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L’Akallabeth: il monologo di Miriel (III Atto)

Care lettrici, cari lettori, vi presento il terzo atto della tragedia intitolata «La Caduta»: a questo link L’Akallabeth: la corruzione di Pharazon (II Atto) potrete trovare la prima parte e la spiegazione della genesi di questa opera. In questo articolo, invece, cercherò di tratteggiare un ritratto intimistico di Miriel, ormai divenuta sposa di Pharazon contro la sua volontà, assumendo il nome di Ar-Zimpharel (come sa bene chi ha letto questo articolo L’Infame Giuramento_IX Parte e ultima (Il trionfo di Pharazon). Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

P.S. Vi piace l’immagine in copertina? Così, personalmente, immagino Miriel…

Scena III, Parte I: il Monologo di Ar-Zimpharel

(Ar-Zimpharel è accanto all’uscio che conduce alla sala del trono; si accerta che Ar-Pharazon e Sauron siano usciti, infine si sfoga)

Ar-Zimpharel (con una voce bassa e roca che cresce tuttavia d’intensità nel tempo): Quanta amarezza nel constatare che il mio destino altri hanno forgiato! Come lo schiavo legato ai ceppi, così io ho atteso questo giorno, con timore, ché ben sapevo quali catene avrebbero soffocato, lentamente, la mia esistenza. Se io non sapessi, almeno potrei vivere nell’illusione della speranza, ma anche tale privilegio mi è stato privato molti anni or sono, allorché con la forza e il ricatto, Ar-Pharazon mi costrinse a cedergli lo scettro e la mia persona; lacrime amare ornavano il mio petto e non perle di mare, il giorno che fummo vincolati e tutto quanto avevo si tramutò in polvere, perfino il ricordo di cose liete, ma ormai trascorse.
Molte volte tentai di condurre alla ragione il mio sposo, ma egli non ha mai voluto ascoltare altro parere che il suo e amari sono stati i miei giorni accanto a lui.

Nessun altro suono ho mai udito in questa gelida reggia, se non l’eco dei condannati a morte salire dal patibolo e il crudele riso dei loro aguzzini; sempre freddo il letto alle prime luci dell’alba, ché il mio signore (queste ultime due parole devono essere pronunciate facendo stridere i denti, come se costituissero un suono sgradevole da pronunciare) dopo aver soddisfatto i suoi sconci piaceri, mi abbandona per concedersi nuovi abusi con le altre schiave, ed io non sono meno legata ai suoi voleri di quanto non lo siano le principesse inviate dai reami della Terra di Mezzo per placare la sua lussuria.

Un figlio ebbi, o perlomeno così mi fu detto: eppure, mai lo sguardo di sua madre si posò su di lui, ché mi fu strappato appena nato e ignoro quale sorte abbia conosciuto, se sia ancora nella mia terra o se sia ormai morto in battaglia.

Tutto questo ignoro, perché io, Principessa erede al trono di Numenor, Miriel, figlia di Tar-Palantir, sono ora schiava di colui che siede al mio fianco ed è mio consorte e cugino; perfino il nome mio fu mutato dal suo tirannico volere ed esso suona estraneo alle mie orecchie ed al mio cuore: Ar-Zimpharel fui chiamata il giorno delle mie nozze, ché io ottenebrassi quanto era accaduto nella mia giovinezza e diventassi succuba della sua perfidia».

 

Ritratti – Annatar, il Signore dei Doni

Bentitrovati a tutti! Vi presento una nuova illustrazione di Anna Francesca avente come oggetto un enigmatico Annatar, Signore dei Doni…sotto i panni del quale muoveva le sue perfide mosse contro i popoli della Terra di Mezzo nientemeno che Sauron, il più potente fra i servitori di Morgoth, l’Oscuro Nemico del Mondo!  Per accompagnare questa immagine ho scelto alcuni passi del racconto de «Il Marinaio e l’Albero Bianco», nei quali Sauron si rivolge ai Numenoreani per sedurli e averli in pugno. Spero vi piaccia, aspetto i vostri commenti!

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«”A voi, uomini di Numenor, sovrani di Endor, dico questo: mai vi fu, fin dagli albori del tempo, stirpe sì gloriosa e degna di essere chiamata signora tra tutte, come quella che ora solca in lungo e largo gli oceani sconfinati.” Numerose esclamazioni di gioia  ed entusiasmo eruppero spontanee, eppure l’Oscuro Signore non ne fu spiaciuto, ma seguitò a parlare: “Le leggi che fino ad oggi avete onorato e disprezzato, i Valar e gli Eldar hanno ordinato che fossero gli uomini a seguire, senza tuttavia mai svelarne la ragione; ebbene, folli si sono rivelati i loro progetti, ché nulla di quanto complottano mi è ignoto. Eru Iluvatar creò la Terra e ne dispose la forma a suo piacimento, seguendo il proprio volere: otto fra gli Ainur ne seguirono la volontà e ne ressero le sorti, gli stessi che affidarono Numenor alla vostra gente.”

Fredda era divenuta ora l’aria e lampi minacciosi saettavano a nord e ad est e Sauron proseguì: “Fu in tale occasione che il bando dei Valar fu emanato e il loro araldo Eonwe, vi proibì l’accesso alle Terre Imperiture; sempre avete temuto tale ordine, e mai la vostra obbedienza è venuta meno. Qualcuno tra voi potrebbe forse affermare che l’uomo giusto è timoroso degli dei, ne osserva le divine leggi, tuttavia, se davvero vi sia tra voi chi parli in sì modo, sappia che non è egli degno di appartenere a tale gloriosa stirpe.”

Mormorii increduli si levarono tra la folla, ché non tutti i Numenoreani presenti avevano in odio i guardiani del Vespro, né ambivano sfidarne l’ira; tuttavia il seme della follia era stato gettato fra di loro ed esso ratto si impadronì del cuore degli uomini. Simile alla tenebra del plenilunio, così le parole di Sauron ottenebrarono le menti degli uomini, ed ecco essi levarono le armi e scossero gli scudi, soggiogati dalla rovina e dalla perdizione.

Sauron attese che il silenzio calasse nuovamente, infine parlò per la terza volta e le sue parole furono udite in tutto il regno: “Non è forse vero che essi vi domandarono ausilio e venerazione quando ne ebbero bisogno? Eppure, uomini di Numenor, con quali ricompense furono riscattate le vostre lacrime e i vostri morti? Doni furono assegnati ed invero di grande valore, eppure nulla che vi permettesse di condividere la più grande ricchezza sì gelosamente custodita dai Valar! Messaggeri essi hanno inviato ai vostri padri, per placarne la giusta collera, eppure io vi dico che il dono di Mandos altro non è che un vile inganno, per mezzo del quale siete stati privati della vostra volontà e del vostro futuro.

Giardini ricolmi di frutti abbelliscono la vostra isola e torri adamantine sfidano rabbiose il vasto cielo, eppure sappiate che essi non sono altro che una miserevole copia di quanto si erge al di la del mare a ponente. I Valar disposero i loro precetti per gli stolti, eppure chi fra voi oggi si riterrebbe tale? A voi, signori della Terra, dico questo: gli uomini gloriosi e potenti afferrano quanto è a loro gradito. Non è con la negazione delle leggi dei vostri padri o con il loro rifiuto, che la gloria nutrirà del suo nettare inebriante i vostri cuori: solo obliando le vili parole degli dei, trionferete su quanti si oppongono al vostro dominio.”

Grandi manifestazioni di giubilo si levarono dalla folla festante e più di uno si volse al proprio vicino sussurrando parole dettate dal rancore: “Infida è la parola dei Valar e schiavi di essa sono gli uomini che ne seguono gli intenti.”

Tuttavia, vi fu chi espresse perplessità e timore; l’Oscuro Signore, ebbe sentore di ciò, allorché un uomo fra la folla gli parlò: “Chi sei tu dunque, perché debba costì parlare? Quale sentiero le nostre menti dovrebbero percorrere.?”

Allora silenzio si fece in tutta la contrada, e molti osservarono dubbiosi il sovrano; questi attese, finché la gente non si fu acquietata, infine prese la parola: “Non abbiate timore di alcuna mala sorte, Numenoreani! Un tempo catturammo Sauron, perché egli si prostrasse innanzi alla nostra maestà e rendesse omaggio alla stirpe del sovrano, ed ora egli offre a tutti noi un reame degno della potenza delle nostre schiere. Cos’è una vita, se non adempiere ad una missione? E non è forse la nostra quella di elevarci al di sopra dei comuni mortali e reclamare quanto è nostro di diritto? Mirate Sauron, non è egli forse prostrato innanzi a me?” e dicendo questo si voltò affinché tutti quanti potessero costatare la veridicità delle sue parole. Grande fu lo stupore tra folla e molti levarono grida di giubilo.

“Il signore di Mordor si inchina al volere di Ar-Pharazon: egli si è redento, ed ora non vi sono più rivali in grado di contrastare il nostro dominio!”

Possenti si levarono voci trionfanti e gli uomini corsero ad armarsi, convinti che l’ora del trionfo fosse giunta: squilli echeggiarono lungo il crinale del colle, e già le navi si apprestavano a partire, allorché Sauron levò il lungo braccio

“Numenoreani, invero nessun popolo oserà sfidare il vostro volere, tuttavia io vi metto in guardia, ché molti dei vostri congiunti tramano nell’ombra delle loro fortezze”, ed a Erfea parve che il Signore degli Anelli volgesse il suo sguardo verso di lui. L’Oscuro Signore parlò ancora: “Il mio signore, Melkor, con l’inganno fu esiliato nel nulla, ché gli dei non vollero rivelare alcunché dei loro arcani segreti ai re della Seconda Stirpe. I vostri padri lo combatterono e lo sconfissero, tuttavia egli non nutre alcun rancore verso di voi, ché ben comprende come le vostre menti siano state guidate sino ad oggi da sciocchi consigli e insani ammonimenti. A lungo vagai per questa Terra di Mezzo, affinché potessero fiorire i semi di Melkor ed ora mi accorgo quale meraviglioso verziere di delizie ed incanti ricolmo sia sorto nella vostra isola.”

Minaccioso si fece il clamore della folla ed Erfea fece fatica a distinguere la voce di Sauron fra le tante che adesso si levavano; d’un tratto però, giunto dal Nord, si abbatté sulla folla un fortunale, e questo ai Fedeli parve come un chiaro ammonimento, perché mai in tali giorni si erano abbattute tempeste su Elenna: pioggia scrosciante si abbatté al suolo, mentre il fiero vento lacerava le vele e il sartiame. Il panico si impadronì degli abitanti e la loro paura crebbe ancora, ché giunsero le grandi aquile di Manwe in formazione serrata, puntando dritte alla cima del Menalterma, ove Sauron assisteva imperturbabile a quanto accadeva sotto il suo sguardo. “I messaggeri di Manwe sono su di noi – gemette il popolo affranto – la collera di Manwe spira furente dal Forastar!”. Fulmini saettavano ovunque e molti Numenoreani fuggirono atterriti, disperdendosi nei vicoli e negli edifici; non scappò però l’Oscuro Signore, il quale attese che la tempesta si placasse; saette del cielo caddero presso di lui, tuttavia egli non parve dolersi del fuoco che ora ardeva sulle sue vesti. Infine, disprezzando apertamente il volere di Manwe, egli levò al cielo una lunga spada nera ed ecco, fiamme ne percorsero la superficie: timorosa la folla lo osservò, eppure non era dipinta meraviglia nei loro sguardi, ché non pochi fra loro, maghi i cui sortilegi sono andati smarriti, erano in grado di evocare il fuoco per mezzo di arcane parole; presto, tuttavia, lo sgomento si impadronì dei loro cuori, allorché un fulmine si abbatté su Sauron con tale violenza, che il suo trono in pietra ne fu annientato. Eppure, meraviglia! Egli era incolume e levava lo sguardo al monte, invitando i sacri messaggeri degli dei a lacerare la sua carne; questi però, non furono irretiti dalle sue bestemmie, nonostante comprendessero il Linguaggio Nero, e si limitarono a scuotere le loro penne fradice.

“Finanche le Grandi Aquile sono incapaci di procurarmi offesa!” esultò Sauron raggiante in viso. D’ora innanzi la legge che seguirete sarà dettata dal vostro volere ché i grandi uomini nulla devono temere!”»

