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Numenor: Game of Thrones (III). Trame sinistre…

Bentrovati, care lettrici e cari lettori. Continuo in questo articolo la narrazione del racconto de «L’Ombra e la Spada»: le prime puntate dedicate a questo articolo potrete leggerle alle seguenti pagine Numenor: Game of Thrones (I) e Numenor: Game of Thrones (parte II). L’arrivo di Pharazon e dei Nazgul. In questa terza parte, dopo l’entrata in scena dei Nazgul di origine numenoreana e di Pharazon, si iniziano a delineare le sinistre trame che condurranno al colpo di Stato che porterà alla fine del regno di Tar-Miriel. Riusciranno Erfea e gli altri Paladini a fronteggiare la minaccia di Pharazon e dei suoi crudeli consiglieri? Quale sarà il ruolo che assumerà Tar-Miriel all’interno del conflitto ormai prossimo? Le risposte non tarderanno ad arrivare; in attesa di poter essere più preciso, vi auguro buona lettura e resto in attesa dei vostri commenti e suggerimenti!

«Pharazôn attese che il silenzio e la quiete tornassero a regnare sovrani fra l’uditorio, infine alzò una mano e parlò: “Vi ho convocato in questo luogo per discutere delle infinite minacce che in questi ultimi anni sono sorte ai nostri danni; tuttavia, prima che le discussioni abbiano inizio, non vorrei mai venire meno alla deferenza che la presenza di sì tanti signori e dame – e qui parve che il suo sorriso si tramutasse in un ghigno sarcastico – suscita in me, sicché non mancherò di presentarvi i miei fidati mentori. Il nome di Akhôrahil è già noto alle vostre orecchie, ed io, pertanto, non lo presenterò nuovamente innanzi a voi; eccovi, invece, coloro che mi hanno scortato in questo lungo e periglioso viaggio dall’Oriente all’Occidente.” Si interruppe per un istante, infine, con un gesto teatrale della mano destra, indicò coloro che gli erano al fianco: “Questi è Er-Murazôr, Principe di una remota contrada posta nell’Harad; ella, invece, è Adûnaphel, Maga e Sapiente proveniente dalle Terre dell’Aurora[1].” I due Úlairi si inchinarono al pubblico, che ricambiò, sebbene con maggior timore; eppure, nessuno si avvide dell’inganno, ad eccezione dell’anziano Khôrazid, il quale venne preso dall’angoscioso sospetto che tali nomi celassero, in realtà, altre identità, troppo spaventose per essere introdotte come tali; sin dai tempi del primo sbarco a Numenor da parte di Akhôrahil, infatti, egli non aveva nutrito alcuna fiducia nei confronti del Nazgûl, sebbene non fosse riuscito a comprendere la sua reale identità e questo avveniva perché, pur essendo egli fiero sostenitore del Partito degli Uomini del Re e avverso ai Valar e alla loro autorità, pure disprezzava l’eccesso di violenza che l’ala più oltranzista dello schieramento propugnava e temeva che essa avrebbe condotto ove non ci sarebbe stato più ritorno, né egli era l’unico a nutrire simili pareri, ché altri erano ispirati da simili idee e non mancavano di manifestarle.

Un tempo, l’anziano principe, giunto ormai alla soglia del duecento cinquantesimo anno di vita, era stato un Paladino di Numenor e, sebbene avesse abiurato a tale incarico molte primavere or sono, pure non aveva obliato del tutto l’antica arte della lungimiranza ed essa era ancora forte nel suo animo: concentrò allora la sua attenzione sui mentori di Pharazôn e si avvide, con sua grande paura, che essi avevano intessuto intorno a loro un’aura di potere, onde i loro reale pensieri non potessero essere disturbati o carpiti da altre volontà; era, codesta arte, una prerogativa dei Paladini e di coloro che servivano nell’Ordine, sebbene tutti i Numenoreani, se posti alle strette, si rivelassero abili ad occultare la propria mente agli avversari. Contrariamente a quanto ci si sarebbe dovuto dunque attendere, una tale premessa non sopì affatto i dubbi e le perplessità che erano cresciute nell’animo di Khôrazid, ed egli avvertì con forza come tale aura non avesse origine dalle loro menti, bensì da un artifizio, fonte di potere: intensificò allora i suoi sforzi per comprendere donde provenisse quell’incantesimo e grande fu la sua sorpresa allorché, superando la vista dei mortali, si avvide che attorno all’anulare di ciascuno di loro vi era un sottile cerchietto di metallo dorato, forse un anello o un monile simile, del quale, inizialmente aveva ignorato l’esistenza. Stremato dallo sforzo che ben pochi, finanche tra i Fedeli, avrebbero osato condurre, Khôrazid ebbe la mente sconvolta da terrificanti immagini e, dopo essersi appoggiato ad una parete dell’oscura caverna, fu costretto a chinare il capo e a premersi una mano contro il petto, tanto forte era divenuto in lui il dolore. Echi remoti di leggende ascoltate avidamente durante la sua infanzia affiorarono nella memoria del principe ed egli, come lo era stato prima di lui l’ammiraglio Ëargon, ebbe l’impressione che tali fantasmi del subconscio si agitassero ora dinanzi ai suoi febbricitanti occhi; Khôrazid, tuttavia, era più erudito del suo giovane compagno e, a dispetto dell’età, aveva ancora un forte ricordo di ciò che era avvenuto nella sua giovinezza, sicché rifletté freneticamente, finché la sua attenzione non fu attirata dal ricordo di una storia che sua nonna, duchessa di Armenelos, era solita raccontare nelle gelide e cupe notti di Inverno per indurlo a più miti consigli allorché l’ira giovanile si impadroniva del suo animo. La leggenda – o quella che sino a quel momento aveva creduto fosse solo tale – narrava di tre grandi Signori Numenoreani, i quali erano stati corrotti dalla nequizia di Sauron ed erano divenuti legati al suo fato mediante gli Anelli che Celebrimbor ed Annatar avevano forgiato molti secoli prima. Naturalmente, Khôrazid non era l’unico ad essere venuto a conoscenza di una simile diceria, ché, se fossero stati interrogati, molti dei Signori e delle Dame presenti nella sala avrebbero assentito con il capo, mostrando di possedere conoscenza di tale storia: eppure, egli fu l’unico, in quel frangente, a riflettervi, ché, sebbene gli pareva impossibile che Pharazôn avesse osato intraprendere simili rapporti di alleanza con i Signori di Mordor, pure vi erano diversi indizi che lo inducevano a credere vera questa terribili ipotesi. L’anziano ammiraglio di Numenor non avrebbe mai accettato che l’ombra di Sauron si estendesse sulla sua isola, né tollerava che i suoi servi si interessassero a questioni dinanzi alle quali avrebbero dovuto rimanere del tutto estranei: al contrario, egli ambiva annientare il reame oscuro che si estendeva al di là degli Ephel Duath, affinché la Terra di Mezzo fosse conquistata alle armate dei Numenoreani e costoro fossero proclamati i Signori di Endor; il solo pensiero che i suoi guerrieri avrebbero dovuto dividere l’alloggio e il rancio con gli orchi e gli altri spaventosi abomini che l’Oscuro Sire aveva creato durante gli anni del suo dominio gli raggelava il sangue nelle vene.

Er-Murazôr, il Signore dei Nazgûl, aveva assistito imperterrito alla presentazione che l’aspirante sovrano di Numenor aveva fatto della sua persona, né, apparentemente, aveva mostrato attenzione a quanto accadeva intorno a sé: in realtà, tuttavia, non vi erano parole o pensieri che gli risultassero sconosciuti in quella sala ed egli era pur sempre vigile sulle emozioni degli uomini: tosto, infatti, aveva appreso la brama di Ëargon nei confronti di Adûnaphel, né gli era sconosciuta la lussuria che nell’animo del suo Nazgûl si era fatta strada e che gli avrebbe procurato un ignaro alleato, dal momento che, similmente a Khôrazid, Ëargon mai avrebbe accettato consapevolmente un’alleanza con Mordor, se questa gli si fosse stata offerta per vie diverse da quelle delle morbide lenzuola e delle fragranti resine dell’Oriente che aleggiavano nel talamo della Spadaccina. Gioì nel profondo del suo nero cuore il Signore degli Spettri allorché fu conscio di quanto accadeva nella sala, né tenne in gran conto gli inutili e, a suo dire patetici, tentativi da parte del giovane Ammiraglio di sondare la sua mente. “Sciocco! – la voce calma e glaciale di Er-Murazôr risuonò bassa – Crede davvero di avere forza a sufficienza per indagare nei miei affari? Tra codesti gretti uomini non ve n’è uno che temerei, fossero anche essi in numero maggiore e armati delle lame che gli Eldar forgiarono nei giorni remoti”; eppure, il Principe Nero aveva parlato con imprudenza e troppo presto aveva emesso il suo sprezzante verdetto: dapprima lieve, infine sempre più forte, avvertì, infatti, la presenza di un incantesimo che nelle profondità delle tenebre qualcuno aveva osato scagliare contro la sua persona. Er-Murazôr sorrise compiaciuto, ché tosto ebbe individuato colui che si era macchiato di un crimine così grave: Khamûl, lo Scudiero di Sauron, avrebbe forse condannato l’impudente ad essere decapitato all’istante; Dwar, il Terzo, avrebbe, invece, preferito gettarlo in pasto ai suoi cani, perennemente affamati; Indûr l’avrebbe condotto nell’arena del suo palazzo, ove lo sfortunato sarebbe stato costretto a lottare a mani nude contro le feroci bestie dell’estremo Harad; Akhôrahil, al contrario, l’avrebbe attaccato a sua volta con un incantesimo e con ogni probabilità, avrebbe finito con il distruggerlo, ché il Re Stregone conosceva bene l’abilità magica del suo sottoposto; Hoarmurath l’avrebbe trucidato con le stesse mani, né abbisognava di altro strumento per portare a termine l’esecuzione; Adûnaphel, vittima di quella che il suo Signore giudicava senza dubbio essere una perversa forma di cavalleria, l’avrebbe sfidato a duello, finendo con l’abbatterlo senza alcuna esitazione; Ren, folle quanto visionario, non avrebbe escogitato soluzione migliore se non quella di condurlo sulla sommità della Voragine Infuocata a Barad-Dûr, lasciando che la vittima bruciasse al suo interno; mai nessuno tra gli Úlairi, tuttavia, sarebbe stato crudele quanto Ûvatha, né il Capitano Nero lo ignorava, ché sapeva bene essere il Re del Khand esperto nell’arte della tortura e della mutilazione. Quanto a lui, non avrebbe fatto nulla: indagasse pure, il piccolo uomo, ché scoprisse le loro reali identità e fosse atterrito, terrorizzato o semplicemente disgustato da quanto aveva appreso! Er-Murazôr era il Signore dei Nazgûl per un motivo ben preciso: aveva la conoscenza più profonda tra tutti i servi di Mordor della magia nera e questa l’aveva di gran lunga favorito nel corso della sua carriera fra i Numenoreani che servivano Sauron; era, altresì, il più prossimo all’Oscuro Maia in persona e, in qualità di suo allievo, conosceva più di ogni altro, finanche dei demoni che erano stati creati al principio del mondo, gli inganni ed i sortilegi che avevano reso Sauron il Principe dell’Oscurità dopo la sconfitta di Morgoth; queste e molte altre conoscenze egli aveva appreso, eppure non erano state queste qualità, indubbiamente molto utili, ad aver decretato la sua nomina a Signore delle Armate di Mordor, secondo per possanza solo al Maia decaduto. Invero, il Principe Nero era dotato di una freddezza che nessuno fra i suoi sottoposti poteva vantare di possedere: questa, unita alla sua malvagità, l’aveva reso esperto nel trattare i suoi servi e gli avversari, schiacciando ogni loro pretesa, inganno o adulazione alcuna. Khôrazid poteva anche ottenere una piccola vittoria, scoprendo quali poteri si celassero sotto le sue spoglie mortali e quelle dei suoi sottoposti; mai, tuttavia, il suo parere sarebbe stato accolto o preso in considerazione dagli altri camerati del suo partito[2], ché la rete di spie al servizio del servo di Mordor, gli aveva riferito quanto il vecchio ammiraglio ed il suo seguito fossero stati relegati in una posizione di marginalità, e che se i suoi alleati continuavano ad annoverarlo fra loro avveniva solo a causa delle enormi ricchezze che aveva accumulato nel corso della sua lunga esistenza e che, essendo egli stato privato del suo erede quando era ancora in tenera età, nessuno sapeva a chi sarebbero state lasciate in eredità.

Ântenora, resasi conto che il respiro del marito le giungeva affaticato e pesante, così lo rimproverò, ignorando quale fosse il reale motivo del suo disagio: “Cosa’hai ancora, dunque? Fremi a tal punto per la carne di quella giovane donna da non saper arrestare il tuo sconcio desiderio? Hai avuto numerosi amanti, molte delle quali potrebbero essere considerate tue figlie o nipoti, così come io ho trovato spesso fra i giovani guerrieri del tuo seguito il soddisfacimento alla mia lussuria; tuttavia, mai ho tollerato che simili atti venissero compiuti dinanzi al mio sguardo, ché dimostreresti possedere mancanza di stima nei confronti di colei la quale ora ti rivolge questo appunto.”
Pallido in volto, Khôrazid la ignorò, né ella ebbe la possibilità di insistere nell’attacco nei suoi confronti, ché Pharazôn levò nuovamente in alto il suo braccio destro e parlò: “Camerati, vi ho qui convocati perché una grave minaccia allunga oggi la sua ombra su di noi. Per secoli, il dominio di queste contrade è stato prerogative di uomini e di donne valorosi che hanno sempre ritenuto essere l’arte del governo propria di coloro che detengono titolo nobiliari, gli unici che permangono dopo la morte di un individuo e che, perciò, assicurano al suo animo gloria eterna.” Si interruppe un attimo, quasi pregustando l’effetto di sorpresa e sgomento che la sua prossima rivelazione avrebbe provocato nel suo uditorio: “Fino ad oggi, dunque, tutti i Numenoreani hanno accettato questa legge di natura, la quale, proprio perché ha nella Terra, nel Mare e nel Cielo i suoi padri fondatori, è stata rispettata come giusta e necessaria: accadde, infatti, che i nostri padri accettassero su di loro, in virtù di quanto ho testé ricordato, l’onere che proviene agli uomini d’onore allorché si trovano a giudicare i loro simili; inizialmente, forse, tale onore parve troppo grande perché coloro che erano del sangue di Elros Tar-Minyatur lo accettassero, eppure fu proprio in nome di tale diritto inalienabile che il nostro regno poté reggersi per tremila anni. Ho appreso di recente, tuttavia, che il Consiglio dello Scettro ha deliberato diversamente.”
Udendo queste parole, Dôkhôr, che era stato fra i più atterriti dall’apparizione dei due Nazgûl, si levò dallo scranno e sostenuto dalle grida di approvazione dei suoi, così parlò: “Camerati, attendevate forse un segnale che fosse abbastanza forte prima di decidervi a rispondere alle ingiurie che in questi anni abbiamo dovuto sopportare con sempre maggior insofferenza? Bene, ora esso è stato lanciato. Cosa rispondono, adesso, coloro che invitavano alla prudenza, perché temevano di non avere un sufficiente numero di guerrieri per sconfiggere in campo aperto i nostri avversari?”
Era ovvio che il bersaglio delle pesanti critiche del campione dell’ala più oltranzista del partito, fosse il principe Khôrazid, il quale, tuttavia, nonostante lo sforzo precedente l’avesse molto indebolito, non esitò a rispondere alle accuse che gli venivano mosse: “Dôkhôr, sei un vile ed un traditore del Regno. Quando ti accusarono dei crimini di cui tu stesso hai dichiarato essere il responsabile, fuggisti e per molti anni lasciasti che le sorti del Partito fossero rette da uomini ben più valorosi di te, al punto tale da rischiare tutto – e qui il suo viso si contrasse in una smorfia dolorosa, al ricordo del figlio morto in battaglia contro i Fedeli – pur di non arretrare. Ci accusi, forse, di avere atteso troppo? Quale ironia, se chi pronuncia queste parole ha preferito per ben cinquant’anni – e qui il mormorio di disappunto dei seguaci dell’anziano Ammiraglio crebbe – errare lontano nei deserti e nelle steppe della Terra di Mezzo”.
“Ho una sentenza di morte sul mio capo, vecchio – lo aggredì Dôkhôr – Avresti forse preferito che avessi fatto ritorno a Numenor tempo fa, per gongolare come corvo feroce sul mio cadavere decollato, non è vero? Ebbene, sono profondamente lieto di sapere che ogni tua aspettativa in tal senso sia andata delusa.”
“Tu hai già ottenuto la tua sentenza di morte. Noi ne attendiamo una ogni giorno che passa” rispose Khôrazid, cercando inutilmente di portare dalla sua, in questo modo, l’uditorio; false e retoriche, infatti, risuonarono alle orecchie dei più giovani le parole che l’Ammiraglio aveva pronunziato, sia pur con fermo orgoglio e dignità, ché essi erano in quella età in cui l’attesa è spesso vista come una sconfitta, sicché presero ad urlare con veemenza il nome del suo avversario: “Vogliamo Dôkhôr come nostro Signore! Avanti, principe, conducici alla vittoria!”

