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Un anno…auguri!!!

Preso da mille impegni, avevo dimenticato che il 13 marzo di un anno fa prendevo la decisione di aprire questo Blog dedicato al legendarium di Tolkien, in particolare al mito di Numenor e al Ciclo del Marinaio, una serie di racconti, dei quali sono l’autore, ambientati a Numenor e nella Terra di Mezzo durante la parte finale della Seconda Era.
Pur essendo rimasto un blog di nicchia (e non poteva essere diversamente, considerato lo specifico argomento di cui tratta) sono rimasto piacevolmente colpito da una buona partecipazione da parte dei miei lettori, i cui commenti sono stati per me fonte di riflessione, discussione e di grande soddisfazione.
Voglio quindi ringraziare di cuore tutti i miei lettori, in particolare quelli che più frequentemente hanno commentato i miei articoli nel corso di questi dodici mesi: Saurongorthaur, Lettrice, Eowyn, Federico e fanwriten91 (in rigoroso ordine decrescente di interventi).
Dal momento che sono un tipo originale, preferisco rivolgere gli auguri a voi lettori anziché al mio blog: vi auguro, perciò, quanto più possibile («sempre» è una parola che, direbbe Barbalbero, risulterebbe troppo lunga anche per gli Ent) di riuscire ad emozionarvi, appassionarvi, incuriosirvi e, perché no, anche a mettervi in una situazione di disaccordo con quello che scrivo…perché, oggi più che mai, sono convinto che la diversità, l’alterità, rappresentino una grande molla per la crescita umana di ciascuno di noi. Vi chiedo, dunque, di continuare a seguirmi e a commentare i miei articoli: aspetto perciò le vostre osservazioni, i vostri suggerimenti, le vostre critiche e, mi auguro, anche i vostri apprezzamenti.
La notizia data da Amazon nelle scorse settimane riguardo all’ambientazione della prossima serie tolkieniana nella Seconda Era potrebbe comportare benefici influssi sul mio blog. Vedremo. In fondo, sono fiducioso per natura.
Grazie.
Domenico

One last time…

Prendo volentieri a prestito il titolo di una struggente canzone dei Dream Theater, un gruppo progressive-rock, contenuta all’interno dell’album Metropolis Pt. 2: Scenes From a Memory (1999) che, per certi versi, costituisce la colonna sonora di molti miei racconti, per presentarvi un altro estratto dal «Racconto del Marinaio e dell’Albero Bianco», che fa seguito alla narrazione iniziata nell’articolo Ritorno a Rivendell: l’incontro con Celebrian.
Prima o poi tornerò sul rapporto musica-scrittura: per ora mi limito solo a suggerirvi di ascoltare il brano citato mentre leggerete questo articolo. Non intendo svelarvi altri particolari per non rovinare la sorpresa, ma osservando con attenzione l’immagine posta in evidenza dovreste capire di quali personaggi questo brano racconterà…per l’ultima volta!
Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Durante la mattina, egli prese congedo dai signori degli Eldar, ed il figlio di Earendil ebbe per lui parole di conforto e speranza: “Ti saluto Erfea, paladino di Numenor! Possono i tuoi passi echeggiare nuovamente per queste aule. Lieti saranno i festeggiamenti, quando farai ritorno alla mia dimora, ché sempre il benvenuto sarai a Imladris. Giovane eri quando ti conobbi e il peso grave di innumerevoli anni è calato sulle tue spalle; saggezza hai appreso e la lungimiranza, dono della tua stirpe, ti accompagna. Allorché impervio ti sembrerà il tuo cammino, allora questo dono ti riporterà alla mente la bella dimora degli elfi nell’Eregion.”

Un grande corno fu mostrato ad Erfea, ed egli con gioia lo strinse nella sua forte mano. Lucido al tatto era e minuscole figure di avorio ne increspavano la solida superficie: vi erano ritratti Vingilot, il vascello di Earendil, che ogni notte solca il cielo di Endor, e la flotta dell’armata dei Valar in viaggio verso il Beleriand.

“Questo cimelio appartiene al tesoro della mia famiglia: Aegnor, un fabbro di Ost-in-Edhil lo scolpì, molti anni addietro, ché il ricordo della battaglia d’Ira non andasse smarrito. Esso reca incise rune di grande potere e molto gli orchi lo temono, ché tale corno fu reciso dal corpo di Ancalangon il Nero, abbattuto da Earendil in singolare tenzone; allorché le sue note riecheggeranno vivide, il timore atterrerà i tuoi nemici e nuova forza fluirà nel tuo animo e in quello dei tuoi compagni.”

Lieto divenne allora il volo di Erfea, sì che pareva avvolto da nuova luce: “Echeggia il corno dei Valar e gli amici accorrono: Auta i lòme! La notte sta per finire! Non era forse questo il grido di battaglia di Fingon, re degli Elfi, quando il mondo era ancora giovane e chiara splendeva la luce di Aman? Possa suonare nuovamente tale olifante ed atterrire gli schiavi di Mordor! Memoria imperitura conserverò di questa ora, ché, sebbene sia destino che i nostri percorsi dovranno nuovamente intersecarsi, molto tempo trascorrerà fino ad allora. Addio signore degli Eldar! Possa la tua grazia proteggere il tuo popolo e mai la tua saggezza venire meno; molto è stato perduto, eppure è un grande onore serbare il ricordo di Imladris e di quanto le sue mura proteggono.”

“Addio, discendente di Ciryatur[1], ammiraglio di Numenor! Possa quel giorno non tardare troppo! Qui io ti attenderò: che la benedizione dei Valar e di colui che è Uno proteggano i tuoi passi!”

Tale fu l’ultimo saluto tra Erfea ed Elrond ed invero trascorsero molti anni prima che i due si incontrassero nuovamente; tuttavia, poiché altrove[2] si narra di codeste storie, qui non se ne serba memoria. Il Dunadan era prossimo ad attraversare il guado del Bruinen[3], allorché gli sovvenne di non aver salutato dama Galadriel, la più antica e possente tra le donne elfiche; ratto tornò sui suoi passi, eppure non giunse mai dinanzi ai cancelli di Imladris, ché una dolce voce lo chiamò a sé: “Non angustiarti, Erfea, e non ritardare oltre la tua partenza; Galadriel ti nomina Amico degli Elfi, ed è questo il suo dono d’addio. A lungo soggiornerò sotto le chiome argentate di Lorien[4], finché il mio tempo non sarà giunto ed io abbandonerò questi lidi mortali; a te, Dunadan, dico che se la speme non dovesse morire del tutto, allora ella ti sarà accanto quando giungerà la fine.”

Profondamente grato, così le disse addio Erfea, figlio di Gilnar: “Signora degli Eldar, il mio cuore mi dice che questo non sarà il nostro ultimo incontro, ché in questi stessi giardini, quando giungerà nuovamente l’ora, discorreremo nuovamente. Addio, fino a quel momento.”

“Dunadan, sovente i sentieri degli Eldar incrociano quelli degli Edain, sebbene questo accada per ragioni che i Noldor non comprendono appieno. Eppure, se è vero che Earendil è erede di entrambe le stirpi, allora è probabile che i nostri destini siano più intrecciati di quanto sembri. Namarie[5], Amico degli Elfi. Elen sìla lùmenn’omentielvo. Una stella brilla sull’ora del nostro incontro.”