Tratto da «Il Racconto del Marinaio e dell’Albero Bianco»

L’Akallabeth: la corruzione di Pharazon (II Atto)

Bentrovati, care lettrici e lettori. Come vi avevo anticipato nei precedenti articoli, ho deciso di pubblicare nel mio blog il testo di una tragedia che ho scritto ben 14 anni or sono, dedicata alla caduta di Numenor, chiamata anche Akallabeth nella lingua adunaica. Ho esitato a lungo prima di condividere questo testo per una serie di ragioni riconducibili al quesito che qualche tempo fa mi fu posto in sede diverse da Lettrice e da Oscuro Signore in merito ai rapporti intercorsi tra Miriel e Pharazon. In effetti, a ben guardare, nel «Ciclo del Marinaio» l’interazione fra i due personaggi appare sempre molto debole, quasi inesistente. Una prima ragione che posso presentare per giustificare questa mia scelta deriva da una necessità interna alla raccolta dei racconti, il cui punto di vista è sempre quello di Erfea, il quale, per ovvie ragioni, non poteva essere presente nel momento in cui Pharazon seduceva la bionda principessa di Numenor. Non è un caso, infatti, che negli ultimi racconti che ho scritto (e che non sono stati pubblicati all’interno del «Ciclo del Marinaio» perché postumi) abbia provato a servirmi di «punti di vista esterni» rispetto a quelli del principe di Numenor: seguendo questa prassi, dunque, sono stato in grado di descrivere i retroscena che condussero alla caduta di Numenor («Racconto dell’Ombra e della Spada») e di approfondire la relazione amorosa tra Miriel ed Erfea attraverso il racconto che questa narrò ad Anarion («Racconto della Rosa e dell’Arpa»). Nel «Racconto dell’Ombra e della Spada» si descrivono i piani sinistri di Pharazon per impadronirsi del potere, che passano, necessariamente, dalla seduzione di Miriel e dal suo allontanamento da Erfea, ma nulla si dice su come questo avvenne; né, d’altra parte, ho mai sciolto del tutto l’alone di mistero che ancora aleggia sulla paternità di Varaneli, l’unico figlio avuto da Miriel (qui potrete leggere il testo corrispondente: Un erede al trono di Numenor?).

Premesso dunque, che Erfea non avrebbe potuto sapere molto su questa faccenda, essendo all’epoca impegnato a combattere le armate di Pharazon nella Terra di Mezzo, avrei potuto scegliere Miriel come protagonista narrante di questa triste storia della sua vita…tuttavia, credetemi, questa ipotesi mi ha molto turbato. Per citare le parole adoperate da Tolkien a proposito della prigionia di Merry e Pipino nelle grinfie degli Uruk-Hai, credo che la vita matrimoniale di Miriel sia stata caratterizzata da una serie di «sogni angosciosi e veglie ancora più angosciose [che] si fondevano in un unico sentimento di sofferenza, da cui la speranza svaniva sempre più». Senza dubbio, avrei potuto limitarmi a descrivere quello che accadde tra Miriel e Pharazon prima che ques’ultimo fosse incoronato sovrano di Numenor…e non è escluso che prima o poi riuscirò a farlo (per esempio approfondendo l’adolescenza di Erfea, Miriel e Pharazon che dovevano essere tutti più o meno coetanei…vi siete mai chiesti chi affibbiò il soprannome di “Spirito Solitario” al nostro eroe?), perché mi sembra certamente un compito meno cupo rispetto a quello di descrivere ciò che accadde dopo.

Il testo della tragedia della Caduta, pur essendo stato scritto parallelamente al Ciclo del Marinaio, non presenta la figura di Erfea, che risulta senza dubbio il «grande assente» della situazione: non era necessario inserirlo, perché, come vedrete leggendo questo e i prossimi articoli, si tratta di una narrazione che si sviluppa esclusivamente a Numenor, dopo l’arrivo di Sauron, quando Erfea era impegnato in ben altre faccende nella Terra di Mezzo…

Il testo di questa tragedia, dunque, costituisce una prima risposta, seppur ancor abbozzata, a quanto accadde tra Miriel – qui chiamata con il suo nome adunaico Ar-Zimpharel, impostole dal marito – e Pharazon, soprattutto in merito allo stato d’animo che provò la donna dopo la loro forzata unione. Ho preso, dunque, la decisione di pubblicarlo senza effettuare nessuna modifica al testo originale, sperando che possa incontrare il vostro favore. La tragedia si compone di 6 atti: il primo, che qui ometto, affrontava, attraverso la voce narrante di Galadriel, le vicissitudini storiche di Numenor dalla sua origine sino all’incoronazione di Pharazon. Il secondo atto, invece, che presenterò in questo articolo, racconta la corruzione subita dall’ultimo re di Numenor da parte di Sauron…buona lettura, aspetto i vostri commenti!

Atto II

(Ar-Pharazon è seduto sul trono; accanto a lui, Ar-Zimpharel, sua moglie e principessa regnante di Numenor, è in piedi, con il capo chino: una musica triste echeggia nell’aria. Un araldo annuncia l’arrivo di Sauron e Ar-Zimpharel, dopo un breve inchino, si ritira nelle sue stanze)

Araldo: Mio signore, Sauron chiede udienza.
Ar-Pharazon: Che entri e nessuno osi disturbare il nostro colloquio.
(L’araldo si inchina ed esce di scena, contemporaneamente ad Ar-Zimpharel).
Sauron: O Re degli Uomini, prestami ascolto! (genuflessione di Sauron). A lungo ho esitato, ché a volte le parole che sgorgano da un cuore saggio, facilmente possono essere traviate e distorte, eppure, invero nobile è la stirpe dei numenoreani e ancor più splendente è la stirpe di Ar-Pharazon, il Dorato! Onore e gloria ai suoi eserciti!
Invero, mai nessun altra schiatta è stata sì degna di riguardo nella storia della Terra di Mezzo e certo mi perdonerai se ho osato attendere a lungo prima di aprirti il mio cuore, ché orecchie indiscrete sono all’opera e l’ipocrisia dei Fedeli è lungi dall’essere stata debellata.
Ar-Pharazon: Sagge sono le tue parole, ma dubito che tu sia giunto qui per parlarmi di quanto io già conosco: qualunque uomo parlerebbe come te, se fosse dinanzi a me in questo momento. Non è forse vero che non esiste altra creatura in grado di contestare la mia autorità? Non ho forse condotto, qui, nella mia dimora, il Signore di Mordor? Chi altri potrebbe ora opporsi al mio volere?
Sauron: Il sovrano di Numenor ha parlato e ogni suo desiderio è un ordine per me; tuttavia, sebbene il suo nome sia temuto in ogni angolo della Terra di Mezzo ed i suoi vascelli rechino nei suoi forzieri scrigni traboccanti di oro e di argento, pure egli saprà che le glorie umane sono caduche e destinate a terminare.
Ar-Pharazon (seccato e con tono di voce più alto): Fossero esse come tu dici, pure non verrebbero sminuite dall’ignavia di uomini falsi e traditori. Forse tu puoi rendermi immortale, stregone?
Sauron: Non io, mio signore, ché non sono nel novero di coloro che detengono tale facoltà e risiedono nelle aule di Valinor.
Ar-Pharazon: False parole hanno consegnato al glorioso popolo di Numenor gli araldi dei Valar e la loro codardia è stata ben ripagata dalla indifferenza che la mia gente nutre adesso per la loro maestà.
Sauron: Ben detto, mio Signore; sappi, infatti, che i Valar mentirono per timore dei possenti uomini. Sei re tra i re e la tua parola è legge: raduna la tue truppe e marcia deciso contro coloro che ti voltarono le spalle.
Ar-Pharazon (ridendo): Se anche seguissi i tuoi consigli, cosa ne ricaverei? Bruciate le dimore degli Elfi di Valinor, avrei accresciuto solo i miei forzieri e non reso immortale la mia esistenza.
Sauron: Pure, vi sono altre volontà che potrebbero condurti al tuo obiettivo. Vi sono altri poteri al mondo e non tutti seguono lo stolto volere dei Signori dell’Occidente. Sappi, infatti, che io servo colui la cui parola è fonte di saggezza e la volontà maestra per coloro che intendono apprendere la saggezza dei forti, ché, gli uomini possenti reclamano quanto è loro tramite vie che ai deboli sono precluse.
Ar-Pharazon: Chi è dunque il tuo signore?
Sauron: Egli è Melkor, colui che, nella loro follia, i Valar gettarono al di là del Mondo; pure, coloro che non muoiono ancora ne ricordano il nome e ne temono la maestà, ché invero possente è Melkor il Grande.
Ar-Pharazon: Come può aiutarmi colui che non è più?
Sauron: Non temere, signore di Numenor! Grande sarà la ricompensa per coloro che seguiranno la volontà di Melkor, ché egli è padrone di ogni sorte.
Ar-Pharazon: Dovrei forse seguire colui che fu tanto stolto da lasciarsi condurre all’esilio eterno? Seguendo la sua volontà, non diverrei forse a mia volta uno schiavo? Tale ruolo non si addice certo al Re degli Uomini!
Sauron: Mai Melkor desidererebbe che il nome del più glorioso signore di Numenor, fosse gettato nel fango e nel disonore della schiavitù. Egli è paladino di colui che richiede per sé la capacità di discernere il bene del male, anziché seguire i precetti che esseri indegni hanno appreso per paura e codardia.
(breve attimo di silenzio; Ar-Pharazon si tocca il mento, lo sguardo ormai perso nella perfidia delle parole di Sauron, poi riprende a parlare)
Ar-Pharazon (con voce irata e rosa del dubbio): Chi sei tu, dunque, che debba parlarmi in questo modo?
Sauron (con voce bassa e suadente): Io sono colui che segue il proprio volere e desidera che anche il suo grazioso signore possa essere liberato dalle immonde catene che gli Elfi e i Valar gettarono su di lui: immortalità e libertà, i due desideri che i Signori dell’Occidente negarono così a lungo agli Uomini, Melkor potrebbe concedere loro senza richiedere nulla in cambio, ché la sua magnanimità è grande.
Ar-Pharazon (con voce incerta e stanca, coprendosi gli occhi con il palmo della mano): Cosa io ho dunque fatto? Umiliai colui che può darmi la salvezza e rendere immortale il mio spirito? Invero ciechi sono divenuti i miei occhi, se all’epoca non presi coscienza del mio errore!
Sauron: Suvvia, mio signore, non temere! Sauron di Mordor non desidera che la sua amicizia gli venga meno, ché la scorsa notta il mio maestro mi parlò a lungo nel sogno e mi pregò di farti partecipe di quanto altre menti non comprenderebbero, ché possente è il tuo spirito ed esso saprà certo comprendere quanto gli è stato rivelato.
Ar-Pharazon: Cosa avverrebbe, dunque, se le mie armate giungessero trionfanti a Valinor?
Sauron: I signori dell’Ovest prendebbero coscienza della forza che è nell’animo dei Numenoreani, Signori fra gli Uomini, e concederebbero a te e a coloro che seguiranno il tuo volere, quanto il vostro cuore ambisce ottenere. Tuttavia vi sono, finanche nel Consiglio dello Scettro, Uomini la cui cupidigia e infamia è pari solo a quella che dimostrarono i Valar: Elendil ed i suoi due figli, Isildur e Anarion, non hanno forse preso parte ai complotti che i Fedeli organizzarono allorché tuo zio, Tar-Palantir morì e alcuni sussurrarono che non dovessi acquisire, per diritto della forza, lo scettro di Numenor? Il mio maestro, Melkor, è preoccupato per la sorte infausta che la tua isola conoscerebbe, se alfine questi spregevoli uomini trionfassero.
Ar-Pharazon: Saggio è invero Sauron di Mordor. Potrai mai perdonarmi per averti umiliato dinanzi al mio popolo?
Sauron (ridendo ed inchinandosi al re): Mio signore, se il tuo volere condurrà Numenor alla vittoria, allora il mio animo non rimpiangerà di aver trascorso lunghi anni in esilio presso la tua gente.
Ar-Pharazon: La vittoria sarà nostra, allorché tutti coloro che a torto si fanno chiamare Fedeli, saranno banditi dal mio regno e da tutti quelli che seguono la mia legge; or dunque, amico tra gli amici, ti affido la sovrintendenza di Numenor, che in precedenza fu di Amandil, affinché i buoni servigi che mi hai oggi reso, siano ampiamente ricompensati dalla mia generosità. Comando e voglio!

