I Warg nella Terra di Mezzo: lupi o demoni?

Una delle creature più spaventose del legendarium tolkieniano e, allo stesso tempo, maggiormente «fraintesa» nelle due trilogie dirette da Jackson è il warg. Già, ma cos’è esattamente un warg?

Tracce di questa creatura si possono riscontrare già nella Prima Era, allorché esse furono tra i servitori più potenti di Sauron: non si tratta di lupi «semplicemente» mostruosi, come sembrerebbero quelli presenti in entrambe le trilogie cinematografiche di Jackson (nell’immagine in copertina potete visualizzare un fotogramma tratto da «Lo Hobbit – un viaggio inaspettato» che mostra un piccolo branco di queste creature), ma di veri e propri demoni che avevano preso l’aspetto di lupi, risultando, tuttavia, più intelligenti e crudeli di quanto non lo fossero gli esemplari «naturali» di questa specie animale.

A complicare le cose, il termine «warg» indica una serie di creature che possono essere genericamente indicate come «lupi», ma che in realtà sono fra loro molto diverse.
In questo articolo cercherò di fare chiarezza sulle tre principali tipologie di lupi nella Terra di Mezzo.

Lupo comune: Normalmente questi animali sono grigi, o più raramente neri, e di solito si riuniscono in mute composte da una dozzina di esemplari adulti. Sono cacciatori intelligenti e crudeli (di una crudeltà dettata unicamente dal bisogno di trovare cibo in un territorio aspro e ostile), nonché instancabili inseguitori. Molti lupi sono caduti sotto il controllo, anche se non sempre diretto, del Re-Stregone di Angmar e in loro si è sviluppato un malvagio e perverso istinto che li porta a uccidere per puro divertimento. Le loro prede principali sono le pecore, ma i lupi non temono gli uomini e sono sempre pronti ad attaccare un viaggiatore solitario o piccoli gruppi. Temono comunque i cani da pastore

Warg: I warg, lupi intelligenti di enormi dimensioni, rappresentano i più feroci predatori della regioni nord-occidentali della Terra di Mezzo. La leggenda narra che fu lo stesso Morgoth a crearli, basandosi su comuni lupi del Nord, per servirsene nella sue guerre contro gli Eldar e Edain nella Prima Era. I maschi sono lunghi fino a 3 metri, compresa la coda, mentre le femmine sono leggermente più piccole. I Warg si uniscono spesso agli Orchi durante le loro scorribande, talvolta lasciandosi cavalcare dai Goblin più piccoli, pensando così di procurarsi facilmente del cibo. I Warg, a differenza delle altre specie di lupi, non temono in alcun modo l’uomo: lo dimostrano negli attacchi sferrati alla cavalleria, quando si avventano ringhiosi sui fianchi dei cavalli, e nella spietata caccia ai nemici in fuga. A questa tipologia, dunque, appartenevano i lupi che dettero la caccia a Bilbo e agli altri nani ne «Lo Hobbit» e che presero parte alla battaglia dei Cinque eserciti alle pendici della Montagna Solitaria. Anche i lupi presenti nelle trilogie cinematografiche appartengono a questa specie. Un warg, infine, fu il primo nemico che Erfea affrontò ancora giovanissimo (leggi qui).

I warg di Sauron I “veri warg”, conosciuti anche come “Lupi Demone” o “Lupi di Sauron”, appaiono come grossi Warg, ma sono in realtà esseri non-morti creati con una potente magia malvagia. Agiscono esclusivamente durante le notti più buie, quando per gli uomini è più difficile rendersi conto che essi svaniscono quando vengono colpiti a morte.

Una delle scene più emozionanti de «La Compagnia dell’Anello», secondo me, è proprio quella in cui Frodo & Co. devono affrontare un branco dei Warg. Mi rammarico che questo punto focale della narrazione non sia stato ripreso nell’omonima pellicola cinematografica: mostra infatti come i segugi di Sauron avessero ormai raggiunto la Compagnia alle pendici delle Montagne Nebbiose. Il combattimento che ne segue è a dir poco spettacolare: la Compagnia si difende strenuamente e in quell’occasione abbiamo modo di ammirare uno dei rari incantesimi che Gandalf adopera durante il viaggio dei nove viandanti. «Nella luce vacillante del fuoco, Gandalf parve improvvisamente ingigantirsi: si eresse, una grande figura minacciosa pari al momumento di qualche antico re di pietra innalzato in cima ad un colle. Chinandosi come una nube, colse un ramo incandescente e andò incontro ai lupi. Essi retrocedettero innanzi a lui. Allora Gandalf lanciò in aria il tizzone fiammeggiante; una vampa si levò da esso, improvvisa e bianca come un lampo; la sua voce rombò come tuono. “Naur an edralth ammen! Naur dan i ngauroth” gridò. Con un mugghio ed un crepitio, dall’albero sulla sua testa fiorirono e verdeggiarono fiamme accecanti. Il fuoco volò da una chioma all’altra; l’intera collina fu incoronata da una luce abbagliante. Spade e pugnali dei difensori scintillavano e vibravano. L’ultima freccia di Legolas prese fuoco in volo, e si tuffò incandescente nel cuore di un grosso capo-tribù. Tutti gli altri fuggirono».

È solo allo spuntare dell’alba, tuttavia, che la verità viene svelata: esplorando i dintorni del colle sul quale la Compagnia si è ritirata durante la notte per meglio difendersi, i suoi membri si rendono conto che i cadaveri dei lupi sono scomparsi e – elemento forse ancora più agghiacciante – tutte le frecce che Legolas aveva scagliato (eccetto una che aveva preso fuoco) sono rimaste conficcate qua e là sui pendii della collina. Tolkien – che è un maestro della narrazione – a quel punto lascia intendere la verità pur senza svelarla apertamente: «È come temevo […] Questi non erano comuni lupi in caccia di prede nelle zone selvagge» si limita ad osservare Gandalf.

Gli warg delle due trilogie cinematografiche, invece, assomigliano curiosamente a un grande mammifero della preistoria che abitava milioni di anni nello Stato oggi noto come Mongolia e che da questo prende il nome di «Andrewsarchus mongoliensis». La somiglianza tra le due creature, come potete osservare nella seguente foto, mi sembra piuttosto palese.

asintoterio

Spero che questo articolo vi sia piaciuto…aspetto i vostri commenti, alla prossima!

P.S. Per quanto riguarda il «Ciclo del Marinaio», continuo ad aggiornare periodicamente la pagina su wattpad e a scrivere il racconto dedicato alla fanciullezza di Miriel e di Pharazon…lavoro permettendo spero di potervi presto presentare novità in proposito!

Scrivere di Tolkien, con Tolkien…per Tolkien: pro o contro le fan-fiction?

Scrivo questo articolo perché intendo affrontare un argomento che trovo particolarmente stimolante: le fan-fiction di ambito tolkieniano.
Sarò piuttosto schietto: non amo particolarmente questo termine, forse perché, quando ho iniziato a scrivere i miei racconti, tanti anni fa, le fan-fiction non esistevano così come sono intese adesso. O meglio – per essere più precisi – non esistevano quei circuiti di comunicazione, spesso on-line, attraverso i quali possono oggi essere lette centinaia di fan-fiction ambientati negli universi letterari più disparati: da Harry Potter alle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, a Star Wars.
E anche Tolkien, certo. Già. E qui iniziano le noti dolenti.
L’appassionato tolkieniano manifesta generalmente un atteggiamento ambivalente nei confronti dell’universo creato dal professore di Oxford: per un verso lamenta la mancanza di approfondimenti di personaggi e di eventi che vengono solo accennati all’interno delle sue storie, per un altro si dimostra, in molti casi, ostile nei confronti di chiunque osi mettere mano all’impressionante mole di racconti che compongono il legendarium tolkieniano. Non ho potuto fare a meno di notare, inoltre, come questo atteggiamento di ostilità sia diretto soprattutto nei confronti di coloro che intendono allargare l’orizzonte dal punto di visto contenutistico, mentre, in generale, ho osservato una maggiore benevolenza nei confronti di quanti si occupano dell’aspetto linguistico delle sue opere. Intendiamoci: non ho alcuna intenzione di sminuire questo carattere basilare del legendarium tolkieniano; anzi, si potrebbe tranquillamente affermare che la creazione dei vari linguaggi abbia proceduto l’elemento storico e descrittivo della Terra di Mezzo. Nessuna meraviglia, sotto questo aspetto: la formazione accademica di Tolkien era quella di un filologo, ragion per cui non c’è da stupirsi che fosse molto attratto dalla componente linguistica.
Ciò che mi lascia perplesso, invece, è il grado di «sospensione della realtà» che molti cultori tolkieniani esercitano nei confronti di quanti ne hanno sviluppato e arricchito l’apparato linguistico, pur sapendo perfettamente che, in molti casi, si tratta di rielaborazioni che partono, senza dubbio, dagli scritti di Tolkien, per poi cercare, tuttavia, inevitabilmente, di arricchirne le forme e i contenuti lessicali. Personalmente non sono contrario a questi studi: ammetto di non essere particolarmente attratto dai linguaggi (probabilmente anche per via dei miei studi), ma ritengo che sia un’azione lodevole quella di approfondire le basi portanti del legendarium tolkieniano. Il quesito che vorrei porre a questi appassionati tolkieniani è semmai il seguente: perché accettate che questo o quello studioso contemporaneo «vada oltre» le indicazioni di Tolkien stesso quando si tratta di un approccio linguistico e invece siete meno interessati (e in qualche caso vorrei dire meno tolleranti) nei confronti degli scritti che intendo approfondire il suo legendarium? (Per carità di patria, taccio su quanti accettano tutte le modifiche apportate da Jackson alla trama del Signore degli Anelli, e poi disprezzano qualsiasi tipo di fan-fiction perché non «è come nel libro» [cit.]).

Immagino già la prima risposta (o almeno una delle più plausibili): chi indaga sulle lingue si preoccupa (giustamente) di studiare approfonditamente le basi delle favelle elfiche prima di avanzare nuove ipotesi relative alla sintassi, al lessico ecc. delle lingue tolkieniane. Chi scrive fan-fiction, invece, (in molti casi) lo fa per dare spazio ai suoi sogni reconditi, alla capacità di calarsi nella Terra di Mezzo dall’alto «per vedere – come recitava una vecchia canzone – l’effetto che fa». In linea teorica, non sono contrario a queste scritture: l’unica cosa che non comprendo è come gestire un percorso narrativo che rischia di stravolgere tutto quello che ha scritto Tolkien stesso. Mi spiego meglio: anni fa, iniziai la lettura di una di queste storie nella quale Boromir, anziché essere ucciso dagli Orchi di Saruman, finiva coll’essere salvato da suo fratello Faramir e dai suoi soldati…e confesso di non aver voluto proseguire. Non sono riuscito a capire il senso di questa storia (non entro nella questione dello stile, perché, ad essere sinceri, non lo ricordo più): che senso ha cambiare un passaggio chiave di una narrazione per poi inventare un percorso che finisce collo stravolgere del tutto la narrazione stessa? Mi si risponderà: perché ho sempre desiderato che Boromir non morisse, oppure che Eowyn sposasse Aragorn o ancora che gli Elfi non abbandonassero la Terra di Mezzo…e potrei continuare a lungo. Forse, al di là dei gusti personali, queste storie potrebbero essere intese – con un significato diverso da quello tradizionalmente attribuito – come vere fan-fiction, nel senso che raccontano dei legami intercorsi fra lettori e i loro personaggi preferiti, senza però badare al grado di realizzabilità dei loro progetti rispetto alla cornice generale.
Questo sviluppare (e diffondere) racconti che non si preoccupano minimamente di salvaguardare la coerenza del legendarium tolkieniano mi avvilisce, perché, nella loro ingenuità, finiscono col trascinare verso il basso tutti quelli che cercano di apportare contributi nuovi alla Terra di Mezzo, senza tuttavia rimetterla in discussione.

Negli anni scorsi, tuttavia, ho anche avuto modo, per fortuna, di leggere racconti molto originali ambientati nella Terra di Mezzo: uno narrava di una fanciulla del popolo Haradrim che, dopo una serie di traversie, si recava nel regno di Gondor e apprendeva l’arte della Guarigione nelle Case che da essa prendono il loro nome. Un altro racconto, invece, era costruito come una sorta di dialogo fra un figlio e un padre, numenoreani, che discutevano intorno alla follia di Pharazon. Spiace dover constatare che, purtroppo, a causa dei vari trasferimenti che ho vissuto, non sono riuscito più a recuperare questi scritti.
Non credo, beninteso, che esista una «formula magica» obbligatoria per scrivere questo genere di racconti: mi limiterò a offrire una serie di suggerimenti di buon senso, che potrebbero essere utili a chi volesse provarci.

1) Scegliete con attenzione quali personaggi/eventi volete approfondire. Sconsiglio di dedicarvi alla parte finale della Terza Era, perché costituisce il nocciolo del «Signore degli Anelli» e di altri scritti collaterali: ammetto, naturalmente, che esistano degli spazi ancora «bianchi», come per esempio il destino della Bocca di Sauron o quello di Radagast, tuttavia sono inferiori rispetto a quelli offerti da altri contesti; a meno che, ovviamente, non desideriate approfondire soggetti ed eventi non particolarmente legati alla Guerra dell’Anello (e alle regioni nelle quali si combatté), come, ad esempio, Umbar a sud oppure il Forochel a Nord. La Seconda Era, da questo punto di vista, si caratterizza per poter essere indagata con una maggiore «libertà» d’azione narrativa rispetto alla Prima e alla Terza.

2) Scegliete con attenzione lo stile da utilizzare. Nessuno pretende (o può pretendere da voi) di essere un emulo di Tolkien, ci mancherebbe, però una certa coerenza di stile renderebbe il vostro racconto più fedele allo stile del professore di Oxford e maggiormente riconoscibile come «tolkieniano». Sarebbe stimolante – lo ammetto – anche utilizzare, di contrasto, uno stile totalmente diverso, però ritengo che sia più difficile farlo: bisognerebbe padroneggiare a tal punto la materia tolkieniana per poterla, in qualche modo, ribaltare…un po’ come faceva Picasso con la sua arte rispetto a quella tradizionale (e, ammettiamolo, di Picasso in giro per il mondo non ce ne sono tanti!)