Preso commiato da dama Galadriel, Erfea attraversò rapidamente il guado di Bruinen, dirigendosi verso Brea nell’Eredior, ridente cittadina posta all’incrocio di due grandi strade numenoreane; celere fu il suo viaggio, ché egli era nel pieno delle sue forze e forte era divenuta nel suo cuore la nostalgia di Numenor. Numerose leghe egli percorse, finché non ebbe raggiunto la contrada di Forlindon, ove regnava Erenion, figlio di Fingon, che il suo popolo chiamava Gil-Galad: ivi si recavano i Caliquendi[6], per oltrepassare i confini del mondo mortale e giungere in tal modo a Tol-Eressea, creata dagli dei per quanti, tra coloro che abbandonarono Aman, fossero stati colpiti dalla Prima Profezia di Mandos[7], ma desiderassero altresì abbandonare le terre mortali.

Mithlond, i Porti Grigi, era la capitale del regno di Gil-Galad, l’ultimo Alto Re elfico ad oriente del Belagaer; tuttavia egli viveva nelle aule a nord del golfo di Lhun, mentre il suo capitano Cirdan il Sindar era signore delle navi e dei porti: anziano, eppure vigoroso, egli era saggio tra gli elfi e temuto da Sauron, ché secoli prima egli era stato respinto dal Lindon. In tale terra di splendore non ancora offuscato, simile ad un giardino nel mese di maggio, giunse Erfea Morluin e tre settimane erano trascorse da quando aveva dato addio alla dimora di Elrond di Imladris: lieti lo accolsero gli elfi ed egli non ne fu stupito, ché ben sapeva quanto i Dunedan fossero amati nel regno di Gil-Galad.

Numerosi porti i Numenoreani avevano edificato fin dal loro arrivo nella Terra di Mezzo, tuttavia Erfea non osava avvicinarsi ai loro minacciosi bastioni, ché tutti, ad eccezione di Pelargir nel Sud, erano caduti nelle corrotte mani dei servi di Ar-Pharazon, uomini avidi di scienza malefica e adoratori di Sauron e di Morgoth: costoro avevano l’ordine di trucidare il principe dell’Hyarrostar, qualora fosse ritornato in un dominio di Numenor, per portarne le spoglie al sovrano Ar-Pharazon, avversario di Erfea fin dai tempi in cui Tar-Palantir impugnava lo scettro.

Ai servi di Sauron, tuttavia, era negato l’accesso al regno di Gil-Galad, ed Erfea fu grato a Cirdan allorché questi gli donò un piccolo vascello ad un solo albero.

“Galadriel mi ha annunziato che questo oggi un Dunadan sarebbe giunto da me per imbarcarsi diretto a Numenor, ché una grande missione l’attende in tale contrada. Di rado i Sindar concedono le loro navi agli stranieri, ma io non ho obliato quanto facesti per la mia gente molti anni fa; concedimi dunque di annullare il debito che ho contratto presso di te.”

Rapido Erfea gli si inchinò, infine rispose: “Nessun debito hai mai avuto presso di me, ché le genti libere devono contrastare i servi del Vala caduto ovunque essi si annidino; in codesta occasione agii seguendo il mio credo, ed esso non è oggi mutato. A te, Cirdan, dico che questa sarà la mia ultima navigazione verso ponente, ché nuove frontiere si apriranno e il vecchio mondo cadrà: possano gli Ainur essere clementi, quando sarà giunta l’ora.”

Erano ormai calate le tenebre, quando Erfea veleggiò, la prua rivolta verso occidente; monotono fu il suo viaggio ed egli non scorse alcuna nave numenoreana, circostanza, questa, che lo sorprese non poco: una crescente inquietudine soffocava il suo petto, ché non v’era nulla per miglia e miglia.

Calmo era il mare e l’acqua opaca, sì che il creato sembrava attendere un evento terribile e mortale. Quindici giorni erano trascorsi da quando Erfea aveva abbandonato le coste di Endor, allorché la fitta nebbia che aleggiava il suo capo si dipanò, mostrando Numenor in tutto il suo splendore: colmo di gioia fu il cuore del Dunadan, ed egli levò una preghiera di ringraziamento a Manwe per aver diretto i venti nella direzione a lui favorevole. Tosto, però, la sua gioia si mutò in stupore e poi in sgomento, ché gli apparve, imponente e minacciosa, l’intera flotta numenoreana. Nel porto di Romenna[8], ove il figlio di Gilnar si accingeva a sbarcare, erano ormeggiate le navi che da lungi depredavano e saccheggiavano la Terra di Mezzo, cancellando ovunque la memoria di quanto i Numenoreani avevano compiuto per saggezza e non già spinti da odio e rancore. Imponenti, come torri lignee e d’acciaio, parvero i vascelli di Ar-Pharazon ad Erfea, ché pure aveva appreso la superba maestria degli uomini del mare nel fabbricare grandi imbarcazioni; sgomento parve il figlio di Gilnar, ché non comprendeva per quale motivo l’intera flotta del re giacesse in un unico luogo; tuttavia, allorché comprese, ritto sul suo vascello elfico, egli non poté che reclinare il capo e versare lacrime amare. A lungo pianse Erfea Morluin, ché manifesta gli era divenuta la follia degli uomini della sua patria e più non avrebbe potuto ignorarla; arrogante e vanitosa, Numenor si specchiava nella sua flotta, emblema della sua volontà di dominio sul creato. Come il contadino che mostra orgoglioso il suo campo ben curato, ignorando il deserto che si estende alle su spalle, così Elenna rendeva gloria a sé stessa e ai suoi figli, nutrendosi avida della propria potenza.

Triste spettacolo fu quello, eppure non fu il peggiore tra quanti Erfea ebbe modo di osservare nell’isola: silenzio non si udiva più, finanche negli antichi luoghi di culto, ma canti e urla echeggiavano ovunque; eppure non erano suoni gioiosi, ma risa crudeli, rese ancor più fragorose dall’inquietante silenzio che pareva aleggiare al di là dell’isola stessa. Numerosi uomini giravano pesantemente armati, come se una grande guerra fosse imminente; pallidi erano i loro visi e parola non proferivano, ché essi erano schiavi e non più uomini liberi: Erfea ne fu stupito, ché fin dagli albori del regno mai si erano vedute scene simili; eppure anche questa era opera di Sauron l’Aborrito, ché egli aveva ormai corrotto i cuori dei Numenoreani e molti tra loro avevano preso ad adorare Morgoth e i suoi oscuri poteri. Le menti degli uomini tosto si erano volte al male, sicché Numenor si ergeva come una novella Mordor e il Signore Oscuro ne era divenuto l’infido padrone. Ignote erano ad Erfea simili vicende, sebbene egli avesse appreso a Pelargir[9] racconti sulla spedizione di Ar-Pharazon nella Terra di Mezzo per umiliare Sauron, il quale era infine giunto a Numenor prigioniero; né il capitano dei Dunedan era a conoscenza di quanto in seguito era accaduto, ché Sauron da vassallo era divenuto consigliere, riducendo il sovrano ad un fantasma da pervertire secondo la sua oscura volontà: Ar-Pharazon aveva accettato senza esitazione alcuna, ché il Maia caduto sovente gli aveva ripetuto i grandi uomini prendono con la forza quanto desiderano.