Inaspettatamente, corse in aiuto della fazione moderata, la quale era in palese difficoltà, Akhôrahil, il quale, dopo aver soffiato nel suo corno per riportare l’uditorio alla calma, così parlò: “Voi, spergiuri e traditori, voi che invocate sì impunemente il nome di Dôkhôr, siete a conoscenza di quanto quest’uomo sia stato in grado di fare durante il suo forzato esilio nelle terre orientali?”
Ëargon, che pure non era fra i più accesi sostenitori del Numenoreano oltranzista, così replicò: “Quali che siano le sue colpe ed i suoi tradimenti, sempre meglio essere comandati da uno spirito che arde al solo pensiero di contrarre battaglia, che essere costretti ad attendere, supini ed ignari, che la Sorte finalmente ci arrida.”
“Ho forse detto che dovremmo attendere senza provocare danno alcuno ai nostri nemici?” rispose irato in volto Akhôrahil. “No – riprese a parlare dopo una breve pausa – ché se così ci comportassimo, una grave sventura cadrebbe su tutti noi e non avremmo più alcuna possibilità per trionfare sull’indegna regina e su i suoi Paladini. Al contrario, ciò di cui abbisogniamo in un momento così grave è una guida forte ed esperta, che non abbia tema di accollare su di sé ogni responsabilità legata a questa impresa.”
“A quale impresa ti riferisci? – lo interruppe Ëargon, il quale iniziava a comprendere cosa sarebbe accaduto – Ti riferisci forse alla sconfitta della regina e dei suoi servi?”
“È possibile – replicò Akhôrahil, fingendo per il momento un certo distacco per una simile soluzione, ché gli premeva ancora avere l’appoggio della fazione più moderata per i suoi fini, che presto sarebbero stati resi palesi – per il momento, tuttavia, lasciamo che sire Pharazôn completi il suo racconto.”
Con un magnanimo gesto, il figlio di Gimilkhâd ringraziò il suo mentore per aver sedato gli animi in un momento piuttosto critico e proseguì nella sua narrazione: “Non più tardi di quattro giorni fa, il Consiglio dello Scettro ha deliberato su una proposta che, se fosse avvalorata dal Senato, ove mi auguro che la vostra reazione sia ben più forte di quanto non lo sia stata ultimamente – e qui il sui sguardo cadde ironico sui suoi camerati più anziani, i quali avevano rifiutato di partecipare alle ultime riunioni di tale organo, adducendo sovente scuse poco plausibili – muterebbe i drasticamente i destini di ciascuno di noi.” Attese ancora per qualche istante, rallegrandosi in cuor suo per l’effetto devastante che avrebbe avuto la sua rivelazione, infine la sua voce, che sino a quel momento era stata rapida ed appassionata, divenne improvvisamente calma e fredda: “Il Consiglio dello Scettro, su proposta di Ërfea e di Brethil, ha espresso parere favorevole sull’eliminazione delle immunità nobiliari, estendendo le condanne verso i membri dell’aristocrazia anche per crimini commessi in tempi di pace, ovvero ove non sia stato proclamato lo stato di guerra ed il potere non sia stato assunto dai Tre Grandi Ammiragli di Numenor.”
Dinanzi a questa rivelazione, un pesante silenzio scese fra l’uditorio, rotto solo dalla voce, ormai ridotta ad un isterico grido, di Dôkhôr: “È inaudito! È inaudito!”
Pharazôn proseguì: “Purtroppo, le cattive novelle non si arrestano qui. Una seconda proposta frutto del perverso e rivoluzionario ingegno di due fra i Grandi Ammiragli del nostro Regno, chiede l’abolizione dei tribunali separati e, al loro posto, la creazione di un unico ente giudiziario che possa esaminare tutti i sudditi del Regno a prescindere dal lignaggio cui appartengano.”
Il panico, che sino a quel momento era stato trattenuto dalla cappa del greve silenzio scesa dal momento in cui si era venuti a conoscenza della prima parte del discorso di Pharazôn, non fu più possibile trattenerlo ed esplose: si videro così numerosi Signori levarsi improvvisamente dagli scranni all’unisono, quasi che avessero obbedito ad un ordine sussurrato alle loro orecchie da un essere invisibile, e rimproverarsi l’un l’altro di non aver saputo fermare la follia dei Fedeli; alcuni, i più sospettosi, crederono che Pharazôn fosse stato corrotto dai Fedeli con l’oro del quale era stato sempre avido per recare fra di loro false notizie al solo scopo di indebolirne la resistenza; altri, i più forti e allo stesso tempo i più disperati, cercarono di guadagnare l’accesso all’uscita dalla grotta, ove erano stati costretti ad abbandonare le proprie armi, con la speranza di difendere per mezzo di esse la propria vita e guadagnare così l’accesso alle navi che conducevano alla Terra di Mezzo, dove credevano di poter continuare a svolgere, indisturbati, i propri affari. Non tutti, però, tentavano di riappropriarsi delle proprie lame per ottenere la salvezza, ché vi furono alcuni i quali pensarono bene di risolvere nel sangue quante, fra le contese che erano sorte fra di loro negli ultimi tempi, non avevano ancora trovato soluzione: sarebbero stati uccisi per mano dei Dunedain, tuttavia, prima di lasciare il mondo, avrebbero almeno ottenuto la soddisfazione di eliminare i propri nemici! Accadde così che Dôkhôr cercasse inutilmente di venire a contatto con Khôrazid e che questi tentasse di fare lo stesso con lui. Una grande folla di uomini e donne, dunque, si riversò dinanzi alle porte della sala e avrebbe senza alcun dubbio guadagnato la salvezza se in quel momento non fossero accaduti due eventi che turbarono i loro animi più di quanto non erano riusciti a fare le perigliose notizie poc’anzi apprese: Er-Murazôr, il quale sino a quel momento aveva atteso nell’ombra, si destò dalla profonda meditazione nella quale era immerso e con una prodigiosa rapidità fu accanto all’ingresso, ove si erse in tutta la sua impressionante altezza. L’oscurità crebbe: esitanti, molti dei Numenoreani arretrarono, ché avvertivano una mortifera collera montare nella greve aria della sala e non osavano avanzare di un solo passo; Dôkhôr, allora, il quale si era avveduto con insospettabile prontezza che quello non era l’unico uscio per guadagnare il Mare e quindi la salvezza, corse rapido verso una seconda porta, seguito in questo da molti dei suoi guerrieri: ad attenderlo, tuttavia, era Ëargon, il quale così l’ammonì: “Non abbandonerai questa sala! Già una volta tradisti per interesse i tuoi camerati ed essi esigono giustizia! Non avrei remora alcuna a trafiggerti e a portare la tua testa alla Regina, ché ella mi ricompenserebbe come era solita fare con mio padre, né io avrei alcunché da temere dalle nuove leggi, ché esse puniscono solo i criminali ed io non lo sono.”
Dôkhôr rise fragorosamente e gli si scagliò addosso furente, mentre il suo riso era distorto in una smorfia orribile da vedersi: “Fatti da parte, fanciullino! Hai da poco compiuto la maggiore età e pensi di avere più criterio di quanti ti sono superiori non solo per esperienza, ma anche per forza? Torna ai tuoi studi, nei quali sembra tu abbia raggiunto discreti risultati e lascia che gli Uomini si occupino delle attività che loro competono.” Urlato il suo grido da battaglia, egli si avventò allora sul giovane Ammiraglio, impugnando un pesante candelabro d’ottone a mo’ di mazza e l’avrebbe senza alcun dubbio ucciso se, lesta come lo era stato il suo Signore qualche istante prima, non apparve al fianco del figlio di Morlok Adûnaphel, denudando la propria lama dal nero fodero nel quale dormiva rimembrando i massacri trascorsi ed agognando quelli futuri. Dôkhôr, infastidito dalla sua intromissione, apostrofò il Nazgûl con beffarde parole: “Bella Signora, perché non fai ritorno al talamo dorato nel quale sei solita trascorrere mollemente le giornate, ascoltando le note di un’antica arpa? Vorresti forse sfidare il nerbo degli Uomini di Numenor senza pagarne l’amara conseguenza che ti deriverebbe dall’avere un sì insano coraggio? Oppure, dimmi, hai così a cuore le sorti di questo infante da osare sacrificarti in sua vece?” Rise fragorosamente, ma la sua espressione divertita si mutò ben presto in sorpresa ed in perplessità allorché si avvide che la fanciulla, con uno semplice sguardo e senza pronunziare parola alcuna, aveva convinto Ëargon ad offrirgli la lama; ignaro di quale sarebbe stato il suo fato, accettò il mortale dono che gli veniva presentato, non senza chiedersi il perché di un tale gesto: soli fra tutti, Er-Murazôr ed Akhôrahil compresero quanto era in procinto di accadere e sorrisero crudelmente, ché Adûnaphel si apprestava a duellare contro un nuovo avversario. Rapida, simile ad un fulmine che saetta lungi all’orizzonte tempestoso, la donna sguainò la sua lama, che brillò di un’intensa luce rossa, e coloro che gli furono attorno ne furono atterriti, ché non scorgevano alcunché nei suoi occhi e finanche la luce che prima emanava il suo sembiante sembrava essere scomparsa per lasciare posto ad una oscurità minacciosa: Dôkhôr, resosi infine conto di quanto era accaduto, si mise anch’egli in guardia, non prima di aver rivolto uno sguardo carico di tensione nei confronti di colei che aveva avuta l’ardire di sfidarlo; eppure, nel mentre faceva appello alla sua concentrazione per abbatterla con un solo colpo secco, la sua mente fu distratta da pensieri oscuri di dominio e di lussuria, sicché fu con gran fatica che ne allontanò i minacciosi echi, parendogli ormai difficile distinguere fra i fantasmi che danzavano attorno a lui ed i pensieri reali che sembravano essere tenuti soffocati nella sua mente. La più esperta Spadaccina della sua epoca e di molte di quelle che furono, Adûnaphel combatteva con la stessa grazia con la quale un’allodola canta all’alba per lodare il sole nascente; eppure, non era la luce che ella onorava con le sue movenze aggraziate, quanto le oscure tenebre di Mordor, delle quali era Schiava: nessun uomo era in grado di contrastarne i rapidi affondi ed essi non le avevano mai opposto una seria resistenza, fallendo miseramente nel tentativo di opporvisi. Abile a destreggiarsi sia con una sola lama, sia con due, il Settimo fra gli Spettri al servizio del Maia Corrotto, era solito intonare oscuri canti di potere mentre duellava, e la sua bassa voce, così in contrasto con il suo leggiadro sembiante, annichiliva le membra degli uomini e confondeva loro le menti: cantò, mentre Dôkhôr, mostrando un inconscio coraggio quale pochi fra i suoi camerati avrebbero avuto, tentava vanamente di attaccarla: intrecciò parole arcane, quali mai gli Uomini dovrebbero ascoltare e il feroce camerata, sebbene non fosse stato privato né dell’udito, né della vista, non riuscì più a distinguere alcunché e gli parve che la sua mente vagasse per ciechi corridoi, ove nessun suono poteva udirsi se non quello che il suo cuore emetteva, spronato dalla tensione e dalla paura. Resisté a lungo il Numenoreano, finché Adûnaphel, la quale aveva perso ogni interesse per quel duello e non voleva prolungarlo oltre, con un micidiale fendente, il più letale fra quanti le erano propri, tranciò di netto il torace e la spada del suo sfortunato avversario, il quale cadde morto senza neppure accorgersi che Mandos aveva reclamato la sua anima; cadde ed Adûnaphel aveva già riposto la sua spada nel fodero, suscitando l’ammirazione di quanti la circondavano, in particolar modo di Ëargon: non sapeva, l’ignaro, che un dì anch’egli sarebbe stato condannato a subire la medesima morte per mano di colei che ora l’aveva salvato dall’ira del suo avversario.
Per nulla affaticata dal duello, Adûnaphel voltò le spalle ai miseri moncherini del corpo di Dôkhôr e, dopo essersi leggermente inchinata ad Ëargon, ritornò a fianco di Pharazôn, il quale aveva assistito con grande partecipazione al duello, ché la morte del principale sostenitore della fazione oltranzista del suo partito lo privava di un nemico formidabile ed egli avvertiva più vicina la realizzazione del suo piano.

Note

[1] Le Terre dell’Aurora si estendevano al di là del Rhûn, in luoghi ove di rado i Numenoreani erano soliti recarvisi: in tale contesto, pertanto, il richiamo a tali contrade assume i contorni di una realtà mitica della quale nessuno dei presenti avrebbe saputo dare una definizione precisa e che aveva, al contrario, il compito di confondere le menti dell’uditorio.

[2] La scarsa influenza che l’Ammiraglio Khôrazid deteneva all’interno del Consiglio del Partito degli Uomini del Re e la fredda determinazione con la quale Er-Murazôr considerò la sua temeraria azione, non sono sufficienti, da sole, a spiegare le ragioni che sconsigliarono al Principe Nero di intervenire; al contrario, egli sarebbe incorso in un’ira feroce ed implacabile, se l’ammiraglio fosse venuto a conoscenza del suo vero nome e di quello dei suoi compagni. Presso i popoli della Terra di Mezzo, infatti, perché un incantesimo agisse correttamente su un individuo, era necessario che l’artefice fosse stato a conoscenza del nome segreto della sua vittima e venirne in possesso richiedeva giorni, a volte mesi, di profonda meditazione, non potendosi esaurire nel corso di pochi istanti fugaci. Khôrazid, perciò, non aveva le possibilità materiali di compiere una simile magia, sia perché lo sforzo l’avrebbe senza alcun dubbio ucciso, sia perché non era nelle condizioni ottimali per poter conservare una meditazione così profonda per lungo tempo, la quale sarebbe stata percepita dai Nazgûl ed impedita con la forza. Il timore di poter essere assoggettati da chiunque fosse entrato in possesso del nome segreto, faceva in modo che pochi osassero servirsene apertamente e ancor meno confidarlo agli amici: l’odio che gli Spettri dell’Anello provavano nei confronti di Ërfea derivava proprio dal fatto che egli era riuscito ad appropriarsi di tali nomi e che potesse con questi, se non assoggettare i loro spiriti (perché per fare ciò avrebbe dovuto in primo luogo assoggettare Sauron in persona, del quale nessuno, neppure Mithrandir, fu mai in grado di apprendere il vero nome), quanto meno limitarne l’azione in battaglia; timore che, come dimostrarono gli eventi successivi all’esilio del Principe dello Hyarrostar da Numenor, si rivelò fondato.

Numenor: Game of Thrones (parte II). L’arrivo di Pharazon e dei Nazgul

Buongiorno e ben ritrovati. Dopo aver approfondito nel precedente articolo Le lettere di Tolkien e le origini della guerra civile numenoreana i riferimenti di Tolkien, presenti nelle sue lettere e nel Silmarillion, inerenti alle cause che portarono alla crescente ostilità fra le due fazioni dei Numenoreani (Fedeli vs Uomini del Re), riprendo la narrazione del «Racconto dell’Ombra e della Spada», iniziata nel seguente articolo Numenor: Game of Thrones (I).