3) Dosate con equilibrio la miscela esistente fra personaggi «tolkieniani» e personaggi «non tolkieniani», cioè inventati da voi. Per esperienza personale, trovo sia meglio avere un/a protagonista «non tolkieniano/a» per godere di migliore libertà d’azione. Al limite, vi suggerisco di «adottare» un personaggio poco trattato da Tolkien in modo da avere una cerniera ideale tra i suoi scritti e i vostri. Non abusate, invece, di personaggi come Frodo, Aragorn, Gandalf, Sauron etc.; non perché non siano interessanti – ci mancherebbe! – ma perché la loro trattazione richiederebbe la conoscenza di tutte le fonti disponibili (anche di quelle eventualmente inedite in Italia). Un compito, questo, che potrebbe atterrire chiunque. Se volete concedere loro un cameo, fatelo pure – renderà certamente il vostro racconto più famigliare agli occhi di chi legge – ma senza fare di questi personaggi…i vostri personaggi.

4) Ultimo consiglio: non siate mai – e sottolineo il termine mai – ostili a priori nei confronti di qualsiasi racconto o fan-fiction: se ne avete voglia e modo, provate a leggerli…e mal che vada, lasciate perdere. Nessuno ve ne farà una colpa, anzi: un vostro commento (ben motivato, s’intende!) potrebbe aiutare chi scrive a migliorarsi. L’indifferenza, anche in questo settore, è sempre una gran brutta bestia.

Mi piace concludere questo articolo con un invito e un auspicio: si può scrivere di Tolkien, con Tolkien e per Tolkien stesso avendo però a mente le parole che pronuncia Gimli a Legolas in merito ai suoi progetti di trasferire una parte dei Nani nelle Caverne Scintillanti:

«Abbatti tu, forse, boschetti di alberi in fiore per raccoglier legna in primavera? Noi cureremmo queste radure di pietra fiorita, non le trasformeremmo in miniere. Con cautela e destrezza, un colpetto dopo l’altro, un’unica piccola scheggia di roccia e nient’altro, forse, in tutta una giornata ansiosa: tale sarebbe il nostro lavoro, e col passar degli anni apriremmo nuovi sentieri, scopriremmo nuove stanze lontane e ancor buie che s’intravedono ora come un vuoto dietro fessure nelle roccia. E le luci, Legolas! Creeremmo luci, lampade come quelle che risplendevano un tempo a Khazad-dum; e secondo il nostro desiderio potremmo allontanare la notte che sommerge le caverne da quando furono innalzati i colli, o lasciarla rientrare per cullare il nostro riposo».

 

Il mistero delle porte di Moria

Se c’è un episodio del «Signore degli Anelli» che è rimasto particolarmente impresso nell’immaginario del lettore tolkieniano è certamente quello rappresentato dall’ingresso alle Miniere di Moria, l’antica Khazad-Dum ormai abbandondata dai Nani centinaia di anni prima che la Compagnia dell’Anello prendesse la decisione – ardita e rischiosa allo stesso tempo – di passare attraverso i suoi sentieri sotterranei per sfuggire alle spie del Nemico che erano sulle tracce dell’Unico. Questo episodio, tra l’altro, è stato reso visibile sul grande schermo, dapprima nel lungometraggio animato di Bakshi (1978) e, in seguito, nel primo capitolo della saga cinematografica di Jackson (2001).

In entrambe le pellicole la Compagnia, giunta alle porte di Moria, è attesa dalla difficile risoluzione di un enigma rivolto all’incauto forestiero: la sua risoluzione permetterà a Frodo & Co. di entrare nell’antica dimora nanica. La natura dell’enigma è ben nota, tanto da diventare materia di meme e altre parodie rintracciabili sulla Rete: sulle porte di Moria, infatti, campeggia la seguente scritta in caratteri elfici: «Le porte di Durin, Signore di Moria. Dite, amici, ed entrate. Io, Narvi, le feci. Celebrimbor dell’Agrifogliere tracciò questi segni». Sia nel romanzo che nelle due opere cinematografiche questo enigma mette a dura prova la Compagnia: nel romanzo, come nella pellicola di Bakshi, è Gandalf a risolverlo, dopo aver riflettuto profondamente (questa è una scena che mi ha spesso rammentato quei giochi di ruolo nei quali il mago o lo stregone si prende un turno di riposo per concentrare le proprie energie mentali per lanciare un incantesimo o decifrare una pergamena magica, a conferma di quanto l’immaginario tolkieniano abbia influenzato l’universo ludico fantasy). Nel film di Jackson, invece, è Frodo a mettere sulla giusta strada lo Stregone Grigio, immaginando (correttamente) che la frase nasconda un doppio senso basato sull’uso delle virgole che sottolineano, in qualche modo, la parola d’ingresso, ossia «Amici» (mellon in elfico). Ad ogni modo, la Compagnia, una volta pronunciata la parola «magica» può dunque proseguire nel suo percorso, non prima di aver evitato l’ira dell’Osservatore dell’Acqua, una gigantesca e mostruosa creatura che vive nello stagno del Sirannon, situato ai piedi delle porte di Moria. Anche in questo caso non posso che apprezzare la sceneggiatura di Bakshi rispetto a quella di Jackson: coerentemente con quanto è narrato nel romanzo, i suoi membri non hanno una chiara e immediata percezione di quanto accaduto; in altre parole, non è subito chiaro se i tentacoli verdi e luminescenti che li hanno aggrediti appartengano a una o a più creature acquatiche; questo «enigma zoologico», infatti, sarà risolto solo alcuni giorni più tardi, quando Gandalf avrà occasione di leggere il Diario di Mazarbul, rendendosi conto in questo modo che si tratta di un mostro solitario al quale i nani della colonia di Balin avevano attribuito il nome di «Osservatore dell’acqua». Jackson, invece, ha preferito puntare decisamente – come in altre occasioni – sulla spettacolarizzazione dell’attacco portato dalla mostruosa creatura nei confronti della Compagnia, mostrando fin dal principio la natura dell’Osservatore, molto simile a quella del Kraken delle leggende norrene.

Ad ogni modo, sia il lettore che lo spettatore si convince facilmente che la difficoltà nella quale si sia imbattuta la Compagnia riguarda principalmente la soluzione dell’enigma linguistico: la presenza della frase incisa sulle porte di Moria è spiegata grazie all’azione dei raggi lunari che rendono visibili i caratteri elfici. Si ha dunque l’impressione – fallace, come cercherò di spiegare in seguito – che ogni notte (o, più correttamente, ogni qual volta la luna o le stelle non siano coperte da nubi) questa scritta di benvenuto brilli nell’oscurità e che all’occasionale visitatore non rimanga altro che risolvere il noto enigma.

Verrebbe da chiedersi, se così fosse, come mai Sauron, che pure attaccò Khazad-Dum nel corso della sua prima guerra contro gli Elfi dell’Eregion sul finire del XVII secolo della Seconda Era, non sia riuscito a sciogliere l’enigma, pur disponendo dei poteri dell’Unico e pur essendo uno stregone di grande potenza e intelligenza. Più in generale, non è possibile restare impassibili dinanzi alla constatazione che qualunque nemico avrebbe potuto risolvere quell’enigma, dal momento che richiedeva essenzialmente una sola competenza linguistica (ossia la conoscenza del Quenya, una lingua elfica la cui importanza per gli Elfi potrebbe essere paragonata a quella del latino nella società odierna).

Come mai, dunque, Sauron non era riuscito a penetrare nelle sale di Khazad-Dum per depredarle delle sue notevoli ricchezze?

La risposta risiede in un passaggio che, purtroppo, è stato eliminato sia nell’opera di Bakshi che in quella di Jackson: «Sono d’intarsi d’ithildin, che riflette solo i raggi di luna e di stelle, e dorme sin quando non sente il tocco di chi pronunzia parole ormai da tempo obliate nella Terra di Mezzo. Io le udii molti anni addietro, e dovetti riflettere profondamente prima di riuscire a rammentarle». Queste sono le parole che Gandalf pronuncia dinanzi alle porte di Moria, rivelando, dunque, come il vero ostacolo per penetrare all’interno della città dei Nani non fosse pronunciare la parola «mellon», quanto apprendere le parole (rimaste sconosciute anche al lettore) che permettevano di leggere, per così dire, «le istruzioni» apposte sulle porte di Khazad-Dum. Questo dettaglio, niente affatto trascurabile, spiegherebbe il segreto dell’invulnerabilità della roccaforte nanica nelle epoche precedenti; neppure Sauron, evidentemente, era riuscito a carpire il segreto delle «parole di comando» che rendevano «sensibili» gli intarsi di ithildin, un metallo la cui formula era noto solo ai Nani e agli Elfi. Allo stesso modo, è interessante notare come Gandalf lasci intendere di essere stato apprezzato ospite, in un passato remoto, dei nani di Moria, al punto da ispirare così grande fiducia da apprendere le parole segrete.

Le lettere di Tolkien e le origini della guerra civile numenoreana

Care lettrici, cari lettori,
dedico questo articolo a uno degli aspetti meno conosciuti, ma per questo non meno importanti, della genesi del mito di Numenor in Tolkien. Avrei dovuto, in realtà, scrivere questo articolo presentandolo come una sorta di «cappello introduttivo» all’ultimo racconto che ho iniziato a trascrivere in questi giorni (potete leggerne le prime pagine in Numenor: Game of Thrones (I)), ma impegni vari non mi hanno permesso di rispettare questa scadenza.
In questo articolo saranno analizzate alcune lettere di Tolkien incentrate su una serie di aspetti particolarmente importanti per spiegare non solo le ragioni profonde che furono alla base del conflitto civile, scoppiato nell’anno 3255 della Seconda Era, tra i sostenitori della regina legittima Tar-Miriel e i seguaci di suo cugino Pharazon, ma anche per indagare sulla ritrosia che caratterizzò Tolkien in relazione al mancato approfondimento di queste ragioni, potremmo dire, a carattere «storico-sociale». Questo tema, in parte, è stato affrontato dal sottoscritto, per la prima volta, negli articoli: Scrivere degli Uomini. Un limite di Tolkien? e Scrivere degli Uomini (II parte) Tolkien vs Dante, ovvero l’impossibilità dell’allegoria che vi invito a leggere (o rileggere).
L’analisi delle lettere di Tolkien è di grande importanza per chi desideri approfondire le ragioni che spinsero l’autore del «Signore degli Anelli» a compiere alcune scelte precise in merito al dipanarsi della trama (o forse sarebbe più corretto riferirsi, data la vastità degli argomenti trattati nei suoi racconti e romanzi, alle trame) di quel lungo percorso che, fin dalla creazione del Mondo Secondario, avrebbe condotto molti millenni più tardi, all’ascesa e poi alla caduta di Numenor, l’isola del Dono. Per comodità mia (e di chi mi legge) ho deciso di suddividere questo articolo in due paragrafi, corrispondenti a ciascuno degli argomenti presi in esame nel corso di questa trattazione.

I sovrani di Numenor ispirati al mito egizio dei faraoni?

Nella lettera 156, datata verso la fine del 1954, Tolkien si sofferma sulla figura del sovrano di Numenor. I lettori delle opere del professore di Oxford sanno che la linea regale che resse il trono dell’Isola del Dono affondava le proprie radici nell’unione fra Uomini, Elfi e Maia, ossia spiriti angelici: questa, dunque, è la ragione per cui, ancora nella tarda Terza Era, Denethor, Sovrintendente di Gondor, lamenterà al proprio figlio maggiore, Boromir, come il ruolo dei sovrani di quel Paese (a loro volta discendenti di un ramo «cadetto» dei sovrani numenoreani) non avrebbe mai potuto essere soppiantato, per così dire, dai Sovrintendenti, nonostante fossero ormai trascorsi più di mille anni dalla scomparsa dell’ultimo sovrano del Reame Meridionale. È evidente, dunque, che il lignaggio dei sovrani di Numenor sia una delle prerogative fondamentali per tramandare questa importante carica senza soluzione di continuità; è sufficiente dare un’occhiata alla cronologia dei diversi re dei Dunedain, posta nel volume «Racconti Incompiuti», per rendersi conto, infatti, di come non appaiano mai altri sovrani provenienti da diversi lignaggi (sia pure all’interno dei numenoreani). Certo conosciamo molto poco (per usare un eufemismo) delle mogli dei sovrani di Numenor, però sembra evidente che la linea di successione sia costituita da eredi diretti di Elros, primo re di quell’isola e fratello di quell’Elrond che scelse di essere immortale come gli elfi e si stanziò, invece, nella Terra di Mezzo. Nella lettera che segue, Tolkien si sofferma sugli attributi sociali e, allo stesso tempo, religiosi, che contribuivano fortemente a rafforzare l’autorità del sovrano numenoreano:

«I Numenoreani cominciarono così una nuova grande epoca, e come monoteisti; ma come gli Ebrei (ancora di più) avevano un unico centro fisico di venerazione: la sommità della montagna Meneltarma «Pilastro del Cielo» […] Anche quando i Re si estinsero non restò più niente di simile al sacerdozio: le due cose per i Numenoreani erano equivalenti» (La Realtà in Trasparenza, lettera 156)

L’analogia con gli antichi Egizi è ripresa nella lettera 211, laddove Tolkien, approfondendo la caratterizzazione dei Gondoriani, confessa che questi

«erano orgogliosi, particolari e strani, e penso che la cosa migliore sia raffigurarli come (diciamo) Egizi. Assomigliano agli Egizi sotto diversi aspetti – la passione per, e la capacità di costruire, opere gigantesche e massicce (Ma naturalmente non per la loro teologia: rispetto alla quale assomigliavano più agli Ebrei, anzi erano persino più puritani – ma questo sarebbe troppo lungo da spiegare: spiegare perché praticamente non esiste una religione manifesta, o piuttosto atti o luoghi o cerimonie religiose fra i «buoni» o anti-Sauriani, all’interno del Signore degli Anelli» (La Realtà in Trasparenza, lettera 211).

Ancora sulla figura del sovrano numenoreano tipico, Tolkien, nella lettera 244 aggiungeva, infine, che:

«un re Numenoreano era un monarca, con il potere assoluto di decidere durante una discussione; ma governava il regno rispettando l’antica legge, di cui era amministratore (e interprete), ma non autore» (La Realtà in Trasparenza, lettera 244).