A lungo vagò Erfea, occultato alla sguardo vigile dei servi del re, ma non già a quelli di Sauron, ché questi sapeva il suo avversario essere sull’isola; allora grande divenne la sua ira e chiamò a sé i suoi schiavi più potenti, gli Ulairi[10]: rapidi, gli spettri dell’Anello, si mossero alla ricerca del Dunadan, ché il suo nome era loro noto ed essi a lungo avevano covato odio contro di lui nei loro cuori; infine Khamul l’Esterling[11], il secondo dei Nazgul, ne avvertì la presenza e rapido corse da Sauron per comunicargli quanto aveva visto. Lieto divenne allora il signore di Mordor, ché il suo nemico gli si presentava inerme alla sua mercé, straniero nella sua terra natia; tuttavia, nel medesimo istante in cui il Nazgul aveva scorto Erfea tra la folla, a sua volta il figlio di Gilnar era divenuto conscio della sua presenza: manifeste gli apparvero allora le sue intenzioni, ché egli molto aveva appreso sugli Ulairi, sin da quando si era infiltrato nella loro grande fortezza nell’Estremo Harad, scoprendone nomi ed identità. Consapevole di essere stato individuato, Erfea comprese quale malvagità avesse allungato il suo bieco artiglio su Numenor, ché non aveva obliato quanto odio provasse Sauron nei confronti dei Numenoreani, fin dai lontani giorni dell’assedio ad Eregion e della successiva sconfitta che le sue armate avevano ricevuto per mano delle armate di Elenna.

Rapido divenne allora il passo del ramingo, ed egli si diresse verso Armenelos, ché ivi si trovava il luogo ove avrebbe dovuto compiere la sua missione; sul suo cuore gravava fitta la tenebra di Numenor e Sauron gli opponeva la sua forte volontà, desideroso come era di fiaccarne le forze, ché cadesse nella trappola da lui sapientemente tesa: nota gli era la missione di Erfea, ché grande era il suo potere in quell’ora oscura e solo alcuni fra i signori degli Eldar sarebbero stati in grado di occultare la propria mente dinanzi allo sguardo del più possente tra i servi di Morgoth.

Giunto innanzi al santuario del Menalterma[12], Erfea comprese che un grande potere era all’opera, lo stesso che adesso gli negava l’accesso alla sala dell’Albero Bianco; allora il Morluin suonò nel corno di Earendil e le sue paure svanirono, calpestate da note squillanti. A lungo echeggiò il corno, ed il suo suono fu udito in molte contrade di Numenor: nuove speranze suscitò nei cuori dei Fedeli, ché essi compresero come la Tenebra fosse di passaggio e non dominasse incontrastata, mentre i servi di Sauron chinarono il capo dubbiosi. A più riprese il corno di Erfea squillò nella notte; molte luci si accesero nelle case e la gente uscì per strada, mentre voci si levavo confuse; allora crollò la volontà di Sauron, ché non aveva obliato l’umiliazione inflittagli dai Valar nella Guerra d’Ira ed ecco il corno ricavato dal dragone Ancalangon il Nero spaccava le catene forgiate dalle sue turpi mani; convocati a sé i suoi servi egli abbandonò il luogo sacro ove si annidava, consentendo ad Erfea di entrarvi.

Molti fra gli abitanti di Numenor si destarono quella notte, ché sogni di ogni sorta disturbarono i loro sonni: mai visione fu però sì curiosa come quella che scosse il riposo di Ar-Zimraphel, sovrana dell’isola. Ella sognò di essere nel Luogo del Silenzio, ove mancava da molti anni, eppure non era questo che la sorprese, quanto la presenza di un uomo, il cui nome aveva obliato, accanto a sé: alto si ergeva vicino al santuario, e pur non pronunciando parola alcuna, le parve che la chiamasse a sé innumerevoli volte, prima che giungesse l’alba. Turbata si levò Ar-Zimraphel, ché non capiva quale significato avesse il sogno; infine stanca di attendere ancora, si recò nei pressi del Menalterma, soppesando lentamente ogni passo su un sentiero che ben pochi ormai osavano percorrere. Giunta sulla sommità del monte, si accorse con meraviglia di essere stata preceduta, ché un uomo aveva preso posto su uno degli alti scranni in pietra che il tempo impietoso aveva ormai corroso; sedutagli al fianco, la donna meditò in silenzio per alcuni istanti, infine ormai certa dell’identità dell’uomo, pronunziò lentamente queste parole: “Mai avrei creduto di rivederti in questo luogo, lo stesso che vide il nostro ultimo incontro. Il tempo ha forse offuscato i miei occhi, tuttavia non ho obliato né il tuo nome né il tuo aspetto.”

“Chi può dire perché tutto questo accada?” replicò l’uomo. “A lungo ho vagato, in regioni disabitate e pericolose, ove mai parola viene sussurrata, eppure nessuna contrada è ora ricolma dell’oscuro fetore di Sauron quanto Numenor. Non ti nascondo, figlia di Tar-Palantir, che il mio cuore ora sanguina; poca speranza nutro nella guarigione di questa terra e ancor meno della sua gente.”

“Mio signore – rispose Ar-Zimraphel – questa notte ho udito un corno chiamarmi a lungo, prima che il sole sorgesse: adesso riconosco in te l’uomo che l’impugnava con forza e disperazione.”

“Disperazione? – le fece eco il ramingo – Disperazione, regina di Numenor? Quale azione condotta in tempi oscuri non condurrebbe alla follia? Se il mio animo non dispera, è perché i miei occhi hanno veduto la luce di Aman e ad essa vogliono far ritorno.” Così grande parve l’ira di Erfea, che Ar-Zimraphel dovette chinare lo sguardo, profondamente turbata; tosto tuttavia la voce dell’uomo parve venire meno e la sua luce oscurarsi, ché rapido il suo risentimento decresceva. Silenzio seguì, mentre la regina e lo straniero evitavano l’uno lo sguardo dell’altra; infine non potendo tollerare ulteriormente quanto accadeva, egli prese nuovamente la parola: “Se ti ho recato offesa, domando scusa, ché non era mia intenzione rattristare il tuo animo già provato dall’oscurità di questi giorni.” Sospirò per alcuni istanti, infine le parlò ancora: “Non mi domandi per quale ragione Erfea Morluin sia ritornato nella sua patria, conscio del bando che grava sul suo capo?”

Sorrise Ar-Zimraphel, allorché gli rispose: “Invero, voci mi sono giunte da Endor, dai bianchi porti degli Eldar; quanto la mia mente ha a lungo ignorato, non lo può il mio cuore, ché la verità esso ha appreso.” Rise, ma il suono che echeggiò per la vallata contrastava palesemente con l’espressione che le si era dipinta sul volto: “Non temere, Erfea Morluin! Non provo alcuna rabbia. Se tale è la tua scelta, possa condurti ad un felice avvenire.” Infine si fece seria, e più non sorrise: “Cosa cerchi figlio di Gilnar? Numenor non è più la tua patria, dunque allontanati in fretta dalle sue coste; qualora tu non seguissi il mio avvertimento, ecco che Ar-Pharazon porrebbe fine alla tua esistenza. Va dunque, e che la fortuna non ti volti le spalle, lasciandoti cieco ed inerme.”

Tali furono le parole che adoperò Ar-Zimraphel, sovrana di Numenor, ed ella si apprestava ad abbandonare la recondita valle, allorché Erfea la chiamo dolcemente: “Non ho obliato il tuo nome, Miriel figlia di Palantir, né il tuo grazioso sembiante. Se incauti sono stati i miei passi in questi giorni, tuttavia essi mi hanno condotto ove il mio cuore desiderava giungere.” Immobile, Miriel ascoltò la voce del paladino, infine si voltò e per un attimo ad Erfea parve che l’antica luce brillasse nuovamente nei suoi occhi: “Molto tempo è trascorso da quando le mie orecchie ascoltavano sussurrare questo nome nelle dolci veglie dell’Estate, ché esso è morto anni fa. Tuttavia se Erfea Morluin l’ha pronunciato, un preciso movente l’ha spinto a fare ciò.”

Annuì triste il figlio di Gilnar: “Letale è il veleno che l’Avversario ha sparso in quelli che una volta erano verdi prati e sorgenti cristalline, ed essi ora marciscono, avvizziti ed infettati; tuttavia, con rabbia percepisco quanto dolore alberghi nel tuo cuore, regina di Numenor.”