(Sauron, dopo essersi inchinato un’ultima volta ad Ar-Pharazon, esce dalla sala del trono, seguito subito dopo dal re)

…E il Balrog? Muto! Considerazioni sparse di Tolkien su una possibile riduzione a film del Signore degli Anelli

Uno degli argomenti più dibattuti tra i fans, cinefili e semplici curiosi dell’opera tolkieniana è rappresentato dal confronto fra il romanzo e la sua versione cinematografica, costituita dalla Trilogia di P. Jackson. Inutile dire che i pareri divergono e appaiono numerosi come le stelle nel cielo o i granelli di sabbia nel deserto: ci sono gli entusiasti, gli scettici, i critici, i radicali ecc. ecc.
Non è questa la sede più adatta per descrivere le mie personali opinioni sulla sceneggiatura alla base delle pellicole cinematografiche; al contrario, superando una certa ritrosia nel pormi direttamente nei panni di Tolkien, proverò – con l’aiuto dell’analisi di una lettera nella quale l’autore tentò di dare indicazioni sulla sceneggiatura tratta dalla sua più celebre opera – a capire cosa avrebbe voluto vedere in una riduzione cinematografica del Signore degli Anelli.

Prima di addentrarmi in questa analisi, tuttavia, vorrei scrivere una piccola premessa: al di là di quello che ognuno ritiene sia la trasposizione cinematografica ideale – andando quindi oltre quella di Jackson – mi sembra giusto chiedersi cosa ne pensasse direttamente l’autore. Una simile azione, tuttavia, richiede la necessità di riflettere su un meccanismo importante e cioè la non perfetta corrispondenza tra romanzo e sceneggiatura. Pur essendo un tipo di lavoro di scrittura non incompatibile con quello compiuto dall’autore in senso «classico» (e infatti esistono scrittori che, nella loro esistenza, si occupano di entrambi gli aspetti), non si può non tener conto della differenza dei due linguaggi. Chi scrive un racconto, un romanzo, una poesia ecc. ecc. ha uno spazio di azione più ampio, perché deve sforzarsi di far visualizzare al lettore tutto quello che è nella sua mente e nella sua penna. È possibile, in alternativa, dare più spazio libero al lettore, lasciando che sia quest’ultimo a immaginarsi personaggi, luoghi, battaglie ecc. sulla base di pochi elementi significativi: tanto per restare nell’ambito della sfera personale, è il modello che preferisco. La conferma a questo mio ragionamento? Uno dei miei lettori si immaginava Erfea con i capelli lunghi e senza baffi, e rimase di conseguenza perplesso dinanzi a una illustrazione che, al contrario, lo immaginava con i capelli più corti e con i baffi (Ritratti qui potrete vedere l’immagine in oggetto). Questo esempio, ad ogni modo, mi è utile per spiegare come una maggiore libertà di immaginazione lasciata al lettore implichi necessariamente una più ampia diversificazione dei personaggi e dei luoghi citati in un racconto. Nella sceneggiatura, invece, il compito descrittivo è affidato alle immagini: per avere un confronto immediato, provate a rileggere la descrizione lasciataci da Tolkien su Lorien e, subito dopo, riguardate la resa di Lorien nel film «La Compagnia dell’Anello». In una sceneggiatura, per esempio, non puoi limitarti a descrivere fisicamente un personaggio sostenendo che abbia occhi azzurri e capelli biondi: devi specificare come sono acconciati, se gli occhi sono grandi o piccoli, ecc. ecc. La stessa idea di bellezza (e del suo contrario, naturalmente) deve essere specificata in modo chiaro e inequivocabile. Una pellicola, insomma, si muove su piani diversi, che necessariamente richiedono aggiustamenti, omissioni, e perchè no? anche integrazioni. Un’ottima integrazione, per esempio, a parer mio, è costituita dalla scena in cui Boromir insegna agli Hobbit ad impugnare una spada: non so quanti di voi si siano posti tale questione leggendo il libro. Personalmente, non ricordo di essermi mai chiesto dove e come avessero imparato a combattere, nonostante avessi avuto la percezione che nella Contea non dovessero circolare molte armi…
In una pellicola, al contrario, il pubblico nota subito due particolari: 1) la giovane età di Merry e Pipino rispetto agli altri membri della Compagnia; 2) il loro fare giocoso, al limite del ridicolo (ricordate cosa fanno durante la festa di Bilbo). Dinanzi a queste caratteristiche fisiche e caratteriali di entrambi i personaggi, dunque, difficilmente il pubblico avrebbe accettato per «già ricevuta» una istruzione militare; ecco allora intervenire Boromir che in una scena durata pochi minuti mostra i progressi che i due stanno realizzando con le armi date loro in dotazione.
Bisogna considerare, inoltre, un secondo aspetto fondamentale: ai tempi di Tolkien era inimmaginabile un così meraviglioso sviluppo della tecnologia digitale. Per averne un’idea, basta confrontare i duelli con le spade laser nel primo episodio di Star Wars (anno di uscita 1977) con quelli presenti nel Il Risveglio della Forza (anno di uscita 2015). Oppure confrontate lo Squalo di Spielberg (1975) con i dinosauri di Jurassick World (2015). Scegliete il confronto che preferite, una costante resterà ad ogni modo veritiera: i film fantasy hanno tratto giovamento dallo sviluppo di questa tecnologia, in modo più evidente rispetto ad altri generi di film; si potrebbe perfino affermare che una migliore tecnologia digitale abbia incrementato, di fatto, il successo del genere fantasy/fantascientifico negli ultimi anni. Tolkien, che di mestiere non era grafico e neppure programmatore, certamente non poteva immaginare quello che sarebbe diventato il cinema a distanza di oltre 40 anni dalla sua morte; gli vanno «perdonate», dunque, alcune scelte che, in materia di sceneggiatura, oggi potrebbero apparire ridicole, ingenue o quantomeno inutili, se non ridondanti rispetto al romanzo: lo ripeto a scanso di equivoci, Tolkien non era uno sceneggiatore e non aveva esperienze cinematografiche.

Scritta questa lunga promessa (che spero mi sarà perdonata dai lettori di questo blog) passo ora ad analizzare gli aspetti che Tolkien avrebbe voluto fossero presenti in un’eventuale riduzione cinematografica e quali, invece, avrebbe ritenuto inutili o addirittura fuorvianti rispetto alla sua opera; va da sé che la tentazione di paragonare la «sua sceneggiatura ideale» con quella prodotta dalla New Line è a dir poco fortissima e credo che possa costituire una buona base per i vostri e per i miei commenti.

La lettera in questione, risalente al giugno 1958, fu indirizzata da Tolkien a Forrest J. Ackerman. Il primo elemento che mi preme sottolineare di questa lettera – che contiene diversi elementi di critica rivolti all’opera del lavoro di sceneggiatura opera di Mr. Zimmerman – riguarda una significativa premessa che Tolkien fa a proposito del suo lavoro di critica nei confronti di questa sceneggiatura…una critica saggia, fin troppo spesso dimenticata: «I canoni dell’arte narrativa non possono differire completamente, che si tratti di letteratura, di cinema o di radio; e il fallimento di alcuni film va individuato spesso proprio nell’esagerazione, nell’intrusione ingiustificata di argomenti dovuta al fatto di non aver percepito il nocciolo dell’originale». Non mi soffermerò su quelle scene che – fortunatamente, oserei dire – non abbiamo potuto vedere nè nell’opera di Bakshi, nè in quella di Jackson (come ad esempio una Grande Aquila atterrare su un prato della Contea). Inizierò la mia disamina partendo dalla figura di Goldberry (Baccador) e, sia pure indirettamente, da quella di Tom Bombadil: a questo proposito è interessante notare come Tolkien, piuttosto che vedere una riduzione di quest’ultimo personaggio a essere fatato del folklore, avrebbe preferito «che sparisse piuttosto che apparire in modo così privo di significato». Questa affermazione, tuttavia, non implica che Tolkien escludesse del tutto la presenza di questi personaggi: al contrario, di Baccador scrive che «rappresenta il cambio delle stagioni in queste terre», una successione che, invece, nelle opere cinematografiche tratte dal Signore degli Anelli si nota molto poco (a parte, forse, nella prima parte del lungometraggio animato di Bakshi) e che, per istinto, mi fa venire in mente un bellissimo brano dei Dream Theaters A change of seasons. Ma dei miei rapporti fra musica e Tolkien scriverò in un prossimo articolo…

Torniamo alla disamina di Tolkien sulla sceneggiatura: una scena che, con ogni probabilità, l’autore non avrebbe voluto vedere se fosse sopravvissuto sino al 2001, è quella della lotta condotta da Aragorn contro i Nazgul a Colle Vento: a questo proposito, infatti, egli scrive che «Grampasso non “sguaina una spada” nel libro. Naturalmente no: la sua spada era rotta […] Perché allora fargli fare una cosa del genere, se nel contesto non c’è una battaglia con delle armi?» Lo ripeto a scanso di equivoci: non voglio entrare nel merito di cosa funzioni nel cinema rispetto alla letteratura; il mio intento è solo quello di osservare cosa l’autore avrebbe voluto (o meno) che fosse ripreso dalla sua opera, facendosi forza della legittimità che gli derivava dall’essere l’inventore di quello specifico mondo fantastico. Emerge un altro particolare a proposito dell’agguato a Colle Vento: i cavalieri neri non urlano, ma mantengono un silenzio che è molto più spaventoso. In questo caso mi piace riconoscere a Bakshi di aver reso perfettamente la scena; secondo Tolkien, infatti, questo sarebbe stato il modo corretto di mostrare l’attacco dei Nazgul: «una scena scura ma illuminata da un piccolo fuoco rosso, con gli spettri che si avvicinano lentamente come ombre più scure – fino al momento in cui Frodo infila l’Anello e il re, rivelato, avanza – mi sembrerebbe molto più impressionante di un’altra scena piena di urla e di colpi inutili» (che è invece ciò che accade nel film di Jackson). Ancora, ritorna la questione delle stagioni, un aspetto che, francamente, non avevo capito toccasse così profondamente Tolkien: egli scrive che «Z [ossia lo sceneggiatore] non sembra interessarsi molto alle stagioni e al paesaggio, benché a me sembri che una delle principali attrazioni del film dovrebbe essere proprio questa».
Ed ecco, infine, arrivare a uno dei punti più sorprendenti delle critiche mosse da Tolkien su questa sceneggiatura: il mutismo del Balrog. Egli scrive infatti che «il Balrog non parla mai né emette alcun suono. Soprattutto non ride e non ringhia […] Z forse pensa di saperne più di me sul Balrog, ma non può aspettarsi che io sia d’accordo con lui». Questa è forse una delle sorprese più evidenti: non so cosa ne pensino in proposito i miei lettori, tuttavia, per quanto mi riguarda, ero da sempre convinto che il Balrog emettesse suoni di qualche genere, pur reputando che la sua rappresentazione nella pellicola di Jackson fosse troppo ispirata a quella dei Gargoyle medievali, mentre io avrei preferito che di quell’essere fossero sottolineate soprattutto gli elementi del fuoco e dell’ombra, lasciando indistinta la sua «vera» natura fisica. Altra questione, appena accennata nella lettera di Tolkien, ma non meno importante nell’economia della sua critica riguarda la resa dei personaggi: mi limito dunque a riportare la sua affermazione in merito, lasciando ai miei lettori il compito di pensare a come sono stati resi certi personaggi (penso, per esempio, a Boromir nella pellicola di Bakshi, oppure ad Arwen in quella di Jackson): «mi risenterei per i cambiamenti dei personaggi […] molto più che per i cambiamenti in peggio della trama e dello scenario». Una posizione piuttosto chiara in proposito, oserei dire.