Ciò che mi sembra importante sottolineare, sulla base della lettura di questi documenti, è che il sovrano numenoreano, nelle intenzioni di Tolkien, doveva essere una guida non solo politica e amministrativa (come ogni altro capo di Stato, del resto), ma anche religiosa e, direi, simbolica. Ricordate come riescono gli abitanti di Minas Tirith a capire che Aragorn è il re tanto atteso? Dalle sue capacità di guaritore. Senza dubbio, anche i suoi antenati dovevano essere in grado di praticare queste arti mediche benefiche. Questa figura di sovrano, che troviamo anche in contesti storici (per esempio, si riteneva che gli antichi re francesi fossero in grado di guarire i loro sudditi da alcune malattie semplicemente imponendo loro le mani sul capo) ha però un limite evidente: diventa di grande utilità nel momento in cui una società è rigidamente organizzata da un punto di vista sociale (come doveva essere Numenor nella sua prima fase di esistenza), oppure all’interno di società profondamente in crisi (come il regno di Gondor alla fine della Terza Era), tuttavia può risultare «scomoda» nel momento in cui una società si articola maggiormente e compaiono, per così dire, «centri alternativi di potere» rispetto a quelli regi. Un esempio, sotto questo punto di vista, può essere costituito dal Consiglio dello Scettro, che affiancava il sovrano nelle sue scelte: secondo una nota scritta dallo stesso Tolkien a margine del racconto di Aldarion ed Erendis, questo organismo nel tempo aveva profondamente mutato la sua forma, diventando di fatto un potere alternativo rispetto a quello del sovrano. Nei secoli centrali e finali della Seconda Era, d’altra parte, si nota un’evoluzione degli stessi sovrani numenoreani: progressivamente, infatti, a parte alcune eccezioni significative, essi sembrano tralasciare i loro doveri regali, per concentrarsi unicamente sull’accumulo di ricchezze oppure su ricerche erudite. Sembra evidente, dunque, che, con il trascorrere dei secoli, il potere effettivo sia stato distribuito fra più soggetti, molti dei quali, si può supporre, avessero fatto fortuna grazie alla colonizzazione della Terra di Mezzo.

Una lotta di classe alla base del conflitto civile a Numenor?

Mi rendo conto che questo titolo può sembrare un po’ provocatorio, e non ho nessuna difficoltà ad ammetterlo. Come i lettori di Tolkien sanno (o dovrebbero sapere) molto bene, questo autore non volle mai accostare le storie della Terra di Mezzo a quelle che riguardavano il Mondo Primario, vale a dire la nostra cara e vecchia Terra, né volle cercare accostamenti di tipo politico, di nessun genere. A un lettore, per esempio, che gli chiese se Mordor corrispondesse all’Unione Sovietica, data la collocazione geografica ad Oriente di entrambi i territori (e l’idea, sottesa a questa affermazione, che Sauron e Stalin fossero considerati entrambi i nemici dell’Occidente, sia di quello fantastico, che di quello reale) Tolkien replicò fermamente che simili accostamenti non avevano alcun senso. Proprio per queste affermazioni contenute nelle lettere del professore di Oxford, non sfugge dunque l’importanza di questa lettera, perché cerca di andare oltre la dicotomia «religiosa» fra Fedeli e Uomini del Re.
In questa sede, dunque, voglio chiarire un concetto che ho toccato marginalmente nel corso di alcuni commenti scritti a margine di articoli precedenti: i Numenoreani Neri, in origine, non erano i seguaci di Pharazon. O almeno, non lo divennero fin quando non furono tutti quanti (a cominciare da Pharazon stesso) corrotti da Sauron, al punto tale da adorare Morgoth e praticare apertamente la Magia Nera. Il Numenoreano Nero più famoso, senza dubbio, è la Bocca di Sauron, che si presume discendesse da quei Numenoreani che si erano stanziati lungo le coste della Terra di Mezzo perché avidi di scienza malefica praticata da Sauron. Prima dell’arrivo dell’Oscuro Signore a Numenor, tuttavia, coloro che si opponevano ai Fedeli all’amicizia con gli Elfi, e al culto dei Vala e dell’Unico, erano noti come «Uomini del Re»: questa designazione indicava, dunque, quei Numenoreani che seguivano l’orientamento sempre più marcatamente imperialistico che i sovrani di quel popolo, nella fase centrale e finale della Seconda Era, finirono con il rendere l’obiettivo primario della loro politica. Questo non vuol dire, naturalmente, che alcuni di loro non avessero già deciso di lasciarsi corrompere da Sauron (come dimostra la storia dei tre Nazgul di origine numenoreana, accennata, ma mai ampiamente approfondita nel Silmarillion); tuttavia, è bene ribadirlo, la grande differenza tra questi e i Fedeli consisteva nel progressivo allontanamento dei primi dalla religione dei Valar, alla quale, tuttavia, almeno fino all’arrivo di Sauron nella loro isola, non si sostituì il culto di Morgoth. Questa differenza, se da un certo punto di vista può sembrare di scarsa influenza (dopotutto, gli Uomini del Re possono essere considerati, anche da un punto di vista «genetico», per così dire, gli antenati diretti dei Numenoreani Neri), appare invece di grande importanza nel momento in cui si esaminano le cause della decadenza di Numenor e il ruolo che Sauron svolse in questo processo. Un ruolo che, a ben vedere dalle parole che Tolkien adoperò in questa lettera, assomigliava sempre più a quello di «leader politico» oltre che, naturalmente, religioso e che finì coll’interagire apertamente con una serie di interessanti problematiche che, ancor prima della comparsa di Sauron a Numenor, dovevano avere provocato uno stato di crescente tensione sociale nell’isola del dono.

«Nella seconda fase, i giorni dell’orgoglio e della gloria e del risentimento contro il Divieto, cominciano a cercare il benessere piuttosto che la beatitudine. Il desiderio di sfuggire alla morte ha prodotto il culto delle morte ed essi profondono ricchezza e arte sulle tombe sui monumenti funebri. Ora incominciano a insediarsi sulle coste occidentali, ma questi insediamenti assomigliano sempre più a fortezze e ad abitazioni signorili, e i Numenoreani diventano raccoglitori di tributi, portando dal mare una quantità sempre maggiore di ricchezze nelle loro grandi navi». (La Realtà in Trasparenza, lettera 131)

Ancora più indicativo è questo breve estratto dal Silmarillion, che dimostra a quale livello fosse giunta la tensione sociale presente nell’isola di Numenor:

«E accadde in quei giorni che uomini dessero mano ad armi, trucidandosi a vicenda per motivi insignificanti, poiché s’erano fatti pronti all’ira e Sauron o coloro che questi aveva legato a sé andavano per il paese aizzando gli animi, sì che la gente mormorava contro il Re e i signori ovvero contro chiunque avesse qualcosa che essi non avevano; e coloro che disponevano di potere traevano crudele vendetta» (Il Silmarillion, pp. 344-345)

Da questo brano appare come Sauron, oltre ad avere velleità di tipo «politico» sia stato caratterizzato da Tolkien come una divinità che gli antropologi non esiterebbero a definire «trickster», ossia imbroglione, truffatore, come lo era, per esempio, Loki. Curiosamente, si può osservare come in questo brano Tolkien riprenda in parte la caratterizzazione che Sauron aveva quando era stato concepito come Tevildo, il Signore dei Gatti: una creatura perfida, tendente a fare il doppio gioco (cfr. «Racconti Perduti», dove questo personaggio appare in una versione primitiva del racconto di Luthien e Beren; per inciso, è in questo racconto, poi abbandonato dall’autore, che si spiega l’ostilità fra gli Elfi e i Gatti). Sembra evidente come a Sauron non importi assolutamente nulla della questione sociale legata agli «squilibri» derivati, con ogni probabilità, dalla concentrazione di ricchezze nelle mani di una ristretta cerchia di numenoreani: il suo obiettivo, infatti, era quello di approfondire il solco già esistente tra i diversi gruppi sociali dell’Isola del Dono, facendo leva ora sul desiderio dei ceti più diseredati di riappropriarsi di una parte delle ricchezze che dovevano essere loro state sottratte dalle élites, ora sui ricchi numenoreani che, spaventati da una possibile rivolta (o addirittura una rivoluzione?), avrebbero volentieri fatto ricorso alla forza per soffocare ogni tentativo di sovvertire i rapporti di forza esistenti.

Conclusioni: un epilogo già annunciato

L’influenza diretta di Sauron sulle genti numenoreane si ebbe solo a partire dalla sua finta sottomissione ad Ar-Pharazon, avvenuta nell’anno 3262 della Seconda Era. Le lettere di Tolkien citate in questo articolo, tuttavia, mettono in luce alcuni interessanti elementi che vale la pena di riassumere in questo paragrafo conclusivo e che ci consentono di sostenere la tesi secondo cui la fine del regno numenoreano era già stata avviata ben prima della guerra civile che portò al potere Pharazon.
1) La figura del sovrano di Numenor, così come appare nella prima lettera citata in questo articolo, possedeva valenze sia politiche che religiose. La rinuncia della maggior parte dei Numenoreani al culto dei Vala e di Eru rese la sua figura probabilmente più debole, da un punto di visto simbolico, accentuando, al contrario, il potere dei nobili che circondavano il sovrano e che siedevano al Consiglio dello Scettro e che potevano contare su maggiori ricchezze e (probabilmente) su un numero maggiori di soldati che dipendevano dai loro ordini e che si erano distinti nel saccheggio e nell’occupazione della Terra di Mezzo.
2) Esisteva a Numenor una fortissima contrapposizione tra le classi sociali: se è vero, infatti, che, nel suo complesso, la società numenoreana era diventata più ricca e potente, non mancavano, tuttavia, forti differenze al suo interno (basti vedere quello che succede nella società odierna, per rendersene conto). Sauron approfittò di questa divisione per i suoi fini, tuttavia non fu lui a crearla dal nulla.
3) Si fa presto a contrapporre Fedeli ai Seguaci di Pharazon: in realtà, dovevano esserci diverse posizioni all’interno di questi schieramenti, alcune più «moderate», altre più «radicali», legate, probabilmente, anche a fattori di natura sociale ed economica. A questo proposito va ricordato come lo stesso Pharazon, pur essendo ovviamente un personaggio squallido e corrotto, non aveva alcuna intenzione di sottomettersi a Sauron (almeno queste erano le sue intenzioni, quando preparò la sua flotta per conquistare Mordor). Per Pharazon, come per tanti altri suoi seguaci, Sauron era anzitutto un avversario «politico» in quanto le sue azioni aggressive minacciavano il dominio numenoreano nella Terra di Mezzo. Che Sauron fosse «anche» il discepolo di Morgoth doveva sembrare, per molti Numenoreani, un argomento trascurabile. Avrebbero reagito allo stesso modo se, per assurdo, Gil-Galad avesse deciso di intraprendere la conquista della Terra di Mezzo; state pur certi che non avrebbero esitato a dichiarargli guerra! Questa crisi insita nella rappresentazione della figura del monarca numenoreano è stata poi sviluppata nel mio «Racconto del Marinaio e dell’Infame Giuramento», al cui interno, partendo da questi scarni elementi presentati da Tolkien, mi sono spinto oltre, interrogandomi su una questione affascinante, destinata, naturalmente, a restare senza risposta: e se i tempi a Numenor, prima della Guerra civile, fossero divenuti maturi per una evoluzione radicale della forma monarchica di quella nazione? Cosa sarebbe accaduto se, oltre a porre in crisi la figura (debole) di Tar-Miriel, una parte dei Fedeli avesse avanzato riserve sull’istituzione monarchica in quanto tale?

Raminghi del Nord: declino o ripresa nella Quarta Era?

Nell’attesa di riprendere in mano il destino di Erfea dopo la scomparsa di Elwen, mi piace approfondire una questione legata ai suoi lontani discendenti, i Raminghi del Nord, gli eredi dello scomparso reame di Arnor. L’ispirazione per questo articolo mi è venuta dalla lettura, qualche giorno fa, di un quesito lanciato su una delle pagine Facebook dedicate al Signore degli Anelli, nel quale si chiedeva agli appassionati delle opere tolkieniane cosa potrebbe essere accaduto ai Dunedain del Nord dopo la restaurazione del regno di Arnor ad opera del re Elessar. La questione è molto interessante, non solo perché ci proietta inevitabilmente verso la Quarta Era e il dominio degli Uomini sulla Terra di Mezzo, ma soprattutto perché richiede un’analisi a metà tra il metodo di ricerca qualitativo e quello quantitativo per cercare di comprendere quale possa essere il futuro dei congiunti di Aragorn.

Cominciamo dalle promesse: nell’anno 3429 della Seconda Era, Elendil, Isildur e Anarion, accompagnati dai loro congiunti Fedeli, fuggono verso la Terra di Mezzo, per paura di finire invischiati nella follia scatenata da Ar-Pharazon per conquistare Aman, la terra dei Valar e ottenere così la vita eterna. I conti del sovrano, tuttavia, si rivelano tragicamente sbagliati e la sua impresa si conclude nel modo peggiore che si sarebbe potuto immaginare: la sua flotta viene distrutta e Numenor inabissata nelle profondità dell’Oceano. Destino diverso tocca ad Ar-Pharazon e agli uomini che con lui si erano accampati nelle Terre Beate: vengono seppelliti sotto una valanga di pietre e condannati a restare nelle Caverne dell’Oblio, dove sarebbero stati risvegliati solo al termine della Storia. Un racconto che, inevitabilmente, non può richiamare alla mente altre leggende simili, come quella che vorrebbe l’imperatore Federico I Barbarossa immerso in un sonno millennario all’interno di una grotta in Asia Minore (Anatolia) da dove si dovrebbe svegliare quando sarà giunta l’Ora. Per tacere, poi, delle più note vicende arturiane….

Ad eccezione del seguito di Ar-Pharazon, comunque, Tolkien sostiene che sopravvissero alla Caduta solo tre gruppi di Numenoreani: oltre ai già citati membri della spedizione comandata dalla famiglia di Elendil, l’autore menziona i Numenoreani che già da tempo vivevano nelle colonie che i loro avi avevano fondato nella Terra di Mezzo, come Pelargir e Annuminas. Nell’estremo Sud, infine, continuarono a sopravvivere le colonie dei Numenoreani Neri, gente che si era trasferita a vivere nella Terra di Mezzo per venerare Sauron perché erano avidi della conoscenza della sua Magia Oscura.