Rise allora Miriel, e mai suono fu più grottesco e orribile ad udirsi: “Regina? Su cosa eserciterei il mio dominio, Erfea? La dignità, l’onore, l’amore, tutto quanto avevo di prezioso mi è stato sottratto con l’inganno; persino il più povero tra i pescatori della costa gode di miglior fortuna. Una volta mi dicesti che la buona vigna offre un vino senza pari, eppure essa è stata deturpata molti anni fa! Lacrime di sangue e non nettare dolce sprizzano dalle sue ferite! Regina? Direi piuttosto prigioniera delle medesime debolezze che allora frenarono la mia volontà ed oggi mi impediscono di commettere atti di valore.”

Pallido divenne il volto di Erfea, ché aveva compreso a cosa alludesse: “Non confondere coraggio con viltà, mia signora! Forse vi è ancora speranza, finché gli Ainur reggono le sorti del nostro mondo.”

Avvampò d’ira Miriel e grave squillò la sua voce: “Ciechi sono i tuoi occhi e sterile la tua fede! Chi impugna adesso corona e scettro? Non è forse Ar-Pharazon, che la mia debole mano fermò dall’ottenere giusta condanna? Non vi è più speranza alla quale possa aggrapparmi, come naufrago nel fortunale.” Silenzio regnò per alcuni istanti, infine Erfea levatosi e presale dolcemente la mano, così la confortò: “Mente angosciata può partorire incubi aberranti; nulla però ti obbliga a prendervi parte. Qualunque sia il tuo parere su questa faccenda, Miriel, resti ancora una donna e non già una schiava.”

Gravi erano state le parole di Erfea Morluin, ed egli si attendeva dura replica; grande fu il suo stupore, tuttavia, allorché la signora di Numenor gli si accostò, sussurrando tristi parole: “Da lungi la mia mente vacilla, sebbene lontano da me sia l’acredine verso i Valar che ossessiona mio marito; non è a te che imputo la responsabilità per quanto è accaduto, ché un altro cammino avrei potuto percorrere se non avessi dubitato delle tue parole. Sebbene la mia speme nei Valar sia smarrita, tuttavia non è nella mia volontà contrastare l’azione di quanti ancora scorgono i loro disegni; essi sono però alquanto oscuri e la mia vista è offuscata, ché gravi nubi si addensano.”

Altro non disse Miriel e, abbandonato il Luogo Del Silenzio, discese lungo il sentiero che conduceva ad Armenelos, sede dei re; più Erfea Morluin la vide, ché i tempi erano ormai mutati e l’erba avvizziva sotto i suoi piedi: turbato la guardò allontanarsi, figura silenziosa sotto il sole nascente, i suoi biondi capelli svanire come bruma al mattino. “Namarie” le sussurrò Erfea, incurante di non essere udito e infine si mosse, ché l’ora era tarda e il suo compito lungi dal concludersi».

Note

[1] Ammiraglio di Numenor e signore dell’Hyarrostar, sconfisse nell’anno 1700 della Seconda Era le armate di Sauron al termine della guerra che seguì la forgiatura dell’Unico.

[2] Si veda “Il racconto del marinaio e del Re Stregone”.

[3] Tale corso d’acqua segnava il confine tra le terre di Elrond e le distese desertiche dell’Eriador.

[4] Contrada boscosa posta alla confluenza dei fiumi Celebrant e Anduin, governata durante la seconda era dall’elfo Sindar Amdìr: dopo la sua morte nella battaglia della Dagorlad, il reame fu governato dal figlio, Amroth, il quale tuttavia disparve in mare; essendo venuta a conoscenza di tale avvenimento, Galadriel e suo marito Celeborn fecero ritorno a Lorien, ove gli elfi accettarono di buon grado la loro potestà.

[5] “Addio” nella favella dei Noldor.

[6] Gli Eldar che avevano visto la luce dei Due Alberi ed i loro discendenti nati nella Terra di Mezzo.

[7] Mandos, Vala e Signore del Destino profetizzò che nessuno degli Eldar che avevano seguito Feanor, avrebbe fatto ritorno ad Aman; tali parole non furono mai obliate dagli Eldar in esilio ed essi erano soliti narrare della loro triste sorte riferendosi alla “Prima profezia di Mandos”. La Seconda profezia di Mandos concerne la fine del mondo e il fato ultimo dei figli di Eru, tuttavia essa non è mai stata divulgata apertamente e ben pochi, perfino tra i Signori degli Eldar, ve ne fanno cenno.

[8] Porto orientale di Numenor, situato presso la città di Armenelos.

[9] Città fondata nella tarda Seconda Era dai Numenoreani fedeli all’alleanza con gli elfi e i Valar alla foce del fiume Anduin.

[10] I Fantasmi dell’Anello, noti nella favella di Mordor come Nazgul.

[11] Tale termine indica coloro che tra i Secondogeniti si stabilirono ad est del Rhovanion: in senso improprio è talora adoperato per indicare quanti fra i servi umani di Morgoth scamparono all’ira dei Valar nella battaglia che rovesciò Thangodrim e fuggirono nelle regioni Orientali della Terra di Mezzo, ove preservarono il loro odio verso gli Eldar e gli Edain.

[12] Monte di origine vulcanica, sulla cui sommità era stato eretto un tempio dedicato a Manwe Sùlimo.

Cronologia della vita di Erfea e dei racconti del Ciclo del Marinaio

Come mi ha fatto giustamente notare uno dei miei lettori, non è semplice orientarsi all’intervento delle molteplici avventure vissute da Erfea e dagli altri protagonisti del «Ciclo del Marinaio» senza avere la possibilità di consultare una chiara e approfondita cronologia degli eventi principali della sua lunga vita e, più in generale, della tarda parte finale della Seconda Era, epoca nella quale sono ambientate le vicissitudini del principe di Numenor.
Pur disponendo della stesura di una cronologia già da diverso tempo, fino ad oggi ho nutrito delle riserve intorno a una sua pubblicazione, perché, inevitabilmente, essa avrebbe comportato l’anticipazione di qualche evento al quale, fino a questo momento, non avevo ancora fatto cenno: arrivati a questo punto, tuttavia, alla luce di una maggiore articolazione delle avventure di Erfea presente attualmente all’interno del mio blog, sento l’esigenza di non dover ulteriormente procrastinare la pubblicazione di uno strumento che spero possa rivelarsi utile per orientarsi all’interno degli eventi principali che si succedettero nel corso della Seconda Era e poter così apprezzare ulteriormente le vicende del paladino di Numenor e degli altri personaggi dei miei racconti. Invito vivamente i miei lettori a utilizzare le cronologie presentate nel Silmarillion e nel Signore degli Anelli per poter ricavare ulteriori informazioni sugli eventi della Seconda Era. Un’utile lettura, infine, può rivelarsi anche quella delle biografie dei sovrani numenoreani, contenute nel volume «Racconti incompiuti», anche questo scritto da Tolkien. Vi ricordo che potrete trovare le informazioni essenziali sui personaggi de «Il Ciclo del Marinaio» anche nel Dizionario dei personaggi de «Il Ciclo del Marinaio».
Buona lettura, aspetto le vostre osservazioni!

IL CALCOLO DEGLI ANNI DELLA SECONDA E DELLA TERZA ERA DALLA NASCITA ALLA MORTE DI ERFEA

3112 Seconda Era (poi abbreviata in S.E.): Erfea, figlio di Gilnar principe dell’Hyarrostar e di Nimrilien, del lignaggio di Andunie, nasce a Minas Laure.

3117 S. E.: Miriel, figlia di Palantir, principe ereditario al trono di Numenor e di Silwen sua sposa, nasce ad Armenelos.