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Irrequieti, i camerati presero a rivolgersi l’un l’altro sussurri pregni di paura e di sospetto, temendo che Pharazôn avesse voluto tendere loro una trappola per eliminare quanti un giorno avrebbero potuto contestare la sua ascesa al trono: Ëargon, il più giovane fra gli Uomini del Re presenti al consesso, levò allora in alto la sua lama, unico fra i Principi ad aver condotto con sé armi, nonostante Pharazôn avesse ordinato severamente che nessuno potesse recarle dinanzi al suo cospetto, e così parlò: “Orsù, camerati! Perché dovremmo noi consegnare l’autorità della quale fummo investiti in virtù del nostro nobile lignaggio a favore di un esiliato, ultimo supersite di una casata reale da tempo privata di onore e forza? Fra noi vi sono, questo lo vedo bene, Signori quali mai il nostro Partito, che pure a lungo ha dominato le sorti della nostra isola, ha conosciuto: non dovremmo, forse, ottemperare quanto il fato benigno volle che i nostri animi conoscessero, ambendo a quel dominio che i Fedeli per troppo tempo ci hanno negato? Perché esitare ancora? Temete forse una sovrana sì vile da non aver mai avuto il coraggio di esporre la sua persona dinanzi al popolo riunito?”
“Non temiamo Tar-Miriel, la cui autorità non riconosciamo – interloquì allora Dôkhôr, levandosi irato dal suo scranno – eppure, non possiamo ignorare che ella abbia al suo fianco Uomini valorosi, i Paladini di Numenor. Credi forse che il pensiero di impossessarci del reame dell’Isola del Dono non abbia allettato i nostri animi, ben prima che tu venissi al mondo?”
“Hai forse udito la mia voce esprimersi in tal senso? – replicò seccato Ëargon – I Paladini di Numenor, tuttavia, sono vulnerabili quanto la regina stessa: essi, infatti, hanno profonda stima di un uomo che sarà la loro rovina, se noi sapremo condurlo sul cammino della perdizione e della infamia.”
“Ecco che sei nuovamente in errore – interloquì allora Khorazîd – ché finanche questa soluzione fu un tempo prospettata e infine rigettata: se, infatti, Numenor fosse sul punto di crollare e la regina si trovasse sull’orlo dell’abisso, stai pur certo che l’uomo di cui parli non esiterebbe a sacrificare la vita della figlia di Tar-Palantir pur di salvare il reame”.
Il figlio di Morlok sorrise compiaciuto, quasi che avesse sperato in una simile osservazione da parte del suo uditorio; fu, perciò, con palese soddisfazione che levò in alto una missiva, in modo che tutti potessero vederla: “Miei signori – esordì con tono sprezzante e ironico allo stesso tempo – le informazioni in vostro possesso sono obsolete. Ho qui le prove che dimostrano in modo confutabile quanto il legame fra Ërfea e Tar-Miriel non solo non sia scemato nel corso degli anni, ma sia divenuto addirittura più forte negli ultimi tempi.”
Khorazîd espresse le perplessità di tutti: “Di quali prove parli?”
Ëargon sogghignò brevemente, infine così rispose: “Non è stato semplice entrare in possesso di tale missiva riservata, ché per averla ho dovuto sedurre una delle ancelle della regina; tuttavia, ogni mio sforzo è stato premiato allorché ho scoperto che i miei sospetti erano fondati. Ërfea ama profondamente la figlia di Tar-Palantir – e qui parve, per un attimo, che la sua voce si incrinasse, nessuno seppe dire se per invidia o se per amarezza – ed ella potrebbe vincere in breve tempo le resistenze che ancora la vincolano a non pronunciare alcun giuramento nei suoi confronti.”
Akhôrahil, che sino a quel momento era stato assorto in profonda ed oscura meditazione, levatosi dal suo alto scranno, espresse allora il suo parere: “Se la prova da te addotta fosse veritiera, non vi sarebbe alcun dubbio sulle parole colme di superbia che hai poc’anzi pronunciato. Fra noi vi sono alcuni che ricordano cosa accadde diversi anni or sono, allorché il figlio di Gilnar era giovane ed era stato da poco nominato Cavaliere del Regno: vi è forse la possibilità che quanto non riuscì a compiersi allora, divenga presto realtà.”
Ëargon, il quale era prossimo a compiere i quarant’anni, sollevò stupito il capo ed il suo tono espresse palese stupore: “Cosa accadde dunque, Akhôrahil? Vorresti forse dire che Ërfea e Tar-Miriel si conoscevano fin da quei lontani anni, prima ancora che io venissi al mondo?”8
Il Quinto fra i Nazgûl annuì lentamente con il capo, infine parlò: “Tar-Palantir aveva infinita fiducia nel giovane principe dell’Hyarrostar e non vi è dubbio alcuno che gli avrebbe permesso di prendere la mano di sua figlia, se Ërfea glielo avesse chiesto; eppure, questo non avvenne, ché il giovane capitano di Numenor fu sedotto da una donna, Gilmor, sorella di Arthol, compagno e confidente del figlio di Gilnar. Quando la principessa di Andor fu messa al corrente di quanto era accaduto, sebbene fosse scoppiata in lacrime – e qui parve che le labbra di Akhôrahil sorridessero silenziosamente – cercò il Morluin promettendogli che avrebbe perdonato il suo errore: questi, tuttavia, era troppo scosso per gli avvenimenti accaduti di recente o forse era troppo codardo per ambire al suo perdono e lo rifiutò, abbandonando per lunghi anni queste contrade.”
Khôrazid, che aveva ascoltato attentamente ogni parola pronunciata dal Nazgûl, interruppe la sua narrazione: “Non metto in dubbio la veridicità di ogni tua affermazione, ché sei invero il più saggio ed anziano fra noi, eppure non posso fare a meno di chiedermi come tu sia venuto in possesso di codeste informazioni.”
“Ero presente all’ultimo incontro fra i due giovani – rispose dopo aver atteso qualche istante l’Ulairë – sebbene essi non abbiano conservato memoria della mia presenza. Vidi le lacrime bagnare i loro volti e ascoltai gli amari singulti spezzare il quieto canto della risacca sulla battigia. Non è forse sufficiente?”
Dôkhôr rispose: “Che sia vero o no quanto affermi ha poca importanza oggi. Mi basta sapere che tra il Paladino e la Regina vi è un sentimento tale da provocare la rovina di entrambi”.
Akhôrahil sorrise sprezzante: “Dicono che l’abilità di Dôkhôr stia nella forza con la quale ha guidato gli stermini ed i saccheggi nella Terra di Mezzo, non nella sua mente, rozza e tarda a comprendere. Sciocco! – gridò con forza lo Spettro dell’Anello e tutti coloro che erano presenti furono atterriti dalla sua ira – non comprendi che aver conoscenza del passato potrà assicurarci la vittoria? La morte colpisce con più celerità ove corrompe un cuore già oltraggiato dal medesimo sicario.”
Ëargon, il quale era lesto negli atti come nei pensieri, comprese quanto si celava nel pensiero del Re Tempesta e così ribatté: “Credi dunque che potremmo servirci del Morluin per giungere al trono di Numenor?”
“No – rispose Akhôrahil, palesemente irretito da una tale proposta – egli ora è potente nel corpo e nello spirito e non sarebbe facile per alcuno di noi corromperlo.”
Dôkhôr, ancora irato per lo smacco testé subito, non nascose il suo pensiero: “Dovrei forse dedurre che tu tema il figlio di Gilnar più di quanto non tema la tua stessa vanagloria? Sei esperto nell’eloquio, ma nell’arte del combattimento in molti ti sono superiori; forse, dici bene quando riconosci che il Morluin sia per te una preda troppo grossa perché tu la possa afferrare con le tue sudice mani; eppure, amici, se mi consegnerete il Principe dello Hyarrostar, io spegnerò in lui la fiamma vitale. Perché, infatti, perdere tempo prezioso nel dibattere su Amanti, obliati o recenti che siano, Tradimenti e Viltà? Uccidiamo il Numenoreano Fedele e nessuno oserà opporsi alla nostra ascesa al trono!”

“Sei sempre stato molto divertente, mio caro Dôkhôr – esclamò una voce che sino a quel momento nessuno aveva udito in quel consesso – Mio padre affermava che fra tutti i camerati tu eri l’unico che preferiva il rozzo ferro dell’Harad ai calici preziosi, solo perché così ubriaco da non aver capacità di discernimento allorché essi si spartivano il bottino.” La voce tacque un attimo, indi riprese a parlare: “Nessuno oserà opporsi alla nostra ascesa al trono, dici? Suppongo che tu intenda affermare che tutti siano così sciocchi da aver dimenticato che un solo signore fra noi siederà sul marmoreo scranno del palazzo reale di Armenelos; e, a meno che un morbo improvviso mi privi della capacità di intelletto, intendo proclamare per me tale diritto.”

Sbigottiti, gli Uomini del Re arretrarono, domandandosi gli uni gli altri donde provenisse quella voce, ché non scorgevano alcun uomo innanzi a loro ed erano confusi e furiosi al tempo stesso; Akhôrahil, al contrario, essendo l’unico, come fu chiaro alcuni mesi dopo, ad essere stato messo a conoscenza di ogni cosa, con un rapido gesto della sua mano destra aprì un uscio nella roccia che nessuno sino a quel momento aveva notato e lasciò che tre figure facessero il loro ingresso nell’oscura sala; tuttavia, tale era la confusione che regnava tra coloro che avversavano il regno di Tar-Miriel, che pochi vi fecero caso e quanti scorsero tale gesto, in seguito non serbarono più memoria di quell’avvenimento.
Turbati, coloro che erano del Partito del Re lasciarono scorrere fra due ali coloro che erano apparsi sì repentinamente; sebbene avessero inteso la reale identità di almeno uno di loro, ché ne conoscevano la voce, ignoravano ogni cosa riguardante le altre due figure: solo, Khôrazîd ebbe un fremito di terrore e si coprì il volto con il proprio mantello, egli che era stato un tempo un Paladino e ora avvertiva nell’aria una grande malvagità. Stupita, Ântenora, moglie del principe del Forostar, così gli si rivolse: “Cos’hai? Temi a tal punto la voce di Pharazôn da non osare mirarlo in volto? Egli è solo un giovane il cui animo è colmo di boria. Perché, dunque, sei così turbato?”
Khôrazîd rantolò, infine rispose: “Sono dunque l’unico ad avvertire la malvagità addensarsi in questa aula? Sono stato Paladino per molti anni, sin quando il nerbo del governo di Numenor è stato nelle mani di uomini valorosi e sprezzanti di ogni pericolo e ho appreso molte abilità delle quali oggidì la gran parte dei camerati non serba più alcuna memoria. Sappi dunque questo: mai, in tutta la mia lunga esistenza, ho conosciuto un simile potere emanare dalle figure che hanno ora fatto il loro ingresso fra noi.” Sulle prime, dopo aver udito questa risposta, Ântenora, rise, ché non gli pareva possibile che il giovane Pharazôn fosse latore di una simile potenza; tosto, tuttavia, il suo sorriso si mutò in timore ed infine in sbigottimento allorché scorse che molti altri signori fra i Numenoreani colà presenti erano in preda alla medesime convulsioni che avevano colto il marito: stupefatta, ella stessa si rese conto che il corpo non le ubbidiva più e in breve fu costretta, contro la sua volontà, che pure era forte come quella di poche fra le dame presenti, a chinare dapprima il capo, infine a prostrare tutto il corpo dinanzi alle due alte figure che accompagnavano il principe ribelle.

Pharazôn, giunto al centro della sala, rivolse un breve cenno a quanti l’avevano accompagnato ed essi presero posto accanto a lui: un mormorio colmo di attesa si levò dall’assemblea e finanche coloro che sino a quel momento, per forza interiore o per sorte fausta, avevano evitato di cadere sotto la loro preponderante volontà, furono avvinti alle loro oscure menti. Ëargon, l’unico uomo ad aver saputo opporre una valida resistenza fra quanti erano presenti dinanzi a tale rivelazione, fu tuttavia incapace di parlare per lungo tempo, ché una grande inquietudine si era impadronita del suo cuore e, sebbene non avrebbe mai osato confessarlo a nessuno, temeva i due forestieri come non aveva temuto mai alcun nemico. Colui che era alla destra del figlio di Gimilkhâd indossava una lunga tunica nera adornata da intarsi dorati; una ricca cappa in pelliccia bianca copriva le sue possenti spalle ed egli cingeva una spada al fianco sinistro, la cui elsa, rischiarata da freddi diamanti, rifletteva cupa le torce della sala. Il volto dell’uomo, sebbene fosse bello e nobile, era tuttavia imperscrutabile e lo stesso Ëargon, che pure aveva osato mirarlo negli occhi, fu tosto costretto a chinare, riluttante, il capo, ché era stato colto da conati e a stento riusciva a reggersi in piedi: non vi era luce alcuna nei grigi occhi dello straniero ed essi erano immobili e silenti; eppure, osando quanto nessuno prima di lui aveva tentato, il figlio di Morlok respirò profondamente e spinse lo sguardo oltre i confini della sala, oltre Numenor e al di là del Grande Mare Orientale, finché non credé di scorgere una remota fiamma bruciare lugubre a levante.

Inorridito, Ëargon arretrò ed il suo timore crebbe allorché scorse la medesima fiamma oscura negli occhi del forestiero; per un istante, gli parve che l’intero corpo dell’uomo non fosse altro che un ricettacolo per uno spirito dotato di un potere quale mai i suoi occhi avevano mirato sino a quel momento e, sebbene l’aura che questi emanasse fosse luminosa, il Numenoreano comprese che non della luce degli Eldar si trattava, bensì di qualcosa di diabolico e crudele.

L’uomo, assorto come era nelle sue oscure meditazioni, non parve accorgersi che Ëargon era intento a studiarlo; tuttavia, pur non degnandolo di uno sguardo, la sua malvagità era tale che il giovane ammiraglio ne risultò schiacciato: distogliendo i suoi azzurri occhi da quelli dello straniero, il figlio di Morlok notò che, occultata parzialmente dalle tenebre che aleggiavano nella sala e che ora sembravano essersi infittite, vi era una corona posta sull’ampia fronte dell’uomo. Sulle prime, non vi fece quasi alcun caso, prigioniero com’era dell’inquietante sguardo che emanava quel corpo; infine, un urlo gli morì in gola, allorché comprese essere quell’uomo un Numenoreano e, per giunta, uno di alto lignaggio: la corona che adornava il suo capo, infatti, non assomigliava affatto a quelle che erano soliti indossare i barbari re dell’Oriente, bensì era simile, piuttosto, agli alti elmi che i Comandanti degli Uomini del Re indossavano in battaglia. Affascinato e allo stesso tempo inorridito dalla forma e dai colori della corona dell’uomo, infine Ëargon comprese quanto sulle prime gli era sfuggito, ché solo una corona, forgiato in bianco laen e adorno da splendente madreperla poteva essere simile a quella: riluttante a prestare fede a quanto i suoi occhi scorgevano, fu nuovamente colto da forti conati, ché l’artefatto in questione era appartenuto un tempo ai sovrani di Numenor e di esso si era smarrito nel tempo ogni traccia, sebbene il ricordo perdurasse vivido nella memoria di ciascun Ammiraglio. L’elmo di Tar-Cyriatan, che presso alcuni storici di Andor fu considerato la prima corona che i Sovrani di quella terra avessero portato, splendeva ora innanzi ai suoi attoniti occhi: molti interrogativi senza risposta allora lo turbarono; nomi che un tempo aveva creduto appartenere alle leggende narrate nelle gelide notti di inverno da anziane donne ed uomini senza alcun ritegno parvero ora prendere vita dinanzi a lui. Per quanto, tuttavia, si sforzasse di riportare alla mente nozioni di storia che un tempo aveva appreso, egli non fu in grado di comprendere la reale identità dell’uomo che aveva dinanzi, né, forse, questo era un compito alla sua portata, ché questi era Er-Murazôr, il Principe Nero, Signore degli Eserciti di Mordor e Re degli Stregoni. Il discepolo prediletto da Sauron giungeva ora alla contrada dei Numenoreani, dopo una lunga assenza, per portare a compimento la missione che gli aveva affidato il suo Padrone e sebbene nel suo cuore il risentimento per il figlio di Gilnar si fosse accresciuto nel tempo, da quando questi aveva osato profanare la sua fortezza occultata dalle sabbie del deserto, pure aveva avuto ordini precisi a riguardo e la sua ira era destinata, per il momento, a restare inespressa.

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L’ombra di Er-Murazôr crebbe nella sala e l’oscurità si infittì: una luce chiara, eppure remota, risplendeva tuttavia alla sinistra dello scranno di Pharazôn ed il giovane figlio di Morlok ne fu inesorabilmente attratto: la figura che aveva preso posto accanto al cugino della sovrana, sebbene non avesse ancora rivelato il suo sembiante agli altri Numenoreani, pure sembrava essere la fonte di tale luminosità. Con crescente stupore, Ëargon mirò lo straniero mentre, con un gesto lento e al tempo stesso elegante, lasciava cadere il manto che ancora rivestiva la sua carne e la sua sorpresa, questa volta, fu troppo grande per poter essere occultata, né egli fu l’unico a mostrare un tale atteggiamento: l’ospite, infatti, non era un uomo, come molti avevano creduto, bensì una donna di indicibile bellezza. I Principi di Numenor ed i loro servi, gente scaltra e senza alcun ritegno, al solo guardarla furono vittime della lussuria e sussurrarono tra loro commenti che qui non saranno riportati; le Signore di Andor, invece, presero subito a detestarla, perché la donna il cui sembiante era stato ora scoperto, rappresentava ai loro occhi molto di quanto avevano perso in gioventù e che sapevano fin troppo bene non avrebbero più riottenuto: giovane era e non dimostrava avere superato la maggiore età[1], ché la sua chiara pelle era vellutata come seta e la sua capigliatura emetteva riflessi bluastri alla luce delle torce, tanto era scura. Per nulla seccata o intimorita dagli sguardi, ora lascivi, ora invidiosi che le venivano rivolti, la donna, con femminile grazia, si acconciò la chioma, leggermente scomposta a causa del lungo viaggio che aveva dovuto compiere per giungere fino a codesto luogo, e tutti ebbero modo di scorgere la sua affusolata mano carezzare dolcemente il capo; terminato che ebbe questo compito, ella rivolse i suoi azzurri occhi, sì splendenti che nessuno ne aveva mai visto un paio simili, al suo affascinato pubblico ed essi le furono soggiogati. Lentamente, l’ospite si levò nuovamente dallo scranno sul quale mollemente si era adagiata, lasciando cadere il nero mantello che l’aveva avvolta, simile ad una nube che oscura la luna nel plenilunio; un secondo mormorio colmo di stupore, ammirazione ed astio si levò, allora, ed il cuore di Ëargon fu trafitto, senza che egli potesse opporre una valida resistenza alla brama di lei che di istante in istante diveniva più forte nel suo animo. Superbamente bella, la donna si mostrava ora nella sua seducente femminilità: un lungo abito bianco le cingeva morbidamente il corpo, aderendo sui suoi seni e sui suoi fianchi, simile ad un abbraccio che un amante tenti di rivolgere all’oggetto del suo disio, mentre da una nera cinta, i cui intarsi argentati splendevano lugubri nella notte rischiarata dalla bellezza della donna, pendeva una leggera lama, la cui foggia, tuttavia, a molti parve essere simile a quelle portate dalle donne numenoreane – poche in verità – che erano esperte nell’arte della scherma e la cui elsa, ricavata da un unico frammento di ametista, risplendeva anch’essa nella notte.

