo consiglio si dimostrò prezioso: “Udito hai dunque i pareri di due tra i signori dei Noldor. Ascolta adesso quello che ti dirò, ché molto temo Sauron e la sua perfidia. Ad Elenna il tuo sentiero ti conduce, che tu lo voglia o meno. Non ignorare gli avvertimenti di Elrond e Celebrian, ché grande è loro saggezza e lungimiranza; tuttavia, ivi, un ultimo compito ti attende. Non è solo la sopravvivenza dei lidi che ami ad essere in pericolo, Erfea figlio di Gilnar, ma anche la stirpe a te consanguinea. Affrettati, dunque, ché i tempi sono ormai maturi e la guerra è prossima: doloroso sarà il tuo peregrinare e molto soffrirai, eppure il mio cuore mi dice che ivi troverai la risposta ai dubbi che affliggono il tuo spirito.”

Dopo aver meditato per qualche istante, così Erfea rispose: “Se tali sono i vostri pareri in questa faccenda, la mia decisione è tosto presa; mi recherò ad Elenna, ché molta nostalgia il mo cuore nutre per Minas Laure[4] e Armenelos la bella.” Tali furono le sue parole, ed egli quel giorno non volle aggiungere altro.

Il mattino seguente, mentre Erfea affilava la sua lama, Sulring[5] di Gondolin, Celebrian gli rivolse la parola: “Mio signore, oscuro è il tuo volto e silente la tua voce. So cosa temi, tuttavia non è in mio potere alleviare il tuo dolore; eppure, non desidero che tu abbandoni la dimora di Elrond, senza che io ti abbia fatto dono di quanto desideri.”

Inchinatosi profondamente, così le rispose Erfea: “Mia signora, nessun dono o ricompensa potrebbe lenire il mio dolore; tuttavia, è stata per me gioia senza pari aver mirato il volto di dama Celebrian, prima che i giorni si ottenebrino nuovamente.”

Graziosamente rise la figlia di Celeborn: “Ben m’avvedo quanto la tua gentile favella non sia inferiore a nessun’altra tra quelle possedute dai figli di Eru, fossero finanche gli eredi di Feanor! Tuttavia il mio dono, sebbene non possa renderti quanto il tuo cuore brama di possedere, ti sarà di conforto allorché grande sarà il suo rimpianto.”

Così dicendo, Celebrian estrasse dal suo manto un piccolo specchio, incastonato in una cornice di mithril e laen azzurro, e lo consegnò al capitano di Numenor: “Tale è il suo potere, per cui la tua malinconia sarà sanata; tale artefatto mi fu donato da Celembrimbor, prima che l’Eregion fosse devastato e io l’ho custodito fino ad oggi; temo tuttavia che a me non sia più utile, ché quanto desidero è a me prossimo, pur essendo il suo destino ancora disgiunto dal mio.”

Commosso, Erfea le baciò la mano, infine prese la parola: “Gentile e graziosa dama, il tuo dono sarà per me simbolo dell’amicizia che lega le nostre stirpi. Possa questa alleanza perdurare anche quando i tempi saranno mutati.”

“Va’ adesso, figlio di Numenor! Lunga e impervia è la tua strada, eppure ti dico che ci vedremo ancora una volta.”

Ammutolito dalla grazia e dalla bellezza che splendevano in Celebrian, Erfea non trovò altre parole per ringraziarla e breve fu il suo commiato: “Che i Valar abbiano cura di te e che realizzino il tuo disio. Ardua è l’attesa, tuttavia la Primavera di Arda non è terminata e nuovi virgulti fioriranno prima che giunga l’Estate.”

Triste fu il commiato da Imladris, ché ad Erfea parvero che fossero trascorsi numerosi inverni da quando aveva varcato l’ingresso della dimora di Elrond ed ora era restio ad abbandonarla, sebbene la volontà di recarsi a Numenor non venisse meno.

Note

[1] Pheredil (Mezzelfo, in Quenya) indicava chiunque avesse avuto genitori appartenenti ad entrambe le stirpi figlie di Eru: al termine della Prima Era, i Valar imposero ai mezzelfi un’ardua scelta, che obbligava loro a privilegiare la vita immortale degli elfi oppure il dono che Eru aveva offerto agli uomini, la morte. Elrond scelse di appartenere alla stirpe della madre, mentre suo fratello Elros scelse la mortalità e divenne il primo sovrano di Numenor.

[2] “Marzo” in Sindarin.