3132 S. E.: Erfea incontra per la prima volta Miriel, principessa di Numenor.

3136 S.E.: Erfea affronta il drago Morluin e diviene noto alle stirpi della Terra di Mezzo come Erfea Morluin.

3140 S. E.: Erfea parla con Sauron nel Palantir; morte di Silwen, moglie di Palantir.

3144-46 S. E.: Erfea compie il primo viaggio nella Terra di Mezzo, ove instaura rapporti di amicizia con i Signori degli Eldar e conosce Tom Bombadil e sua moglie dama Baccador. Prima di far ritorno a Numenor, Erfea riceve dalle mani di Gil-Galad la spada Sulring, forgiata dai fabbri elfici di Gondolin nei giorni precedenti alla sua caduta.

3146 S. E.: Erfea ritorna a Numenor, ove viene nominato cavaliere. Nello stesso anno il principe Arthol, supportato da una fazione di Numenoreani ribelli, attenta alla vita di Palantir e della figlia Miriel: la congiura viene scoperta anche grazie alle rivelazioni di Erfea, e i congiurati sono condannati a morte dal principe Akhorahil perché non rivelino le identità dei reali mandanti del tentato omicidio e del colpo di Stato che ne avrebbe fatto seguito.

3146-3253 S. E.: Erfea torna nella Terra di Mezzo, ove serve Gil-Galad, l’ultimo degli Alti Re elfici ad est del Mare; si reca nel Rhovanion, ove conosce Imracar Folcwine, signore degli Eothraim.

3168 S. E.: A Khazad-Dum nasce Groin, figlio di Bòr, signore del popolo di Durin.

3170 S.E.: Erfea si avventura fino all’estremo Harad, ove entra nella grande fortezza dei Nazgul, scoprendone le reali identità.

3183 S. E.: A Edhellond nasce Ewen la Mezzelfa, figlia di un marinaio numenoreano e di una Noldo.

3254 S. E.: Erfea ritorna a Numenor, ove succede al padre, ormai anziano, nella carica di consigliere del sovrano Tar-Palantir.

3255 S. E.: Scoppia la seconda guerra civile a Numenor: battaglia di Tharbad, ove Erfea infligge una dura sconfitta al Capitano della fazione fedele a Pharazon l’usurpatore. Al termine dell’anno, Ar-Pharazon diviene il venticinquesimo sovrano di Elenna e prende in sposa sua cugina Miriel, contro la sua volontà e le leggi del regno.

3256 S. E.: Morte di Gilnar e Nimrilien: Erfea diviene l’ultimo dei signori dell’Hyarrostar.

3260 S. E.: L’infame giuramento: tutti capitani di Numenor, eccetto ventuno, tra cui Erfea ed Amandil, giurano lealtà ad Ar-Pharazon.

3261 S. E.: Erfea fa naufragio alle foci dell’Anduin e giunge alla città di Edhellond, ove conosce Elwen la mezzelfa: nello stesso anno Ar-Pharazon sbarca ad Umbar per sottomettere Sauron.

3270 S. E.: Erfea abbandona Edhellond; il principe di Numenor ritorna ad Imladris, ove conosce Celebrian e ritrova Elrond e Galadriel. Nello stesso anno giunge a Numenor, ove incontra per l’ultima volta Miriel; fuggito ai Nazgul, Erfea si stabilisce ad Osgiliath.

3277 S. E.: Erfea sconfigge il Capitano Nero a Edhellond e si riappacifica con Elwen.

32783320 S. E.: Erfea viaggia per tutta la Terra di Mezzo, giungendo fino all’estremo Nord, al Forochel, e ad Umbar, ove scopre che il reale padrone del porto è divenuto Sauron, che esercita il suo potere attraverso il Nazgul Adunaphel.

3320 S. E.: Con la caduta di Numenor (3319 S.E.), si costituiscono i regni in esilio di Arnor e Gondor: Erfea è nominato sovrintendente del re Anarion ad Osgiliath.

3429 S. E.: Le armate di Adunaphel attaccano Minas Ithil che viene in seguito conquistata, mentre la popolazione civile trova rifugio a Osgiliath: Erfea e Anarion difendono la città. Nello stesso anno si tiene il Consiglio di Orthanc che pone le premesse per la nascita di un’alleanza fra Elfi, Uomini e Nani allo scopo di contrastare l’ascesa di Sauron (Ultima Alleanza).

3433 S. E.: La battaglia della Dagorlad, cui Erfea partecipa; morte di Bòr (Naug Thalion)

3441 S. E.: Isildur si impadronisce dell’Anello Sovrano e Sauron fugge all’est.

2 Terza Era: disastro ai campi Iridati: Isildur e la sua gente vengono massacrati.

8 Terza Era: Erfea muore ad Osgiliath, dopo aver rivisto per l’ultima volta i suoi amici Elrond e Celebrian, ai quali consegna le sue memorie.

Ordine di lettura dei racconti del Ciclo del Marinaio

Mi sono reso conto che anche un’indicazione in merito all’ordine di lettura dei racconti del Ciclo del Marinaio può essere di grande utilità per i lettori.

Di seguito, dunque, troverete l’elenco dei racconti così come andrebbero letti in senso cronologico (e non secondo l’ordine in cui sono stati scritti). Il mio suggerimento, dunque, è quello di leggere i vari racconti, partendo dal menù a tendina presente nella parte destra del blog e scegliendo l’ordine di successione qui di seguito presentato.

Se vi saranno delle integrazioni, sarà mia premura modificare questa pagina.

Buona lettura!

Racconti:

1) Il Marinaio e il Messere di Endore;
2) Il Marinaio e il Drago;
3) Il Marinaio e le Palantiri;
4) Il Marinaio e la Principessa;
5) L’Ombra e la Spada;
6) Il Marinaio e l’infame Giuramento;
7) Il Marinaio e la Mezzelfa;
8) Il Marinaio e l’Albero Bianco;
9) La Rosa e l’Arpa;
10) Il Marinaio e il Nanosterro;
11) Il Marinaio e il Re Stregone;
12) Il Concilio di Orthanc;
13) Il Marinaio e la Grande Battaglia.

Appendici:
1) Cronologia della biografia di Erfea;
2) Gli anni del grande assedio a Gondor;
3) Le storie dei Nazgul;
4) Le stirpi dei Nani;
5) Le armate di Mordor.

 

Ritorno a Rivendell: l’incontro con Celebrian

Abbiamo lasciato Erfea deluso ed amareggiato per non essere riuscito a ricongiungersi con Elwen alla fine del racconto narrato in Il nemico del mio nemico…è mio nemico. Dopo lungo peregrinare, Erfea prende la decisione di far ritorno alla casa di Elrond, a Imladris; è stato già ospite del più sapiente mezzelfo della Terra di Mezzo quando, da ragazzo, prese la decisione di far rotta verso le sponde del Lindon, per conoscere meglio gli efi e la loro cultura. Nella bella valle di Gran Burrone Erfea è alla ricerca di un consiglio che possa mettere pace nel suo animo tormentato…e lo troverà stringendo amicizia con uno dei personaggi meno noti del Signore degli Anelli: Celebrian, moglie di Elrond e madre dei gemelli Elladan ed Elrohir e di dama Arwen.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Tenebrosi divennero i giorni di Numenor, l’isola del dono, al termine della Seconda Era della Terra di Mezzo, ché sedeva sul trono marmoreo Ar-Pharazon il Dorato, mentre i Fedeli fuggivano da Andunie, timorosi della follia e della crudeltà del sovrano.