Un grazioso diadema era posto sul capo di colei che aveva ridotto al silenzio un uditorio che sino a pochi istanti prima era sconvolto da dispute e da rancori ed Ëargon si avvide che la medesima pietra preziosa che costituiva l’elsa della sua lama era posta al suo centro: incapace di parlare, egli non poté, tuttavia, evitare di pensare che la bellezza di codesta dama superava di gran lunga quella di qualunque altra donna avesse conosciuto, finanche di Miriel, che pure era da ogni Numenoreano considerata il fiore più grazioso che fosse mai stato concepito sull’isola sin dai tempi di Elros Tar-Minyatur. Affascinato, il figlio di Morlok osò mirarla nei suoi glaciali occhi e scorse, in un turbinare di sensi, la spietatezza dell’acciaio, la ferocia di una tigre del lontano meridione, l’intelligenza dello sparviero che sorvola le cime dei monti immersi nella bruma e la malizia della furtiva volpe che erra raminga nei campi di grano: sospirò d’amore e di desiderio e la volle per sé ed ella in verità, non fu tarda nel concedersi ai suoi desideri, sebbene, come fu chiaro in seguito, non agì seguendo il medesimo desiderio che ora si agitava furioso nel petto del Numenoreano, quanto piuttosto la sua lussuria ed il suo freddo raziocinio, ché ella era Adûnaphel l’Occultatrice, Settima fra i Nazgûl e Spadaccina di indicibile valore ed esperienza».

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Note

[1] Si ricordi che presso i Numenoreani il conseguimento della maggiore età avveniva al compimento del trentacinquesimo anno di età.

Le lettere di Tolkien e le origini della guerra civile numenoreana

Care lettrici, cari lettori,
dedico questo articolo a uno degli aspetti meno conosciuti, ma per questo non meno importanti, della genesi del mito di Numenor in Tolkien. Avrei dovuto, in realtà, scrivere questo articolo presentandolo come una sorta di «cappello introduttivo» all’ultimo racconto che ho iniziato a trascrivere in questi giorni (potete leggerne le prime pagine in Numenor: Game of Thrones (I)), ma impegni vari non mi hanno permesso di rispettare questa scadenza.
In questo articolo saranno analizzate alcune lettere di Tolkien incentrate su una serie di aspetti particolarmente importanti per spiegare non solo le ragioni profonde che furono alla base del conflitto civile, scoppiato nell’anno 3255 della Seconda Era, tra i sostenitori della regina legittima Tar-Miriel e i seguaci di suo cugino Pharazon, ma anche per indagare sulla ritrosia che caratterizzò Tolkien in relazione al mancato approfondimento di queste ragioni, potremmo dire, a carattere «storico-sociale». Questo tema, in parte, è stato affrontato dal sottoscritto, per la prima volta, negli articoli: Scrivere degli Uomini. Un limite di Tolkien? e Scrivere degli Uomini (II parte) Tolkien vs Dante, ovvero l’impossibilità dell’allegoria che vi invito a leggere (o rileggere).
L’analisi delle lettere di Tolkien è di grande importanza per chi desideri approfondire le ragioni che spinsero l’autore del «Signore degli Anelli» a compiere alcune scelte precise in merito al dipanarsi della trama (o forse sarebbe più corretto riferirsi, data la vastità degli argomenti trattati nei suoi racconti e romanzi, alle trame) di quel lungo percorso che, fin dalla creazione del Mondo Secondario, avrebbe condotto molti millenni più tardi, all’ascesa e poi alla caduta di Numenor, l’isola del Dono. Per comodità mia (e di chi mi legge) ho deciso di suddividere questo articolo in due paragrafi, corrispondenti a ciascuno degli argomenti presi in esame nel corso di questa trattazione.

I sovrani di Numenor ispirati al mito egizio dei faraoni?

Nella lettera 156, datata verso la fine del 1954, Tolkien si sofferma sulla figura del sovrano di Numenor. I lettori delle opere del professore di Oxford sanno che la linea regale che resse il trono dell’Isola del Dono affondava le proprie radici nell’unione fra Uomini, Elfi e Maia, ossia spiriti angelici: questa, dunque, è la ragione per cui, ancora nella tarda Terza Era, Denethor, Sovrintendente di Gondor, lamenterà al proprio figlio maggiore, Boromir, come il ruolo dei sovrani di quel Paese (a loro volta discendenti di un ramo «cadetto» dei sovrani numenoreani) non avrebbe mai potuto essere soppiantato, per così dire, dai Sovrintendenti, nonostante fossero ormai trascorsi più di mille anni dalla scomparsa dell’ultimo sovrano del Reame Meridionale. È evidente, dunque, che il lignaggio dei sovrani di Numenor sia una delle prerogative fondamentali per tramandare questa importante carica senza soluzione di continuità; è sufficiente dare un’occhiata alla cronologia dei diversi re dei Dunedain, posta nel volume «Racconti Incompiuti», per rendersi conto, infatti, di come non appaiano mai altri sovrani provenienti da diversi lignaggi (sia pure all’interno dei numenoreani). Certo conosciamo molto poco (per usare un eufemismo) delle mogli dei sovrani di Numenor, però sembra evidente che la linea di successione sia costituita da eredi diretti di Elros, primo re di quell’isola e fratello di quell’Elrond che scelse di essere immortale come gli elfi e si stanziò, invece, nella Terra di Mezzo. Nella lettera che segue, Tolkien si sofferma sugli attributi sociali e, allo stesso tempo, religiosi, che contribuivano fortemente a rafforzare l’autorità del sovrano numenoreano:

«I Numenoreani cominciarono così una nuova grande epoca, e come monoteisti; ma come gli Ebrei (ancora di più) avevano un unico centro fisico di venerazione: la sommità della montagna Meneltarma «Pilastro del Cielo» […] Anche quando i Re si estinsero non restò più niente di simile al sacerdozio: le due cose per i Numenoreani erano equivalenti» (La Realtà in Trasparenza, lettera 156)

L’analogia con gli antichi Egizi è ripresa nella lettera 211, laddove Tolkien, approfondendo la caratterizzazione dei Gondoriani, confessa che questi

«erano orgogliosi, particolari e strani, e penso che la cosa migliore sia raffigurarli come (diciamo) Egizi. Assomigliano agli Egizi sotto diversi aspetti – la passione per, e la capacità di costruire, opere gigantesche e massicce (Ma naturalmente non per la loro teologia: rispetto alla quale assomigliavano più agli Ebrei, anzi erano persino più puritani – ma questo sarebbe troppo lungo da spiegare: spiegare perché praticamente non esiste una religione manifesta, o piuttosto atti o luoghi o cerimonie religiose fra i «buoni» o anti-Sauriani, all’interno del Signore degli Anelli» (La Realtà in Trasparenza, lettera 211).

Ancora sulla figura del sovrano numenoreano tipico, Tolkien, nella lettera 244 aggiungeva, infine, che:

«un re Numenoreano era un monarca, con il potere assoluto di decidere durante una discussione; ma governava il regno rispettando l’antica legge, di cui era amministratore (e interprete), ma non autore» (La Realtà in Trasparenza, lettera 244).

Ciò che mi sembra importante sottolineare, sulla base della lettura di questi documenti, è che il sovrano numenoreano, nelle intenzioni di Tolkien, doveva essere una guida non solo politica e amministrativa (come ogni altro capo di Stato, del resto), ma anche religiosa e, direi, simbolica. Ricordate come riescono gli abitanti di Minas Tirith a capire che Aragorn è il re tanto atteso? Dalle sue capacità di guaritore. Senza dubbio, anche i suoi antenati dovevano essere in grado di praticare queste arti mediche benefiche. Questa figura di sovrano, che troviamo anche in contesti storici (per esempio, si riteneva che gli antichi re francesi fossero in grado di guarire i loro sudditi da alcune malattie semplicemente imponendo loro le mani sul capo) ha però un limite evidente: diventa di grande utilità nel momento in cui una società è rigidamente organizzata da un punto di vista sociale (come doveva essere Numenor nella sua prima fase di esistenza), oppure all’interno di società profondamente in crisi (come il regno di Gondor alla fine della Terza Era), tuttavia può risultare «scomoda» nel momento in cui una società si articola maggiormente e compaiono, per così dire, «centri alternativi di potere» rispetto a quelli regi. Un esempio, sotto questo punto di vista, può essere costituito dal Consiglio dello Scettro, che affiancava il sovrano nelle sue scelte: secondo una nota scritta dallo stesso Tolkien a margine del racconto di Aldarion ed Erendis, questo organismo nel tempo aveva profondamente mutato la sua forma, diventando di fatto un potere alternativo rispetto a quello del sovrano. Nei secoli centrali e finali della Seconda Era, d’altra parte, si nota un’evoluzione degli stessi sovrani numenoreani: progressivamente, infatti, a parte alcune eccezioni significative, essi sembrano tralasciare i loro doveri regali, per concentrarsi unicamente sull’accumulo di ricchezze oppure su ricerche erudite. Sembra evidente, dunque, che, con il trascorrere dei secoli, il potere effettivo sia stato distribuito fra più soggetti, molti dei quali, si può supporre, avessero fatto fortuna grazie alla colonizzazione della Terra di Mezzo.

Una lotta di classe alla base del conflitto civile a Numenor?

Mi rendo conto che questo titolo può sembrare un po’ provocatorio, e non ho nessuna difficoltà ad ammetterlo. Come i lettori di Tolkien sanno (o dovrebbero sapere) molto bene, questo autore non volle mai accostare le storie della Terra di Mezzo a quelle che riguardavano il Mondo Primario, vale a dire la nostra cara e vecchia Terra, né volle cercare accostamenti di tipo politico, di nessun genere. A un lettore, per esempio, che gli chiese se Mordor corrispondesse all’Unione Sovietica, data la collocazione geografica ad Oriente di entrambi i territori (e l’idea, sottesa a questa affermazione, che Sauron e Stalin fossero considerati entrambi i nemici dell’Occidente, sia di quello fantastico, che di quello reale) Tolkien replicò fermamente che simili accostamenti non avevano alcun senso. Proprio per queste affermazioni contenute nelle lettere del professore di Oxford, non sfugge dunque l’importanza di questa lettera, perché cerca di andare oltre la dicotomia «religiosa» fra Fedeli e Uomini del Re.
In questa sede, dunque, voglio chiarire un concetto che ho toccato marginalmente nel corso di alcuni commenti scritti a margine di articoli precedenti: i Numenoreani Neri, in origine, non erano i seguaci di Pharazon. O almeno, non lo divennero fin quando non furono tutti quanti (a cominciare da Pharazon stesso) corrotti da Sauron, al punto tale da adorare Morgoth e praticare apertamente la Magia Nera. Il Numenoreano Nero più famoso, senza dubbio, è la Bocca di Sauron, che si presume discendesse da quei Numenoreani che si erano stanziati lungo le coste della Terra di Mezzo perché avidi di scienza malefica praticata da Sauron. Prima dell’arrivo dell’Oscuro Signore a Numenor, tuttavia, coloro che si opponevano ai Fedeli all’amicizia con gli Elfi, e al culto dei Vala e dell’Unico, erano noti come «Uomini del Re»: questa designazione indicava, dunque, quei Numenoreani che seguivano l’orientamento sempre più marcatamente imperialistico che i sovrani di quel popolo, nella fase centrale e finale della Seconda Era, finirono con il rendere l’obiettivo primario della loro politica. Questo non vuol dire, naturalmente, che alcuni di loro non avessero già deciso di lasciarsi corrompere da Sauron (come dimostra la storia dei tre Nazgul di origine numenoreana, accennata, ma mai ampiamente approfondita nel Silmarillion); tuttavia, è bene ribadirlo, la grande differenza tra questi e i Fedeli consisteva nel progressivo allontanamento dei primi dalla religione dei Valar, alla quale, tuttavia, almeno fino all’arrivo di Sauron nella loro isola, non si sostituì il culto di Morgoth. Questa differenza, se da un certo punto di vista può sembrare di scarsa influenza (dopotutto, gli Uomini del Re possono essere considerati, anche da un punto di vista «genetico», per così dire, gli antenati diretti dei Numenoreani Neri), appare invece di grande importanza nel momento in cui si esaminano le cause della decadenza di Numenor e il ruolo che Sauron svolse in questo processo. Un ruolo che, a ben vedere dalle parole che Tolkien adoperò in questa lettera, assomigliava sempre più a quello di «leader politico» oltre che, naturalmente, religioso e che finì coll’interagire apertamente con una serie di interessanti problematiche che, ancor prima della comparsa di Sauron a Numenor, dovevano avere provocato uno stato di crescente tensione sociale nell’isola del dono.

«Nella seconda fase, i giorni dell’orgoglio e della gloria e del risentimento contro il Divieto, cominciano a cercare il benessere piuttosto che la beatitudine. Il desiderio di sfuggire alla morte ha prodotto il culto delle morte ed essi profondono ricchezza e arte sulle tombe sui monumenti funebri. Ora incominciano a insediarsi sulle coste occidentali, ma questi insediamenti assomigliano sempre più a fortezze e ad abitazioni signorili, e i Numenoreani diventano raccoglitori di tributi, portando dal mare una quantità sempre maggiore di ricchezze nelle loro grandi navi». (La Realtà in Trasparenza, lettera 131)

Ancora più indicativo è questo breve estratto dal Silmarillion, che dimostra a quale livello fosse giunta la tensione sociale presente nell’isola di Numenor:

«E accadde in quei giorni che uomini dessero mano ad armi, trucidandosi a vicenda per motivi insignificanti, poiché s’erano fatti pronti all’ira e Sauron o coloro che questi aveva legato a sé andavano per il paese aizzando gli animi, sì che la gente mormorava contro il Re e i signori ovvero contro chiunque avesse qualcosa che essi non avevano; e coloro che disponevano di potere traevano crudele vendetta» (Il Silmarillion, pp. 344-345)

Da questo brano appare come Sauron, oltre ad avere velleità di tipo «politico» sia stato caratterizzato da Tolkien come una divinità che gli antropologi non esiterebbero a definire «trickster», ossia imbroglione, truffatore, come lo era, per esempio, Loki. Curiosamente, si può osservare come in questo brano Tolkien riprenda in parte la caratterizzazione che Sauron aveva quando era stato concepito come Tevildo, il Signore dei Gatti: una creatura perfida, tendente a fare il doppio gioco (cfr. «Racconti Perduti», dove questo personaggio appare in una versione primitiva del racconto di Luthien e Beren; per inciso, è in questo racconto, poi abbandonato dall’autore, che si spiega l’ostilità fra gli Elfi e i Gatti). Sembra evidente come a Sauron non importi assolutamente nulla della questione sociale legata agli «squilibri» derivati, con ogni probabilità, dalla concentrazione di ricchezze nelle mani di una ristretta cerchia di numenoreani: il suo obiettivo, infatti, era quello di approfondire il solco già esistente tra i diversi gruppi sociali dell’Isola del Dono, facendo leva ora sul desiderio dei ceti più diseredati di riappropriarsi di una parte delle ricchezze che dovevano essere loro state sottratte dalle élites, ora sui ricchi numenoreani che, spaventati da una possibile rivolta (o addirittura una rivoluzione?), avrebbero volentieri fatto ricorso alla forza per soffocare ogni tentativo di sovvertire i rapporti di forza esistenti.

Conclusioni: un epilogo già annunciato

L’influenza diretta di Sauron sulle genti numenoreane si ebbe solo a partire dalla sua finta sottomissione ad Ar-Pharazon, avvenuta nell’anno 3262 della Seconda Era. Le lettere di Tolkien citate in questo articolo, tuttavia, mettono in luce alcuni interessanti elementi che vale la pena di riassumere in questo paragrafo conclusivo e che ci consentono di sostenere la tesi secondo cui la fine del regno numenoreano era già stata avviata ben prima della guerra civile che portò al potere Pharazon.
1) La figura del sovrano di Numenor, così come appare nella prima lettera citata in questo articolo, possedeva valenze sia politiche che religiose. La rinuncia della maggior parte dei Numenoreani al culto dei Vala e di Eru rese la sua figura probabilmente più debole, da un punto di visto simbolico, accentuando, al contrario, il potere dei nobili che circondavano il sovrano e che siedevano al Consiglio dello Scettro e che potevano contare su maggiori ricchezze e (probabilmente) su un numero maggiori di soldati che dipendevano dai loro ordini e che si erano distinti nel saccheggio e nell’occupazione della Terra di Mezzo.
2) Esisteva a Numenor una fortissima contrapposizione tra le classi sociali: se è vero, infatti, che, nel suo complesso, la società numenoreana era diventata più ricca e potente, non mancavano, tuttavia, forti differenze al suo interno (basti vedere quello che succede nella società odierna, per rendersene conto). Sauron approfittò di questa divisione per i suoi fini, tuttavia non fu lui a crearla dal nulla.
3) Si fa presto a contrapporre Fedeli ai Seguaci di Pharazon: in realtà, dovevano esserci diverse posizioni all’interno di questi schieramenti, alcune più «moderate», altre più «radicali», legate, probabilmente, anche a fattori di natura sociale ed economica. A questo proposito va ricordato come lo stesso Pharazon, pur essendo ovviamente un personaggio squallido e corrotto, non aveva alcuna intenzione di sottomettersi a Sauron (almeno queste erano le sue intenzioni, quando preparò la sua flotta per conquistare Mordor). Per Pharazon, come per tanti altri suoi seguaci, Sauron era anzitutto un avversario «politico» in quanto le sue azioni aggressive minacciavano il dominio numenoreano nella Terra di Mezzo. Che Sauron fosse «anche» il discepolo di Morgoth doveva sembrare, per molti Numenoreani, un argomento trascurabile. Avrebbero reagito allo stesso modo se, per assurdo, Gil-Galad avesse deciso di intraprendere la conquista della Terra di Mezzo; state pur certi che non avrebbero esitato a dichiarargli guerra! Questa crisi insita nella rappresentazione della figura del monarca numenoreano è stata poi sviluppata nel mio «Racconto del Marinaio e dell’Infame Giuramento», al cui interno, partendo da questi scarni elementi presentati da Tolkien, mi sono spinto oltre, interrogandomi su una questione affascinante, destinata, naturalmente, a restare senza risposta: e se i tempi a Numenor, prima della Guerra civile, fossero divenuti maturi per una evoluzione radicale della forma monarchica di quella nazione? Cosa sarebbe accaduto se, oltre a porre in crisi la figura (debole) di Tar-Miriel, una parte dei Fedeli avesse avanzato riserve sull’istituzione monarchica in quanto tale?