Fatta questa doverosa premessa storica, la prima domanda che dovremmo porci riguarda la demografia della società numenoreana: quanti abitanti vivevano a Numenor prima della sua Caduta? Per rispondere a questa domanda, è utile ricordare come nel volume «War of the Jewels» (non ancora tradotto in italiano) si accenni alla quasi estinzione degli Edain al termine della Prima Era: secondo Tolkien, probabilmente solo 10.000 tra uomini e donne erano sopravvissuti alla Guerra d’Ira. La maggior parte di loro, in seguito, fece vela verso la loro nuova patria, anche se un certo numero di Edain è probabile che possa essere rimasto nella Terra di Mezzo. Questi ultimi rappresentanti dei Secondogeniti, grazie alle arti degli Eldar e alla lunga pace che ne seguì, si moltiplicarono in fretta, fino a raggiungere una popolazione che deve essere stata ragguardevole, numericamente parlando. Non sappiamo, tuttavia, quanti fossero i Numenoreani: il bellissimo e ricco volume Atlante della Terra di Mezzo, scritto da Karen W. Fonstad, sostiene che l’Isola dell’Ovest fosse 40 volte più grande di Big Island, nelle Hawaii. Facendo due rapidi conti – e ipotizzando che i Numenoreani fossero più o meno al nostro stesso livello di scienza medica, come sembra suggerire Tolkien quando ricorda le loro arti di guarigioni al termine dell’Assedio di Gondor, definendole in grado di curare qualunque male umano, eccetto la vecchiaia – potremmo ipotizzare che a Numenor vivessero almeno 6,4 milioni di persone. Una cifra importante – data dalla moltiplicazione dell’attuale popolazione di Big Island per l’estensione di Numenor rapportata alle sue dimensioni – se paragonata a quella di altri regni tolkieniani: piccola, al contrario, se paragonata all’effettiva importanza che Numenor ricopriva nei meccanismi di potere della Seconda Era.

Quanti di questi Numenoreani potrebbero essere sopravvissuti alla Caduta? È molto difficile ipotizzare una risposta in merita: molto dipenderebbe dall’effettiva capacità di carico delle navi che furono usate da Elendil e dai suoi figli per sfuggire al disastro. Immaginando che fossero simili ai grandi galeoni di epoca moderna, potremmo azzardare un paragone con la Mayflower, la nave che nel 1620 salpò alla volta degli odierni Stati Uniti d’America: essa era in grado di portare circa 130 persone (compresi i membri dell’equipaggio). Se ipotizziamo come base di partenza 130-150 uomini per nave, allora le nove imbarcazioni numenoreane potrebbero aver salvato circa 1170-1350 Dunedain: un po’ troppo pochi, in effetti, per fondare due regni, Arnor e Gondor, nella Terra di Mezzo. Dobbiamo allora supporre che essi furono accolti da una fiorente comunità di esuli numenoreani (cui apparteneva anche Erfea, tanto per restare in tema); tuttavia Tolkien, pur ammettendo che negli anni precedenti alla Caduta molti Numenoreani avevano preferito stabilirsi nella Terra di Mezzo, non offre alcuna cifra utile per quantificare il loro numero. Possediamo, tuttavia, due indizi indiretti per cercare di avere un’idea, almeno sommaria, della popolazione dei Regni in Esilio: al termine dei colloqui imbastiti per decidere quale strategia adottare contro Sauron, infatti, Imrahil di Dol Amroth ricorda i bei tempi andati di Gondor, paragonando la piccola schiera raccolta dai Capitani dell’Ovest all’avanguardia dell’esercito di Gondor nel suo glorioso passato. Considerato che Aragorn aveva raccolto circa 7500 uomini (ma tra questi andrebbero considerati anche i Rohirrim), dovremmo immaginare che l’esercito di Gondor ai tempi del suo apogeo fosse costituito da un minimo di 21.000 uomini (se accettiamo che un terzo di loro combattessero all’avanguardia) ad un massimo di 28.000 (se invece optiamo per un rapporto retroguardia/corpo centrale dell’esercito di 1 a 2). Indubbiamente un numero di tutto rispetto; tuttavia, se confrontato con quello di altri eserciti medievali o di età moderna, appare sensibilmente piccolo (per esempio, l’armata francese alla battaglia di Azincourt nel 1415 contava tra i 36.000 e i 50.000 uomini; ancora, l’esercito della sola città Atene alla battaglia di Maratona del 490 a.C. annoverava almeno 10.000 uomini). Questo dato potrebbe gettare luce sulla popolazione globale di Gondor: considerato che mancano esempi di leva obbligatoria nei romanzi di Tolkien, e dato perciò per assunto che l’esercito del regno del Sud fosse costituito solo da professionisti, potremmo immaginare che la sua popolazione fosse compresa tra i 300.000 abitanti (un soldato per ogni dieci abitanti), fino ad un massimo di 1.500.000 (un soldato per ogni cinquanta abitanti). Un dato, quest’ultimo, che confermerebbe la bassa densità demografica del regno di Gondor, considerato che alla sua massima espansione territoriale, la sua superficie era pari a circa 700.000 miglia quadrate. A complicare la questione, inoltre, bisogna considerare che Imrahil avrebbe potuto fare riferimento all’esercito di Gondor in un altro momento storico di grande sviluppo del Regno del Sud, quale, per esempio, quello connesso con la dinastia dei Re Navigatori fra il IX e il XII secolo della Terza Era…

Nel regno di Arnor, la cui estensione non superò mai le 250.000 miglia quadrate di superficie, la situazione avrebbe potuto essere anche peggiore, sotto un punto di vista demografico: nel racconto dedicato al disastro dei Campi Iridati, presente nel volume «Racconti incompiuti», Tolkien sostiene che la perdita dei 200 uomini che componevano la guardia del corpo di Isildur arrecò un grave colpo alla stabilità del regno di Arnor, la cui popolazione risultò sempre inferiore rispetto a quella del suo gemello meridionale.
È questo un concetto che spiega molto bene Elrond, durante il consiglio con i rappresentanti dei Popoli Liberi: «A nord, dopo la guerra e la catastrofe di Campo Gaggiolo, gli Uomini dell’Ovesturia erano scemati, e la città di Annuminas vicino al Lago Evendim cadde in rovina; e gli eredi di Valandil si trasferirono a Fornost sulle alte Lande del Nord, ed anche lì ora tutto è desolazione. […] Il popolo di Arnor infatti si estinse, e i suoi nemici lo divorarono, e la loro signoria scomparve, lasciando soltanto tumuli verdi sulle colline erbose» (SdA, p. 199).
Potremmo quindi azzardare un paragone con la storia greca e più precisamente con Sparta, il cui sovrano, in epoca classica, era protetto da una guardia del corpo di 300 uomini (i famosi protagonisti dell’omonimo film del 2007). Oltre a questi soldati, Sparta poteva mettere in campo circa 10.000 soldati: quindi, utilizzando l’ipotesi precedente, potremmo stabilire in circa 100.000 unità la popolazione del regno di Arnor (soglia minima) e 500.000 (soglia massima). Si comprende bene, perché, dunque, con la tripartizione del regno del Nord avvenuta nell’anno 861 della Terza Era, Arthedain, Cardolan e Rhudaur, le nuove entità statali succedutesi allo scomparso regno di Arnor, fossero divenute facili prede del Re degli Stregoni di Angmar (il capitano dei Nazgul).

E giungiamo così, dopo questa lunga premessa (che spero i miei lettori mi perdoneranno) alla scomparsa dell’Arthedain – ultimo dei regni dei Dunedain nel Nord – nell’anno 1974 della Terza Era: Tolkien scrive chiaramente che, nonostante la distruzione, avvenuta nel corso dell’anno successivo, della potenza di Angmar, resa possibile grazie alla collaborazione fra forze di Gondor, degli elfi del Lindon e dei supersititi dell’Arthedain, non fu possibile più restaurare alcun organismo statale al Nord. Una delle maggiori cause a favore di questa scelta potrebbe essere stata la drastica riduzione della sua popolazione, che non riuscì più a riprendersi dalle distruzioni e dai lutti della guerra, nonostante la linea regale fosse sopravvissuta: i pochi sopravvissuti alla caduta dell’Arthedain divennero noti come i Raminghi, probabilmente perché persero i connotati tipici di una civiltà urbana a favore di un maggior nomadismo. Un destino invero infelice per gli eredi di un popolo che, stando a quanto riferì Ghan-Buri-Ghan a Theoden, utilizzavano tanta di quella pietra per le loro costruzione da far credere che fosse il loro alimento preferito!

Quanti Dunedain sopravvissero a Nord? È molto difficile dare una risposta a questa domanda: nel dialogo che segue fra Gandalf e Frodo dopo il risveglio di questi nella casa di Elrond, lo stregone non sembra essere molto fiducioso nelle capacità di recupero dei discendenti di Numenor, perlomeno di quelli stabilitisi al Nord: «La stirpe dei Re venuti dall’altra sponda del Mare è quasi estinta. È probabile che questa Guerra dell’Anello sia la loro ultima avventura» (SdA, p. 181) Nel corso del romanzo, alla vigilia della grande guerra contro Sauron, Aragorn viene soccorso dalla Compagnia Grigia; Halbarad, portavoce della Compagnia, così si esprime in merito alla sua formazione: «Ho trenta Uomini con me […] Tutti coloro che riuscii a radunare in fretta; ma anche i fratelli Elladan ed Elrohir fanno parte del gruppo» (SdA, p. 589).

Queste indicazioni, se pur scarne, possono aiutarci ad abbozzare una tesi, per quanto essa possa sembrare semplice, quasi rudimentale: è possibile, infatti, che la Grigia Compagnia fosse costituita dai Dunedain che abitavano o comunque agivano nei pressi di Gran Burrone; questa ipotesi si regge sulla compartecipazione dei figli di Elrond alla Compagnia. Se questi Raminghi, infatti, fossero giunti a Rohan da altre regioni del regno scomparso di Arnor avrebbero probabilmente impiegato molto più tempo ad arrivare; senza considerare che, con ogni probabilità, fu Galadriel a comunicare ad Elrond la necessità che i superstiti del popolo di Numenor si radunassero per aiutare Aragorn nella sua missione. Per inciso, questa circostanza ci permette di approfondire un’interessante questione: come facevano Galadriel ed Elrond a comunicare a distanza? Sembra possibile che essi potessero parlare telepaticamente, come sembra sia avvenuto, per esempio, al termine della Guerra dell’Anello, quando, durante le notti, essi erano soliti chiacchierare con Gandalf senza però pronunciare parola.

Tornando alla questione demografica dei Raminghi, ad ogni modo, il numero di trenta uomini sembra molto esiguo: le parole di Halbarad, comunque, sembrano alludere alla presenza di altri Raminghi sparsi nelle regioni dell’ex regno di Arnor, ma non ci dicono altro. Nei «Racconti Incompiuti» si accenna, in una delle tante versioni scritte da Tolkien della caccia all’Anello tentata dai Nazgul, ad uno scontro che sarebbe accaduto tra i Raminghi e i Cavalieri Neri per impedire agli Spettri dell’Anello di entrare nella Contea. Dalla scarna narrazione delineata dall’autore si può intuire che vi fossero almeno una decina di Raminghi: ma anche volendo considerare quest’altro piccolo gruppo, saremmo ancora a 40 uomini. Immaginando che per ogni uomo in assetto di guerra vi fossero almeno una donna, un/a bimbo/a e un anziano, potremmo arrivare a 120 persone. Stando al racconto che narra Gandalf ad Omorzo, al ritorno a Brea dopo la caduta di Sauron, i Raminghi abitavano ancora fra le rovine di Fornost: dobbiamo quindi considerare una loro presenza anche in quella che era stata un tempo la capitale dell’Arthedain. Con uno sforzo ulteriore di speculazione, quindi, potremmo immaginare che vi fossero almeno 100 Raminghi, ed avere una popolazione pari a circa 400 individui, simile a quella che attualmente abita un piccolo paese in Italia.

Decisamente troppo pochi per rifondare un Regno.

Se questa teoria fosse vera, giustificherebbe i timori di Gandalf in merito alla possibile estinzione dei Dunedain, in caso avesse vinto Sauron, alla fine della Guerra dell’Anello. Anche arrivando a ipotizzare 1000 abitanti sparsi nelle regioni che un tempo appartenevano ad Arnor, resterebbe un numero troppo basso di abitanti per poter ricolonizzare quelle terre. Concludo questo lungo articolo ipotizzando che la ripresa di Arnor avvenne solo grazie all’emigrazione massiccia di Uomini dalle regioni meridionali della Terra di Mezzo: si può supporre che i Dunedain superstiti fossero stati integrati nella nuova società del regno, magari assumendo cariche di primo piano a livello politico e finendo così per costituire la «nuova» nobiltà del rifondato Regno del Nord.

Nessuno tocchi la Bocca di Sauron! L’importanza del fairplay e delle leggi nelle opere tolkieniane

Uno dei personaggi meno amati del Signore degli Anelli è certamente la Bocca di Sauron. Non credo sia necessario soffermarmi sui motivi che spingono i lettori del romanzo di Tolkien a detestarlo, ma per coloro che non conoscano questo personaggio, mi ci soffermerò brevemente: la Bocca di Sauron, come dice lo stesso appellativo, è una sorta di ambasciatore dell’Oscuro Signore, incaricato di comunicare la volontà del suo padrone ai suoi servi e ai suoi avversari. Nessuno conosce il suo vero nome e le storie non ne parlano: si dice che lui stesso l’avesse dimenticato, assorbito com’era dal compito di rappresentare l’autorità di Sauron; sembra, tuttavia, che fosse un discendente dei Numenoreani Neri, coloni che si erano stabiliti sulle coste meridionali della Terra di Mezzo durante la Seconda Era, adorando Sauron perché erano avidi di scienza malefica. Non si hanno altre notizie su questo personaggio, se non che aveva fatto una rapida carriera nelle file dei servi di Sauron, arrivando a godere della piena fiducia del suo padrone, e mostrando una crudeltà superiore a quella di qualunque orco. Emerge qui un particolare molto importante: come forse alcuni ricorderanno, Sauron vietava ai suoi servi di pronunciare il suo nome o di scriverlo, adoperando come emblema l’Occhio rosso circondato dalle fiamme. La scelta della Bocca di Sauron di utilizzare nel proprio appellativo il nome del malvagio Maia, dunque, indica da parte sua una perfetta coesione di mente e di spirito con il suo Signore: questo ci mostra, dunque, quanto questo uomo fosse ormai divenuto un pupillo di Sauron.