Anni amari erano trascorsi, tra cupi silenzi e dolorosi rimpianti, ché gli uomini di Endor stentavano ad opporre resistenza agli eserciti che gli Ulairi, gli schiavi dell’Anello, comandavano in battaglia. Molte genti fuggivano ad occidente, ché ivi correva voce si compiessero splendide geste per opera di coloro che si opponevano al nero nemico di Mordor, ora sbaragliandone le sue schiere in battaglia, ora sventandone le subdole azioni che costui perpetuava a danno dei Popoli Liberi.

Negli Ered-Luin, aveva dimora Gil-Galad, l’ultimo degli Alti re elfici ad est del Grande Mare: saggio e lungimirante era il suo pensiero e molte genti lo temevano e lo onoravano, ed egli era il massimo avversario di Sauron di Mordor; finanche il Re-Stregone avrebbe avuto tema di affrontare il figlio di Fingon, ché numerosi erano i suoi poteri e forte il suo spirito, temprato dalle innumerevoli avversità che egli aveva affrontato e vinto nel corso della sua lunga esistenza. Numerosi uomini d’arme si riunirono sotto il suo vessillo, ed il suo regno non conobbe mai le pene dell’occupazione e la schiavitù per mano degli schiavi dell’Oscuro Signore.

L’araldo di Gil-Galad era Elrond il Pheredil[1], figlio di Earendil, il custode del Silmaril e sentinella dei cieli di Endor: grande era la sua saggezza e bello il portamento, ché in lui brillava la luce della stirpe materna, giunta da Valinor in epoche remote di cui pochi adesso si rammentano, ché l’antica stirpe è svanita quasi del tutto e i litorali più non echeggiano del lamentoso canto del gabbiano.

Nei giorni in cui si svolse tale storia, Elrond dimorava nel Rivendell; ivi aveva edificato un palazzo, chiamato Imladris nella lingua elfica, bastione a guardia degli orrori di Mordor: numerosi Eldar erano all’opera in quella valle, nascosti alla nequizia di Sauron e dei suoi schiavi, ed essi sovente accorrevano in aiuto di coloro che sfuggivano la morte o la schiavitù, fossero questi consanguinei o di altre stirpi.

In breve tempo, il nome e la sapienza di Elrond si diffusero in tutta Endor, destando, ovunque gli insegnamenti dei Valar non fossero stati obliati letizia e speranza; eppure il potere del nemico era invero possente e lungo il suo braccio, ché molte vite furono spezzate in quei giorni ormai obliati e il destino del mondo si apprestava a mutare nuovamente, nel lento declino di un’era ormai giunta al termine. Fu in quegli anni che Imladris divenne un rifugio per coloro che fuggivano l’Ombra dell’Est, ed Elrond applicò la sua arte di guarigione innumerevoli volte, ché i veleni diffusi da Sauron avvizzivano il fragile cuore degli uomini, così come la neve in Sùlimo[2] soffoca i virgulti benedetti da Yavanna[3]; tuttavia, mai il Pheredil disperò, in preda a confusione e timore, ché la sua mente non era stata deturpata dalla favella del Nemico e la sua arte lo preservò dalle fatiche e dagli affanni, finché la sua opera non fu compiuta ed egli abbandonò le sponde mortali per recarsi al di là del mare, sancendo in tal modo l’inizio dell’era del dominio degli uomini.

Nell’epoca precedente, tuttavia, forti brillavano i raggi del sole e della luna e negli Eldar l’amore per Endor non era ancora svanito: grandi opere essi compivano ed i Dunedain di Numenor in quei giorni tristi furono sempre al loro fianco. Grande fama aveva tra essi Erfea Morluin, della casata degli Hyarrostar, ed il suo nome era noto sia al Nemico, sia a quanti lo contrastavano. Un durevole legame d’amicizia aveva stretto Elrond con questi, fin da quando Erfea era stato condotto nella Terra di Mezzo dal padre Gilnar, affinché conoscesse ed amasse i Priminati; tosto il giovane Dunadan era stato affascinato dalle arti degli Eldar, ed Elrond aveva compreso quale sarebbe stato l’avvenire di Erfea, ché questi avrebbe acquisito grande fama presso i Popoli Liberi, qualora Sauron si fosse levato nuovamente. Numerose giornate il signore di Gran Burrone trascorse con il giovane Numenoreano, e molto apprese costui delle possenti arti e della scienza degli elfi, sicché in breve tempo si dimostrò esperto di tradizione.

Numerosi anni erano trascorsi dal loro ultimo incontro, tuttavia Elrond presagiva che il capitano di Numenor sarebbe nuovamente giunto alla propria soglia, ché nel mondo la Tenebra si infittiva e dolore e tormento laceravano l’animo di Erfea Morluin; accadde dunque che una notte di Viresse[4], un uomo stanco chiamasse al cancello il sire di Imladris, domandando ospitalità per la notte.

“Mio signore – tali furono le parole che il ramingo pronunziò dinanzi al figlio di Earendil – concedimi di trascorrere qualche ora di riposo nella tua sala, ché il mio corpo vacilla e sulle mie spalle grave pesa la stanchezza.”

“Viandante proveniente da remote regioni, deponi il tuo fardello nella mia dimora, ché l’oscurità rapida cala, e i sentieri si smarriscono nella bruna menzognera. Può un uomo o un elfo percorrere il suo cammino in simili condizioni?”

“Chiedo perdono, grazioso signore, eppure sovente la mente è infida quanto la nebbia vespertina. Pesante è il mio cuore, ché domande attendono risposte smarrite molto tempo addietro.”

“Non turbarti, Ramingo! Lieto sia il tuo cuore, ché questa notte nulla lo turberà. Dormi, e che sia il tuo un sonno benedetto da Elbereth.”.

Inchinatosi profondamente, il viandante fu condotto nella sua dimora, ove tosto cadde preda di un sonno profondo.

La mattina seguente, destatosi al primo sorgere del sole, quando la rosea alba indora le cime lontane di freddi colori, l’uomo si recò nel grande parco che circondava la sala ove aveva trascorso la notte: ivi, egli udì parole frammiste a risa; inquieto, si incamminò allora lungo il sentiero, lasciandosi guidare dall’eco, che ora distinto, ora remoto, gli giungeva.

Il ramingo attraversò graziosi ponti sospesi tra le cristalline e ridenti acque di ignoti torrenti, costeggiò alte siepi e ammirò statue imponenti i cui artisti dimorano ora nelle lontane Terre Imperiture; giunto infine nei pressi di un laghetto egli arrestò i propri passi ché il sole era ormai sorto per reclamare il suo dominio sulla terra mentre le cerulee acque erano increspate da una brezza marina recante con sé la dolce essenza della lontana Elenna. Commosso, il viandante lasciò scivolare via la sua profonda cappa, rivelando una capigliatura corvina e un viso logorato dalla rabbia e dal dolore, figli di quei tempi ormai obliati: a lungo ispirò profondamente, quasi volesse assaporare l’Oceano che, lungi da Imladris, lo invocava alla sua dimora.

“Cosa cercate mortale? Mai vi avevo veduto prima d’ora in tale luogo.” Ratto si voltò Erfea, ed il suo sorriso si deformò in una smorfia incredula, ché davanti a sé aveva una dama elfica avvolta in uno scuro manto, nel cui volto, occultato da un pesante velo, sfavillanti occhi adamantini lo osservavano severi, eppure curiosi. A lungo il ramingo ne sostenne lo sguardo, infine turbato le rivolse la parola: “Credevo di aver ascoltato parole frammiste a canti, ma la mia mente vacilla, ché invero mi era parso di ascoltare il dolce canto di una dama a voi affine.”