Numenor: Game of Thrones (I)

Bentrovati! Per il titolo di questo articolo, come avranno notato i lettori dei romanzi «Cronache del ghiaccio e del fuoco» scritti da George Martin, mi sono ispirato alla celebre serie televisiva «Il Trono di Spade» (Game of Thrones). Nessuna paura! Non ho intenzione di mescolare elementi delle opere tolkieniane con quelli del celebre scrittore statunitense. Si tratta solo di un simpatico omaggio a una famosa serie TV, che mi è di grande utilità, però, per introdurre due racconti postumi (scritti, cioè, dopo aver terminato la prima stesura del «Ciclo del Marinaio») nei quali ho provato ad approfondire un aspetto della storia numenoreana, relativo alla guerra civile combattuta a Numenor nell’anno 3255 della Seconda Era, che avevo toccato solo marginalmente nel «Racconto del Marinaio e della Principessa».
Il conflitto vide schierati da un lato i Numenoreani fedeli al culto dei Valar e di Eru e dall’altro i sostenitori delle pretese avanzate da Pharazon – cugino di Tar-Miriel, legittima regina – al trono. Molti di voi sanno già come si concluse questa guerra civile; gli altri potranno scoprirlo leggendo questi due racconti. In fondo, le macchinazioni avanzate dagli uni e dagli altri per assicurarsi la vittoria dettero origine, a tutti gli effetti, a una sorta di «giochi diplomatici», nei quali complotti e tradimenti erano all’ordine del giorno.
In particolare, il racconto «L’Ombra e la Spada» che vi apprestate a leggere a partire da questo articolo presenta una singolare caratteristica: a differenza di tutti gli altri, che erano invece basati su ricordi ed esperienze vissute direttamente da Erfea o comunque facilmente recuperabili da una cerchia di persone che con il paladino di Numenor avevano relazioni, questo racconto è (almeno fino a questo momento) l’unico scritto da personaggi che con Erfea non avevano relazioni dirette, se così si può dire…dal momento che, come vi accingerete a leggere, i protagonisti di questo e dei prossimi articoli saranno proprio i capi della fazione avversa a Tar-Miriel, fra i quali un grande ruolo sarà attribuito ai tre principi numenoreani che furono corrotti da Sauron e furono tra i più potenti fra i Nazgul: Er-Murazor, Akhorahil ed Adunaphel.

Per questa ragione, trovo importante trascrivere, prima ancora di presentarvi l’incipit del racconto, una nota che spiega come questo documento finì nelle mani di Erfea.

«Questo scritto pervenne ad Erfëa tramite un’ambasciata che giunse a Gondor allorché erano trascorsi pochi mesi dalla Caduta: colui che gli consegnò il manoscritto, accompagnò tale dono con una lettera nella quale spiegava di essere stato per molti anni schiavo di Pharazôn e di essere fuggito da Numenorë allorché il suo Signore, venuto a conoscenza che questi aveva trascritto resoconti di vicende che non desiderava altri conoscessero, ordinò di ucciderlo e di bruciarne la dimora. Sulle prime, il principe di Minas Laurë esitò a prestare fede a tale scritto, ché molto diffidava dei Numenoreani Neri e dei loro inganni; in seguito, rimembrò che fra coloro che erano stati del seguito dell’ultimo sovrano di Andor, vi era un uomo il quale era solito essere condotto in catene dinanzi al suo trono per il bieco divertimento del re e della corte intera, ché era muto e nulla poteva ribattere alle risate crudeli che il governatore dell’isola riversava sul suo capo e comprese il suo errore. Sceso dallo scranno, il Sovrintendente di Gondor domandò perdono all’uomo per non averlo riconosciuto fin dal principio e ordinò che fosse ospitato fino alla fine dei suoi giorni presso una ricca dimora che gli fu assegnata come risarcimento per le torture che aveva subito durante gli anni ormai distanti della sua giovinezza: grato per il dono del principe, l’uomo, il cui nome era Khanor, visse ad Osgiliath per due anni ed infine spirò».

Prima di lasciarvi alla lettura dell’articolo, infine, voglio fare un’ulteriore premessa: questo racconto e quello che segue, intitolato «Il racconto dell’infame giuramento» presentano un tono più cupo e drammatico rispetto a quelli che avete letto fino ad oggi. In parte, questa scelta è stata motivata dalla necessità di assecondare un linguaggio più consono ai protagonisti principali di questi racconti, che militano nel campo «avverso», per così dire; in secondo luogo, soprattutto nel primo racconto, ci sono evidenti influssi derivati dalla lettura dei romanzi di H.P. Lovecraft, soprattutto a livello di ambientazione. Credo ne sia uscito un quadro abbastanza diverso dal solito – si potrebbe dire, con una battuta, che questi sono i racconti forse «meno tolkieniani» che io abbia mai scritto – ma lascio a voi il compito, spero piacevole, di giudicare se sia o meno riuscito nel mio intento.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«In quei giorni[1], Pharazôn, nipote di Tar-Palantir, sovrano di Numenor nei giorni del suo triste declino, tenne un consiglio fra quanti erano del suo partito, ché egli, sebbene si fosse atteso la proclamazione di sua cugina a sovrana di Numenor, pure non smetteva di detestarla, temendo che i Fedeli avrebbero preservato negli anni del suo regno la gloria che sì recentemente avevano conquistato: incapace di trattenere ulteriormente la sua ira ed il suo timore, convocò coloro che erano stati i camerati di suo padre e che erano sopravvissuti alla prigionia o alla morte in battaglia. Sulle prime, gli Uomini del Re espressero un palese disagio nell’ottemperare la richiesta del figlio di Gimilkhâd e questo accadeva perché erano sopravvissuti in pochi e temevano di terminare tristemente i propri brevi giorni; infine, poiché essi erano ansiosi di ottenere vendetta su Tar-Miriel e i suoi Paladini, acconsentirono ad incontrare Pharazôn nella cave abbandonate di Dûr-Zhirûk[2], poste all’estremità meridionale della penisola di Andustar: tale contrada godeva di cattiva fama, ché i pastori non permettevano che i loro armenti pascolassero nei suoi recessi nebbiosi e grigi, né i pescatori osavano condurre le loro fragili imbarcazioni nei pressi delle sue imponenti scogliere di nero basalto, il cui silenzio era rotto solo dall’incessante fragore provocato dalla rabbia del Grande Oceano. Pochi fra i sapienti Numenoreani erano a conoscenza di quali oscuri pertugi si aprissero all’interno di tali recessi e non facevano volentieri parola di quanto avevano scoperto ad altri che non fossero i Cundo dell’Accademia, per timore che la follia ed il terrore si impadronissero delle menti di coloro che impunemente fossero venuti a conoscenza di esseri che si diceva fossero vissuti in quegli oscuri antri prima ancora che l’Isola del Dono fosse sollevata dalle acque: a quanti affermavano che solo i Valar avevano avuto parte alla creazione di Numenor, costoro replicavano che finanche Melkor era stato nel loro Novero e che dunque, per quanto la sua oscura essenza fosse stata scagliata nello spazio atemporale che si estendeva al di là del Tempo, pure il suo malefico influsso aveva contributo, in parte, alla sollevazione di Elenna dal fondale dell’Oceano, plasmando la roccia di Dûr-Zirûk secondo la sua perversa volontà. Per molti secoli, i Numenoreani avevano evitato le contrade oscure che si estendevano al di là delle desolate piane dell’Andustar; infine, coloro che erano tra gli Uomini del Re noti per la loro malvagità e crudeltà, avevano edificato in questi luoghi oscuri altari a divinità senza nome, il cui culto era sopravvissuto negli anni fino a giungere ai giorni di Pharazôn; questi, sebbene fosse poco o punto propenso a credere ai racconti che circolavano su Dûr-Zirûk, pure aveva esplorato quegli spaventosi anfratti e si era convinto che l’orrore primigenio che emanavano gli affreschi immondi che ne coprivano i soffitti avrebbe influenzato le menti dei suoi camerati, esortandoli a compiere la scelta che avrebbe ritenuto più consona ai propri interessi. Riluttanti, i Signori degli Uomini del Re accettarono il suo invito, non prima di aver giurato che non avrebbero rivelato a nessun altro figlio di Iluvatar quanto avrebbero scorto o udito in quelle immonde sale sotterranee: accadde dunque che durante un novilunio, quando massimo cresceva nel cuore dei Fedeli il timore e l’avversione per le contrade il cui nome risuonava alle loro orecchie maledetto ed infido da ascoltarsi, essi si radunassero a Dûr-Zhirûk, abbigliati nelle loro regali vesti; per primo, giunse Khorazîd, Principe dell’Andustar, e numeroso era il suo seguito di schiavi, concubine e mercenari; dopo che egli ebbe abbandonato la sua lettiga d’oro e si fu calato nelle voragini della terra, altri Signori della schiatta ribelle di Elros Tar-Minyatur lo seguirono. Dôkhôr, Principe del Fornastar, fuggito anni prima nella Terra di Mezzo perché accusato di aver perpetuato immani stragi nelle province che Ar-Gimilzor gli aveva attribuito, era fra coloro che presero parte al consesso; Azâran, Principe dell’Ondustar, il più anziano fra i camerati del padre del giovane Pharazôn, era stato fra i primi ad accorrere allorché l’erede del suo signore era giunto alla sua antica dimora per condurgli di persona la missiva sulla quale era trascritto l’invito al Consiglio del Partito degli oppositori alla Regina; finanche Akhôrahil, che pure era scomparso da Numenor allorché Erfëa aveva scoperto la sua reale identità celata nei deserti infuocati del remoto Harad, aveva fatto ritorno ad Andor e, sebbene avesse mutato il suo sembiante, pure furono in molti coloro che crederono di riconoscere nel suo volto l’antico membro del Consiglio dello Scettro di Ar-Gimilzor. Principi e dame – ché, seppure in numero inferiore, esse erano presenti al consesso e si dimostrarono non meno risolute e spietate di quanto non lo fossero i loro consorti – furono condotti da esperte guide per segreti pertugi fino alle radici dell’Isola, ove i loro sguardi, che pure erano avvezzi alle peggiori nefandezze che i Secondogeniti avessero escogitato nel corso di lunghi secoli, furono atterriti e disgustati, sicché non furono pochi coloro che si coprirono il capo a causa del terrore che affreschi obliati da molti anni suscitavano in loro; finanche Dôkhôr, che pure era il signore di quella contrada, non aveva mai fatto visita a quegli orrendi sepolcri prima di quel momento ed il suo viso era ora pallido e smorto, come se un gran male l’avesse colto: unico fra tutti i presenti a non darsi pena per quanto accadeva era Akhôrahil, ché egli era fra i servi maggiori di Sauron e, sebbene conoscesse poco o punto i segreti nomi delle divinità ivi venerate per mezzo di orrendi sacrifici, le cui tracce erano ancora visibili sugli altari consunti dal tempo, pure si avvedeva che servivano il medesimo scopo del suo Padrone e di ciò si compiaceva».

Note

[1] Vi è qui un’allusione agli ultimi giorni del regno di Tar-Palantir: secondo alcuni commentatori, potrebbe riferirsi al terzo mese dell’anno 3255 della Seconda Era, ché la designazione di Miriel a sovrana di Numenor fu comunicata ai ministri del regno solo all’inizio della primavera, e tra questi gli unici ad averla appresa prima di tutti gli altri erano stati Amandil ed Erfëa.

[2] Dûr-Zhirûk, la Roccia del Demone nell’Adunaico, antica favella degli Uomini dell’Occidente.

P.S. In questi giorni ha raggiunto e superato la quota di 1000 commenti…sono molto soddisfatto di questo piccolo traguardo, ringrazio ciascuno di poi per aver contributo a realizzarlo! Puntiamo a…duemila!

Storia di Miriel – Una promessa mancata

Concludo con questo articolo il racconto del «Marinaio e della Principessa»: dopo essere stata designata da suo padre Palantir come nuova regina di Numenor, Miriel deve affrontare nuove sfide, mentre un pericolo inquietante si staglia all’orizzonte e un rapporto, faticosamente ricostruito, rischia di incrinarsi forse per sempre…
Non sarà questo, tuttavia, l’ultimo racconto a narrare le vicende di Erfea e Miriel: al contrario, essi torneranno nei prossimi due racconti, i più oscuri e tragici tra quelli che ho scritto, che narreranno le vicende che, attraverso una crudele guerra civile, condussero all’instaurarsi del regno di Pharazon

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Tale fu dunque l’esito di una giornata che in seguito fu ricordata dagli esuli nella Terra di Mezzo come l’inizio della Caduta: infatti né il Senato, né il Consiglio dello Scettro riuscirono a portare avanti i loro lavori, ché i Numenoreani fedeli a Pharazon abbandonarono Feneria, in aperta sfida alla nuova sovrana, non riconoscendone l’autorità.

Pharazon abbandonò il Consiglio per ultimo, ridendo in modo beffardo, mentre si allontanava; egli non si curava di quanto accaduto, ché sapeva bene come la sua vittoria sarebbe giunta comunque, sebbene apparentemente risultasse sconfitto. Molti alleati e poteri sostenevano Pharazon, gli stessi che un giorno ancora distante lo avrebbero condotto a percorrere il sentiero della follia, fino alla sua rovina e a quella di Numenor.

Nessuno dei Dunedain, rimasti fedeli a Tar-Miriel[1], tuttavia, osava immaginare quali sarebbero state le conseguenze di quel giorno infausto. Erfea si avvicinò ad Elendil e così gli si rivolse: “Salute e te erede della casa di Andunie! Grande eloquenza hai dimostrato oggi di possedere, unita a saggezza e coraggio. Possa la tua stirpe continuare a prosperare, ché in essa sarà preservata la memoria degli antichi Vala e dei Giorni Remoti[2]”. Lieto, Elendil fece un breve inchino, infine prese la parola: “Grati mi giungono i tuoi complimenti; tuttavia a te, Erfea, figlio di Gilnar, della casa degli Hyarrostar, colui che chiamano il Morluin, dico che quando il tuo seme andrà perduto, allora Numenor cadrà, ché ben pochi fra noi possono competere con te in potenza e lungimiranza. Possa Manwe proteggere sempre la casa degli Hyrrostar, paladino di Elenna”. A tali parole, Erfea si inchinò a sua volta, e così i due uomini si congedarono.

Il figlio di Gilnar, tuttavia non abbandonò Feneria, ma ivi rimase, finché Tar-Miriel non lo ebbe raggiunto, quando ormai il crepuscolo era calato, e più nessuno vi era nell’ampio spiazzale, ed altro suono non si udiva se non l’eco del canto di Ulmo salire dolcemente dal basso.

A lungo Erfea e Tar-Miriel si osservarono, cercando ciascuno di sondare il pensiero altrui, infine Erfea prese la parola: “Salute a te, regina di Numenor! Non ti dissi forse che il nostro prossimo incontro sarebbe avvenuto quando entrambi avessimo assunto un nuovo nome? Ebbene, ora siamo in tal luogo, di pace e serenità, eppure scorgo nei tuoi occhi la stessa ansia e infelicità di allora. Non sono forse veritiere le mie parole?”

“Mio signore – replicò Tar-Miriel – all’epoca del nostro primo incontro non mi avvidi della tua lungimiranza. Intorno a me è caduta una cortina oscura, tale che i miei sensi ne sono offuscati e la mia anima si duole per questo. Il mio destino è ormai scritto a chiare lettere e a esso io non mi sottrarrò. Non dirò però se esso mi risulti gradito o meno; tuttavia sono lieta che Elendil di Andunie ed Erfea Morluin siedano con me al Consiglio dello Scettro”.

Ciò detto un sorriso illuminò lo spento viso di Tar-Miriel, come un raggio di luna che si fosse posato su un diamante, facendolo risplendere. Erfea si alzò e presale la mano la baciò dolcemente: “Così dovrà essere, ché innanzi a me io scorgo innumerevoli disagi e pericoli, davanti ai quali, forse, l’isola del Dono è destinata a soccombere. Non ti indicherò, Tar-Miriel quale dovrà essere il sentiero da percorrere; se non sarai tu in grado di tracciare la giusta rotta, allora nessun altro potrà farlo. Io però voglio farti una domanda alla quale ti prego di rispondere”.

Rise allora Tar-Miriel e l’eco del suo riso incuriosì e meravigliò ogni forma di vita che si trovava in quel luogo: rami parvero tendersi verso di lei, mentre innumerevoli animali si approssimarono ai suoi piedi, invisibili agli occhi umani; finanche le grandi e maestose aquile di Manwe si levarono in volo, senza avvicinarsi troppo tuttavia, essendo quello un luogo sacro, ma limitandosi ad osservare la bionda fanciulla, per mezzo della loro vista acuta.