[2] Valar e signora della Terra, chiamata sovente Kementari (“apportatrice di frutti” in Quenya)

[3] “Aprile” in Sindarin

[4] Minas Laure era la capitale della contrada dell’Hyarrostar e città natale di Erfea Morluin.

[5] Sulring , (“Vento di ghiaccio” nella lingua Sindarin), fu consegnata ad Erfea dalle mani di Gil-Galad, l’Alto Re dei Noldor in esilio, allorché il Dunedan ebbe compiuto ventuno anni: essa era stata forgiata a Gondolin da Galdor, fabbro del re e custode della porte; come molte lame elfiche della Prima Era, il suo filo riluceva allorché vi erano degli orchi od altri servitori di Morgoth nelle vicinanze.

Sauron, il politico

In numerosi commenti dei miei lettori pubblicati nelle ultime settimane si è accennato al poco spazio concesso da Tolkien a Sauron, non tanto inteso come «motore primo» delle vicende del suo «legendarium» (basti pensare che proprio all’Oscuro Signore è dedicato il titolo del suo più famoso romanzo, «Il Signore degli Anelli»), quanto come personaggio agente in primo piano, allo scopo di mettere in piena luce la sua intelligenza, la sua abilità oratoria e, naturalmente, la sua lucida malvagità. Ho perciò deciso di dedicare alcuni articoli alla trattazione della sua figura – in attesa di riprendere l’analisi sul potere dei Grandi Anelli – che siano in grado di offrire nuovi elementi utili a ricostruire e approfondire l’immagine di Sauron. Questo primo articolo sarà dedicato alla figura dell’Oscuro Signore all’epoca in cui, nei panni di Annatar, sedusse Ar-Pharazon e la maggior parte dei Numenoreani, spingendoli all’adorazione di Morgoth e portando tale popolo alla sua distruzione. Buona lettura!

«Isolato da quanti gli procedevano accanto, un’imponente figura si ergeva alla sinistra del signore di Elenna, avvolta in vesti scure ricamate in oro: a lungo Erfea l’osservò, infine, con un fremito d’orrore, comprese che le fattezze umane di cui la figura si ammantava, invisibili sotto l’oscura cappa, altro non erano che una larva entro la quale lo spirito di Sauron prendeva vita; grande fu la paura del Dunadan, allorché comprese l’identità di Gorthauron l’Aborrito, e i suoi occhi si chiusero, nauseati da quello spettacolo di morte. Infine, con un grande sforzo di volontà, guardò nuovamente, e fu come se l’aura di Sauron fosse stata dissolta dalla brezza marina; allora il principe rimembrò le antiche tradizioni e con sollievo comprese la sua vita e la sua anima essere al sicuro fin quando non avesse abbandonato il Meneltarma, consacrato fin dagli albori di Numenor a Manwe.

In basso, i tamburi presero nuovamente a rullare, occultati alla vista del ramingo, e le trombe squillarono; non era tuttavia una melodia piacevole a udirsi, ché nessuna eco risuonava dai colli e minacciose nubi si approssimavano da settentrione: tutto tacque, infine, allorché Sauron levò la mano, svelando il proprio volto alla folla trepidante: “Un nuovo giorno sorge, eppure già ascolto i suoi rantoli spegnersi nella frescura della notte. In catene fui condotto qui, tuttavia mai intesi sfidare le gloriose armate del Re degli Uomini”. Tacque un attimo, mentre alcune esclamazioni della folla rompevano il silenzio. Infine parlò nuovamente, e coloro che erano presenti furono soggiogati dalla sua volontà: “Molte leggi hanno tramandato i vostri padri, inique per gli uni, gloriose per altri: simili a insetti nocivi hanno tormentato la vostra esistenza, eppure nessuno di voi ne ha mai compreso l’oscura e infida origine. A voi, Uomini di Numenor, sovrani di Endor, dico questo: mai vi fu, fin dagli albori del tempo, stirpe sì gloriosa e degna di essere chiamata signora tra tutte, come quella che ora solca in lungo e largo gli oceani sconfinati”. Numerose esclamazioni di gioia ed entusiasmo eruppero spontanee, eppure l’Oscuro Signore non ne fu spiaciuto, ma seguitò a parlare: “Le leggi che fino a oggi avete onorato o disprezzato, i Valar e gli Eldar hanno ordinato che fossero gli Uomini a seguire, senza tuttavia mai svelarne la ragione; ebbene, folli si sono rivelati i loro progetti, ché nulla di quanto complottano mi è ignoto. Eru Iluvatar creò Ea e ne dispose la forma a suo piacimento, seguendo il proprio volere: otto fra gli Ainur ne seguirono la volontà e ne ressero le sorti, gli stessi che affidarono Numenor alla vostra gente”.