“Offuscata è forse la vostra vista, tuttavia, le vostre parole hanno destato in me grande curiosità. Il sole è sorto da poco, e immagino che voi non abbiate ancora desinato. Suvvia! Concedete a Celebrian di Imladris, figlia di sire Celeborn e dama Galadriel, di porre ammenda all’offesa che vi ho recato poc’anzi.” Rise allora e parve che l’intera vallata echeggiasse della letizia che tale suono esprimeva. Tosto lo straniero le si inginocchiò e presale dolcemente la mano la baciò, pronunciando tali parole: “Sono io, mia cortese dama, a domandarvi perdono, ché da lungo tempo conosco i signori degli Eldar, e benedetti sono i loro nomi presso la mia stirpe. Ben m’avvedo adesso quanto simile ai loro visi sia il vostro, tuttavia sovente il desiderio confonde presente con passato, realtà con finzione.”.

A lungo lo osservò Celebrian, infine volto lo sguardo ad occidente, sospirò: “Chi può dire quali siano i destini degli Edain e degli Eldar? Remoti sono ormai i tempi dei due Alberi di Valinor, pure il mio cuore mi dice che non è lontano il giorno in cui le due stirpi si incontreranno nuovamente e allora questa era della Terra di Mezzo giungerà al termine.”

Sospirando nuovamente, si rivolse ancora al suo interlocutore scuotendo il capo: “Mio signore, il vostro arrivo mi era noto da molti giorni, eppure i miei occhi non sono stati pronti nel riconoscervi, Erfea, della casata degli Hyarrostar, colui che chiamano il Morluin nelle contrade di Endor. Non siete forse voi il pellegrino che è giunto questa notte, chiedendo ospitalità a sire Elrond? La vostra vicenda mi è nota, paladino di Numenor, ché possente è la lungimiranza degli Eldar ed amore nutre ancora il loro cuore per la dimora che scelsero in tempi remoti.”

“Ebbene, Celebrian di Imladris, sappiate che numerosi soli e lune ho scorto vagando in terre straniere, ché dubbi e timori oscuravano il mio animo, e molte risposte questo attende. A lungo ho cercato la bella dimora di Elrond, ma il mio cammino è stato ostacolato dagli inganni del nemico, vigile all’interno della sua oscura torre.” Lentamente annuì Celebrian, infine si mosse leggiadra, come una brezza primaverile proveniente dalle Terre Imperiture al di là dell’Oceano; Erfea la seguì ed ella lo condusse attraverso acque e luce, foglie e vento, finche non prese posto su di un altro scranno, invitando con grazia il Dunedan a sederle accanto: questi non tardò a chiederle per quale motivo lo avesse condotto in quel luogo ameno. Lieta in volto così gli rispose l’erede di Celeborn: “Sii paziente, Erfea figlio di Gilnar, ché l’ora da te sì desiderata è infine giunta.”

Breve fu l’attesa, ché d’un tratto due alte figure percorsero il sentiero che conduceva agli alti scranni di pietra: con interesse le esaminò Erfea, eppure le loro fattezze erano celate da un manto grigio e da una cappa di seta bianca che copriva i loro volti. Ignote erano al Dunadan le loro identità, e queste sulle prime non pronunciarono alcuna battuta; tuttavia una grande maestà splendeva come aura sui loro corpi, sì che Erfea a lungo tacque meravigliato.

Infine, Celebrian si levò dallo scranno, e fatto un piccolo ma grazioso inchino rivolto alle due figure, così parlò: “Ecco il capitano di Numenor, Erfea figlio di Gilnar della casata degli Hyarrostar, colui che chiamano il Morluin; egli è qui, ché grande è il suo disio di discorrere con i signori dei Noldor.”.

Lentamente risposero i due esseri: “Grande è invero il dolore che affligge questo uomo, tuttavia gli Eldar sono giunti al crepuscolo e più non si occupano di quanto accade in queste contrade.”

Lesta fu la risposta di Erfea: “Eppure, vi è tra gli Elfi colui che discende da stirpe immortale e mortale. Non è egli forse Elrond di Imladris, signore di questa dimora ove noi ora discorriamo? Se fosse qui, si ricorderebbe di me, ché quanto afferma dama Celebrian corrisponde al vero: il figlio di Earendil mi conobbe tempo addietro, tuttavia non dubito che saprebbe riconoscermi anche adesso.”

Facendo scivolare via la cappa, la figura più alta sorrise mentre tali parole pronunziava: “Non sbagli, figlio di Numenor, che Elrond non ha obliato l’antica alleanza con gli Edain, stretta all’epoca delle guerre contro Morgoth, né il ricordo di Erfea è stato cancellato; le fatiche non gravavano ancora sul tuo capo, quando giovane giungesti a me anni addietro: sappi però che le tue fatiche sono lungi dall’essere terminate, ché l’Oscurità si infittisce e la Terra di Mezzo si consuma nel suo inesorabile logorio. Eppure, finanche in questa ora buia, la speme non è ancora svanita, ché i signori degli Eldar non sono inattivi, e le loro mani leniscono le sofferenze che Sauron, l’Oscuro Signore di Mordor arreca a coloro che gli oppongono resistenza”.

“Ahimè, questi giorni oscuri inaridiranno la speme nel cuore di molti uomini – interloquì l’altra figura – già odo il clangore delle armi e le urla dei guerrieri turbare la pace di Endor; simile ad una pestilenza, così l’ombra di Sauron prospera e si diffonde. Tuttavia, vedo innanzi a me un Dunadan della stirpe di Elenna, capitano dei Fedeli, e il mio cuore si rallegra, ché fin quando la tua stirpe prospererà, allora Galadriel di Eregion canterà lieta nei giardini di Lorien. Suvvia Erfea! L’antica stirpe non è del tutto svanita; sebbene essa viva il suo crepuscolo, è ancora lontano il dì della dipartita dell’ultimo vascello per Valinor. Fino a quel momento, possa regnare la concordia fra le nostre stirpi, ché essa possa essere tramandata a quanti verranno dopo di noi.”

Erfea, inchinatosi profondamente dinanzi ai signori degli Eldar, così parlò: “Mai ho disperato di perdere la speme, ché essa anima il cuore di quanti vagano, raminghi obliati e senza nome, cacciando ovunque i servi di Sauron; eppure il mio spirito è tormentato ché esso anela tornare alla sua terra natia. Quale sarà la mia scelta? Io chiedo ai signori degli Eldar qui presenti, di dissipare i miei dubbi.”

A lungo tacquero i tre elfi, infine Celebrian prese la parola: “Ignoro quale ragione ti spinga a ritornare a Numenor, eppure ben m’avvedo che è tuo desiderio far vela verso la dimora dei tuoi padri. Gli Eldar non sono soliti dare consigli, perché questi sovente si rivelano infidi e oscuri da comprendere; tuttavia, poiché sei stato tu a domandarlo, dirò quanto ho in serbo nel mio animo.” Tacque qualche minuto, infine parlò nuovamente: “Il tempo di Numenor è prossimo a terminare; non vi è alcun ragione che ti costringa a recarti nell’isola del Dono. Sii cauto, Erfea Morluin, ché un grande male è all’opera nella tua patria e io temo per la tua vita: al di là del Belagaer vi è solo morte; piuttosto fa vela ove al tuo animo è stata inflitta offesa, ché il mio cuore mi dice che rivedrai ancora di Elwen di Edhellond prima che questa era finisca.” Tali furono le parole che Celebrian adoperò; eppure mentre parlava, il suo sguardo cadeva sovente sul volto di Elrond e ad Erfea parve che una lieta luce brillasse nei suoi occhi.