Tar-Miriel rise ancora, poi fece un inchino ad Erfea: “Davvero, principe di Hyarrostar, tu chiedi questo? Eppure, tale è la tua lungimiranza, che la mia riposta invano potrebbe essere elusiva o falsa. Tu domandi una risposta che possiedi dentro di te”. Sorrise compiaciuto Erfea: “Potente è invero il dono della lungimiranza, eppure non ritengo di sbagliarmi affermando che esso giunge alla maggior età, divenendo molto forte negli eredi di Elros”. Rise nuovamente Tar-Miriel, e parve davvero che il velo d’oscurità che l’aveva turbata, sfumasse come nebbia al sole: “Invero, non ti sfugge alcun dettaglio, figlio di Gilnar. Suvvia! Entrambi conosciamo quale sia l’interrogativo e quale sia la risposta. Non negherò che a lungo ho temuto questo momento, eppure ora tale paura è scomparsa, lavata via da questa notte benedetta. Forte è la tempra degli uomini, se essi così a lungo attendono e infine gioiscono”. “E ancor più splendente è Tar-Miriel, sovrano di Numenor, se la sua luce trafigge l’oscuro velo che a lungo l’aveva imprigionata”. Sorrise l’erede di Elros, mentre porgeva il proprio braccio ad Erfea, raggiungendo Armenolos, perla di Numenor, l’uno fianco all’altra; giunti che furono innanzi al palazzo, così si congedò Tar-Miriel dal suo ospite: “Erfea, possono gli dei ricompensare il tuo valore e la tua saggezza, con quanto il tuo cuore arde di ottenere.”

“Invero, Tar-Miriel, giusta ricompensa è stato per me questo incontro. Sono lieto che tu abbia accettato questo incarico nel tuo cuore”.

“Davvero Erfea, credi che la mia forza sia stata sufficiente a dirigere in tale direzione il mio percorso? No, principe di Numenor, un’altra volontà oltre alla mia ha deciso che così dovesse essere; grata sono ad essa, ché ancora la mia deve crescere e svilupparsi. Non è stato detto forse che il seme è lento a germogliare? Attendo dunque che fiorisca”.

“È stato anche detto che dal buon virgulto, si sviluppa la vite dai dolci frutti” le rispose Erfea sorridendo, e così i due si lasciarono, ripromettendosi di vedersi l’indomani.

Molti eventi funesti, impedirono che Erfea e Tar-Miriel potessero nuovamente incontrarsi, che nell’anno 3255 della Seconda Era, la guerra civile scoppiò per la seconda volta a Numenor e per molti mesi si combatté per mare e per terra, nell’isola e nel continente della Terra di Mezzo.

A lungo i capitani dei Dunedain opposero una fiera resistenza ai Numenoreani Neri, aiutati nel loro compito dai cavalieri del Rhovanion, degli elfi di Gil-Galad, e dai nani di Durin IV. Invano Erfea vinse una grande battaglia, strappando la città di Tharbad[3] ai Numenoreani Neri; invano ché nulla poteva il coraggio dei Dunedain contro il Signore di Mordor; cospiratori egli inviava per sobillare le feroci genti dell’Harad e gli Esterling del Rhun contro i popoli liberi e sebbene questi guerrieri della steppa e del deserto, non marciassero ancora tra le stesse file dei Numenoreani Neri, mai capitò che i seguaci di Pharazon cadessero vittima di agguati di tali popoli. Molti capitani esperti e valorosi, furono torturati e trucidati dai servi di Mordor, e laddove non si poté giungere con la spada o con l’inganno, gli agenti dell’Oscuro Signore si servirono dell’oro corruttore. In tal modo la guerra fu vinta da colui che sarebbe divenuto l’ultimo re dei Numenoreani, Ar-Pharazon il Dorato; eppure mai, finanche nel periodo di massimo splendore del suo regno, egli si rese conto dell’enorme prezzo che la sua vittoria aveva richiesto, ché Sauron di Mordor, e non già Ar-Pharazon fu il vincitore del conflitto. Forte divenne allora il potere dell’Ombra sugli uomini, ed ecco, essi non badavano più alla loro discendenza, ma in sale vuote e sepolte nel profondo della terra, trascorrevano la loro folle esistenza alla ricerca dell’immortalità, mentre eruditi ormai obliati, stilavano libri d’araldica delle stirpi di uomini vissuti nei tempi remoti; su alte torri, folli astronomi senza volto domandavano segreti inaccessibili ai mortali alle fredde e silenziose stelle di Varda.
Tale fu l’esito della guerra a Numenor; tuttavia, poiché il dolore superò la comprensione, ben pochi tra gli Elendili si occuparono di annotare quanto accadde in quei giorni lontani e scarsa è la nostra documentazione a proposito.
Tuttavia, fu detto che Erfea a lungo abbia tentato di parlare alla sovrana, e che quando ci fu riuscito, tali parole la sua bocca abbia pronunciato:
“Salute a te, regina di Numenor, Tar-Miriel figlia di Tar-Palantir, erede di Elros! Ecco che l’Oscurità incalza ed io Erfea Morluin, ammiraglio di Numenor, ti pongo questa supplica, affinché quello per cui combattiamo non vada perduto. Pharazon è il generale dei rivoltosi, ed erede anch’egli della stirpe di Earendil. Ti prego affinché venga messo in catene, prima che la fine giunga nelle nostre dimore”.
Accorato fu l’appello di Erfea; tuttavia triste fu la risposta di Tar-Miriel: “Salute a te, ammiraglio di Numenor! Risposta non ho da darti, ché mai riusciresti a comprenderne il motivo. Solo questo posso dirti: una speranza ho dato ai Dunedain ma non ne ho serbato una per me. Ti prego, in nome di Eru e della nostra amicizia di non porgermi altra domanda”.
Sconcertato, Erfea chinò il capo e abbandonò la sala del trono: alcuni mesi più tardi Ar-Pharazon fu incoronato sovrano di Numenor e prese come moglie sua cugina Tar-Miriel, contro la sua stessa volontà e la legge di Numenor, che proibiva il matrimonio tra consanguinei.
Più le mani di Erfea e Tar-Miriel si sfiorarono, mentre Feneria venne abbandonato e le sue colonne andarono in rovina; eppure vi è stato chi fra gli Esuli ha creduto di aver compreso il rifiuto della sovrana di Numenor ad acconsentire alla richiesta del suo ammiraglio. È stato detto, infatti, che ella abbia rifiutato e in seguito abdicato, perché costretta dalla minaccia di Ar-Pharazon, che in caso contrario avrebbe condannato a morte Erfea. Fino alla fine dei suoi giorni Tar-Miriel soffrì per il giuramento fatto al proprio sposo e solitaria trascorse la propria esistenza sino alla Caduta, quando tra le urla e lo sgomento ella perì, vittima del ricatto e dell’antica profezia che Manea anni prima aveva rivelato alle orecchie del sovrano».

Note

[1] Al termine della cerimonia che conferiva il titolo di re all’erede prescelto, costui poneva dinanzi al suo nome l’appellativo di Tar, che nella favella dei Noldor indicava colui che è nobile, e per estensione, il sovrano stesso.

[2] Nel corso della Seconda Era, progressivamente, i secoli precedenti vennero indicati impropriamente con tale locuzione; i Giorni Remoti, tuttavia, dovrebbero includere solo le Ere precedenti la creazione del Sole e della Luna.

[3] Tharbad era la capitale delle colonie numenoreane poste nelle contrade nord-occidentali di Numenor; in seguito tale titolo fu conferito alla città di Annuminas, allorché venne costituito il regno del Nord ed Elendil, figlio di Amandil, divenne sovrano dei Dunedain in esilio.

Storia di Miriel – Un’ascesa al trono contrastata

Con questo articolo presento una parte importante relativa al funzionamento della politica numenoreana nella tarda Seconda Era, ossia i meccanismi che designavano l’ascesa al trono del nuovo sovrano. Su questi aspetti non ho potuto basarmi, se non superficialmente, sui testi tolkieniani: il professore, infatti, si occupò in rare circostanze di questo argomento, accennando solo brevemente alla presenza, nel racconto di Aldarion ed Erendis, di un Consiglio dello Scettro, composto dai nobili di più alto lignaggio, che acquisì col tempo un ruolo e un potere sempre maggiori. Per scrivere questa parte del racconto, dunque, ho dovuto basarmi soprattutto sulle strutture politiche del passato, in particolare della società classica; ho concepito, seguendo queste ispirazioni, due organi di governo: uno, cioè il Senato, eletto dalle Gilde nelle quali erano concentrati i poli produttivi dell’Isola, e l’altro, per l’appunto, il Consiglio dello Scettro, che costituiva una camera ristretta, fissata a cinque membri più il sovrano, il cui voto valeva doppio. Può essere che qualche lettore trovi questa parte un po’ noiosa, perché si dilunga sul funzionamento di questi meccanismi amministrativi: me ne rendo conto, tuttavia è necessaria per la comprensione dell’evoluzione che la civiltà numenoreana stava vivendo in questa fase e della quale tratterò più approfonditamente in un prossimo articolo.
Ad ogni modo aspetto i vostri commenti, buona lettura!

«Giunse infine il giorno del Consiglio dello Scettro, ché molti eventi futuri avrebbe decretato: fin dalla prima ora del giorno, legati inviati da tutte le circoscrizioni di Numenor, avevano occupato i propri posti alle falde del Menalterma; era lì, infatti, che sorgeva la grande dimora che ospitava i membri del Consiglio e gli Ataranya[1] del Senato: Feneria, veniva chiamato, luogo del silenzio ché mai, tranne in tali occasioni, si udiva altro suono che non fosse lo stormire dei rami e l’eco della furia del mare. Qualunque altro suono taceva; perfino le grandi aquile di Manwe, sebbene ivi avessero i loro nidi, mai levavano grida, né sorvolavano lo spiazzale, limitandosi ad osservarlo dall’alto delle loro rocce aguzze: tale era la maestosità del luogo, che finanche nei giorno oscuri, quando Sauron ebbe corrotto definitivamente il cuore del re, mai egli osò mettervi piede, temendo la collera di Manwe.

Feneria occupava tale area da tempi immemorabili, fin da quando Numenor emerse dalle acque; al centro vi era un albero, simile a quello, bianco, che allietava il giardino del sovrano: Vardariana era il suo nome, consacrato alla regina dei Vala, e si diceva che dalla gloria della dea ricavasse nutrimento e splendore. Taluni marinai che nelle epoche successive si avventurarono, per sorte o per follia, ai confini del mondo, riferirono che l’albero era ancora lì, a fondamento della maestà dei Vala e faro per le genti oppresse da Morgoth e dai suoi servitori. Scarsi sono i racconti su Numenor, sopravvissuti dopo Atalante[2]; tuttavia, essi menzionano quali fossero le consuetudini e i rituali che aprivano le riunioni dei due massimi congressi di Elenna. Primi fra tutti, facevano il loro ingresso i sacerdoti di Manwe e le sacerdotesse di Varda, i quali dopo aver intonato canti e litanie in onore dei reggenti di Endor, liberavano due colombe bianche, simboli della pace e della concordia che dovevano trionfare in quel luogo; dopo aver svolto queste mansioni, essi si inchinavano davanti al sovrano, e sedevano nei posti riservati ai loro ordini, per far largo al sovrano, seguito dalla consorte e all’erede designato a prenderne il posto. Una volta che la famiglia reale avesse preso posto, il sovrano si rialzava nuovamente e apriva le porte di eog[3] del tempio di Eru Iluvatar, dichiarando, con tale gesto, che l’assemblea era aperta: nel seguente ordine facevano il loro ingresso i principi di Numenor, seguiti dai capitani della flotta, della fanteria e della cavalleria e infine dai rappresentanti dei mercanti, dei contadini, dei pescatori e dei pastori. In alcune occasioni anche gli ambasciatori di reami stranieri potevano presedere al consiglio, per sottoporre un problema all’attenzione del sovrano e della corte intera; nelle riunioni che erano indette nel mese di Yaramie[4], inoltre, i nuovi capitani dell’esercito eletti durante l’estate dalle gilde cui essi appartenevano, giuravano fedeltà al sovrano di Numenor.

Il Senato, composto dalla totalità degli uomini e delle donne appartenenti agli ordini sopra descritti, con l’eccezione del sovrano e dell’erede al trono, discutevano di quanto accadeva nella propria isola e nella Terra di Mezzo, fino a stilare un documento, che nel pomeriggio veniva consegnato nelle mani del re, il quale, dopo averne esaminato i contenuti, riuniva il Consiglio dello Scettro: tale era dunque l’organizzazione del potente centro amministrativo di Elenna, che ben pochi osavano disconoscere le decisioni in esso prese. Molti furono i temi dibattuti nel corso dei secoli, eppure tra gli esuli Dunedain che ancora dimorano nella Terra di Mezzo, è sempre viva l’immagine della sessione del Senato e del Consiglio dello Scettro che si tennero nell’Yaramie del 3154 Seconda Era.

Tosto parve chiaro a quanti erano presenti che una grande decisione stesse per aver luogo: un silenzio minaccioso si levò dagli scranni, quando, dopo aver compiuto i rituali e i sacrifici, il sovrano Tar-Palantir alzò la mano per prendere la parola:
“Salute a voi Numenoreani, principi e rappresentanti del popolo. Prima che il Consiglio inizi a deliberare, voglio annunziare ai presenti, che in questo giorno cedo scettro e trono alla mia erede: ella sarà regina con il nome di Tar-Miriel e presterà giuramento dinanzi a voi”. Lentamente Miriel si alzò dallo scranno e si fece strada verso il trono di Tar-Palantir: un’ombra pallida sotto il sole, come se una cappa le avesse coperto il volto, l’erede sarebbe stato investito in quel momento, se improvvisa come la discordia, non si fosse alzata una voce del basso, interrompendo la cerimonia.

“Sovrano di Numenor, ataranya e voi membri del Consiglio dello Scettro, vi chiedo di prestarmi ascolto. Ar-Pharazon sono e vengo da voi per porre alla vostra attenzione un problema gravoso che implica soluzioni drastiche e repentine. I nostri informatori mi riferiscono che l’Oscuro Signore di Mordor ha ripreso i suoi antichi progetti di conquista, e che le nostre colonie e le nostre città sono minacciate dalle armate di orchi e altri schiavi di Sauron. Chiedo dunque a voi, come possa essere utile al nostro impero un sovrano che non può impugnare le armi in difesa del suo popolo. Non metto in dubbio il valore della principessa – ciò dicendo fece un beffardo inchino rivolto a Miriel – e le sue qualità morali, né dubito che il governo di Tar-Palantir abbia ormai segnato il suo corso, tuttavia ritengo doveroso che il Consiglio applichi una soluzione diversa”.

Gravi erano le parole pronunciate da Ar-Pharazon e ancor più grave era la procedura di cui si era servito per poter esprimere il suo personale dissenso: non era infatti consentito ad altri che al sovrano stesso, opporre cambiamenti alla scelta del proprio erede e questo solo nel caso che fosse venuta meno la salute del prescelto o quando vi fosse stato più di un probabile candidato, di modo che il primo avesse facoltà di rinunciare.

Mormorii di disappunto si levarono dai Dunedain ed Elendil, figlio di Amandil chiese ed ottenne parola:

“Sovrano, principi e voi rappresentanti del popolo, non è forse in tali frangenti che il lupo si traveste da pecora, il cacciatore da preda per ingannare gli incauti? Ar-Pharazon sostiene che il nemico è pronto a sferrare un massiccio attacco alle nostre città; afferma altresì che la regina Tar-Miriel non possiede le capacità per guidare una nazione in assetto di guerra. Questo egli ha riferito, e non dubito che avrebbe altre prove da addurre a quanto sostiene, se solo ne avesse il tempo; tuttavia io chiedo al principe perché egli in qualità di rappresentante delle città oltre mare, non abbia chiesto in precedenza l’aiuto al sovrano, considerata la gravità della situazione. Se l’emergenza è divenuta tale negli ultimi tempi, inoltre, per quale motivo Ar-Pharazon non ha disposto egli stesso dei piani di difesa, necessari per affrontare il primo assalto, in qualità di comandante reale e insignito dal sovrano di pieni poteri?”

Applausi vi furono da parte di molti Dunedain e alcuni fra questi si congratularono con Elendil per la saggezza che aveva dimostrato nel suo intervento. Ar-Pharazon non si turbò affatto; attese che il silenzio fosse tornato a regnare sovrano, poi chiese di avere nuovamente parola:

“Atarynia, invero Elendil della casata di Andunie mi accusa di aver male agito, per incapacità o codardia, questo non saprei. Tuttavia, se mi è concesso esporre le mie ragioni, allora intendo ricordare a tutti i presenti in quanti modi sia stato io ostacolato nello svolgimento del mio compito da coloro che adesso osano definirsi paladini della verità! Ebbene, sono profondamente dispiaciuto nel dover ammettere che ormai la nostra isola è dominata dall’ipocrisia e dall’arroganza.”

Concluso il suo intervento, Ar-Pharazon sedette, lieto in volto nello scorgere quanti Numenoreani condividessero il suo pensiero in quell’ora. Alta però si levò la voce di Erfea:

“Ben dici, Ar-Pharazon, quando affermi che mai sei rimasto ozioso nella Terra di Mezzo! Mi chiedi cosa vedono i miei occhi, principe? Ebbene, non ti nascondo che la follia sarebbe giunta prima in questo consenso, se i poteri e l’oro a te concessi si fossero dimostrati di misura superiore. No – concluse poi – non credo certo che la colpa sia da addebitare a chi non ti prestò ascolto. Bene fecero quanti operarono in tal senso, impedendoti di operare altre oscure macchinazioni, come quella che vedo dinanzi a me. Eppure Ar-Pharazon, non tutto quello che la tua bocca pronuncia è figlio del tuo pensiero, ché l’eco di altre voci ascolto ora, oscure e minacciose”. Ar-Pharazon era sul punto di replicare duramente, quand’ecco Tar-Palantir alzò nuovamente la mano: “Giovane cugino della sovrana, devo forse rimembrarti quali siano i tuoi doveri nei confronti della corona? Se la mia scelta non è di tuo gradimento, è affar tuo e di quanti sostengono la tua causa. Miriel diventerà la regina di Numenor, e questa è la mia ultima disposizione da regnante”.