Fredda era divenuta ora l’aria e lampi minacciosi saettavano a Nord e a Est e Sauron proseguì: “Fu in tale occasione che il Bando dei Valar fu emanato e il loro araldo Eonwe vi proibì l’accesso alle Terre Imperiture; sempre avete temuto tale ordine, e mai la vostra obbedienza è venuta meno. Qualcuno tra voi potrebbe forse affermare che l’Uomo giusto è timoroso degli dei, ne osserva le divine leggi; tuttavia, se davvero vi è tra voi chi parla in sì modo, sappia che non è egli degno di appartenere a tale gloriosa stirpe”. Mormorii increduli si levarono tra la folla, ché non tutti i Numenoreani presenti avevano in odio i guardiani del Vespro, né ambivano sfidarne l’ira; tuttavia il seme della follia era stato gettato fra di loro ed esso ratto si impadronì del cuore degli Uomini. Simile alla tenebra del plenilunio, così le parole di Sauron ottenebrarono le menti degli Uomini, ed ecco essi levarono le armi e scossero gli scudi, soggiogati dalla rovina e dalla perdizione.

Sauron attese che il silenzio calasse nuovamente, infine parlò per la terza volta e le sue parole furono udite in tutto il regno: “Non è forse vero che essi vi domandarono ausilio e venerazione quando ne ebbero bisogno? Eppure, Uomini di Numenor, con quali ricompense furono riscattate le vostre lacrime e i vostri morti? Doni furono assegnati e invero di grande valore, eppure nulla che vi permettesse di condividere la più grande ricchezza sì gelosamente custodita dai Valar! Messaggeri essi hanno inviato ai vostri padri, per placarne la giusta collera, eppure io vi dico che il dono di Eru altro non è che un vile inganno, per mezzo del quale siete stati privati della vostra volontà e del vostro futuro. Giardini ricolmi di frutti abbelliscono la vostra isola e torri adamantine sfidano rabbiose il vasto cielo, eppure sappiate che essi non sono altro che una miserevole copia di quanto si erge al di là del mare a ponente. I Valar disposero i loro precetti per gli stolti, eppure chi fra voi oggi si riterrebbe tale? A voi, signori della Terra, dico questo: gli Uomini gloriosi e potenti afferrano quanto è a loro gradito. Non è con la negazione delle leggi dei vostri padri o con il loro rifiuto, che la gloria nutrirà del suo nettare inebriante i vostri cuori: solo obliando le vili parole degli dei, trionferete su quanti si oppongono al vostro dominio”.

Grandi manifestazioni di giubilo si levarono dalla folla festante e più di uno si volse al proprio vicino sussurrando parole dettate dal rancore: “Infida è la parola dei Valar e schiavi di essa sono gli Uomini che ne seguono gli intenti”. Tuttavia, vi fu chi espresse perplessità e timore; l’Oscuro Signore, ebbe sentore di ciò, allorché un Uomo fra la folla gli parlò: “Chi sei tu dunque, perché debba così parlare? Quale sentiero le nostre menti dovrebbero percorrere?”