La Bocca di Sauron, in qualità di araldo del suo signore, aveva dunque il compito di parlamentare con i rappresentanti delle schiere dell’Ovest: Tolkien, che non usa mai parole a caso, descrive chiaramente quale fosse lo scopo dell’Oscuro Signore in tutto ciò: «Ma Sauron aveva già i suoi piani, e intendeva giocare crudelmente con quei topi prima di ucciderli». Ecco, vorrei sottolineare il verbo giocare: Sauron vuole imbastire una «scenetta teatrale» al fine di mostrare un falso rispetto nei confronti dei suoi nemici. Il gioco, tuttavia, ha delle regole sacre, che neppure Sauron, considerato forse il massimo signore dell’inganno della Terra di Mezzo (chiedere a Celebrimbor per avere conferma) intende trasgredire: a questo proposito mi vengono in mente le riflessioni di Tolkien su un altro gioco, quello degli indovinelli fra Bilbo e Gollum, sul quale scriveva che era un «gioco antico, del quale neppure le creature più malvagie osavano infrangere le regole». Sauron ha ben chiare le regole di quel sottile gioco che è la diplomazia e non sembra volerle trasgredire: naturalmente, alla base del suo comportamento, non c’è una volontà di redenzione, né di riconoscimento reciproco dei suoi nemici come essere dotati di propria dignità. La Bocca di Sauron, infatti, dopo averli scrutati per bene, non perde occasione per deridere i Capitani dell’Ovest: «Vi è qualcuno in mezzo a questa folla che abbia l’autorità di trattare con me?» domandò. «O addirittura il cervello per capirmi? Certo non tu!», disse con tono sarcastico deridendo Aragorn. «Per fare un re ci vuole altro che un pezzo di vetro elfico o delle plebaglia come questa! Come? Qualsiasi brigante delle montagne può disporre di eguali seguaci!» Sauron, dunque, intende condurre il gioco a modo suo: proprio come molti calciatori che non perdono occasione di irridere l’avversario, sperando di non essere ripresi a loro volta dall’arbitro, ma non tralasciando occasione, a loro volta, di attirare l’attenzione del giudice di gara quando ritengono di essere a loro volta vittime di ingiustizie, la Bocca di Sauron richiama allarmato Aragorn al «rispetto» delle regole, nonostante il ramingo non avesse fatto nulla per minacciarlo, se non, forse, mostrargli, attraverso il suo penetrante sguardo, la sua meschinità e malvagità. «Sono un araldo e un ambasciatore, e non posso essere assalito!». A questo punto è Gandalf che dimostra come ci siano in campo delle regole che devono essere rispettate da entrambe le parti, se si vuole continuare a seguire quel clima di fair-play, di rispetto dell’avversario, che nasce nelle università inglesi nel corso del diciannovesimo secolo, e che certamente Tolkien doveva aver ben presente. «Ove vigono simili leggi» disse Gandalf, «vi è anche la consuetudine che gli ambasciatori siano meno insolenti. Ma nessuno ti ha minacciato. Non hai nulla da temere da noi fino a quando non avrai portato a termine il tuo compito. Ma dopo, a meno che il tuo padrone non sia colto da improvvisa saggezza, tanto tu quanto tutti i suoi servitori correrete grave pericolo». Stiamo per entrare nel nocciolo della questione, che spero possa essere d’aiuto nel far comprendere le ragioni del titolo che ho adottato per questo articolo: Gandalf (come gli altri Capitani, s’intende) è perfettamente conscio del ruolo che la Bocca di Sauron incarna e non intende attaccarlo prima che questi abbia completato il suo lavoro di ambasciatore. Secondo me, questo è uno dei punti più alti del Signore degli Anelli, in termini di umanità, e segna un profondo distacco fra Sauron e i suoi nemici: proprio nel momento, infatti, in cui entrambe le forze si confrontano in un dialogo verbale, teso quanto si vuole, pieno di trappole verbali e di menzogne, naturalmente, Gandalf riconosce al suo nemico, alla rappresentazione carnale dello spirito di Sauron (e dunque, per esteso, a Sauron stesso) una dignità che nessun servo del male riesce a ricambiare. Per la Bocca, infatti, è piuttosto chiaro quale deve essere il suo compito: irretire il nemico, mostrargli che ogni speranza è destinata ad essere delusa e che l’Anello è già rientrato (o lo farà presto) nelle mani del suo Padrone. È un grande bluff, in fondo, quello che la Bocca conduce: e lo fa, bisogna ammetterlo per onestà intellettuale, in modo molto convincente. Avendo in mano alcuni oggetti appartenuti a Sam e Frodo, pur ancora ignorando la loro missione nella Terra di Mordor, ha tuttavia compreso che sono cari a Gandalf e ai suoi amici: Sauron intende sfruttare a suo vantaggio quella che, secondo il suo metro di giudizio, è una grave debolezza, ossia l’affetto che lega fra loro persone che si vogliono bene, che non possono certo restare indifferenti rispetto al destino dei due hobbit torturati dagli aguzzini della Torre Oscura. L’araldo di Mordor godette nel vedere i loro volti grigi di paura e l’orrore in fondo ai loro occhi, e rise di nuovo, perché gli parve che il suo gioco procedesse nel migliore dei modi. Ancora una volta, Tolkien sceglie il termine «gioco» per indicare l’attività del Numenoreano Nero: è un gioco diplomatico, certamente, nel quale si chiede molto, evidentemente troppo, come si capisce dalla lettura delle condizioni che questi detta ai suoi avversari e che qui riassumo: cessione delle Terre ad est dell’Anduin a Sauron; conclusione dello stato di guerra contro Mordor; trasformazione dei territori ad ovest dell’Anduin in tributari di Sauron, o, per meglio dire, della Bocca, che sarebbe divenuto il tiranno dei popoli liberi. Dinanzi alla legittima richiesta di Gandalf di esibire prove concrete della prigionia di Frodo e Sam e alle sue critiche in merito alla richiesta di Sauron di ottenere senza combattere ciò che sul campo di battaglia avrebbe dovuto faticare a guadagnarsi (cfr. Battaglia dei Campi del Pelennor), la Bocca esita: come un giocatore di poker al quale si chiede di mostrare le carte troppo presto, egli appare per un attimo incerto su quale ruolo deve ora giocare per ottenere la sottomissione di Gandalf; ma poi si riprende, utilizzando come arma non più una fine, per quanto malvagia, dialettica, (con la quale, evidentemente, ha fallito) ma solo la bruta minaccia, strettamente connessa a un cambio nella voce dell’uomo: «Non sprecare parole, insolente, con la Bocca di Sauron!», gridò. «Pretendi sicurezza! Sauron non ne dà. Se supplichi la sua clemenza devi prima fare ciò che vuole. Sono queste le sue condizioni. Prendere o lasciare!»

A questo punto, con la bravura tipica solamente dei grandi scrittori, Tolkien inserisce un colpo di scena brillante (e non solo in senso metaforico): il manto di Gandalf si apre e una grande luce invade quel luogo oscuro. La Bocca di Sauron, atterrita, capisce che il suo ruolo è terminato: «ha sparato tutte le sue cartucce», come direbbero i fan dei film western. I Capitani dell’Ovest hanno compreso che Sauron ha imbastito un grande bluff e che, in realtà, non ha niente con cui minacciarli che non sia la forza bruta dei suoi eserciti. La Bocca di Sauron viene così bruscamente congedata: nessuna delle sue condizioni, ovviamente, viene accettata e Gandalf, nel rivolgergli le ultime parole, profetizza un destino di morte nei suoi confronti. Nessuno, però, è in grado di verificare se le parole di Gandalf corrispondano a verità: dopo che la Bocca fugge e l’esercito di Sauron si precipita fuori dal Cancello Nero, l’ultimo accenno a questa malvagia figura lo troviamo in un pensiero espresso da Peregrino Tuc, poche righe più in basso: «Se potessi colpire con essa quell’infame Messaggero, riuscirei quasi a eguagliare il vecchio Merry» (il quale, come sappiamo, aveva contributo a uccidere il Re degli Stregoni in persona). Si tratta solamente di un desiderio, di un auspicio che evidentemente non trova modo di concretizzarsi: come apprendiamo proseguendo la lettura, infatti, Pipino ucciderà il capo dei Troll Neri prima di svenire; e questa sarà la sua ultima azione in battaglia, benché egli avrebbe voluto certamente fare di più. Della Bocca di Sauron Tolkien non scriverà più alcunché: siamo dunque liberi di pensare che sia sopravvissuto, portando magari con sè i libri di magia del suo Padrone nell’Estremo Est (mia ipotesi personale), dove potrebbe aver proseguito il culto di Sauron e di Morgoth (e questo destino ben si legherebbe a quanto Gandalf sostiene nell’ultimo consiglio dei Capitani dell’Ovest, prima di partire per il Morannon, in relazione all’idea che altri mali potrebbero giungere dopo la fine di Sauron), oppure credere che sia stato ucciso nel crollo della Barad-Dur, ucciso insieme al suo padrone.

In fondo, comunque, il suo destino poco conta sull’economia della storia del Signore degli Anelli; alzando un po’ il tiro, potremmo anche aggiungere che la stessa figura della Bocca di Sauron non ha in fondo grande importanza per comprendere le linee generali dell’opera tolkieniana. Per questa ragione, ricordo di non essere rimasto particolarmente deluso quando, nel gennaio del 2004, non trovai la Bocca di Sauron nell’ultimo capitolo della trilogia cinematografia di Jackson; che la sceneggiatura contemplasse o meno la sua figura, infatti, non era secondo me rilevante. L’esercito dell’Ovest arriva al Morannon e viene attaccato dalle orde di Sauron. Punto. Sostanzialmente la successione degli eventi è questa e la comparsa della Bocca di Sauron avrebbe avuto solo l’effetto di spezzare il ritmo dell’azione: ragion per cui pensai che, in fondo, sostituire il dialogo Gandalf-Bocca con l’incitamento di Aragorn ai suoi uomini non fosse una cattiva idea.

Qualche mese più tardi, tuttavia, iniziarono a uscire dei rumors che mostravano i primi fotogrammi della Bocca di Sauron: perdonate il gioco di parole, ma non potei esimermi dallo storcere la mia, di bocca! L’araldo, infatti, mi pareva troppo grottesco, una sorta di Jocker trapiantato nella Terra di Mezzo: pensai, comunque, che fosse in linea con un certo gusto trash al quale Jackson non era certo estraneo e quindi, dopo un iniziale senso di sgomento e perplessità, feci spallucce.

Quello che mai mi sarei aspettato di vedere, tuttavia, e che ebbi modo di scoprire solo quando acquistai il DVD della versione estesa de “Il Ritorno del Re” fu che Aragorn avesse decapitato la Bocca di Sauron, con la compiacenza dei suoi amici, Gimli in primis!!!

Scusate, ma è una scena che ancora oggi non posso accettare.

Come ho cercato di spiegare nel corso di questo corposo articolo (i miei lettori mi perdoneranno per la sua lunghezza), non provo certamente simpatia per la Bocca di Sauron, un essere spregevole come pochi nella Terra di Mezzo e ho cercato anche di spiegarne il perché. Dirò di più: sono certo che se Tolkien si fosse dilungato ulteriormente su questo personaggio, magari descrivendone la morte in battaglia, avrei ghignato, pensando che sarebbe stato giusto così. Attenzione, però: non ho scritto «in battaglia» a caso. In guerra valgono altre regole, se così si può dire: Aragorn, Gandalf o Pipino avrebbero avuto tutto il diritto (e l’approvazione di milioni di lettori e lettrici, immagino) se avessero ucciso la Bocca di Sauron, magari in un duello a singolar tenzone; e altrettanta soddisfazione sono certo che avrebbero espresso se un cornicione di Barad-Dur gli fosse caduto in testa, liberando il mondo della sua presenza.

Ma non è andata così. E, soprattutto, non si può lasciare che un ambasciatore venga decapitato perché è un essere infido e malvagio.

No.

Se ci sono delle regole, delle leggi, i primi che dovrebbero applicarle sono i «buoni», tanto per adoperare un termine di immediata comprensione. Gandalf lo sa molto bene e infatti la sua conversazione con la Bocca di Sauron è severa, ma corretta. È un insegnamento, il suo, che può e deve essere applicato in tanti contesti, anche (ovviamente) meno pericolosi di quelli della Terra di Mezzo. Si tratta di un modo per dimostrare che l’istinto di violenza non può prendere il sopravvento sul rispetto delle leggi: quelle stesse norme di convivenza che permettono alla nostra specie e a tutte quelle dei mondi fantasy che mente umana potrà mai concepire, di sopravvivere alle più oscure nefandezze che, in aperto disprezzo di quelle stesse regole, compiono, purtroppo, alcuni dei suoi membri.

Nel prossimo articolo, vedremo come si comporteranno Erfea e i Capitani dell’Ultima Alleanza dinanzi alle minacce e alle ingiurie dei servi di Sauron. Saranno in grado di tenere fede alla loro «umanità»?

Una vittima di fake-news? Balin e la fallita riconquista di Moria

Dal momento che il prossimo racconto del «Ciclo del Marinaio» sarà ambientato a Khazad-Dum, ho pensato di dedicare questo articolo a uno dei nani più importanti della linea di Durin, lo sfortunato Balin, cugino di Thorin Scudodiquercia e primo signore di Moria dopo che i nani fuggirono via dalla loro ancestrale dimora nel 1981 della Terza Era, spaventati dal risveglio del Balrog.

Balin dimostra fin dal principio dello «Hobbit», romanzo nel quale appare per la prima volta, una grande umanità e disponibilità a collaborare con Bilbo: è l’unico nano, infatti, al quale l’hobbit si rivolge senza adoperare la consueta formula di saluto che adotta con gli altri nani (Bilbo Baggins servo vostro). Scioccato dall’apparizione di quegli ospiti non previsti nella sua casa, Bilbo risponde al suo saluto con un semplice «grazie». Balin, tuttavia, non sembra prendersela a male: per avere un’idea di paragone con la reazione di un altro nano, ossia Thorin, considerate che al suo arrivo Bilbo dovette scusarsi «tante di quelle volte che alla fine egli grugnì un «per favore, non importa», e spianò il suo cipiglio» (Lo Hobbit, p. 23).