Detto questo, Tar-Palantir si spogliò dello scettro e della corona e assegnateli nelle mani della figlia, le si chinò innanzi e pronunciò le parole di saluto che la tradizione imponeva: “Ricevi questa corona e questo scettro dalle mie mani, perché ti indichino quale debba essere il percorso da seguire e quali doveri soddisfare. Eru Iluvatar, Manwe, Varda e gli altri reggenti di Valinor mi siano testimoni”».

Note

[1] Gli Ataranya (“padri”, in adunaico) erano i senatori di Numenor, eredi delle famiglie nobili dell’isola.

[2] Tale termine, nella lingua dei Noldor (Quenya) indica l’inabissamento di Numenor e l’occultamento di Valinor al termine della Seconda Era.

[3] L’Eog era un metallo rarissimo, di origine siderale: chiamato da alcuni, “Vero Ferro”, l’eog era impiegato sovente nella lavorazione della lega di galvorn per conferirle maggior resistenza ai colpi: tale tecnica di forgiatura, sconosciuta agli uomini, fu divulgata solo presso gli Eldar e i Nani di Durin; i primi, realizzarono per Elros Tar-Minyatur le porte del tempio di Eru a Numenor.

[4] Mese di Settembre nella lingua degli Elfi.

Storia di Miriel – La minaccia di Pharazon

Continuo in questo articolo la narrazione degli eventi che condussero alla fine del regno di Numenor e alla presa del potere da parte di Pharazon, cugino di primo grado della principessa Miriel. Fino a questo momento, salvo un breve accenno contenuto nell’articolo Sauron, il politico, di questo importante personaggio non è stato ancora detto molto; ebbene, questo è il primo articolo nel quale assisteremo a un incontro fra lui ed Erfea, nel quale si coglierà la profonda antipatia esistente tra i due principi, per altro coetanei…risentimento che, a ben vedere, non può essere (solo) dovuto alla presenza di Miriel, ma che riguarda, più in generale, due opposte concezione politiche sul futuro di Numenor…

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«Trascorso qualche tempo, ecco che nuovamente il sovrano convocò ad Armenelos l’erede della casata degli Hyarrostar.Sofferente parve ad Erfea Tar-Palantir, quando gli fu di fronte, come se anni interi gli fossero piombati repentinamente sulle spalle; eppure, in fondo allo sguardo, covava ancora la luce dei giorni ormai andati all’occaso e fiera echeggiava la sua voce nel salone del trono:
“Salute a te, figlio di Gilnar! Poiché il tempo è ormai giunto a maturazione, ecco che ti ho convocato nuovamente innanzi a me. Anziani sono diventati i miei occhi e il ricordo delle cose che furono comincia lentamente a sbiadire, come la luce del giorno morente. Non ti tratterrò a lungo in tale luogo, onya, ché sono solo il latore di due messaggi”.
Sorrise il sovrano, ma era il suo un riso amaro, quasi beffardo: “Suvvia principe! Entrambi conosciamo il motivo per cui ti ho convocato e se non hai parlato è solo perché non ti ho ancora dato tale diritto; tuttavia non dubito che in tutto questo tempo abbia taciuto per una ragione nota solamente a te, la quale posso bene immaginare”.
Erfea attese a lungo, infine prese la parola: “Infiniti sono i sentieri che le menti degli uomini devono percorrere per raggiungere i medesimi obiettivi, le une più lunghe, le altre più brevi. Qual è il senso di tutto questo, mi chiedi? Ebbene, non credere che io voglia mancarti di rispetto, tuttavia è innegabile che il mandante dei messaggi non abbia fatto che aumentare la tua apprensione”.
“Tutto quanto chiedi richiede tempo, giovane Dunadan” ribatté il sovrano.
“Tempo? – ribatté Erfea – Tempo?  Forse è come dici tu; io però non ho il potere di modificarlo, né di prevedere quale sia il suo fine ultimo. Non mi sbaglio, affermando forse che il primo messaggero altri non è che mio padre Gilnar? Ben mi avvedo di quanto il contenuto del messaggio mi riguardi; tuttavia se è in mio potere chiederti una grazia, ti imploro di valutare a lungo la seconda proposta”.
Tale fu la replica di Erfea, e il sovrano parole non trovò per opporvisi, ché in quel momento Pharazon, nipote del re e capitano dei Numenoreani Neri, fece il suo ingresso nella sala, senza che l’araldo avesse avuto il tempo di annunciarlo, tanta era la fretta che costui mostrava.
Giunto che fu innanzi al trono, il principe si inchinò leggermente, pronunciando tali parole:
“Sovrano di Numenor, salute e onore a te! Lieto sono nel vederti in buona salute, nonostante l’età che implacabilmente avanza. Non occuperò il tuo prezioso tempo a lungo, che ben vedo quali altri graditi ospiti attendono in disparte, – soggiunse poi alludendo ad Erfea – vorrei però che tu prendessi seriamente in considerazione l’idea che tempo fa ti proposi. Non ho altro da aggiungere, se non rimembrarti che il Consiglio dello Scettro è ormai prossimo. Quanto a voi, principe degli Hyarrostar – si rivolse poi ad Erfea – avremo occasione di approfondire la nostra conoscenza, affinché essa possa essere proficua per entrambi”.
Rise Pharazon, mentre si allontanava a grandi passi, ma la voce di Erfea lo bloccò sulla soglia della porta:
“Il Consiglio dello Scettro è prossimo Pharzon; tuttavia, ora comprendo quali siano realmente le vostre intenzioni. La mia scelta dovrà forse essere quella di sottomettermi a Sauron, oppure al suo burattino? Ebbene io percorrerò una terza via, che voi lo vogliate o no”. Stupito Tar-Palantir osservò Erfea Morluin, in cuor suo chiedendosi se davvero avesse udito parole di sfida; tuttavia, lesta fu la reazione di Pharazon, tale da impedirgli la possibilità di intervenire:
“Attento principe, voi vi inimicate molto più che il fato o il vostro destino; voi sfidate il suo artefice” concluse beffardo il nipote del re. Erfea non ripose, ma lo fissò a lungo negli occhi, finché Pharazon furioso non si portò la mano alla spada.
“In questo luogo è proibito adoperare armi, figlio di Gimilkhad[1]. Ti ordino di allontanarti immediatamente dalla mia vista. Tar-Palantir è ancora il sovrano”. Così potente aveva risuonato la voce del re di Numenor che Pharazon rinfoderò la spada, furente ed irato: “Sappi, o re, che vi sono al mondo altri poteri, sui quali esercito il mio dominio. Sono anch’io un sovrano, non lo sapevi?”.
Non appena il giovane capitano dei Numenoreani Neri si fu allontanato dalla sala, così si rivolse Tar-Palantir ad Erfea: “Dure come adamante sono state le tue parole; tuttavia non saprei dire quanto veritiere. I miei sensi si indeboliscono ogni giorno di più e dell’antico potere è rimasto ben poco”.
“Mio signore – gli rispose Erfea – sono fermamente convinto di quanto ho affermato, e sarei pronto a pronunciare ancora tali parole, se necessario. Troppo a lungo Pharazon ho tenuto a freno la sua ira, troppo a lungo ha atteso la sua vendetta. Egli è potente ora, proprietario di numerosi cantieri navali e di armerie. Ha molti alleati nelle nostre fortezze della Terra di Mezzo, specialmente nel sud-est del continente. Umbar è ormai caduta sotto il suo controllo e così pure altre città della costa. Non solo Numenoreani lo seguono, ma anche mercenari senza scrupolo e altri esseri malvagi. Devi considerare attentamente la mia preghiera, signore di Elenna. Entrambi vogliamo preservare il bene di Numenor e conosciamo quale debba essere la strada da percorrere”. Tar-Palantir lo ascoltò con attenzione, infine sospirò: “Quanti anni sono trascorsi da quando le ultime vele giunsero alle mostre spiagge da Eressea, onya? Invano ho atteso, durante tutto questo tempo, un segno dei Signori dell’Occidente. Eppure, mentre la tenebra comincia ad infilarsi persino nel mio cuore morente, mi chiedo se la mia attesa debba  ormai concludersi qui. Non ho la forza di attendere quel giorno, giovane Dunadan. Non più.”

Triste, Erfea si congedò dal sovrano, ché la sua vista e il suo udito avevano osservato e ascoltato pensieri tali da rendere il suo animo stanco e depresso.

Rapidi, trascorsero i giorni di Laire[2], mentre Ulmo riposava sotto le calme acque dell’oceano; e ancor più fulminei, ecco che nubi gravide di sventura si abbatterono su Numenor. Ombre si aggiravano, silenti eppure mortali: parola mai essi adoperavano, che altrove risiedeva la loro voce, ma osservavano, afferravano e istigavano, invisibili agli occhi dei mortali, eccetto quelli che si piegavano al volere che le comandava.
Molto crebbe in numero e potenza il partito dei Numenoreani Neri ed ecco essi ebbero un nuovo signore a guidarli. Lungo tempo egli aveva trascorso in esilio, lontano da Elenna, dimorando negli aridi deserti del Khand e del Variag; figlio e nipote di re, aveva raggiunto un potere quale mai nessun mortale era stato in grado di apprendere. Er-Murazor veniva chiamato, Il Principe Nero; mai rivelò quale fosse la sua vera ascendenza, ché ben pochi tra i mortali erano in grado di sopportarne anche solo la vicinanza. In seguito, tuttavia, si apprese che egli era il Signore dei Nazgul, inviato da Sauron di Mordor, per seminare discordia tra i Numenoreani, e sebbene egli celasse la sua vera natura sotto spoglie mortali, pure il suo mortale potere ebbe modo di manifestarsi in innumerevoli occasioni, durante la sua permanenza a Numenor; presto entrò in contatto con Pharazon e lo trovò utile per i suoi malvagi scopi. Naturalmente, ben poche di queste notizie giunsero a Tar-Palantir, ché egli prestava ascolto solo ad antiche vicende accadute in tempi remoti; sovente si recava alla grande torre che dava sulla baia di Elenna[3], scrutando l’oceano in cerca delle vele provenienti da Tol-Eressea, senza fortuna.
Infine, non potendo ritardare oltre, Tar-Palantir si decise a convocare il Consiglio dello Scettro e il Senato per valutare attentamente la situazione che si era venuta a costituire.
In quei giorni crebbe il timore per una nuova guerra civile, ché i Numenoreani Neri avevano accresciuto di molto la loro influenza, destando preoccupazione tra i Dunedain; non appena fu deciso che il Consiglio dello Scettro e il Senato si sarebbero dovuti tenere a Yaramie[4], a metà del mese, entrambe le parti compresero l’importanza che le decisioni prese in quella assemblea avrebbero comportato.
Una sera d’Urime[5], Erfea camminava pensoso lungo un boschetto di malinorne[6], quand’ecco gli si appressò Amandil, signore della casata di Andunie:
“Salute a te, figlio di Gilnar! La tempesta è vicina e giunge l’ora in cui le nostre spade dovranno essere sguainate insieme, a difesa della nostra Numenor”.
“Mio signore Amandil, molto temo l’approssimarsi del Consiglio dello Scettro, ché ben mi avvedo quanto il braccio di Sauron sia diventato lungo. Tuttavia, ogni speranza non è vana, finché Tar-Palantir detiene lo scettro”.
Amandil sospirò, poi lentamente rispose: “Erfea Morluin, non ti nascondo che le tue paure sono anche le mie, ché molte sono le cose da temere in questi giorni oscuri. Se il sovrano è intenzionato a compiere la sua scelta, allora egli avrà bisogno di tutto l’aiuto possibile”.
Erfea annuì, poi replicò: “Le tue parole sono sagge, ma sono il parto di una mente lucida. Io e te sappiamo bene che la mente del sovrano vacilla: temo che egli non si opporrà, come dovrebbe essere suo diritto, qualora il Consiglio dello Scettro dovesse rendere nulla la sua scelta. E’ questo che io pavento maggiormente”.
A lungo Amandil considerò quanto il figlio di Gilnar aveva detto, poi continuò: “Davvero bizzarri paiono i destini dei mortali! Siamo nella nostra dimora e ivi dobbiamo temere il nemico! Se tale si configura il corso degli eventi, non oso immaginare quali possono essere le conseguenze”.
“No Amandil, questa situazione è  figlia della follia degli uomini. Noi siamo come costruttori: possiamo edificare mura e torri elevate, pari a quelle di Valinor, ma non possiamo impedire che la follia prenda il sopravvento sulla ragione, portando il nemico dove mai sarebbe giunto altrimenti. Abbiamo vegliato su Numenor per molti secoli, tuttavia è necessario che la scelta del sovrano sia giusta, se non vogliamo che non rimanga nessuna terra da difendere”.
Annuì Amandil, e parole i due uomini più non pronunciarono, sebbene la sensazione di opprimenza e di sconforto non abbandonasse nessuno dei due.

Note

[1] Fratello di Tar-Palantir e capitano della fazione dei Numenoreani Neri: morì durante un’imboscata tesagli dai Variag del Khand nel 3175 della Seconda Era.

[2] L’estate, nella lingua degli Eldar.

[3] Baia posta nel versante occidentale di Numenor, nei pressi della città di Andunie.

[4] Settembre, nella lingua degli Eldar.

[5] Agosto, nella lingua degli Eldar.

[6] Specie vegetale appartenente alla famiglia delle quercie, endemica di Numenor.

Storia di Miriel – Una festa a lungo attesa…

Quando scrissi «Il Racconto del Marinaio e della Principessa» non avevo ancora immaginato quale ruolo avrebbe assunto il personaggio di Miriel all’interno del «Ciclo del Marinaio»: il ruolo della protagonista femminile, infatti, fino a quel momento era ricoperto dalla mezzelfa Elwen, come ho raccontato nell’articolo che illustra la genesi dei miei racconti: In principio era…Othello, ovvero come nacque il Ciclo del Marinaio.
Per questa ragione, mi concentrai essenzialmente su alcuni aspetti della sua relazione con Erfea, in particolare su quello che – fino a quel momento – doveva essere il loro primo incontro «narrato»; per essere più precisi, cioè, si dava per scontato che Erfea e Miriel si fossero già frequentati in passato, ma senza entrare nel merito. Successivamente riorganizzai «Il Ciclo del Marinaio», facendo della principessa di Numenor il principale protagonista femminile e approfondendo perciò il suo carattere e, naturalmente, la sua interazione con gli altri personaggi del volume, a partire proprio da Erfea.
Ciononostante, il brano che mi appresto a presentarvi non ha perso nulla della sua capacità evocativa: al suo interno, come potrete leggere, i protagonisti si confronteranno sul concetto di Bellezza, dopo essere rimasti ammaliati dal fascino di quella che – mi piace ricordarlo – era considerata la più bella donna della sua epoca.

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«Da lungo tempo nel palazzo reale di Armenolos non veniva organizzato un simile banchetto; già fervevano i preparativi e alti risuonavano gli splendidi suoni dei corni e dei violini, delle viole e degli archetti. Un’immensa processione di luce venne posta ad entrambi i lati della strada, simile ad un immenso serpente di fuoco, che dal mare saliva in alto, verso il Menalterma.
Carrozze di ospiti illustri giungevano da tutto il paese per rendere omaggio alla principessa, ansiosi di apprendere quali sarebbero state le parole che il sovrano avrebbe pronunciato, ché nonostante il clima allegro e festoso, ben pochi riuscivano ad assaporare fino in fondo il sapore di una gioia improvvisa quanto violenta, circondata come era da nubi cariche di sventura e paura.
Finalmente tutto fu pronto e la festa ebbe inizio: per primi entrarono i principi di Numenor, coloro che sedevano al Consiglio dello Scettro. Il primo a far il suo ingresso fu Numendil, della casa di Andunie[1], seguito dal figlio Amandil, e dal nipote, che, ancora giovane, avrebbe in seguito assunto una notevole fama: Elendil era il suo nome, e la gente stupefatta lo osservava, perché in lui splendeva immensa la luce di Aman e il suo viso non erano ancora toccato dal crepuscolo, ma fiero brillava alla luce della sala. Stupito, ma lieto, il giovane principe, replicava con gesti cortesi al pubblico, che lo scrutava con timore, rapito dalla sua maestà sublime. Erano, gli eredi di Amandil, i parenti più prossimi del sovrano e grande era l’influenza che esercitavano all’interno del Consiglio; onorati dai Fedeli, mai essi avevano mancato alla parola data e infiniti atti di valore i loro animi avevano compiuto, spinti dalla necessità di quei giorni oscuri.