Allora silenzio si fece in tutta la contrada, e molti osservarono dubbiosi il sovrano; questi attese, finché la gente non si fu acquietata, infine riprese la parola: “Non abbiate timore di alcuna mala sorte, Numenoreani! Un tempo catturammo Sauron, perché egli si prostrasse innanzi alla nostra maestà e rendesse omaggio alla stirpe del sovrano, e ora egli offre a tutti noi un reame degno della potenza delle nostre schiere. Cos’è una vita, se non adempiere a una missione? E non è forse la nostra quella di elevarci al di sopra dei comuni mortali e reclamare quanto è nostro di diritto? Mirate Sauron, non è egli forse prostrato innanzi a me?” e dicendo questo si voltò affinché tutti quanti potessero costatare la veridicità delle sue parole. Grande fu lo stupore tra la folla e molti levarono grida di giubilo: “il signore di Mordor si inchina al volere di Ar-Pharazon: egli si è redento, e ora non vi sono più rivali in grado di contrastare il nostro dominio!” Possenti si levarono voci trionfanti e gli uomini corsero ad armarsi, convinti che l’ora del trionfo fosse giunta: squilli echeggiarono lungo il crinale del colle, e già le navi si apprestavano a salpare, allorché Sauron levò il lungo braccio: “Numenoreani, invero nessun popolo oserà sfidare il vostro volere, tuttavia io vi metto in guardia, ché molti dei vostri congiunti tramano nell’ombra delle loro fortezze”, e a Erfea parve che il Signore degli Anelli volgesse lo sguardo verso di lui. L’Oscuro Maia parlò ancora: “Il mio signore, Melkor, con l’inganno fu esiliato nel nulla, ché gli dei non vollero rivelare alcunché dei loro arcani segreti ai re della Seconda Stirpe. I vostri padri lo combatterono e lo sconfissero, tuttavia egli non nutre alcun rancore verso di voi, ché ben comprende come le vostre menti siano state guidate sino a oggi da sciocchi consigli e insani ammonimenti. A lungo vagai per questa Terra di Mezzo, affinché potessero fiorire i semi di Melkor e ora mi accorgo quale meraviglioso verziere di delizie e incanti ricolmo sia sorto nella vostra isola”.

Minaccioso si fece il clamore della folla ed Erfea fece fatica a distinguere la voce di Sauron fra le tante che adesso si levavano; d’un tratto però, giunto dal Nord, si abbatté sulla folla un fortunale, e questo ai Fedeli parve come un chiaro ammonimento, perché mai in tali giorni si erano abbattute tempeste su Elenna: pioggia scrosciante cadde al suolo, mentre il fiero vento lacerava le vele e il sartiame delle navi. Il panico si impadronì degli abitanti e la loro paura crebbe ancora, ché giunsero le grandi aquile di Manwe in formazione serrata, puntando dritte alla cima del Meneltarma, ove Sauron assisteva imperturbabile a quanto accadeva sotto il suo sguardo. “I messaggeri di Manwe sono su di noi – gemette il popolo affranto – la sua collera spira furente dal Forastar!” Fulmini saettavano ovunque e molti Numenoreani fuggirono atterriti, disperdendosi nei vicoli e negli edifici; non scappò però l’Oscuro Signore, il quale attese che la tempesta si placasse; saette dal cielo caddero presso di lui, tuttavia egli non parve dolersi del fuoco che ora ardeva sulle sue vesti. Infine, disprezzando apertamente il volere di Manwe, egli levò al cielo una lunga spada nera ed ecco, fiamme ne percorsero la superficie: timorosa la folla lo osservò, eppure non era dipinta meraviglia nei loro sguardi, ché non pochi fra loro, maghi i cui sortilegi sono andati smarriti, erano in grado di evocare il fuoco per mezzo di arcane parole; presto, tuttavia, lo sgomento si impadronì dei loro cuori, allorché un fulmine si abbatté su Sauron con tale violenza, che il suo trono in pietra ne fu annientato. Eppure, meraviglia! Egli era incolume e levava lo sguardo al monte, invitando i sacri messaggeri degli dei a lacerare la sua carne; questi però, non furono irretiti dalle sue bestemmie, nonostante comprendessero il Linguaggio Nero, e si limitarono a scuotere le loro penne fradice.

“Finanche le Grandi Aquile sono incapaci di procurarmi offesa!” esultò Sauron, raggiante in viso. D’ora innanzi la legge che seguirete sarà dettata dal vostro volere ché i grandi Uomini nulla devono temere!” Allora il popolo gli si prostrò tremante, e il suo stesso sovrano si inchinò dinanzi all’oscura figura, adorandolo come un dio, ché tale lo vedevano e la potenza di Morgoth era in lui; nulla compresero, tuttavia, di quanto accadeva, né si domandarono per quale motivo le grandi aquile si fossero recate in tale luogo. Ar-Thoron, infatti, non era giunto per pronunciare condanna contro Sauron, come essi avevano creduto in principio, ché questi era stato maledetto fin dalla sua ribellione a Eru Iluvatar, bensì contro i Numenoreani, rei di aver accolta la Tenebra presso i loro spiriti; eppure, nessuno si pose simili questioni, ché i loro animi erano ricolmi di odio e rancore, illudendosi che l’immortalità fosse prossima.

Gravi lutti derivarono dagli infausti eventi di quel giorno, e quanto accadde non fu che il principio, ché altre malvagità escogitò Sauron e la Tenebra cadde definitivamente su Numenor».

 

Il Ciclo del Marinaio, pp. 179-184.