Passando alla sceneggiatura relativa al libro de «Le Due Torri», Tolkien si dimostra ancora più insofferente e, probabilmente, deluso dalla sceneggiatura che gli è stata proposta: per fortuna, rispetto al film di Jackson, si nota che, effettivamente, sia Gandalf che Theoden escono fuori dalla sala del trono, nello spiazzo davanti al portone, per dialogare e mostrare al popolo che il sovrano è guarito dal male che lo affliggeva (anche se immagino che Tolkien non avrebbe apprezzato affatto la storia dell’esorcismo compiuto da Gandalf, ma questa resta solo una mia impressione, beninteso).
Importante, e per certi versi stupefacente, resta poi la riflessione che Tolkien sostiene a proposito della Battaglia del Fosso di Helm, un avvenimento che occupa una parte importante in entrambe le pellicole prese in esame in questo articolo. Se non fosse stato possibile attribuire eguale importanza a quella battaglia e, contemporanemente, agli Ent, Tolkien era del parere che a scomparire dovesse essere proprio la battaglia. Viene da chiedersi, naturalmente, cosa avrebbe pensato dell’introduzione degli elfi guidata da Haldir, così come accade nella pellicola di Jackson…Sulla terza parte, ossia «Il Ritorno del Re», Tolkien si limitava laconicamente a definire la sceneggiatura del tutto inaccettabile sia nelle linee particolari che in quelle generali.

Vengo alle conclusioni: senza dubbio Tolkien non possedeva tutti gli strumenti per capire i meccanismi alla base della scrittura di una sceneggiatura…e forse, entro certi limiti, tale incapacità non può essergli del tutto rimproverata, considerato che non era il suo mestiere e che, con ogni probabilità, gli sfuggiva il senso della necessità, per un tale film, di ottenere un buon incasso al botteghino allo scopo di rientrare dalle spese (notevoli) effettuate per girarlo. Possiamo chiederci, inoltre, se un film tratto dal Signore degli Anelli prodotto negli anni Cinquanta o Sessanta avrebbe avuto quel successo che indubbiamente è toccato in sorte alle pellicole di Jackson: successo che, a parer mio, non è dovuto esclusivamente al perfezionarsi degli «effetti speciali» che hanno reso possibili scene fino a non troppi anni fa semplicemente impensabili…ma anche al progressivo diffondersi, tra il pubblico cinematografico, di un certo gusto per il fantasy, coltivato, sia pure indirettamente, dal successo di tutta una serie di film e pellicole animate afferenti a questo settore e che negli anni sono diventate vere e proprie pietre miliari della nostra cultura cinematografica occidentale (basti pensare, tanto per dirne una, all’impatto avuto dalle pellicole prodotte dalla Disney prima e da Lucas in seguito).

Senza dubbio, negli anni in cui fu proposta questa sceneggiatura, a Tolkien sfuggiva l’idea di una serie ispirata al suo capolavoro: uno strumento oggi in rapida ascesa e che, addirittura, costringe grandi case cinematografiche ad adeguare le proprie programmazioni per venire incontro al successo di questo format. Ecco, forse se c’è una suggestione che avrei voluto vedere realizzata, sarebbe stata proprio quella di avere Tolkien come consulente per la nuova serie Amazon che tra pochi mesi sarà disponibile sull’omonima piattaforma: un desiderio che, tuttavia, è destinato ad essere solo una romantica fantasia…
Per quello che posso aggiungere come esperienza personale – pur non avendo mai avuto personalmente esperienze nel campo della sceneggiatura – ammetto che è stato divertente e, per certi versi, anche sorprendente, preparare i progetti per gli artisti che in questi mesi hanno lavorato sulle illustrazioni tratte dai miei racconti. In particolare, voglio condividere un aneddoto con voi: che ci crediate o meno, non avevo mai immaginato quale aspetto fisico avesse Miriel. Ricordo, anzi, piuttosto «pigramente», di averla resa bionda inizialmente solo perché, in questo modo, sarebbe rimasta distinta, nella mente del lettore, da Elwen, l’altra protagonista femminile del «Ciclo del Marinaio», che invece ha una capigliatura nera. Questo non vuol dire, naturalmente, che non avessi mai immaginato a quale persona potesse assomigliare: trovai molto bella, ad esempio, Diane Kruger nella sua interpretazione di Elena di Troia nel film «Troy» del 2004. Tuttavia, non mi ero mai posto domande precise sul suo aspetto fisico, né l’affermazione secondo la quale ella fosse ritenuta la biù bella donna dei Numenoreani si dimostrava più utile: la bellezza, infatti, è un concetto estremamente personale, anche se è noto che esistono dei parametri utili per calcolare la bellezza di un volto (proprio ieri è apparso un articolo in merito a tale questione sul «Corriere della Sera»). È stato, dunque, molto divertente scoprire che Anna Francesca, per esempio, aveva immaginato che Miriel avesse una lunga treccia: si tratta di un piccolo dettaglio, d’accordo, ma utile per dimostrare, ancora una volta, quello che ho cercato di dimostrare in questo articolo: il passaggio dalla scrittura all’illustrazione (e poi anche all’illustrazione in movimento) è molto più complesso e meno scontato di quanto possa apparire superficialmente.

* I testi in corsivo sono tratti dalla missiva «210. Da una lettera a Forrest J. Ackerman. Non datata; giugno 1958», in J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere, Bompiani, Milano, 2001, 305-313.

Ritratti – Miriel ed Erfea…e un nuovo racconto

Bentrovati! In attesa di poter ammirare Annatar, il Signore dei Doni, sono lieto di mostrarvi due illustrazioni che, seppure non inedite nelle loro linee essenziali, sono state ora rivisitate dalla ormai nota Anna Francesca per mostrarvi i due protagonisti principali del «Ciclo del Marinaio»…Erfea e Miriel! Spero possano piacervi almeno quanto sono piaciuti a me, specialmente la bella Miriel! Se vi state domandando a quale età sono stati ritratti i due Numenoreani, la risposta potrete leggerla (o rileggerla) nel «Racconto del Marinaio e del Messere di Endore», nel quale i due giovani si rincontrano dopo la lunga assenza di Erfea da Numenor, alla festa di compleanno di quest’ultimo: Uccidete Miriel! Complotto a Numenor. Sono emozionato, inoltre, nell’accompagnare queste due bellissime immagini con alcune righe di un nuovo scritto (a cui attualmente ho dato il titolo di «Il Racconto della Rosa e del Ragno») che sto scrivendo, dopo anni di silenzio. Posso solo anticiparvi che tratterà di un aspetto che finora non è stato molto approfondito, ossia i motivi che spinsero Miriel a mentire sulla sua reale identità a Erfea in occasione del loro primo incontro…

«Nel silenzio, interrotto solo dal lento crepitio del fuoco nel caminetto, entrambi serbavano gelosamente i propri pensieri, incapaci di proferire parola: infine, non riuscendo a soffocare le emozioni nel proprio cuore, simili agli scrosci di una cascata impetuosa, gonfiata dalle acque del disgelo primaverile, la voce della fanciulla si levò alta, rivelando la natura della sua eccitazione adolescente che né consigli, né pareri avrebbe tollerato, ma solo chiedeva di potersi specchiare nel suo inganno: “L’ho conosciuto, padre. Il figlio di Gilnar, l’erede al trono dello Hyarrostar. Camminava poco oltre la scogliera, nei grandi giardini in rovina di Armenelos, ove più nessuno della nostra gente si reca da molti anni: fu lì che i nostri percorsi si incrociarono. Tuttavia – riprese dopo alcuni istanti, a voce più bassa, come se la luce nel suo animo si fosse offuscata e l’inganno al quale aveva ciecamente creduto sino a qualche tempo fa si fosse dissolto improvvisamente – questo tu lo sai già, nevvero? I tuoi servi sono ovunque, né io posso evitare la loro costante e severa sorveglianza”. L’entusiasmo che inizialmente aveva caratterizzato la sua voce stava ora svanendo, lasciando il posto a una lamentela che l’uomo non poté fare a meno di trovare irritante, sebbene fossero stati i suoi ciechi desideri di controllarla all’origine del suo malcontento: alzò impaziente una mano, nel tentativo di rabbonirla, sebbene il suo intento non fosse quello di calmarla, quanto di incoraggiarla a proseguire nella sua narrazione: “Con quale nome ti sei presentata a lui, questa volta? Certo, non avrai adoperato quello che ti ho affidato quando ancora eri in fasce”. La bionda fanciulla si fermò, esitante: non era certa di comprendere le sue intenzioni, tuttavia la fiducia nella saggezza paterna era tale da rimuovere le paure dal suo cuore: così rise per l’inganno al quale aveva sottoposto il principe dello Hyarrostar, eppure non vi era malizia nella sua voce, né menzogna nelle sue affermazioni, ché ella era invero una fanciulla saggia per quanto l’età e il carattere glielo permettessero. Gaio ed acuto era il suo animo; per lei il nome e il casato del giovane uomo con il quale aveva discorso durante il luminoso meriggio non avevano alcuna importanza e se serbava in cuor suo un gran segreto non era per compiacere il padre o la madre. Al contrario, era in lei un sentimento di felicità misto al timore di non essere in grado di conoscere le sue paure a spingerla ad agire con quella condotta: simile a un vino ancora acerbo, nel cui sapore resinoso e forte il proprietario della vigna riconosce la bontà lenta a maturare del frutto del suo lungo e duro lavoro, così l’animo della fanciulla era pervaso dell’ebbrezza della menzogna, alla quale non voleva né intendeva sottrarsi, volendo assaporare, lentamente e di nascosto, il sapore acre e genuino del suo animo e del suo corpo che maturavano in quegli anni. Anelava al potere e all’autorità che le venivano da quella menzogna, non vi era dubbio; tuttavia se in tali maliziosi pensieri la sua mente si soffermava, pure non avveniva perché fosse incapace di parole e gesti sinceri; al contrario, per lei aveva importanza solo il suo essere finalmente libera dai rigidi lacci che un’educazione severa aveva gettato su di lei. “La fanciulla del mare – rispose infine, senza celare più il suo pensiero – Gli ho detto che sono figlia di pescatori e che la mia dimora è lungi da Armenelos, nella lontana regione di Andunie”. I suoi azzurri occhi brillavano mentre pronunciava queste parole: eppure, nonostante le sue affermazioni lasciassero trapelare la sua gioia, ella non aveva ancora raggiunto il culmine della sua eccitazione. Passò una mano velocemente sui propri capelli, quasi a voler cacciare via un pensiero molesto, indi proseguì: “Il figlio di Gilnar ha un nome insolito, per essere uno dei Pari dell’Isola. Egli ha nome Erfea, che nella lingua degli Elfi d’Occidente significa “spirito solitario”. “Non è forse questa padre – concluse la fanciulla, ebbra del suo trionfo – la ragione per cui mi hai spinto a cambiare vesti questa mattina, abbandonando lo scuro broccato e il bianco tintinnare dei diamanti a favore dell’umile argento e delle semplice vesti di chiaro cotone intessute?” L’uomo assentì lentamente, più rivolto a sé stesso che alla figlia: infine sospirò e il suo animo si rasserenò. Sua figlia aveva superato la prova, dunque».

Ritratti – Adunaphel l’Incantatrice

In attesa di recuperare il testo della tragedia su Miriel e Ar-Pharazon (maledetti traslochi, ahimè!) aggiorno la sezione del mio blog dedicata alle «Illustrazioni» per mostrarvi una bellissima e seducente Adunaphel l’Incantatrice, così come è stata disegnata dalla bravissima Anna Francesca.
Spero che possa piacervi, aspetto i vostri commenti!

adunaphel

«Per nulla seccata o intimorita dagli sguardi, ora lascivi, ora invidiosi che le venivano rivolti, la donna, con femminile grazia, si acconciò la chioma, leggermente scomposta a causa del lungo viaggio che aveva dovuto compiere per giungere fino a codesto luogo, e tutti ebbero modo di scorgere la sua affusolata mano carezzare dolcemente il capo; terminato che ebbe questo compito, ella rivolse i suoi azzurri occhi, sì splendenti che nessuno ne aveva mai visto un paio simili, al suo affascinato pubblico ed essi le furono soggiogati». Tratto dal «Racconto dell’Ombra e della Spada»

L’Infame Giuramento_IX Parte e ultima (Il trionfo di Pharazon)

Cari lettrici e lettori, siamo ormai giunti all’ultima parte del «Racconto dell’Infame Giuramento e del Marinaio». Il finale si annuncia amaro e triste, né, come spiegavo nel precedente articolo, avrebbe potuto essere diverso.
Per comodità di chi leggerà questo epilogo, riassumo brevemente le vicende fin qui intercorse.