Dopo aver atteso alcuni istanti, ecco che fecero seguito Gilnar, sua moglie Nimrilien ed Erfea della casata degli Hyarrostar: alla loro vista, molti dei presenti inchinarono il capo, ché erano del gruppo di coloro che onoravano gli dei, e ben conoscevano il valore del figlio di Gilnar, e ne ammiravano l’orgoglio e la fermezza del carattere. Non tutti, però mostrarono un simile atteggiamento, e anzi alcuni tra i più arroganti esponenti dei Numenoreani neri mostrarono odio e disprezzo per coloro che consideravano ospiti fastidiosi, quanto mai sgraditi alla loro vista, sebbene non osassero manifestare apertamente il loro dissenso con parole o atti crudeli, ché ancora non erano giunti i loro signori e i loro sottoposti avevano ricevuto disposizioni ben precise a tal proposito.
A stento, perciò, i nemici del re trattennero le lingue biforcute, senza mai distogliere i loro eloquenti sguardi dalla famiglia Hyarrostar, ma, levando al contrario alte grida di giubilo, quando fecero il loro ingresso, seguiti dai loro servi e guerrieri, i principi di Numenoreani a capo della fazione ribelle. I principi del Forastar, seguiti dai loro pari grado di Onostar e di Huarnustar[2], erano gli oppositori di Tar-Palantir: grandi ricchezze detenevano e la loro ingordigia di preziosi era pari solo alla lussuria che essi dimostravano; indossavano ornamenti preziosi e le dame ostentavano gioielli macchiati del sangue delle numerose guerre che i loro uomini avevano combattuto per impossessarsene. Lentamente, i principi dei Numenoreani Neri attraversarono la sala, rivolgendo cenni di saluto solo ai propri pari, mentre uno stuolo di cortigiani cospargeva il suolo di petali di rose e aspergevano nell’aria essenze profumate ed oli orientali; giunti che furono innanzi a Tar-Palantir, essi non proferirono saluto, né accennarono ad un inchino, limitandosi a passargli accanto, in aperta sfida alla sua autorità, atto questo che parve molto irriverente agli occhi dei Dunedain, sebbene non fosse l’unico e il più grave perpetuato a danno del sovrano, tra quelli che avevano compiuto, fin da quando la guerra civile era scoppiata a Numenor alcune centinaia di anni prima.

Nell’ordine, giunsero poi i sacerdoti di Eru Iluvatar e delle altre divinità, gli ammiragli della flotta, della fanteria e della cavalleria, gli ambasciatori dei reami alleati, e infine i rappresentanti del popolo di Armenelos e dell’intera nazione. Grande fu la curiosità, quando entrarono nella sala del trono gli araldi di Durin IV e di Gil-Galad, ché da molti anni gli uomini di Numenor non posavano i loro occhi sui figli di Aule e sui Primogeniti: tuttavia, perfino in tale circostanza, solo i principi dell’Andunie e dell’Hyarrostar si alzarono dai loro scranni e si inchinarono innanzi agli ambasciatori; e furono sempre i principi dei Dunedain a invitare nani ed elfi ad accomodarsi vicini a loro, come si soleva fare in quelle occasioni, fin dalla nascita dell’isola.

Finalmente, non appena gli ospiti si furono sistemati alle proprie tavole, gli araldi suonarono nelle loro trombe e i visi dei presenti si voltarono nel medesimo istante, come per obbedire ad un ordine silenzioso: parola più non si udì in tutta la sala e mentre la Luna si levava in tutta la sua bellezza argentata, una musica, triste e lieto si levò da un’invisibile orchestra, isolando il pubblico in un’estasi indescrivibile.
Una figura apparve in cima allo scalone e qualche istante dopo Miriel, l’erede al trono di Numenor fece il suo ingresso tra i presenti. Molti furono coloro che si chiesero se Lorien[3] non avesse confuso le loro menti mortali, mostrando la bellezza di Varda, sposa di Manwe e regina dei Vala, ché mai si era visto in quel luogo un simile chiarore, simile a quello emanato dalle più nobili stelle del creato. Assorti, ciascuno nel proprio silenzio, i presenti non riuscivano a distogliere il proprio sguardo dal viso della principessa, mentre i loro pensieri vagavano confusi e commossi da tanta bellezza.1

Finanche i nani di Khazad-Dum, rimasero affascinati da tale visione: “ Se mai durante la mia esistenza ho lavorato laen e adamante[4], ebbene polvere e ruggine mi paiono questa sera, ché mai prima d’ora avevo ammirato l’essenza stessa della fiamma imperitura. Invero – sussurrò uno di essi ad Erfea che sedeva accanto a sé – l’isola di Numenor custodisce tesori che saranno sempre di là dalle ambizioni dei mortali, fossero anche i loro cuori e le loro menti mille e ancora mille volte ricolmi d’amore”. “Quanto affermi è giusto – gli rispose Erfea Morluin – perché i nostri animi sono come viandanti sfiniti che giungano alla fonte di montagna dopo lungo viaggio; per quanto la loro arsura sia grande, ecco che essa sarà spenta dall’acqua sorgiva, ché mai nel berne il dolce nettare, si esaurirà tuttavia il dolce diletto che essa procura. Allo stesso modo i nostri animi sempre aneleranno all’essenza della bellezza, senza che questa venga meno, anche quando, svanita la forma, essa non sarà più percepibile ai sensi dei mortali”.

“Sagge sono le tue parole, nobile Numenoreano – interloquì un alto uomo che sedeva di fronte a lui – Imracar Folcwine è il mio nome, cavaliere di una terra a nord di Boscoverde il Grande; mai avevo creduto che un simile piacere si potesse ricavare dalla contemplazione. Il nostro è un popolo rude, guerriero, fiero avversario di colui che non nominiamo. Non temiamo né la morte, né il dolore, e nessun avversario è in grado di abbatterci, ad eccezione del disonore e della codardia che massimamente temiamo: fiere e coraggiose sono le nostre donne, eppure mai ho ritenuto che fossero così remote e distanti da quella che chiamiamo la vita degli uomini. Le Eothraim[5] cacciano, scendono in guerra, partecipano ai nostri consigli al fianco dei loro padri, fratelli sposi e figli, gareggiando nelle medesime competizioni di noi uomini, sovente ottenendo la vittoria. Tuttavia, ritengo di aver assistito questa sera ad una competizione nella quale difficilmente un uomo avrebbe vinto”.

“Erfea Morluin, principe dell’Hyarrostar sono e a te dico che mai il mio cuore ha provato un’emozione così dolce, tale che al confronto la primavera dei Mortali sembra di gran lunga inferiore. Sii felice e non turbarti, nobile cavaliere! Il passato sarà lieto come il presente se sarai in grado di preservare intatto quanto i tuoi occhi hanno visto”.
“Così farò – rispose Imracar chinando il capo – e possa il ricordo della luce illuminarmi quando la tenebra sarà intorno a me”.
Simili commenti stupiti si levarono dagli uomini e dalle dame sedute ai loro tavoli, sussurri che si interruppero quando Miriel ebbe alzato la candida mano:
“Miei graditi ospiti, signori di Numenor, e voi, ambasciatori i cui paesi sostengono la nostra causa, siate benvenuti nella reggia di Elenna. A voi rivolgo il mio più cordiale saluto, augurandomi che la letizia che si respira questa sera possa nuovamente echeggiare anche in altre dimore dei Popoli Liberi”. Tacque per qualche istante, poi afferrato il calice, lo levò in alto, pronunciando parole di buon auspicio, indi si sedette e i festeggiamenti per il raggiungimento della maggior età della principessa Miriel ebbero inizio.
Molti idiomi furono in quella sera uditi ad Armenolos, frammisti a risa e canti: argomenti lieti e meno lieti furono trattati, mentre le stelle sbocciavano ad occidente, diamanti su una tela oscura. Al culmine della notte, infine, si diedero inizio alle danze, dopo che i bardi ebbero a lungo cantato le gesta della casa dei sovrani di Numenor, fin da quando Elros Tar-Minyatur[6] fece il suo ingresso nell’isola del dono; i signori invitarono le dame a danzare nel grande parco che si estendeva dal colle fino al mare, mentre abili musicisti e menestrelli deliziavano i presenti con ballate d’occasione.

Erfea Morluin osservava quanto accadeva, con lo sguardo perso nel ricordo di eventi passati; tuttavia ratto si voltò, quando un lieve tocco lo distrasse dalla sua meditazione. Miriel lo guardava, silenziosa, senza proferire parola alcuna; fattogli poi un rapido cenno lo invitò a seguirlo in una radura poco distante dal luogo in cui si svolgevano le danze. A lungo la principessa osservò Erfea, poi lentamente prese la parola:
“Salute a te, principe della casa degli Hyarrostar! Fresca è la notte e ancor lungi dal terminare sono i festeggiamenti! Tale è la ricorrenza, per cui ogni ospite mi deve un dono, un dono che sia a me gradito. Non ho forse ragione nel ritenere che voi abbiate obliato questo dovere?”
“Mia signora – così le si rivolse Erfea – veritiere sono le vostre parole e non sarò io a negarle. Tuttavia, verrei meno alla mia dignità, se non vi facessi notare che è facoltà degli ospiti ritenere se esista gioiello tale che la sua luce possa adombrare il vostro sembiante”.
Cristallino risuonò nella notte il riso della principessa, mentre rispondeva al suo interlocutore: “Ben mi avvengo di quanto la vostra lingua non sia meno pronta della vostra spada! Devo forse interpretare il vostro gesto come un complimento? E se così fosse, davvero vi aspettate che io lo gradisca?” Sorridendo, Erfea le si inchinò: “Una domanda pericolosa, la vostra, mia signora, alla quale non offrirò riposta. Tuttavia, per porre ammenda alla mia dimenticanza, vi porgerò la possibilità di rivolgermi una seconda domanda, alla quale non esiterò a rispondere”.

A lungo dovette attendere Erfea, ché molto Miriel meditò; infine, quando fu certa di quello che le premeva sapere, così formulò il quesito: “Conoscete forse le parole che pronunzierà mio padre dinanzi al Consiglio dello Scettro?”
Tosto il viso di Erfea si rabbuiò, sebbene la su voce non mostrasse esitazione alcuna: “La vostra domanda è legittima, ma superflua. Questo io posso rivelarvi: è destino che le nostre strade si incontrino nuovamente, tuttavia quando questo accadrà, avremo assunto ruoli diversi, sebbene i nostri animi non saranno mutati”.
Miriel lo ascoltò attentamente, infine parlò a voce bassa, quasi temendo di essere ascoltata da altri che non fosse il suo interlocutore: “Quanto amarezza nel constatare che il mio destino altri hanno forgiato! Come lo schiavo legato ai ceppi, così io ho atteso questo giorno, con timore, ché ben sapevo quali catene avrebbero soffocato, lentamente, la mia esistenza. Voi – gemette – voi davvero credete che io ignori quale decisione Tar-Palantir prenderà quando sarà giunta l’ora? Se io non sapessi – concluse infine – almeno potrei vivere nell’illusione della speranza, ma anche tale privilegio mi è stato privato molti anni or sono”. Tacque qualche istante finché Erfea non le ebbe baciato la mano: allora alzò lo sguardo e scorse tra le lacrime il viso del principe degli Hyarrostar. “Non confondete la speranza con l’illusione, la realtà con la finzione! A voi dico che quest’oggi dovete temere massimamente la paura degli uomini. Altro non mi è permesso dire”.

Tali furono le parole che pronunciò Erfea Morluin, ed esse furono le ultime quella sera, ché egli mai più fu visto dai commensali».

Note

[1] Contrada situata all’interno del grande golfo che i promontori dell’Onostar e dell’Huarnostar creavano nelle acque del Balegaer, il Grande Mare Occidentale, che prende il nome dall’ononima città: feudo degli eredi di Silmariel, primogenita di Tar-Elendil, quarto sovrano di Numenor, essa fu la dimora di molte genti fedeli agli Eldar e ai Vala.

[2] Forostar, Onostar e Huarnustar erano i nomi di alcune contrade di Numenor: la prima si trovava nel nord, la seconda nel nord-ovest e la terza nel sud-ovest del paese.

[3] Vala dei sogni e delle visioni, chiamato dagli Eldar  Irmo.

[4] Il Laen era una roccia di origine magmatica, la cui peculiarità fisica consisteva nel conservare il proprio stato solido alle temperature più alte, mutandolo invece allorché  era immerso in azoto liquido: prodotto durante la cosiddetta “lavorazione a freddo”, il cui segreto non fu mai divulgato né dai nani di Durin, né dagli elfi di Eregion, il Laen si rivelò di grande utilità durante la costruzione delle mura di Osgiliath, in seguito alla Caduta di Numenor; esso si presentava di colore bianco allo stato naturale, ma attraverso i diversi procedimenti attuati nelle aule dei fabbri elfici e nani, poteva mutare aspetto e assumere tonalità più scure. L’adamante, anch’essa una roccia di tipo vulcanica, era reperibile solo in remote contrade di Endor; simile di aspetto al diamante, si caratterizzava per una notevole resistenza agli urti: fu utilizzata durante la realizzazione delle fondamenta di Barad-Dur.

[5] Un popolo di uomini del Nord, imparentati con quanti della stirpe di Hador chiomadoro non attraversarono gli Ered Luin (I Monti Azzurri) e si stanziarono presso le rive dell’Anduin e nelle steppe del Rhovanion.

[6] Figlio di Earendil ed Elwing, fratello gemello di Elrond; scelse una vita mortale e divenne il primo sovrano di Numenor.

Sondaggio! Vota quale illustrazione del Ciclo del Marinaio ti piacerebbe vedere

Care lettrici e cari lettori,
vi scrivo per chiedere il vostro parere in merito ai prossimi personaggi che vorrei fossero illustrati da Anna Francesca. Scegliete perciò il personaggio che più preferite fra quelli che vi indicherò…le vostre risposte mi saranno molto utili al fine di operare una scelta per me difficile, dal momento che, come potrete facilmente immaginare, sono affezionato a tutti i personaggi del mio romanzo, senza fare distinzione (ebbene sì, anche a quelli malvagi!)
Confido perciò nel vostro aiuto! Scrivete nei vostri commenti il vostro personaggio preferito fra quelli che vi proporrò in basso, magari motivando la vostra scelta: ringrazio fin d’ora tutti quelli che si presteranno a questo piccolo gioco, la vostra collaborazione mi sarà di grande utilità!

Uomini:

1) Ariel;
2) Aldor Roc-Thalion;
3) Ar-Pharazon;
4) Palantir;
5) Gilmor.

Elfi

1) Elwen;
2) Gil Galad;
3) Morwin.

Nazgul

1) Er-Murazor;
2) Khamul;
3) Dwar di Waw;
4) Indur;
5) Akhorahil;
6) Hoarmurath;
7) Adunaphel;
8) Ren;
9) Uvatha.

Immortali:
1) Annatar.

Nani:
1) Naug Thalion;
2) Groin.

 

Nei giardini di Armenelos – illustrazione definitiva

Finalmente è pronta! Dopo avervi mostrato i vari schizzi e bozzetti di Erfea e Miriel nelle scorse settimane (che potete ammirare in questi articoli: I giardini di Armenelos – bozzetto; Erfea & Miriel – bozze figurini; Studi per nuovi ritratti) sono molto emozionato nel presentarvi l’illustrazione completa, opera della bravissima Francesca Anna Schiraldi, avente come soggetti la regina Miriel e il principe Erfea, raffigurati al termine di un drammatico alterco avvenuto all’interno dei giardini di Armenelos. Il momento è doppiamente felice per me perché mi ha permesso di recuperare un voluminoso racconto del quale avevo perso le tracce in questi ultimi anni (eh sì, la memoria inizia a giocare brutti scherzi!) che si adatta perfettamente a descrivere la scena qui raffigurata. Per sapere ove sarà collocato questo «Racconto del Marinaio e dell’infame giuramento» nella linea cronologica biografica di Erfea, vi suggerisco di leggere l’articolo Cronologia della vita di Erfea e dei racconti del Ciclo del Marinaio, che ho provveduto ad aggiornare questo pomeriggio: permettetemi, tuttavia, di anticipare un piccolo brano da questo «racconto ritrovato» – per usare una terminologia famigliare per i lettori di Tolkien – che potrà aiutarvi a comprendere in pieno l’importanza dell’illustrazione che accompagna questo articolo, nonché la bravura dell’artista (per la quale rimando sempre alla sua pagina facebook https://www.facebook.com/HirviSketch/) nel saper descrivere con i pennelli un momento topico del «Ciclo del Marinaio» come quello che vi apprestate a leggere:

«Ella mi guardò, senza pronunciare parola alcuna; eppure, i suoi chiari occhi parvero domandarmi perdono e mi rispose con un antico detto, quali i Numenoreani adoperano in situazioni invero molto gravi: “Una speranza ho dato ai Dunedain, ma non ne ho conservato una per me”. Tacque per qualche istante, infine sospirò e presami la mano così parlò: “Vorreste, dunque, venire meno agli ordini della vostra sovrana? Non mentirmi, Erfea, ché io scorgo nel tuo sguardo il dubbio e il timore che le mie parole hanno suscitato in te; eppure, se la lealtà dei miei comandanti dovesse venire meno, io perirei e altri avrebbero da patire sofferenze immani”.
Io la osservai, freddo, ché, sebbene il mio cuore sanguinasse copiosamente, pure non potevo ignorare quanto le sue parole avessero, inutilmente, tentato di occultare: “Vaneggi, Miriel, se credi che la nostra lealtà nei confronti di Numenor sia venuta meno; sappi, tuttavia, che ad essa solo risponderemo, quando sarà giunta l’ora e a nessun’altra”. Ella, allora, lasciò cadere la mia mano ed il suo animo diventò gelido: “Va’, figlio di Gilnar e possa la tua lealtà non venire meno quando giungerà l’ora”.»