Al termine della fuga dalle Montagne Nebbiose, Bilbo, che è riuscito a sgaiattolare dinanzi alla guardia di Balin grazie ai poteri dell’Anello, ha modo di chiudere l’imbarazzante scenetta che l’aveva visto protagonista durante il primo incontro con questo nano. «Be’, è la prima volta che perfino un topo mi è passato proprio sotto al naso facendo attenzione e in silenzio, senza che io l’abbia avvistato» disse Balin «e ti faccio tanto di cappello». E così fece. «Balin al vostro servizio» disse. «Baggins, servo vostro» disse Bilbo (Lo Hobbit, p. 113). Anche in questo caso, come si può notare, Balin non reagisce in modo stizzito dinanzi all’abilità dimostrata da Bilbo, anzi ne riconosce in modo sportivo la bravura. In seguito, durante la prigionia nelle segrete di re Thranduil, è Balin, il più anziano della compagnia dopo l’apparente scomparsa di Thorin (che è stato, in realtà, imprigionato dagli elfi prima dei suoi amici) a provare a difendere se stesso e i suoi amici dall’accusa di aver commesso un crimine nel territorio degli elfi silvani: «Ma che cosa abbiamo fatto, o re? […] È forse un crimine perdersi nella foresta, avere fame e sete, essere intrappolati dai ragni? I ragni sono dunque i vostri animali domestici o vostri cari amici, che ucciderli vi fa infuriare?» (Lo Hobbit, p. 198).

Dopo aver con successo ritrovata e aperta la porta segreta sul fianco della Montagna Solitaria, è ancora Balin «che aveva molto simpatia per lo hobbit» (Lo Hobbit, p. 243) a offrirsi, unico fra i suoi compagni, per accompagnare Bilbo all’interno del passaggio segreto che conduceva alla grande sala di Thror, ove dormiva Smaug. Ed è sempre Balin che cerca di confortarlo dopo che Smaug lo aveva quasi ucciso e soprattutto, dopo che aveva instillato nell’animo di Bilbo il dubbio che i Nani lo avessero ingannato riguardo alla spartizione del tesoro (Lo Hobbit, p. 260). Dopo l’attacco di Smaug a Pontelagolungo, è ancora Balin a cercare di aiutare Bilbo, disperso nel buio della Montagna (Lo Hobbit, p. 271). Al termine della Battaglia dei Cinque Eserciti, è Balin che, a nome di tutti i nani superstiti della compagnia di Thorin, saluta Bilbo e gli augura di ritornare da loro per visitare il regno restaurato (Lo Hobbit, p. 328) ed è, ancora, l’unico nano che, accompagnato da Gandalf, torna a fare visita a Bilbo alcuni anni più tardi (Lo Hobbit pp. 341-342).

Nel «Signore degli Anelli» Balin non è più presente fisicamente, ma compare solo nel ricordo dei personaggi che lo conoscevano, primo fra tutti, Gloin, membro della compagnia di Thorin, e poi divenuto ambasciatore del Regno sotto la Montagna, che accenna alla sua figura prima in un colloquio con Frodo, poi, in modo più dettagliato, durante il Concilio di Elrond.

«Son già passati molti anni – disse Gloin – da quando un’ombra inquietante cadde sul nostro popolo. Sulle prime non ci rendemmo conto da dove venisse. Parole incominciarono a sussurrarsi in gran segreto: si disse che eravamo intrappolati in una terra stretta e scomoda, e che nel resto del mondo avremmo trovato maggiore splendore e ricchezza in quantità. Alcuni parlarono di Moria: le imponenti opere dei nostri padri, chiamate nella nostra lingua Khazad-Dum; essi sostennero che ormai eravamo finalmente abbastanza potenti e numerosi per ritornarvi. […] Ma ora se ne parlava di nuovo con nostalgia, eppur con timore, perché nessun Nano ha osato varcare le porte di Khazad-Dum da molti e molti anni. […] Infine, comunque, Balin prestò orecchio ai sussurri e decise di partire; e benché Dain non fosse molto entusiasta di vederli andar via, portò con sé Ori ed Oin e molti dei nostri, e si misero tutti in cammino verso sud. Questo avvenne all’incirca trent’anni fa. Per un certo tempo giunsero notizie che parevan buone: messaggi comunicavano che essi erano entrati a Moria, e avevano messo in opera grandi lavori. Poi vi fu il silenzio, e da allora non abbiamo più ricevuto una sola parola da Moria» (Il Signore degli Anelli, p. 197).

Come si può notare da questa lunga citazione, Tolkien descrive molto bene il meccanismo delle fake-news, anche se immagino non fossero molto diffuse ai suoi tempi: nessuno fra i Nani è in grado di indicare con precisione chi abbia iniziato a diffonderle, eppure non può ignorarne l’esistenza; come ogni fake-news che si rispetti, inoltre, è stata costruita in modo da non apparire palesamente falsa all’interno di uno specifico uditorio; in terzo luogo, si dimostra in grado di spaccare la comunità fra coloro che vi prestano ascolto (Balin & Co.) e quanti mantengono perplessità e riserve, come Dain e lo stesso Gloin. Quanto alla seconda condizione, vorrei sottolineare come una fake-news che avesse sottolineato la liberazione di Moria dal Balrog sarebbe stata troppo grossolana per essere creduta, dal momento che avrebbe suscitato diversi interrogativi, come questi che riporto di seguito: «Quando è stato ucciso?» e soprattutto «Qual è stato l’eroe in grado di misurarsi con un avversario così temibile?» La fake-news, invece, deve dimostrarsi credibile, facendo, allo stesso tempo, leva sull’orgoglio e sull’ambizione di chi l’ascolta: sono i Nani ad essere divenuti troppo numerosi e potenti per restare confinati nella Montagna Solitaria, non è il resto del mondo ad essere cambiato. Balin, nonostante tutta la sua esperienza e saggezza ci casca: probabilmente, si può immaginare che alla base della sua valutazione errata, ci fosse il ricordo dello sfortunato tentativo di Thor, che aveva cercato, inutilmente, di reclamare il trono di Moria, e la necessità di rintracciare alcuni cimeli della casa di Durin, come l’Ascia di Durin I il Senzamorte e l’ultimo anello dei Nani che, erroneamente, credeva fosse stato nascosto in una delle tombe regali di Khazad-Dum, mentre, come sappiamo, era stato estorto da Sauron a Thrain II nelle segrete di Dol-Guldur molti anni prima.

La storia della colonizzazione di Moria da parte di Balin e dei suoi compagni avrebbe meritato un’appendice a parte: è davvero un peccato, a mio parere, che Tolkien non abbia scritto altro su questo valoroso, ma sfortunato tentativo di riacquistare il controllo di Moria da parte dei Nani. Si può ragionevolmente supporre che nel libro di Mazarbul fosse narrata questa vicenda in modo approfondito: giustamente, tuttavia, la Compagnia non poteva dedicarvi il tempo necessario per esaminarlo nella sua integrità, sia perché le sue condizioni materiali erano penose, sia perché mancava il tempo per farlo (anzi, si potrebbe aggiungere che averne lette alcune pagine abbia fatto correre il rischio di portare al fallimento l’intera missione, facendo cadere la Compagnia nell’agguato degli Orchi e del Balrog). Pur non essendo l’argomento principale di questo articolo, mi preme sottolineare un dettaglio che spesso sfugge ai lettori e agli appassionati in genere del «Signore degli Anelli» in merito all’incantesimo che protegge i cancelli occidentali di Moria. Molti fan, infatti, sia sui blog che sulle pagine facebook dedicate alla Terra di Mezzo, si sono chiesti perché Sauron, ai tempi delle guerre contro i Nani e gli Elfi dell’Eregion, non sia riuscito a superare le difese delle porte di Moria, nonostante la possibilità di risolvere, come fece Gandalf, l’enigma intorno alla parola di comando del cancello. Si dimentica, invece, a questo proposito, che le lettere tracciate sulla porta del reame nanico, a differenza di quanto mostrato nella prima opera cinematografica di P. Jackson, non sono «automaticamente» richiamate dalla luce dei raggi della luna e delle stelle, ma dormono sin quando non sentono «il tocco di chi pronunzia parole ormai da tempo obliate nella Terra di Mezzo» (SdA, p. 246), e che Sauron, a differenza di Gandalf, evidentemente non conosceva.

Chiusa questa piccola parantesi, cerchiamo di comprendere quale possa essere stata la storia della colonia: sappiamo, in primo luogo, che Balin fu accompagnato da molti nani. È difficile però stabilire il loro numero: proprio in alcuni paragrafi successivi alla descrizione del libro di Mazarbul, infatti, Tolkien dichiara che Aragorn e Boromir uccisero molti orchi: in realtà, il computo finale delle vittime è di soli 13 caduti, in pratica poco più di un orco ucciso per componente della Compagnia. Una cifra che, almeno apparentemente, ci appare deludente per giustificare l’uso del termine «molti» da parte dell’autore, soprattutto se confrontiamo il brano in questione con la sua rappresentazione cinematografica, ove gli orchi muoiono a decine. Cosa intendeva dire, dunque, Tolkien, quando scriveva che la compagnia di Balin era composta di numerosi nani, destinati a colonizzare almeno una parte del vasto regno nanico? Cinquanta, o ancora di più? Purtroppo è difficile rispondere a questa domanda: Gandalf, leggendo alcune pagine del libro di Mazarbul, annota solo sette morti: Fili, che viene ucciso nel primo scontro con gli Orchi; Balin stesso; Frar, Loni, Noli nella difesa del secondo salone; infine Oin e Ori. Decisamente troppo pochi per fondare una colonia in un territorio così ostile come quello di Moria. Dagli scarni brani recuperati dal libro di Mazarbul, inoltre, veniamo a sapere che i nani di Balin dovevano essere stati in grado di riaprire almeno una parte delle miniere di mithril e che dovevano aver recuperato dai sepolcri reali alcuni cimeli come l’Ascia di Durin. Sembra, inoltre, che i Nani stanziarono un dominio abbastanza circoscritto, occupando stabilmente solo i saloni attigui al Cancello Orientale, mentre una piccola spedizione potrebbe essere stata inviata al cancello dell’Agrifogliere, ossia quello dal quale aveva fatto il suo ingresso la Compagnia dell’Anello, e a recuperare le armerie superiori del Terzo Abisso. A questo punto, una domanda sorge spontanea: i Nani della colonia possedevano mappe di Moria, oppure si orientavano a tentoni? Quest’ultima ipotesi sembra difficilmente credibile, considerando che avrebbe potuto così incrementare la possibilità di imbattersi nelle aree occupate dagli Orchi: ritengo, dunque, che i Nani avessero conservato mappe di Moria, alle quali, però, non tutti dovevano avere accesso, dal momento che Gimli sembra orientarsi più facendo affidamento alle tradizioni orali della sua gente che non a indicazioni precise sui luoghi che stavano attraversando. Un altro dubbio al quale è difficile offrire una risposta riguarda la questione alimentare: come fecero i Nani, che solitamente non praticano l’agricoltura, a sopravvivere in un territorio ostile come quello di Moria per ben cinque anni? Solitamente essi ricorrevano al commercio per procurarsi le derrate alimentari: ma con quali popoli potevano commerciare a Moria (Orchi a parte)? Si può credere che essi, spinti dal bisogno e dalla disperazione, avessero preso a coltivare le terre vicine al Mirolago; credo, tuttavia, che non avessero rinunciato neppure al commercio, magari con i beorniani, (se consideriamo che con gli Elfi di Lorien essi non avessero rapporti a causa dell’ostilità fra i due popoli), dal momento che alcuni messaggeri, stando alle parole di Gloin, erano riusciti a percorrere una distanza anche maggiore rispetto a quella che separava Khazad-Dum dalle dimore dei beorniani, facendo la spola tra Moria e la Montagna Solitaria per alcuni anni. A meno che – un’opzione da non escludere a priori – i messaggi non fossero portati da uccelli, come avviene nell’Hobbit.

L’ultima pagina tratta dal libro di Mazarbul è, come confessa lo stesso Gandalf, spaventosa a leggersi: la colonia viene distrutta attraverso quella che sembra, a tutti gli effetti, un’azione concordata e non improvvisata. Notiamo, infatti, i seguenti elementi: 1) nuove truppe di Orchi sono richiamate dall’esterno, da est lungo l’Argentaroggia; 2) il livello dello stagno vicino al Cancello Occidentale sale, bloccando così la fuga verso ovest di alcuni nani che avevano tentato di intraprendere quella strada e l’Osservatore dell’acqua uccide Oin; 3) i nani odono tamburi negli abissi, una sorta di «chiamata alle armi» che precede il massacro finale. Resta da capire chi abbia ordito l’attacco ai Nani: la risposta più plausibile indica nel Balrog la mente strategica dietro tutto questo. Lungi dall’apparire come una sorta di gargoyle medioevale – tale, infatti, è l’aspetto della creatura nella pellicola di Jackson – credo sia più opportuno immaginare il Balrog come un demone dalla forma indistinta, ma dai tratti più umanoidi rispetto alla nota rappresentazione sopra citata. In basso, una rappresentazione del Demone di Fuoco secondo me maggiormente fedele alla (scarna) descrizione tolkieniana:

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Un demone in grado di parlare e pronunciare incantesimi (come quello con il quale tentò di impedire a Gandalf di chiudere la porta della Camera di Mazarbul) e, in conclusione, di ordire un’azione militare ben congegnata per distruggere il breve tentativo dei nani di Balin di riprendere possesso dell’antica città di Khazad-Dum.

Unico Anello: Istruzioni per l’uso (parte III)

In questa terza e ultima parte dedicata ai poteri dell’Unico Anello mi soffermerò su uno dei personaggi la cui esistenza fu più tragicamente segnata dal possesso dell’artificio di Sauron: Isildur, figlio di Elendil. L’immagine di questo personaggio, diffusa dalla versione cinematografica del Signore degli Anelli, pur ritraendo abbastanza fedelmente i momenti fondamentali della sua esistenza dopo la caduta di Numenor, non è particolarmente approfondita: in questo caso, non per una cattiva volontà da parte degli sceneggiatori, ma perché ritengo che l’abbiano considerato (a giusta ragione) un personaggio secondario all’interno della trama del romanzo, il cui nome è legato fondamentalmente all’Unico e alla sua decisione di non distruggerlo. C’è un’unica pecca, secondo me, che appare nella versione cinematografica della «Compagnia dell’Anello», relativa cioè alla scena in cui, nonostante il suggerimento di Elrond, pur arrivando sino al cuore del Monte Fato, Isildur rifiuta di distruggerlo, mostrando di essere già sotto l’influsso dell’Unico.

Quale fu il rapporto tra Isildur e l’Anello e come si concluse?