Palantir, ormai anziano e reso sconfortato da un popolo che non mostra, nel suo insieme, segni di ravvedimento dalla sua scelta di allontanarsi dagli Elfi e dai Valar, decide di abdicare al trono di Numenor, lasciando la corona e lo scettro alla sua unica figlia, la bellissima principessa Miriel, e chiedendo ad Erfea, uno dei principi numenoreani a lui fedeli, di aiutarla nella sua missione governativa. Pharazon, cugino della nuova sovrana, sostenuto da un numeroso gruppo di principi e capitani, si ribella alla scelta di Palantir e decide di intraprendere una guerra civile per prendersi il trono. Consapevole che la sua forza militare e le sue ricchezze da sole non saranno sufficienti per impadronirsi dello scettro di Numenor, Pharazon si rivolge ad alcuni potenti alleati della Terra di Mezzo, Er-Murazor, Adunaphel e Akhorail, senza sospettare che in realtà essi, sotto le loro spoglie mortali, sono gli Spettri dell’Anello, i Nazgul, che agiscono per conto di Sauron, intenzionato a distruggere Numenor. Nelle grotte dell’isola, in un luogo deputato al culto di antiche divinità senza nome, ha luogo una drammatica riunione del partito sostenitore di Pharazon che si conclude con la sconfitta e la morte dei capi della fazione più moderata di questo schieramento e la scelta di sostenere Pharazon nell’ascesa al trono di Numenor. Le linee programmatiche sono quindi fissate: Miriel e i Paladini, tra i quali Amandil, suo figlio Elendil e il nipote Isildur, Erfea e Brethil, non dovranno essere toccati, per evitare la reazione del popolo. Pharazon, dunque, dovrà muoversi su un duplice piano: vincere la guerra civile, ma senza uccidere i capi della fazione avversa. Tra i Numenoreani seguaci di Pharazon si segnala un giovane ammiraglio, Eargon, figlio del tesoriere Morlok, che diventa l’amante di Adunaphel, sperando con il suo aiuto in una rapida ascesa nella sua carriera politica e militare. Una volta scoppiata la Guerra Civile, i Paladini di Numenor, impegnati a contrastare le armate di Pharazon nella Terra di Mezzo, scoprono di essere stati traditi dalla loro regina, che li invita ad abbandonare le armi e a riappacificarsi con il loro nemico; dopo aver votato per continuare la guerra agli ordini di Amandil, essi fanno ritorno a Numenor, dove sono invitati a prendere parte a una riunione del Senato che si rivelerà determinante per il futuro dell’Isola del Dono. Nel corso di un drammatico consesso, si scopre che Miriel era stata tenuta in ostaggio dai numenoreani fedeli a Eargon: questi, tramite un sotterfugio, scatena un Colpo di Stato, trovandosi ben presto faccia a faccia con Erfea, ferito da una freccia, con il quale inizia un feroce duello…

Non so quale potrà essere la vostra reazione dinanzi alle righe che vi apprestate a leggere. Può essere che vi piacciano, vi sconfortino o, più semplicemente, non incontrino il vostro gusto. Ci sta, fa parte del «gioco» che si instaura, inevitabilmente, tra autore e lettore. Mi permetto, ad ogni modo, di suggerirvi una chiave di lettura per approcciarvi all’epilogo di questo racconto: il fattore temporale. Nella vita reale così come in quella cartacea, i personaggi devono sempre fare i conti con il tempo dato loro a disposizione. Nella maggior parte dei casi si tratta di un tempo breve, che costringe i personaggi a fare i conti con la propria mortalità, nel tentativo di riuscire a soddisfare i propri obiettivi nel minor tempo possibile. In altri casi (e questo accade principalmente nei racconti fantasy), i personaggi possono disporre di un tempo maggiore e, in alcuni casi, anche di una salute e di una giovinezza che perdurano più a lungo di quanto non accada nel mondo reale. Ragion per cui tenete conto del fattore temporale nel leggere questo epilogo…

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Non so dire quanto tempo trascorse; infine, a causa della spossatezza che la ferita procurava alle mie carni, Eargon riuscì, con un abile colpo a disarmarmi; allora la rabbia si impadronì della sua mente ed egli perse totalmente ogni barlume di ragione, gridando oscure parole, incomprensibili ai più; alta levò la lama e funesto sarebbe stato il mio destino se Tar-Miriel, pallida nel volto, ma ferma nella sua volontà, non gli si fosse parata dinanzi, pronunciando parole di sfida:
“Tocca quest’Uomo e la tua lama dovrà macchiarsi di un doppio crimine!”; sì bella appariva la sovrana di Numenor, nonostante la ferita sul capo ottenebrasse la calda luce dei suoi capelli, che finanche il Numenoreano Nero arrestò la sua lama, colto dal dubbio e dal rimorso; allora, impugnata Sulring – la quale, fortunatemente, giaceva non lungi da me – vibrai con disperazione un unico colpo verso l’alto, mentre con l’arto ferito spingevo Tar-Miriel lontano dal Numenoreano Nero. Eargon arretrò, stupefatto, e si toccò il petto ferito; allora mirò la grande carneficina che era in corso nella sala in basso e il suo sguardo espresse sconforto misto a pentimento.
Levatomi, mi approssimai allora alla sua figura che giaceva non lungi dalla balaustra; egli, respirando a fatica, ché la morte era prossima a sottrargli il soffio vitale, rantolò tali parole: “Hai combattuto valorosamente, figlio di Gilnar; sebbene sia l’artefice delle mia morte, non nutro verso di te alcun sentimento di rancore. A lungo ho errato e forse mai alcuna parola o gesto potrà cancellare le colpe di cui si è macchiato il mio onore; lascia, tuttavia, che io ti sveli chi è l’artefice di questo inganno, ché, se io fui l’esecutore, egli ne fu lo spietato artefice”. Prossimo era a rivelarmi il nome del mandante di quella vile strage, quando il suo volto mutò espressione e fu preda dell’angoscia; con orrore, mi avvidi allora che anche gli altri Numenoreani erano impauriti e molti striscivano via, occultandosi dietro i massicci scranni in quercia: una piccola schiera aveva fatto il suo ingresso nella sala e alla loro testa erano quattro guerrieri imponenti.
Colui che marciava innanzi ai suoi commilitoni era Pharazon, la cui armatura sontuosa recava impressi numerosi ornamenti; non fu però il suo sembiante a riempire di terrore l’animo di tutti, ché erano con lui tre guerrieri il cui volto era occultato da ampie cappe nere; ovunque essi volgessero il capo, i Numenoreani posavano le armi e non osavano rivolgere loro alcuna parola. Giunti che furono dinanzi allo scalone che conduceva alla terrazza ove ero, uno fra essi avanzò e fui finalmente conscio della sua identità, ché egli era uno degli Ulairi, gli immortali schiavi dell’Oscuro Signore; il Nazgul levò in alto il suo lungo braccio pronunciando parole che non mi arrischierò a pronunziare in questi giorni sì tristi e parve ai miei attoniti occhi che i labbri della ferita di Eargon si aprissero sempre più; costui, allora, non potendo tollerare oltre modo un sì grande dolore, raccolte le ultime forze che ancora gli restavano, si scagliò contro il suo aguzzino, pronunciando un’unica parola: “Adunaphel!” Il Nazgul, tuttavia, fu più svelto e la sua lama tranciò il misero corpo del Numenoreano, con una forza tale che i suoi resti si sparsero per tutta la sala. Infine, fu il silenzio a regnare sovrano.

I compagni di Erfea, che avevano ascoltato tutto senza proferire parola alcuna, rabbrividirono allorché udirono della orrenda morte del figlio di Morlok; infine Elrond parlò: “Credi che il Numenoreano avesse così voluto fornirti il nome che era sul punto di rivelarti prima che gli Ulairi facessero il loro ingresso nella sala? E se tale fosse il tuo parere, ritieni che egli conoscesse quali informazioni possedessi sui Nazgul?”
Lenta echeggiò la voce del principe di Elenna, che in tali termini si espresse: “Non vi è risposta certa alle tue domande, Signore dei Noldor; forse, in qualche modo che io ignoro, Eargon era giunto a conoscenza del mio viaggio sino alla fortezza degli Ulairi nell’estremo Harad e sapeva che avrei dunque compreso un nome che risuonava oscuro ai più; o forse, egli voleva solo imprecare contro colei che l’aveva privato di quanto un Uomo non dovrebbe mai perdere”.
Tacque un attimo, indi riprese a parlare: “Allorché il Nazgul ebbe rinfoderato la sua lama, e si fu allontanato dallo scalone, io ne discesi a fatica gli alti gradini, aiutato in questo da Tar-Miriel che si ergeva accanto a me. Triste fu lo spettacolo che si stendeva sotto i nostri occhi: decine di corpi giacevano riversi sul pavimento o chini sugli scranni presso i quali inutilmente avevano tentato di trovare la salvezza; una aria greve sembrava esalare dal basso e i nostri sguardi erano penosi. La schiera di Pharazon, giunta per sedare la ribellione, si era ormai ritirata, lasciando solo alcune guardie nella sala; esse ci rivolsero deferenti inchini, esortandoci a riunirci con quanti ancora dei Fedeli sopravvivevano: mio padre e mia madre, seppure feriti e spossati, erano con i Signori della Casa di Andunie, anch’essi salvi. Brethil comparve alle mie spalle ed io mi avvidi che era incolume; tuttavia, prima che potessi parlargli, apparve Pharazon ed egli chinò il suo capo, rivolgendomi queste parole: “Mi duole, principe dello Hyarrostor, vedervi sì provato da una simile disgrazia; forse ora comprenderete quanto le mie parole fossero nel giusto, allorché esortai il Consiglio dello Scettro a cedere il comando ad un Uomo di maggior ingegno e prudenza dotato”.
“Avete condotto in questo luogo, un tempo sacro, gli schiavi immortali dell’Oscuro Signore! La follia si è impadronita della vostra mente!” Con rabbia aveva pronunziato tali parole, ma la mia voce era ormai ridotta ad un rantolo confuso; Pharazon non mostrò di averla udita, oppure, se intese le mie parole, pure le ignorò: fummo condotti via, ché il cugino della sovrana addusse quale scusa per allontanarci esservi ancora presenti implacabili nemici. Tar-Miriel, tuttavia, fu trattenuta ed io non potetti far nulla, ché molto sangue avevo perso e dei Fedeli erano pochi quelli ancora in grado di impugnare un’arma.

Lacrime di rimorso scivolarono allora via dalle gote di Erfea, e il suo tono si incrinò, tuttavia egli proseguì nella narrazione: “Nei giorni successivi, le ferite che ci erano state inferte furono sapientemente guarite dagli Erboristi della nostra dimora; eppure, la vita pareva aver abbandonato i corpi di mio padre e mia madre ed essi, sebbene riacquistassero coscienza, pure si spensero lentamente e, alla fine dell’anno, io rimasi l’unico Signore dello Hyarrostar e fui anche l’ultimo a onorare un simile titolo.
Nei mesi successivi, Pharazon intensificò il suo potere a corte e condannò a morte gli ultimi sostenitori di Eargon che ancora gli resistevano; infine, una calda sera di luglio, egli inviò messaggeri presso tutti i nobili del Regno, invitandoli a prendere parte ad un evento quale mai prima i loro occhi avevano mirato.
Giunti che fummo ad Armenelos, ci avvedemmo quanto fossero rimasti in pochi ad innalzare gli antichi vessilli di Numenor, ché la maggioranza dei soldati recava le insegne nere e dorate di Pharazon; allorché egli si avvide che i suoi ospiti avevano preso posto, si levò dal suo scranno e due oscure figure avanzarono ai suoi fianchi; infine, giunto dinanzi alla balaustra che si affacciava sul grande piazzale che occupavamo, levò il braccio destro e chiese la parola.
“Numenoreani! Gli eventi di recente accaduti mi hanno dimostrato che solo un Uomo dotato di possente volontà e sorretto da amici valorosi ed equi, può condurre i nostri destini verso un avvenire glorioso; non crediate, tuttavia, che questo sia un incarico al quale mi approssimo inconsapevole: alcuni anni fa, come molti fra voi ricorderanno – e qui il suo sguardo cadde ironico su di noi – certuni sostennero che la regina Tar-Miriel avrebbe agito saggiamente, sconfiggendo i nostri nemici; eppure, una serie di ribellioni sono state provocate, le une causate dalla sua incompetenza nella difficile arte di governare, le altre da ingenui comandanti privi di ogni lungimiranza e prudenza.
Non vi sembra, dunque, che tale corso infausto degli eventi molte sofferenze abbia arrecato al nostro popolo? Mirate, o Numenoreani, le tristi sembianze di coloro che subirono le orribili cicatrici della guerra e le sventure della miseria! Mirate le oscure carceri ove furono racchiusi pericolosi ladri e biechi assassini, le cui azioni l’imbelle sovrana non seppe frenare! Mirate i lussuriosi postriboli, ove giace, oziando, la nostra gioventù! Mirate tutto questo, o Numenoreani, e domandate ai vostri animi chi è il responsabile del degrado che fino ad oggi ha imperato sulla nostra isola!”
“Tar-Miriel, Tar-Miriel!” prese ad urlare la folla, accompagnando il suo nome con osceni epiteti che non riferirò qui dinanzi a voi; allora, Pharazon levò nuovamente il braccio e chiese la parola:
“Se io fossi, Amici, un Uomo quale questi tempi oscuri hanno generato, tosto avrei chiesto la testa della sovrana ed essa sarebbe stata esposta qui, innanzi a voi; tuttavia, poiché la mia stirpe affonda le sue origini nella notte dei tempi, ecco che vengo a voi come salvatore della patria e della sua sventurata regina; dal momento che il risanamento dell’isola passerà attraverso quello dei suoi abitanti, ecco che io prendo, dinanzi a voi tutti, Tar-Miriel come mia sposa ed ella regnerà al mio fianco”.
Un grande mormorio di stupore si levò dal popolo; ma esso fu presto sommerso da frenetici applausi che si levarono da ogni dove; una quarta figura comparve allora sul palco reale ed ella era colei che un tempo avevo amato. Invano tentai di scorgere meglio il sembiante della figlia di Tar-Palantir, ché mi parve il cielo essere oscurato da una fuligginosa caligine; ratto, allora, mi voltai e scorsi Brethil che singhiozzava, versando amare lacrime accanto a me; fu solo allora che, stupito, mi accorsi anche io di piangere: molto morì in me in quel momento.
A lungo piansi, né ero il solo; distante pochi passi da me, il volto contorto da una smorfia di rabbia, era anche Isildur; tuttavia, se le sue lacrime erano dettate dall’impotenza e dall’ardore giovanile represso e tosto sarebbero state sostituite dal cieco desiderio di vendetta, le mie avevano un sapore più amaro, ché sancivano il definitivo addio agli anni della mia verde Primavera.
Infine, la figura più alta posta accanto al sovrano, calò la sua cappa ed io la riconobbi: Er-Murazon, il Signore dei Nazgul, era giunto a Numenor per celebrare la vittoria del suo padrone. L’oscuro servo di Mordor levò in alto la corona forgiata per l’occasione, ché mai prima di allora vi era stato un sovrano che avesse posto sul proprio capo un simile cimelio, e la collocò su quello di Pharazon, pronunciando simile parole: “Egli sarà sovrano con il nome di Ar-Pharazon il Dorato e la sua sposa sarà nota come Ar-Zimraphel. Lunga vita ai sovrani di Elenna!”

Il popolo accolse il nuovo re con gran tripudio ed infinite esclamazioni di giubilo; quanto a me, avevo preferito abbandonare quel triste luogo per fare ritorno alla mia contrada, tosto imitato dagli altri Signori dei Fedeli: giunto dinanzi alla città di Minas Laure, invitai presso la mia dimora Brethil ed egli accettò con gioia e gratitudine, ché le sue genti erano state completamente annientate ed egli era l’ultimo della sua casata.
Alcuni mesi dopo Ar-Pharazon inviò i suoi araldi presso i Signori dei Dunedain, chiedendo loro di sottomettersi alla sua maestà: nessuno fra noi firmò la sua richiesta e grande invero fu la sua ira, sicché fece giuramento sul padre che avrebbe condotto alla rovina coloro che gli si erano ribellati; dei trentatré Signori che erano sopravvissuti alla guerra e che non erano ancora fuggiti alle colonie della Terra di Mezzo, ben ventidue furono accusati di alto tradimento e condannati al patibolo; sette subirono la pena dell’esilio e quattro furono privati di qualunque carica avessero posseduto fino a quel momento; quanto a Brethil, accolse il dono di Iluvatar prima che fosse emanato il decreto di colpevolezza nei suoi confronti ed egli fu sepolto accanto ai corpi dei miei avi.

Lungo era stato il racconto di Erfea ed era ormai giunta l’alba quando la sua voce si spense fra il frinire delle prime cicale; profondamente commossi, i compagni allora gli si inchinarono ed egli condusse i loro passi ad una radura poco distante dal luogo ove avevano udito il resoconto di quei lontani anni: al suo interno, accanto a una gaia fonte, era posta una grande roccia, che mani abili avevano scolpito simile ad una pergamena aperta. Vi erano dei nomi incisi sulla sua superficie ed i compagni vi lessero, fra gli altri, quello di Erfea Morluin, di Amandil, di Elendil e dei suoi due figli, Isildur e Anarion.
Ancora oggi tale pietra è visibile ad Orthanc e si narra che neppure le corrotte arti di Saruman il Bianco, le oscene grinfie degli Orchi o ancora la furia dell’Isen allorché la valle fu allagata, riuscirono a spezzarla o ad insudiciarla: grandi onori le tributò Re Elessar allorché la scorse e ne decifrò le iscrizioni, ché essa era ivi posta a testimonianza imperitura del coraggio e della lealtà dei Numenoreani Fedeli al loro popolo e agli antichi vincoli di alleanza con le altre liberi genti».

Fine del racconto.

L’Infame Giuramento_VIII Parte (Il colpo di Stato di Eargon)

Scrivere sulle orme di un grande autore del genere epico e fantastico come lo è stato J.R.R. Tolkien non è semplice. Non si tratta solo di una questione di stile, o di conoscenza delle lingue della Terra di Mezzo o, ancora, della Storia dei popoli che l’abitarono. La difficoltà più grande da superare è costituita dal rispetto che al suo legendarium chiunque dovrebbe portare; indubbiamente possono esservi passaggi o scelte che non condividiamo (quanti di noi avrebbero voluto che Thorin o Theoden non morissero? E che dire della sorte di Frodo, incapace di riacquistare la pace al termine delle sue sventure, che pure avevano salvato la Terra di Mezzo?), ma ritengo sia giusto accettarli così come sono stati descritti dal loro autore. Non lo sostengo solo per una questione di rispetto: si tratta, invece, di una questione di coerenza, più facile da distruggere di quanto superficiamente si possa credere. Ogni evento, se trasformato, può produrre una serie di conseguenze che rischiano di mettere a repentaglio tutta la materia tolkieniana, alla quale l’autore – non bisogna mai dimenticarlo – ho dedicato tutta la sua esistenza.
Questa lunga premessa mi serve per introdurvi alla conclusione de «Il Racconto del Marinaio e dell’Infame Giuramento», nella quale, come avrà intuito chi ha letto le parti precedenti, il destino di Erfea, Miriel e dello stesso Pharazon, naturalmente, conoscerà una svolta drammatica.
Non si può nascondere che non ci sarà un lieto fine. Avrei voluto, certamente, che Miriel non cedesse alle lusinghe e alle minacce di suo cugino Pharazon; tuttavia, così facendo, avrei cambiato l’intero corso della Storia e non era questa la mia intenzione.
Che l’ascesa di Pharazon abbia inizio, dunque…non prima, tuttavia, che avvenga un vero e proprio colpo di scena…

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Giunti che fummo innanzi ai cancelli del palazzo reale, il Maggiordomo del Palazzo venne da noi, ordinando di deporre le armi che recavamo seco: “Signori dello Hyarrostar, nessuno meglio di voi dovrebbe conoscere le leggi di questa contrada; certamente, rimembrerete che mai alcun Senatore o Membro del Consiglio dello Scettro abbia fatto il suo ingresso alla sala del trono adorno di simili cimeli!”
Fredda fu la mia risposta: “Né, tuttavia, si era mai visto che un membro della famiglia reale osasse usurpare il trono al legittimo sovrano; se grande è la nostra colpa, piccola essa sembrerà dinanzi a simili crimini. Perché dunque non rivolgesti le medesime ammonizioni ai Neri, che osarono fare il loro ingresso in questo palazzo, sprezzanti di qualunque autorità?”
Il Maggiordomo, allora, chinò il capo e più non parlò, ché grande era in lui la vergogna; i pesanti battenti furono aperti e facemmo il nostro ingresso nella Sala Circolare, ove si tenevano le riunioni del Senato e del Consiglio dello Scettro nei rigidi mesi invernali: due ordini di scranni correvano lungo tutto il muro, aprendosi solo dinanzi all’ingresso. Al centro, vi era un alto trono in marmo, posto su di un’ampia predella che si levava dal basso verso gli scranni della seconda fila; sappiate, amici, che codesti erano i posti assegnati a coloro che appartenevano alla fazione sostenitrice del Sovrano; grande perciò fu la nostra inquietudine, allorché l’Araldo del Sovrano diede disposizione affinché occupassimo la prima fila di scranni.
Nessuna parola fu pronunciata, né inchino mostrato; silenti e scuri in volto, prendemmo posto accanto ai nostri congiunti; ivi eran anche Amandil, Elendil ed Isildur, seguiti da Brethil l’Orbo: allorché si avvide che i Principi dello Hyarrostar erano con lui, Elendil prese a sussurrare al mio orecchio parole intrise di timori e rancori: “Erfea, questa è una trappola! Mai avremmo dovuto seguire i consigli di chi, per ingenuità o per follia, esortò i nostri voleri a prendere una decisione che arrecherà infinite disgrazie alla fazione dei Fedeli!” Isildur, tuttavia, mostrando infinito sprezzo del pericolo, accarezzò cupo l’elsa della sua nobile lama e parlò: “Fosse anche come tu dici, padre, pure vi sono qui campioni che i seguaci di Pharazon si pentiranno di aver convocato dinanzi a loro!”

Il primo oratore, dopo aver atteso che il brusio dei presenti fosse scemato, si inchinò dinanzi ai senatori e ai principi del Consiglio dello Scettro, dichiarando che la seduta era aperta; fu allora che mi accorsi quanto ciascun Uomo presente in quella sala, sia che egli sostenesse la causa di Numenor, sia che ambisse esercitare il potere su di essa, nutriva nel suo cuore le medesime paure ed ambizioni; non vi era nessuno, infatti, che non mostrasse apertamente le proprie armi. Alcuni senatori giunsero a pronunciare i propri discorsi impugnando con la sinistra le preziose pergamene sulle quali erano trascritti e posando la destra sull’elsa della lama che recavano seco.
Infine, allorché gli oratori appartenenti agli ordini più bassi ebbero terminato di parlare, un minuscolo uscio sulla sinistra fu aperto e Tar-Miriel fece il suo ingresso nella sala.

Erfea tacque per qualche attimo, rimembrando lo sconforto che l’aveva preso allorché i suoi occhi l’avevano veduta dopo lungo tempo; infine, proseguì la sua narrazione e la sua voce mutò, divenendo remota agli orecchi dei Signori dei PopoliLiberi:
“Ridotta a poco più di un pallido fantasma anelante alla vita, la figlia di Tar-Palantir sedette sul trono marmoreo al centro della sala; così esile era divenuta, che i massicci monili dorati, mai indossati prima di quel momento, parevano ceppi ai quali era ancorata, anziché tesori di inestimabile valore; gelido ed impassibile fu il mio animo in quell’ora, eppure non potetti distogliere lo sguardo dal suo sembiante ed ella fu consapevole della mia presenza; allora uno spento sorriso le illuminò il volto e in esso erano visibili tutti gli anni della nostra giovinezza, quando non ancora il nome di Pharazon era stato udito a Numenor e si ascoltavano canti lieti echeggiare in quelle medesime volte ove adesso regnava il Terrore.
La regina ascoltò con estrema attenzione le richieste dei suoi sudditi ed essi parevano indifferenti a quanto era accaduto di recente; si discusse della cattiva stagione del grano e del farro, e si stabilì un calmiere per i generi di prima necessità; tuttavia, non una voce si levò dagli scranni ove sedevano i membri del partito dei Fedeli, avvedendosi che codesta era solo una farsa; eppure, le sventure più gravi dovevano ancora giungere.