Per cercare di offrire una risposta a queste domande, dobbiamo leggere uno scritto di Tolkien intitolato «Il disastro dei Campi Iridati», pubblicato in Italia nel volume dei «Racconti Incompiuti» (d’ora in avanti RI). Nelle sue pagine, scopriamo abbastanza presto che, dopo aver sistemato l’ordine all’interno del regno di Gondor (e presumibilmente portato a termine l’educazione di Meneldil, suo nipote e designato al trono del regno meridionale), Isildur decise di recarsi immediatamente a Imladris, non solo per ragioni affettive (vi aveva lasciato la moglie e l’ultimogenito prima di partire per la guerra dell’Ultima Alleanza), ma anche perchè «aveva bisogno impellente del consiglio di Elrond» (RI, p. 365). Di quale consiglio si trattasse, lo riveleremo più tardi: prima ancora di scoprirlo, infatti, il testo di Tolkien prosegue raccontando come la piccola scorta di Isildur (200 uomini) fu attaccata da almeno duemila Orchi nascosti nella foresta che si trovava lungo le coste orientali dell’Anduin. Quali sono le ragioni di questa imboscata? Il discepolo di Morgoth era stato sconfitto solo due anni prima, è vero, tuttavia – e questo è un dettaglio molto illuminante circa i poteri dell’Unico – scopriamo che esso «era ancora carico della perfidia di Sauron e capace di chiamare in aiuto tutti i suoi servi» (RI, p. 368). Ancora una volta, dunque, Tolkien ribadisce una peculiarità dell’Unico, ossia la sua capacità di agire autonamente, quasi come fosse un essere senziente: forse, a mio parere, si tratta della sua caratteristica più inquietante. Gli Orchi, dopo un primo scontro inconcludente, decisero di ritentare l’attacco, impiegando questa volta la totalità delle loro forze: mentre avanzavano, Elendur, figlio di Isildur, scambiò con il padre poche battute, tuttavia di fondamentale importanza non solo per comprendere il carattere e la personalità di Isildur, ma soprattutto per capire come la sua immagine trasmessa da Jackson, dell’uomo che orgogliosamente avanza la sua pretesa sul gingillo di Sauron, fotografi solo un’istantanea – per quanto foriera di sventura per lui e per la Terra di Mezzo nel suo insieme – della sua vita, molto più sfaccettata di quello che potrebbe apparire.

«Elendur si accostò al padre che se ne stava cupo e solo, come perduto nei suoi pensieri. “Atarinya” gli domandò “che ne è del potere capace di piegare questi luridi esseri e imporre loro di obbedirti? non serve, forse?” “Ahimé, no, senya. Non posso valermene. Temo il dolore che mi verrebbe dal suo contatto. E ancora non ho trovato la forza per piegarlo alla mia volontà. Occorre uno più grande di quanto io so di essere. Il mio orgoglio è crollato. Avrei dovuto andare dai Custodi dei Tre”. (RI, p. 369).

Scopriamo così che il consiglio che Isildur avrebbe voluto da Elrond riguardava, con ogni probabilità, il destino ultimo da riservare all’Unico: e possiamo spingerci anche oltre, nelle nostre congetture, immaginando che il figlio di Elendil si fosse reso conto dell’impossibilità di dominare l’Anello, piegandolo alla sua volontà. Non costituisce eccessivo sforzo di speculazione ritenere che, se fosse sopravvissuto all’imboscata degli Orchi, Isildur avrebbe ripensato alla sua decisione presa sulle pendici del Monte Fato, di avocare a sé il controllo dell’Anello, una scelta che, per quanto terribile e sciocca possa essere stata, non dobbiamo dimenticare che fu presa in un momento emotivo molto forte (suo padre era morto da pochi minuti, l’assedio a Barad-Dur era durato ben sette anni, provocando, fra le altre vittime, anche suo fratello Anarion, ecc. ecc.) Isildur, inorgoglito dall’aver strappato l’Unico dalle mani di Sauron stesso, potrebbe aver pensato di aver sufficiente forza per dominare la creazione più potente dell’Oscuro Signore, la stessa che aveva dimostrato nello sconfiggere il suo artefice. Le ultime parole scambiate con Elendur sono commoventi: il figlio prega il padre di abbandonarli tutti pur di non lasciare che l’Unico cada nelle mani dei servi di Sauron e Isildur, seppure a malincuore, accetta in nome della «ragion di Stato» se così si può dire, non prima, però, di avergli chiesto perdono per il suo orgoglio che l’aveva condotto «a questa mala sorte» (RI, p. 370). Il resto della vicenda è piuttosto noto: nel tentativo di fuggire agli Orchi, Isildur cercò di attraversare l’Anduin, non riuscendovi a causa della forte corrente che lo spinse più a sud rispetto a luogo in cui era avvenuta l’imboscata. In quel frangente egli perse l’Anello: «per caso, o meglio, per un caso opportunatamente sfruttato, gli era scivolato dalla mano finendo là dove mai avrebbe potuto sperare di ritrovarlo. Dapprima restò a tal punto preso dal sentimento della perdita, che cessò di lottare, e per poco non fu travolto annegando. Ma, con altrettanta rapidità con cui lo aveva colto, quello stato d’animo passò. Il doloro se n’era andato; un grosso fardello gli era stato tolto di dosso» (RI, p. 371). Il destino, tuttavia, volle beffarsi di lui: alcuni Orchi di guardia sulle sponde dell’Anduin, infatti, lo videro emergere dalle acque del fiume con ancora addosso l’Elendilmir, il diadema dell’Ovest, la cui luce era talmente potente che neppure il potere dell’Unico poteva renderla invisibile (un raffronto interessante, a questo proposito, si potrebbe fare con la luce della fiala che Galadriel donò a Frodo) e spaventati dalla forte luminosità che il gioiello emanava, lo colpirono con le frecce dei loro archi, svanendo poi nelle tenebre: così morì Isildur, «prima vittima della malizia dell’Anello senza padrone» (RI, p. 371).

Un quadro molto differente da quello offerto nel prologo della versione cinematografica della «Compagnia dell’Anello», nel quale assistiamo alla decisione di Isildur di fuggire dal campo di battaglia, abbandonando i suoi uomini (e presumibilmente anche i suoi figli, sebbene nel film non si faccia cenno a nessuno di loro) al loro triste destino. Ribadisco il concetto: non si tratta di una critica agli sceneggiatori, perché, come ho già scritto in precedenza e qui ribadisco, Isildur non è un personaggio principale del Signore degli Anelli, tutt’altro. Non era necessario, perciò, dedicare troppi fotogrammi alla sua figura: la sua biografia, dunque, resta nelle sue linee essenziali abbastanza fedele agli scritti tolkieniani. Lo spettatore apprende che Isildur sconfigge Sauron, si impadronisce dell’Unico, muore in un’imboscata tesagli dagli Orchi e perde l’Anello nel fiume Anduin: fondamentalmente si tratta di una serie di affermazioni veritiere, che servono poi a introdurre gli eventi accaduti secoli dopo la sua morte. Ho ritenuto doveroso, tuttavia, in questo mio articolo, non solo concludere il discorso sull’Unico, ma anche restituire alla sua complessità, alla sua umanità, un personaggio che avrebbe meritato certamente una fine migliore di quella che subì.

Unico Anello: Istruzioni per l’uso (parte II)

Riprendo il discorso iniziato nel precedente articolo per affrontare la questione dei poteri dell’Unico Anello e degli altri Grandi Anelli. In questa seconda parte mi soffermerò sulle informazioni presenti nei primi capitoli dell’opera del «Signore degli Anelli».

Sono trascorsi circa 60 anni dal ritorno di Bilbo alla Contea, dopo aver assistito alla morte di Smaug e aver contribuito a restaurare il Regno sotto la Montagna. Nonostante nella Contea la vita scorra apparentemente tranquilla come nel passato, nel resto della Terra di Mezzo le cose sono cambiate. Sauron si è rivelato al mondo, abbandonando i panni del Negromante, e ha ricostruito Barad-Dur, riprendendo il centro del suo potere nella Terra di Mordor. Egli è alla disperata ricerca dell’Anello, ostacolato in questo da Saruman, che muove i suoi servi in diverse regioni della Terra, nella speranza di arrivare prima al rinvenimento dell’Unico; contemporaneamente, Sauron continua a dare la caccia all’erede di Isildur, perché è a conoscenza che la linea dei Numenoreani del Nord non si è estinta e che, da qualche parte, si trova l’ultimo erede dei grandi sovrani di Arnor e Gondor.

All’inizio del romanzo incontriamo Bilbo alle prese con i festeggiamenti del suo centoundicesimo compleanno: tra gli ospiti che prendono parte a questi festeggiamenti non può mancare il suo grande amico Gandalf. Lo stregone è perplesso non solo a causa della longevità del suo piccolo amico, ma soprattutto si sorprende a pensare a come sia cambiato fisicamente molto poco dall’epoca del suo primo incontro. Lo stesso Bilbo non può fare a meno di parlare dei suoi dubbi allo stregone: «Sono vecchio, Gandalf. Non dimostro i miei anni, ma sto incominciando a sentire un peso in fono al cuore. E poi dicono che mi mantengo bene?!, sbuffò. «Io che mi sento tutto magro, come dire, teso; rendo l’idea? Come del burro spalmato su di una fetta di pane troppo grande. Non è una cosa normale; devo aver bisogno di un cambiamento d’aria o roba simile» (SdA, p. 40). Trovo molto calzante questa descrizione degli effetti dell’Anello su Bilbo: esprime molto bene, infatti, con un linguaggio tratto dalla vita quotidiana degli Hobbit, gli effetti che l’Unico provocavano alla sua anima e al suo corpo. La mia opinione è che l’Anello si stesse risvegliando, nel tentativo di farsi trovare dal suo Padrone: possiamo immaginarlo come una creatura che vive in simbiosi con il suo portatore, trasmettendogli quelli che potremmo chiamare, con qualche forzatura, i propri «sentimenti»: l’inquietudine che Bilbo avverte è in realtà quella dell’Unico, il quale, dopo aver sfruttato l’Hobbit per uscire dalle caverne oscure degli orchi, era stanco di essere «recluso» all’interno di una regione remota e quieta come la Contea, molto lontana dal suo Padrone. Nell’accesa discussione che segue fra Gandalf e Bilbo, lo stregone rivela un interesse professionale nei confronti dell’Anello, adducendo come motivazioni la rarità e la magia che tali artefatti possiedono, senza però sbilanciarsi ancora sulla malvagità intrinseca all’Anello stesso. Ne segue poi l’alterco finale, ben rappresentato anche nel film di Jackson, sul quale non ritengo di dovermi soffermare particolarmente. Riprendo invece le parole finali che pronuncia Bilbo nello scusarsi, perché non mi sembra siano comprese nei dialoghi cinematografici: «Mi dispiace – disse – ma mi sentivo così strano. Eppure in un certo senso sarebbe un sollievo non aver più questo assillo. È diventato un peso per me, negli ultimi tempi. A volte mi sembra come un occhio che mi guarda fisso, e ad ogni momento sono tentato di metterlo al dito e di sparire, sai? […] Ho cercato di chiuderlo sotto chiave, ma ho scoperto che non avevo pace sentendolo lontano da me […] (42)». Questa confessione è importante perché per la prima volta nel corso del romanzo si fa cenno alla presenza di un Occhio dietro il quale si celerebbe Sauron stesso, il Signore degli Anelli. Questo riferimento mi suggerisce un paragone con un autore coevo di Tolkien, lo statunitense maestro dell’horror H. P. Lovecraft: nei suoi racconti più celebri, infatti, non mancano riferimenti a personaggi che vedono (o affermano di scorgere) nell’oscurità delle forme minacciose che spesso finiscono con l’identificare con qualcosa a loro familiare (una mano artigliata, una voce spaventosa ecc.) Questo, secondo me, è un collegamento inedito e importante, perché mette in evidenza la difficoltà degli Hobbit portatori dell’Anello nel percepire l’essenza di Sauron, che nessun personaggio nel romanzo riesce a descrivere in modo preciso.

A differenza della pellicola cinematografica, Bilbo si libera dell’anello in modo abbastanza confuso: il pacchetto nel quale è custodito gli cade di mano ed è Gandalf stesso a recuperarlo, ma tutto avviene nel giro di pochi secondi, lasciando «il posto ad un’espressione di sollievo e ad una risata» (43). Nel congedarsi da Frodo Gandalf inizia ad alludere a un legame fra l’uso dell’Anello e alcuni mutamenti avvenuti nel carattere di Bilbo (come quello di mentire sulle modalità con le quali ne era venuto in possesso), aggiungendo che «è probabile che abbia qualche altro potere, oltre quello di farti sparire quando più ti aggrada» (47). Gandalf ostenta tranquillità, ma è molto plausibile che abbia iniziato a pensare alla possibilità che quello fosse uno dei Grandi Anelli (non necessariamente l’Unico).

Dopo una lunga assenza, nella quale Gandalf era tornato per brevi visite al solo scopo di sincerarsi della salute di Frodo, lo stregone, dopo nove anni di latitanza, poté tornare alla Contea. Nel lungo racconto che Gandalf iniziò in quell’occasione, per la prima volta il lettore ha modo di conoscere la storia della forgiatura degli Anelli dagli albori della Seconda Era. Questione di non secondaria importanza, si accenna alla presenza di due tipologie diverse di Anelli: i Grandi Anelli (quelli del Poema iniziale, per intenderci) e gli Anelli Minori, che i «fabbri elfici consideravano delle bazzecole, benché, secondo me, fossero anch’essi rischiosi per i mortali» (52). La presenza degli Anelli Minori è utile, secondo me, per spiegare la presenza di altri spettri nella Terra di Mezzo: penso, ad esempio, ai fantasmi con i quali il Re degli Stregoni aveva popolato i Tumulilande e che potrebbero essere spiegati come sfortunati possessori degli anelli minori, corrotti da questi ultimi e costretti a servire l’Oscuro Potere che era alla base della loro forgiatura. La mia tesi appare rafforzata anche dal saccheggio che Sauron perpetuò a danno delle Aule dei Fabbri di Eregion al culmine della Guerra contro gli Elfi: è molto plausibile, dunque, che egli abbia potuto sottrarre non solo i Grandi Anelli degli Uomini e dei Nani, ma anche un numero imprecisato di Anelli Minori che avrebbe distribuito fra i suoi servi umani, rendendoli suoi schiavi anche dopo la loro morte.