A metà mattinata, prima che le campane suonassero la quarta ora dopo il sorgere del sole, Eargon, che parimenti si era astenuto dall’intervenire sino a quel momento, chiese udienza presso la sovrana, domandandole che un suo capitano potesse far ritorno dall’esilio ove era stato confinato alcuni anni prima; nonostante il diniego che Tar-Miriel oppose a tale richiesta, egli insistette e si approssimò al trono; giunto dinanzi alla sovrana, continuando a scongiurarla di mutare parere, ecco che afferrò l’argentato scettro e lo inclinò verso il basso: come ci avvedemmo in seguito, quello era il segnale della rivolta.
Con una forza che sorprese tutti, Tar-Miriel afferrò l’Uomo, mentre la sua voce si levava alta nella sala, pronunciando queste parole in Quenya: “Dannatissimo Eargon, cosa fai?” Quello, allora, per tutta risposta, sguainò la sua lama e, rivolto ai Neri che erano sovra di lui, così parlò in Adunaico: “Fratelli, aiutatemi!”
Un gran numero di arcieri apparve allora sugli spalti interni e presero a colpire i senatori della nostra fazione; ancor prima che essi, però, facessero il loro ingresso nella sala, Isildur comprese quanto era in procinto di accadere: con un urlo, egli impugnò la spada e balzò in avanti, consapevole che i Neri avrebbero impiegato alcuni istanti per discendere dagli scranni superiori, appesantiti com’erano dalle armature che indossavano; giunto che fu dinanzi al figlio di Morlok, tentò di trucidarlo con un colpo ben assestato. Eargon, tuttavia, essendo più esperto ed accorto, scansò abilmente il fendente del suo avversario e lo abbatté con lo scettro che aveva sottratto alla regina, colpendo allo stesso tempo il capo di Tar-Miriel con l’elsa della spada; tutt’intorno, intanto, le spade mulinavano e le frecce fischiavano. La Sala Circolare, che mai aveva conosciuto la follia degli Uomini, divenne teatro di una grande carneficina; io combattevo al fianco di mio padre Gilnar e molti dei Neri giacevano caduti ai nostri piedi; infine, mi avvidi che Eargon si apprestava a trascinare il corpo esamine della sovrana in alto, lì ove occhi indiscreti non avrebbero potuto scorgere le nefandezze che il suo animo oscuro avrebbe desiderato soddisfare con la sua prigioniera: con un balzo imperioso, gli fui accanto, sbarrandogli la strada. Una freccia fischiò nell’aria, conficcandosi nella mia spalla destra; ferita non letale, ma profonda, sicché fu con immenso dolore che mi apprestai a duellare con il figlio di Morlok; egli sorrise compiaciuto allorché si avvide della mia ferita e levò in alto l’elsa della sua spada, i cui rubini rischiarati dalla tremula luce delle torce, parvero illuminare la lama di una sinistra aura rossastra; Sulring rispose allora con il suo azzurro baluginare ed il duello ebbe inizio».

L’Infame Giuramento_VII Parte (Il coraggio dei Paladini)

Bentrovati! In questo articolo proseguo la storia del colpo di Stato di Pharazon che portò alla fine del regno di Miriel: nel brano che vi apprestate a leggere c’è un «racconto nel racconto», narrato da Erfea ai suoi compagni. Si tratta, a mio parere, di uno dei più commoventi passaggi del «Ciclo del Marinaio», ispirato all’eccidio dei Fratelli Cervi nel 1943: spero possa piacervi leggerlo, così come a me è piaciuto scriverlo.

Buona lettura!

«Il figlio di Numendil diede ordini affinché l’intero esercito si mettesse in marcia alla volta del porto alle foci del Gwathlò; non vi erano, tuttavia, navi a sufficienza per tale scopo, sicché il Signore di Andunie pregò i nostri alleati di difendere le contrade che erano loro familiari, piuttosto che una terra quale mai avevano mirato; essi, seppur riluttanti, prostrarono il capo, dichiarando, tuttavia, che mai avrebbero abbandonato la causa degli Uomini del Mare e che, piuttosto, si sarebbero nascosti tra i monti e le selve, continuando la guerra con gli scarsi mezzi a loro disposizione, nell’attesa che i Numenoreani facessero nuovamente vela alla Terra di Mezzo, ché, come ebbe a dire uno di loro, appartenente al popolo di Haleth, non sarebbero trascorsi molti anni che tale evento si sarebbe verificato.

Pur non sapendo a cosa alludessero queste parole, Amandil ebbe parole di elogio per codesti soldati e pregò loro di condurre quanti erano della medesima schiatta nei forti e nelle cittadelle dei Fedeli, affinché ricevessero adeguata protezione; in tal modo, dunque, si accrebbe l’amicizia tra le stirpi dei popoli mortali della Terra di Mezzo ed i Numenoreani ed i primi presero a popolare le contrade che sarebbero in seguito appartenute ai regni di Gondor e Arnor: dopo alcune settimane di viaggio, giungemmo al Grande Mare e ivi c’imbarcammo alla volta di Elenna.

“Erfea, poca o punta conoscenza ho delle arti marinare, eppure, ben m’avvedo quanto la vostra fosse una piccola, seppur valorosa schiera, se paragonata alle imponenti armate che servivano la causa di Pharazon; non temevate, dunque, che la vostra flotta sarebbe caduta vittima di un agguato teso dalle navi di uno fra i capitani dei Neri?” domandò allora Aldor Roc-Thalion, e sul suo viso era impresso il dubbio.

“Signore degli Eothraim, quanto tu dici non è lungi dall’essere vero, ché Amandil temeva sovra ogni altro pericolo che una simile eventualità potesse realizzarsi; allora Elendil, anch’egli un grande capitano di mare, suggerì al padre una manovra diversiva, che avrebbe tratto in inganno i nostri nemici; il loro capitano, infatti, attendeva un attracco delle schiere dei Fedeli al porto di Romenna, credendo – non a torto – che codesta sarebbe stata la strada più breve per giungere ad Armenelos; la nostra flotta, invece, fu divisa e le navi giunsero ai porti della mia contrada, che Pharazon reputava troppo piccoli per accogliere una flotta come era la nostra prima che fosse scissa.

Vi erano solo due porti nello Hyarrostar; il più grande, situato a nord est, aveva nome Laure Londe; il secondo, Lond Rhynin, si trovava invece a sud est; dopo alcuni giorni, dunque, secondo i piani previsti, le nostre schiere presero contatto con gli araldi della mia casata ed esse percorsero il cammino che conduceva a Minas Laure, ove mio padre ancora resisteva ai Numenoreani Neri; le schiere di Pharazon, che mai si sarebbero attese che i rinforzi a Gilnar giungessero da sud, si diedero alla fuga non appena intravidero i nostri stendardi; per qualche tempo, allora, la pace regnò nella mia contrada ed io fui riunito alla mia famiglia.

Erfea interruppe il suo racconto, la mente ed il cuore immersi in antichi ricordi; affascinati, i suoi compagni gli si strinsero attorno, pregandolo di continuare la sua narrazione, ché molto erano ansiosi di ascoltarne il triste epilogo.

In quei giorni – proseguì allora il principe di Elenna – la guerra si estese anche alle città e alle fortezze dell’isola, sicché ogni Numenoreano vi prese parte; molte imprese furono compiute, le une nobili, le altre spregevoli, né vi è tempo per narrarle tutte; tuttavia, una mi preme ricordare quest’oggi, ché essa è fonte per me di indicibile commozione. C’era un Uomo, il cui nome era Arras, che aveva sette figli, i quali militavano nelle nostre file ed erano soldati valorosi e leali; una notte, essi caddero vittima di un agguato e furono condotti in catene al cospetto di uno dei Signori dei Neri; allorché furono innanzi a lui, egli intimò loro di confessare i nomi dei compagni onde catturarli tutti; essi, tuttavia, non rivelarono nulla, né dinanzi alle sue insistenti richieste, né dinanzi alle torture più bieche. Stupefatto dalla resistenza che i fratelli avevano mostrato, il Capitano di Pharazon propose loro di unirsi alle armate del suo generale, con la promessa che avrebbero ricevuto grandi benefici, senza più badare a quanti erano con i suoi nemici e dei quali desiderava ardentemente ottenere i nomi, ché, come ebbe a riferire ai suoi prigionieri: “Sette uomini come voi valgono più di mille soldati!”

Essi, tuttavia, rifiutarono la proposta del loro aguzzino e furono condotti al patibolo; giunti innanzi al boia, uno di loro, che le storie narrano fosse il minore per età, ma il maggiore per valore, pronunziò queste parole, accarezzando il suntuoso mantello di cui era coperto: “Sarebbe un peccato se la furia del mio carnefice ne oltraggiasse la superficie; orsù, fratelli miei, leviamoci i manti e lasciamo che le vedove e gli orfani possano riscaldarsi con questi; a noi, infatti, non saranno più necessari.” I fratelli, allora, udite le sue parole, all’unisono levarono in alto i manti ed essi, tanta era la forza con la quale erano stati scagliati verso il cielo, ricaddero al di fuori delle mura della prigione nella quale erano rinchiusi, nei vicoli ove sovente si adunavano coloro che la guerra aveva condotto alla miseria, svettando come orgogliosi vessilli della dignità e della libertà dell’uomo che nessuna morte è in grado di uccidere”.

Commossi, i Signori delle libere genti chinarono il capo, quasi avessero voluto tributare omaggio al coraggio dei figli minori di Iluvatar e più di uno fra loro non seppe trattenere le lacrime; infine, Erfea riprese a parlare ed essi lo ascoltarono.

Troppo presto, tuttavia, giunse il momento in cui non fummo più in grado di opporci alle schiere di Pharazon ed egli era prossimo ad ottenere la vittoria; grande, allora, fu la nostra sorpresa allorché ci avvedemmo che i Numenoreani Neri non solo si ritiravano nelle loro magioni, abbandonando l’assedio alle nostre fortezze, ma domandavano finanche un incontro con i signori della fazione avversa; allorché l’ambasciata dei Neri giunse alle nostre corti, incerti, ci domandammo l’un l’altro quale oscuro significato si celasse sotto le belle spoglie con le quali gli ambasciatori del nemico si erano presentati dinanzi ai nostri occhi.

Alcuni fra noi erano per prestare ascolto agli ambasciatori, seppur con la cautela del caso, ché molta incertezza era sul destino di Tar-Miriel ed essi forse l’avrebbero mostrata ai nostri occhi; altri, e fra questi erano anche mio padre e Isildur, il giovane figlio di Elendil, che infinito valore aveva mostrato durante la guerra civile, guadagnandosi tosto l’ammirazione dei comandanti più anziani, erano per non concedere loro alcuno incontro, perseguendo nella guerra intrapresa; infine, si giunse ad un compromesso e decidemmo di recarci armati nelle aule di Armenelos, pronti a difendere la libertà dello Stato ed in nostri vessilli qualora fossimo stati ignominiosamente attaccati; in tale occasione, non vi fu un solo signore di Elenna che non prese parte alla seduta del Senato, ciascuno secondo le proprie inclinazioni. Finanche mio padre e mia madre, che pure erano molto anziani, presero parte a tale consesso, l’uno recando seco le gloriose armi che un tempo aveva adoperato contro le schiere di Mordor e di Gimilkhad, la seconda un corto pugnale che nascose fra le pieghe del suo lungo abito».

L’Infame Giuramento_VI Parte (La scelta di Erfea)

Bentrovati. Continuo in questo articolo la narrazione del «Racconto del Marinaio e dell’Infame Giuramento», giunto ad un punto cruciale e drammatico: Armenelos, la capitale di Numenor, è caduta nelle mani dei seguaci di Pharazon, e ad Amandil e agli altri paladini si prospetta una difficile scelta, alla quale non potranno sottrarsi…
Buona lettura! Al termine del racconto troverete una spiegazione alla base degli eventi presentati in questo brano.

«Erfea tacque per un istante, rimembrando gli eventi di quegli anni perigliosi; allora Elrond parlò e gli pose un simile quesito: “Amico mio, tale fu il processo che la regina parve appagata dal suo esito; nel tuo sguardo, tuttavia, vi è solo silenzio. Ho forse torto a ritenere che non fosse tale il tuo parere in quell’occasione e che ritenesti, ancora una volta, ingiusta la sua sentenza?”
Il principe di Numenor osservò il Signore di Imladris e sorrise: “Nessun pensiero può essere tenuto nascosta dinanzi al figlio di Earendil, ché, ancora una volta, lungimirante si è mostrata la sua mente; mai ho ritenuto che un semplice ladro avrebbe avuto interesse a macchiarsi di un crimine tanto orrendo quanto quello che fu commesso: la sovrana, tuttavia, fu insensibile alle mie esortazioni alla cautela e alla prudenza ed io non potetti fornirle nessun nome che potesse placare la sua sete di vendetta; solo al termine di numerose vicissitudini scoprii chi avesse ucciso Morlok, ma la verità era stata compresa troppo tardi per arrestare il corso degli eventi così come si era configurato.
Al termine dell’estate, giunse a Tharbad un’armata proveniente da Sud e recante le insegne nere e dorate di Pharazon; lo scontro fu crudele, ma breve, ed essa fu tosto messa in rotta e fuggì ad oriente; ai comandanti che esultavano per la vittoria raggiunta, così però ribattei: “Questa vittoria esigerà un tributo di sangue superiore a quello di molte battaglie perdute nell’antichità”.
Amandil, che mai si era spinto così lontano nel Meridione e conosceva poco o punto i popoli chi ivi avevano preso dimora, così ribatté: “Perché affermi questo? Checché codesti guerrieri non appartengano alla nostra stirpe, sono pur seguaci di Pharazon”.
Brethil, tuttavia, avendo compreso il mio pensiero, parlò a sua volta: “Dove è dunque Pharazon? Si nasconde forse ove le nostre spie non riescono a scorgerlo? Egli è informato sul movimento delle nostre truppe; perché non è giunto qui, dunque, onde spezzare il nerbo dei Paladini di Elenna?”
Allora Amandil comprese quali timori si celassero dietro i nostri interrogativi senza risposta e riunì un nuovo consiglio nella sua tenda; gli altri comandanti, che nulla avevano sentito dei nostri colloqui, attendevano novelle di buono auspicio, ma le loro aspettative, come dimostrarono gli eventi successivi, andarono presto deluse.
Si parlò a lungo della vittoria e molti crederono che il Capitano dei Numenoreani Neri attendesse a sud delle sorgenti dell’Isen, nel medesimo luogo ove discorriamo adesso, forse credendo in tal modo di celarsi ai nostri sguardi indagatori; altri, invece, temettero che egli fosse in cammino e che sarebbe giunto presto ai nostri accampamenti: “È noto, infatti – sostenevano costoro – che i governanti di Umbar sono soliti mandare avanti le loro avanguardie prima di contrarre battaglia ed esse sono sovente costituite da Haradrim ed altri mercenari arruolati nell’estremo sud”.
Qualunque fosse il pensiero di Amandil in quell’ora, egli non lo volle rivelare ad altri che non fosse il figlio; lo sguardo di costui, tuttavia, mostrava infinita pena, come se temesse di ascoltare una condanna pronunciata da lungi ma non ancora udita; quanto a me, credevo che Pharazon, lungi dal percorrere la strada che conduceva a nord, attendesse nella sua fortezza di Umbar, lì ove il suo potere era maggiore, nell’attesa che fosse pronto per l’assalto finale.

Lungi dall’aver raggiunto un accordo su tale questione, giunse trafelato un messaggero recante il vessillo di Numenor; stremato, si inchinò ai piedi di Amandil e pronunciò parole che mai più oblierò nel corso della mia vita: “Sire, Armenelos è caduta; i seguaci di Pharazon hanno levato il loro stendardo sul palazzo reale e si stanno abbandonando a vendette e a soprusi sulle donne; la regina è tenuta prigioniera nella sua dimora e nulla sappiamo della sorte di coloro che sono con lei”.
Mille voci si levarono nel medesimo istante e presero a parlare in maniera confusa; a fatica Elendil raggiunse l’araldo, domandando chi gli avesse dato l’ordine di raggiungere Endor e questa fu la risposta che ricevette: “Mio signore, l’ordine giunge direttamente dalla sovrana; ella desidera che la guerra cessi e che i suoi comandanti facciano appello alla lealtà verso la casa reale, di cui anche Pharazon è discendente, per imporre la loro volontà sui soldati e condurli a Numenor disarmati”.
Il viso di Elendil esprimeva un’angoscia indicibile a narrarsi: «Cos’è accaduto ai miei figli? Quali notizie hai su di loro?”; tuttavia il messaggero, affranto, così rispose: “Nessuna nuova ho di loro dacché ho abbandonato i lidi di Numenor.”
“Deve essere stato invero un momento di grande sconforto per tutti voi – interloquì allora Groin – ché il nemico era giunto ove mai avrebbe potuto dirigersi se la fiducia di Tar-Miriel fosse stata maggiore nei confronti di quanti tutelavano il suo reame.”
Invero, Groin, nessun racconto potrebbe testimoniare lo sgomento che si impadronì del Consiglio dello Scettro in quel momento; fu allora, tuttavia, che Amandil mostrò grande saggezza e si guadagnò molta stima presso i principi del Regno: egli, infatti, pose all’araldo la medesima scelta che avrebbe domandato a ciascuno di noi. “Araldo di Numenor, non è più tempo di indugi; quale lealtà osserverai? Quella dei nuovi signori assurti dalle Tenebre e dall’inganno o quella dei Paladini di Elenna? Scegli dunque!”
L’araldo osservò il volto del Sovrintendente di Numenor e sul suo viso si lesse coraggio e determinazione; egli allora si inginocchiò e, sguainata la sua lama, ne offrì l’elsa al figlio di Numendil, giurando di servire la causa di Elenna. Commossi da tale gesto, molti fra noi pronunciarono le medesime parole ed il suono di molte spade sguainate riecheggiò nella fresca ora del vespro; Amandil, tuttavia, mostrando grande umiltà, si schernì innanzi a loro e dichiarò che se vi era un uomo che meritava tali omaggi, quello era il figlio di Gilnar. Stupefatto, lo osservai mentre si genufletteva innanzi a me e chiedeva perdono per non aver accolto in precedenza i miei pareri presso di sé e aver ignorato a lungo la minaccia di Pharazon e la follia di Tar-Miriel, senza opporre ad esse valida resistenza; io però non avrei gradito che la designazione giungesse per altro mezzo che non fosse la scelta del popolo; e, poiché i soldati del regno attendevano trepidanti un verdetto, dichiarai che avrei accettato tale investitura solo se essi si fossero dichiarati in tal senso.
“Una strana scelta, la tua, Dunadan – osservò Glorfindel mirando il sembiante di Erfea rischiarato dalla pallida luna – ché, se avessi invero trionfato, avresti riportato l’ordine a Numenor ed il destino del Mondo sarebbe stato forse mutato”.
Erfea ristette per lunghi attimi in silenzio, infine gli rispose in questi termini: “Vi erano diversi motivi per i quali caldeggiavo una simile soluzione; da un lato, infatti, la mia stirpe era prossima alla scomparsa ed io ero privo di discendenti, sicché, se anche avessi ottenuto il trono di Numenor, pure sarebbero sorte altre contestazioni alla mia morte e non desideravo che la mia patria piombasse nel disordine di un’altra guerra civile; dall’altro, era forte in me l’amore per la casa di Andunie ed essi erano i parenti più prossimi al sovrano; se vi era dunque una che avrebbe meritato un simile onore quella era senza dubbio la casata di Amandil e dei suoi discendenti. Mi appellai al popolo perché conoscevo quanto fosse forte la sua stima e la sua lealtà nei confronti della stirpe di Numendil ed esso avrebbe condiviso la mia scelta; inoltre, se anche quanto avevo sperato non si fosse realizzato, avrei desiderato che coloro i quali avevano sostenuto la lealtà a Numenor a costo della loro vita potessero scegliere un sovrano che paresse loro il migliore.
“Eppure, figlio di Gilnar, riconoscerai tu stesso che superiori ad Amandil erano la tua esperienza ed il tuo coraggio e la tua sapienza non era inferiore alla tua forza – interloquì allora Aldor Roc-Thalion – Perché, quando giunse l’ora, rifiutasti dunque tale incarico?”
Principe degli Eothraim, il tuo giudizio è lungi dall’essere nel vero, ché Amandil era un Uomo quale la nostra gente abbisognava in quel momento di grave sconforto; quanto a me – concluse ridendo – ho sempre privilegiato il ruolo del consigliere rispetto a quello del sovrano!”
“Erfea, hai dunque narrato della volontà di Amandil di conferire a te la maestà dei Sovrani di Elenna e di quanto la tua scelta fosse stata di appellarti al popolo; quali erano, tuttavia, i pareri degli altri nobili del regno su tale designazione?” domandò allora Bòr.

Il principe di Numenor rifletté per qualche istante, quasi che la sua mente stesse andando a quei giorni ormai lontani nello spazio e nel tempo; infine così rispose: “Brethil condivideva la medesima scelta di Amandil e mi esortava ad accettare un simile incarico; i suoi soldati, grati per i servigi che avevo reso alla casata del loro capitano, sostenevano la volontà del Principe del Mittalmar ed intonavano canti allorché mi scorgevano; quanti erano, invece, della casa di Morlok e non erano venuti meno alla lealtà nei confronti di Elenna, scelsero la stirpe di Andunie; nulla di certo potevo affermare riguardo i vassalli di Tar-Miriel, ed anzi temevo che essi sarebbero venuti meno alla parola data, preferendo non levare le armi contro i commilitoni che avrebbero scelto di difendere la regina, a costo di essere considerati traditori.
Allorché, dunque, si delegò al popolo la scelta su chi avrebbe ottenuto la maestà sui Numenoreani, un grave problema si pose dinanzi ai nostri occhi; vi erano più di cinquantamila soldati che attendevano ed essi, pur mostrandosi entusiasti di prendere parte ad una simile scelta, levarono al cielo un gran numero di opinioni discordanti, sicché nessuno parve comprendere alcunché di quanto accadeva; fu allora che Elkano, che un tempo era stato mio scudiero ed in seguito era assurto alla carica di capitano della cavalleria di Numenor, elaborò un’idea che consentì ai soldati di esprimere la propria volontà in tempi minori a quelli che avevamo previsto, impedendo che la confusione regnasse sovrana.

Vi erano, all’epoca, numerosi orci vuoti, che i servi accumulavano dinanzi alle porte dell’accampamento, non essendoci di alcuna utilità; Elkano ordinò che essi fossero trasportati all’interno del grande piazzale e frantumati; infine, pregò di distribuire ai soldati, incuriositi da tali gesti, i cocci costì ricavati e mostrò loro come usarli. Estratto il lungo pugnale dal fodero, Elkano tracciò sul coccio che aveva disteso sul palmo della mano sinistra due rune Anghertas, una “A” ed una “E”: i soldati avrebbero dovuto incidere la creta con l’iniziale del comandante che avevano scelto; in questo modo, dunque, nel volgere di poche ore, tutti i soldati espressero la loro volontà.
Non solo i figli di Numenor, ma anche i nostri alleati del Nord e del Sud si prodigarono per esprimere la loro preferenza, ché essi avevano a cuore le sorti dei loro signori e, pur non reputando Elenna la loro patria, soffrivano molto per la stato di guerra continua che affliggeva le loro contrade e desideravano che la maestà dei Signori degli Edain andasse ad un capitano di alto valore e provato coraggio; al termine della notte, infine, risultò essere vincitore Amandil e tutti i comandanti fedeli a Numenor giurarono che l’avrebbero seguito ovunque egli si fosse diretto».

P.S. Questo racconto nasce da un episodio storico che mi impressionò particolarmente e del quale, tra pochi giorni, ricorre l’anniversario: il giorno 13 settembre 1943, a Cefalonia, un’isola greca allora occupata dall’esercito regio italiano, si sarebbe svolto, secondo alcune fonti, una sorta di referendum tra le truppe italiane per sondare la loro disponibilità o meno a combattere l’esercito tedesco che richiedeva la loro resa. All’ispirazione fornitami da questo episodio, inoltre, ho unito il ricordo di una pratica adottata nell’Atene democratica, vale a dire l’ostracismo: essa veniva adoperata per sancire l’esilio di uomini politici ritenuti pericolosi per la sopravvivenza dell’istituzione democratica. Ciascun cittadino ateniese poteva esprimere il proprio voto, incidendo il nome del cittadino da ostracizzare su un coccio di vaso di terracotta, chiamato in greco, per l’appunto, ostrakon.