Segue poi una descrizione dei poteri che i Grandi Anelli esercitano sui mortali, che però crea non pochi problemi di coerenza con la trama interna del Signore degli Anelli: «Un mortale caro Frodo, che possiede uno dei Grandi Anelli, non muore, ma non cresce e non arricchisce la propria vita: continua semplicemente, fin quando ogni singolo minuto è stanchezza ed esaurimento. E se adopera spesso l’Anello per rendersi invisibile, sbiadisce: infine diventa permanentemente invisibile e cammina nel crepuscolo sorvegliato dall’oscuro potere che governa gli Anelli. Sì, presto o tardi, tardi se egli è forte e benintenzionato, benché forza e buoni propositi durino ben poco presto o tardi, dicevo, l’oscuro potere lo divorerà» (52).

A leggere questa descrizione sembra proprio che l’uso di tutti i Grandi Anelli provochi invisibilità ai suoi portatori, almeno a quelli la cui natura è mortale (e quindi questo ragionamento esclude Elrond e Galadriel). Questo però contrasta almeno con due casi accertati nei quali si verificò il contrario: con Thrain II e con lo stesso Gandalf, il cui corpo, ricordiamolo, era di natura mortale e non immortale. Al contrario, sembra proprio che siano gli Anelli a rendersi invisibili e non i loro portatori. Nessuno, apparentemente, si accorge che Gandalf porta seco l’Anello del Fuoco: esso si mostra visibile agli occhi di tutti solo alla fine della storia, sul molo dei Porti Grigi, dopo la distruzione di Sauron. La stessa cosa deve essere accaduta a Thrain II: egli, infatti, fu catturato dagli sgherri del Negromante e torturato a lungo prima che Sauron si impadronisse dell’ultimo anello dei nani: ma perché impiegare tanto tempo per un oggetto che Thrain non avrebbe potuto nascondere in modo certo efficace? L’unica risposta che mi sovviene è che l’Anello fosse invisibile, a meno che non fosse intervenuto Sauron in persona, l’unico che aveva il potere di rendere visibili i Grandi Anelli. Probabilmente il Nano fu a lungo torturato perché cercò di opporre la sua volontà a quella dell’Oscuro Signore nel tentativo di non rendere visibile il suo Anello: tentativo valoroso, ma purtroppo vano. L’unico modo per spiegare questa palese contraddizione è quello di intendere «mortale» alle stregua di «umano»: gli Hobbit, infatti, sono una sorta di sottospecie degli Uomini, con i quali condividono la sorte ultima. Si potrebbe dunque ritenere che anche i Nani, nonostante la loro natura mortale, siano da escludersi dalla descrizione di Gandalf (come lo stesso Stregone Grigio, d’altra parte).

Interessante è anche il riferimento ai tentativi dell’Anello di sfuggire al suo proprietario, cambiando dimensione e peso, dimostrando, ancora una volta, una natura ben più complessa rispetto a quella di un normale oggetto d’oro. Gandalf continua poi il suo racconto, facendo finalmente il collegamento mancante fra lo Hobbit e il Signore degli Anelli: dichiara, infatti, di aver avuto sentore di un’ombra quando Bilbo trovò l’Unico e di aver sempre saputo che fosse uno dei Grandi Anelli, dimostrando, tuttavia, allo stesso tempo, di essere stato molto moderato (per usare un eufemismo) nei confronti di Frodo anni prima, ammonendolo a non usare l’Anello pur senza metterlo in guardia in modo più preciso, cosa che avrebbe dovuto fare, alla luce di queste premesse.

Ed è così che si giunge, nel corso del racconto di Gandalf, a un’affermazione piuttosto netta, che svela il duplice aspetto dell’Unico, strumento per accrescere forza (intesa come volontà di dominio) e scienza (intesa come conoscenza delle forze naturali e del linguaggio, che agli occhi degli Hobbit appariva magia) di Sauron: «al nemico – afferma lo stregone – manca ancora una cosa che gli possa dare la forza e la scienza necessarie a demolire ogni resistenza, distruggere le ultime difese e far piombare tutte le terre in una seconda oscurità: gli manca un Anello, l’Unico» (55).

Del lungo racconto che Gandalf dedica alla storia dell’Unico, mi sembra importante porre in rilievo un commento che egli dedica a Smeagol: «L’anello gli aveva conferito un potere proporzionato alla sua statura». Ciò significa che l’Anello si adeguava alla personalità e al ruolo sociale del portatore: per adoperare un paragone con i tempi attuali, se oggi l’Anello finisse al dito di un broker di borsa lo spingerebbe a truffare i suoi clienti, se invece fosse adoperato da uno studente lo «aiuterebbe» a emergere nella valutazione scolastica, portandolo però a deridere i compagni meno bravi e facendo emergere in lui un forte senso di superiorità e disprezzo nei confronti degli altri compagni; e potrei continuare a lungo su questa scia. Altro elemento importante del racconto di Gandalf è l’affermazione relativa alla natura dei Grandi Anelli, che sottointende la sua capacità di «pensare» in modo indipendente, quasi fosse un essere vivente: «Un Anello del Potere vive la propria vita: può benissimo scivolare a tradimento, ma il suo custode non lo abbandonerà mai […] L’Anello stava cercando di tornare dal proprio padrone […] non aveva più bisogno di questo piccolo essere ignobile e meschino, e se fosse rimasto ancora con lui, non avrebbe mai più abbandonato quello stagno profondo» (p. 59). In questo modo Tolkien rivela che lo sfilarsi dell’Unico dal dito di Gollum sia avvenuto come conseguenza del risvegliarsi del potere di Sauron nel Bosco Atro e, addirittura, nelle regioni limitrofe: ritorna così, tuttavia, quel dubbio che avevo espresso in altre occasioni e all’inizio dell’articolo, in merito al mancato sentore dei poteri dell’Unico da parte di Sauron. Sembra difficile, infatti, che l’Anello avvertisse il risveglio di Sauron, ma questi non vi riuscisse.

Ho scritto un articolo davvero lungo, e spero che i miei lettori vorranno perdonarmi per questo: la storia dell’Anello, tuttavia, è davvero molto complessa e ha bisogno di una trattazione adeguata alla sua importanza.

Unico Anello: istruzioni per l’uso (parte I)

Ho scelto di attribuire un nome ironico a questo articolo per cercare di approfondire, su gentile suggerimento di Lettrice, una questione complessa sulla quale non esistono versioni definitive: la natura dell’Unico.

Questione complessa, dicevo, principalmente per due ragioni: la prima, interna alle opere di Tolkien, è legata alla scelta di attribuire la paternità fittizia delle sue opere a una serie di personaggi che di Sauron sono nemici: Bilbo, Frodo e, in misura minore, Sam, sono gli autori del Libro Rosso, ossia dell’Hobbit e del Signore degli Anelli; Bilbo, inoltre, risulta essere il traduttore dalla lingua elfica a quella comune del Silmarillion e (si presume) anche degli altri racconti ambientati nella prima e seconda era confluiti nella «History of Middle Earth». Non è un caso, dunque, che di Sauron, nonostante il titolo di «Signore degli Anelli» faccia naturalmente riferimento alla sua persona, si legga molto poco: perfino Frodo, infatti, che si era recato nella Terra Nera, arrivando sino alle soglie di Barad-Dur, non aveva certo avuto occasione di conoscerlo. All’epoca degli eventi ambientati negli ultimi anni della Terra di Mezzo, inoltre, non era rimasto quasi più nessuno di quelli che avevano conosciuto Sauron nelle vesti di Annatar: Gil-Galad e Celembrimbor erano morti, Cirdan risulta essere un personaggio secondario, mentre Galadriel ed Elrond, che forse avrebbero potuto esprimersi meglio sull’Oscuro Signore, non toccarono apertamente questo argomento. Probabilmente Celebrimbor era l’elfo che meglio di tutti avrebbe potuto illuminarci su Annatar, ma fu ucciso, forse proprio da Sauron in persona, e non lasciò nessuna testimonianza sul periodo della sua vita trascorso a contatto con lui, né lasciò spiegazioni di natura tecnica sugli Anelli. Qualche anno fa, a proposito della scelta di Tolkien di aver attribuito la scrittura delle sue opere a personaggi «positivi», lessi di un autore russo che aveva scritto il «Black Silmarillion», una sorta di versione alternativa di quest’opera, compilata dal punto di vista dell’Oscuro Signore. Non so se quest’opera sia stata tradotta in inglese, né ho idea di quale livello qualitativo abbia raggiunto: posso però dire che è strutturata intorno a un’idea piuttosto originale, che potrebbe risultare anche interessante, da un punto di vista accademico.

La seconda ragione che rende difficile comprendere quali fossero i veri poteri dell’Unico deriva invece da una circostanza «esterna»: Silmarillion, Hobbit e Signore degli Anelli sono, infatti, opere scritte in periodi diversi da Tolkien, quando il legendarium della Terra di Mezzo si trovava ad uno stato che potremmo definire compreso fra l’embrionale e il maturo. Dovendo però scegliere una linea temporale precisa, suggerisco di iniziare dall’anno di pubblicazione dell’opera, e dunque dall’Hobbit.

In questa opera l’Unico appare per la prima volta nel capitolo V «Indovinelli nell’Oscurità», nel quale l’autore sembra interrogarsi, insieme ai suoi lettori, sulla natura dell’Anello che era stato in possesso di Gollum per tanti secoli: come spiegavo in uno scambio di commenti con Lettrice, sembra che il Signore degli Anelli non sia neppure quell’essere malvagio che risulterà poi essere tutt’uno con il Negromante. Veniamo comunque a sapere che l’Anello ha il potere di stancare il dito e la pelle di Gollum e per questa ragione non lo teneva sempre con sé; inoltre, apprendiamo che rende invisibile la figura del portatore, a parte la sua ombra che può essere avvistata solo in pieno giorno e che sembra rimandare in modo allusivo al regno oscuro dal quale proviene. Più avanti, nel corso della lettura del romanzo, scopriamo che l’Anello rende i sensi del portatore più acuti e gli permette, inoltre, di comprendere il linguaggi di alcuni esseri, come ad esempio i Ragni Giganti. È questo il primo vero accenno a un legame possibile tra l’Anello e le creature malvagie della Terra di Mezzo, nonostante la conoscenza della lingua nera non sia, di per sé, un qualcosa di negativo (dipende dall’uso che se ne fa, come dimostra il fatto che la conoscesse anche Gandalf). Il secondo accenno, invece, è relativo a una questione psicologica, più che magica: Bilbo, infatti, si dimostra sin dall’inizio abbastanza riluttante a raccontare la vera storia dell’incontro tra lui e Gollum, senza chiedersi veramente il perché di una scelta che sembra in contrasto con il suo carattere. Infine – ed è forse l’elemento più importante da sottolineare – nell’Hobbit si trova per la prima volta l’accenno all’Anello come essere senziente. Quando Bilbo arriva all’uscita secondaria delle grotte degli orchi, infatti, Tolkien così descrive questo momento: «Fosse un caso, o l’ultimo tiro giocato dall’anello prima di cambiare padrone, fatto sta che non lo aveva al dito. Con urlo di gioia, gli orchi si precipitarono su di lui». (Lo Hobbit, p. 108)

C’è da notare, comunque, che anche di fronte al racconto che Bilbo narra dopo aver liberato i nani, nessuno di loro sembra essere spaventato dal suo uso: un elemento, questo, che sarà bene ricordare e che ci sarà utile per comprendere alcune parole pronunciate da Gloin e da Boromir in occasione del Consiglio di Elrond, molti anni dopo. A proposito delle avventure vissute da Bilbo nel Bosco Atro, c’è da notare una questione problematica sulla quale neppure l’opera cinematografica di Jackson, che tende a rileggere l’Hobbit in base alle vicende stabilite nel Signore degli Anelli, riesce a intervenire in maniera convincente: illustrare gli effetti che l’Anello comporta su Bilbo all’interno di uno dei territori occupati dall’Oscuro Signore. Pensate, per contrasto, a quello che succede a Frodo (e anche a Sam) quando si avventurano a Mordor: sono preda entrambi di tentazioni fortissime, alle quali devono opporre una resistenza fisica e spirituale sempre maggiore per evitare di cadere vittime del potere dell’Unico. Nel Bosco Atro, al contrario, non succede nulla di tutto ciò: è vero che Dol Guldur è abbastanza lontana dal luogo in cui Bilbo si imbatte nei ragni giganti, tant’è che nella mappa riportata nell’Hobbit Dol Guldur non è neppure riportata, tuttavia non c’è alcun dubbio che il potere del Negromante si estendesse in tutta la foresta, che rappresentò il primo luogo fisico nel quale egli si manifestò nel corso della Terza Era. Saggiamente, nel tentativo di fare da collante fra «Signore degli Anelli» e «Lo Hobbit», la sceneggiatura del film «La desolazione di Smaug» ha inserito uno scontro tra Bilbo e una grottesca creatura del Bosco Atro, da questi trafitta più volte perché l’hobbit pensava che potesse rappresentare un avversario in grado di minacciare l’Anello, forse addirittura di sottrarglielo. Tuttavia, secondo me, neppure questa scena collega direttamente l’Anello con Sauron: Bilbo non subisce nessuna visione, né deve opporre una particolare resistenza per evitare di cadere sotto il suo controllo. Da questo particolare si evince – una volta di più – che Tolkien non aveva ancora collegato, durante la stesura dell’Hobbit, l’Anello con il Negromante; la stessa trilogia cinematografica, dunque, a meno di non stravolgere pesantemente la trama del romanzo, non poteva intervenire su questa «contraddizione» interna del legendarium. Un ulteriore elemento di dubbio sulla natura dell’Anello trovato da Bilbo nelle caverne degli Orchi sovviene allo spettatore al termine della pellicola «La Battaglia delle Cinque Armate», allorché Gandalf si mostra inquieto a causa dell’Anello trovato da Bilbo e in maniera piuttosto vaga accenna al fatto che esistono altri anelli magici nel mondo, e che nessuno di questi deve essere usato alla leggera. Bilbo mente al suo mentore, sostenendo di aver perso l’Anello durante la guerra e Gandalf lascia perdere la questione, sebbene si allontani piuttosto turbato, come se qualcosa non lo convincesse. Bilbo, naturalmente, non ha smarrito l’Anello e se lo ritrova in tasca nelle scene finali del film, in un passaggio secondo me ben riuscito (non sempre mi dimostro critico nei confronti di Jackson:-P), perché funge molto bene da cerniera nei confronti della trilogia del Signore degli Anelli. Ma dei poteri e della storia degli Anelli nella trilogia tolkieniana discuterò nella seconda parte di questo articolo.