Il sire di Imladris attese qualche istante, infine si pronunciò: “Quanto Celebrian sostiene, corrisponde a verità; io, tuttavia, non dirò se il suo consiglio sia buono o meno. Se il tuo cuore anela le bianche spiagge di Elenna, è forse destino che tu debba compiere un’altra impresa in tale contrada, prima che il suo tempo giunga a conclusione. Oscuri sono i disegni dei Valar, e tra i Primogeniti, finanche i Noldor vi possono leggere ben poco.” Così parlò il figlio di Earendil, tuttavia cos’altro il suo cuore presagisse non è stato tramandato.

Per ultima, infine, dama Galadriel prese la parola, ed invero il suo consiglio si dimostrò prezioso: “Udito hai dunque i pareri di due tra i signori dei Noldor. Ascolta adesso quello che ti dirò, ché molto temo Sauron e la sua perfidia. Ad Elenna il tuo sentiero ti conduce, che tu lo voglia o meno. Non ignorare gli avvertimenti di Elrond e Celebrian, ché grande è loro saggezza e lungimiranza; tuttavia, ivi, un ultimo compito ti attende. Non è solo la sopravvivenza dei lidi che ami ad essere in pericolo, Erfea figlio di Gilnar, ma anche la stirpe a te consanguinea. Affrettati, dunque, ché i tempi sono ormai maturi e la guerra è prossima: doloroso sarà il tuo peregrinare e molto soffrirai, eppure il mio cuore mi dice che ivi troverai la risposta ai dubbi che affliggono il tuo spirito.”

Dopo aver meditato per qualche istante, così Erfea rispose: “Se tali sono i vostri pareri in questa faccenda, la mia decisione è tosto presa; mi recherò ad Elenna, ché molta nostalgia il mo cuore nutre per Minas Laure[4] e Armenelos la bella.” Tali furono le sue parole, ed egli quel giorno non volle aggiungere altro.

Il mattino seguente, mentre Erfea affilava la sua lama, Sulring[5] di Gondolin, Celebrian gli rivolse la parola: “Mio signore, oscuro è il tuo volto e silente la tua voce. So cosa temi, tuttavia non è in mio potere alleviare il tuo dolore; eppure, non desidero che tu abbandoni la dimora di Elrond, senza che io ti abbia fatto dono di quanto desideri.”

Inchinatosi profondamente, così le rispose Erfea: “Mia signora, nessun dono o ricompensa potrebbe lenire il mio dolore; tuttavia, è stata per me gioia senza pari aver mirato il volto di dama Celebrian, prima che i giorni si ottenebrino nuovamente.”

Graziosamente rise la figlia di Celeborn: “Ben m’avvedo quanto la tua gentile favella non sia inferiore a nessun’altra tra quelle possedute dai figli di Eru, fossero finanche gli eredi di Feanor! Tuttavia il mio dono, sebbene non possa renderti quanto il tuo cuore brama di possedere, ti sarà di conforto allorché grande sarà il suo rimpianto.”

Così dicendo, Celebrian estrasse dal suo manto un piccolo specchio, incastonato in una cornice di mithril e laen azzurro, e lo consegnò al capitano di Numenor: “Tale è il suo potere, per cui la tua malinconia sarà sanata; tale artefatto mi fu donato da Celembrimbor, prima che l’Eregion fosse devastato e io l’ho custodito fino ad oggi; temo tuttavia che a me non sia più utile, ché quanto desidero è a me prossimo, pur essendo il suo destino ancora disgiunto dal mio.”

Commosso, Erfea le baciò la mano, infine prese la parola: “Gentile e graziosa dama, il tuo dono sarà per me simbolo dell’amicizia che lega le nostre stirpi. Possa questa alleanza perdurare anche quando i tempi saranno mutati.”

“Va’ adesso, figlio di Numenor! Lunga e impervia è la tua strada, eppure ti dico che ci vedremo ancora una volta.”

Ammutolito dalla grazia e dalla bellezza che splendevano in Celebrian, Erfea non trovò altre parole per ringraziarla e breve fu il suo commiato: “Che i Valar abbiano cura di te e che realizzino il tuo disio. Ardua è l’attesa, tuttavia la Primavera di Arda non è terminata e nuovi virgulti fioriranno prima che giunga l’Estate.”

Triste fu il commiato da Imladris, ché ad Erfea parvero che fossero trascorsi numerosi inverni da quando aveva varcato l’ingresso della dimora di Elrond ed ora era restio ad abbandonarla, sebbene la volontà di recarsi a Numenor non venisse meno.

Note

[1] Pheredil (Mezzelfo, in Quenya) indicava chiunque avesse avuto genitori appartenenti ad entrambe le stirpi figlie di Eru: al termine della Prima Era, i Valar imposero ai mezzelfi un’ardua scelta, che obbligava loro a privilegiare la vita immortale degli elfi oppure il dono che Eru aveva offerto agli uomini, la morte. Elrond scelse di appartenere alla stirpe della madre, mentre suo fratello Elros scelse la mortalità e divenne il primo sovrano di Numenor.

[2] “Marzo” in Sindarin.

[2] Valar e signora della Terra, chiamata sovente Kementari (“apportatrice di frutti” in Quenya)

[3] “Aprile” in Sindarin

[4] Minas Laure era la capitale della contrada dell’Hyarrostar e città natale di Erfea Morluin.

[5] Sulring , (“Vento di ghiaccio” nella lingua Sindarin), fu consegnata ad Erfea dalle mani di Gil-Galad, l’Alto Re dei Noldor in esilio, allorché il Dunedan ebbe compiuto ventuno anni: essa era stata forgiata a Gondolin da Galdor, fabbro del re e custode della porte; come molte lame elfiche della Prima Era, il suo filo riluceva allorché vi erano degli orchi od altri servitori di Morgoth nelle vicinanze.

Raminghi del Nord: declino o ripresa nella Quarta Era?

Nell’attesa di riprendere in mano il destino di Erfea dopo la scomparsa di Elwen, mi piace approfondire una questione legata ai suoi lontani discendenti, i Raminghi del Nord, gli eredi dello scomparso reame di Arnor. L’ispirazione per questo articolo mi è venuta dalla lettura, qualche giorno fa, di un quesito lanciato su una delle pagine Facebook dedicate al Signore degli Anelli, nel quale si chiedeva agli appassionati delle opere tolkieniane cosa potrebbe essere accaduto ai Dunedain del Nord dopo la restaurazione del regno di Arnor ad opera del re Elessar. La questione è molto interessante, non solo perché ci proietta inevitabilmente verso la Quarta Era e il dominio degli Uomini sulla Terra di Mezzo, ma soprattutto perché richiede un’analisi a metà tra il metodo di ricerca qualitativo e quello quantitativo per cercare di comprendere quale possa essere il futuro dei congiunti di Aragorn.

Cominciamo dalle promesse: nell’anno 3429 della Seconda Era, Elendil, Isildur e Anarion, accompagnati dai loro congiunti Fedeli, fuggono verso la Terra di Mezzo, per paura di finire invischiati nella follia scatenata da Ar-Pharazon per conquistare Aman, la terra dei Valar e ottenere così la vita eterna. I conti del sovrano, tuttavia, si rivelano tragicamente sbagliati e la sua impresa si conclude nel modo peggiore che si sarebbe potuto immaginare: la sua flotta viene distrutta e Numenor inabissata nelle profondità dell’Oceano. Destino diverso tocca ad Ar-Pharazon e agli uomini che con lui si erano accampati nelle Terre Beate: vengono seppelliti sotto una valanga di pietre e condannati a restare nelle Caverne dell’Oblio, dove sarebbero stati risvegliati solo al termine della Storia. Un racconto che, inevitabilmente, non può richiamare alla mente altre leggende simili, come quella che vorrebbe l’imperatore Federico I Barbarossa immerso in un sonno millennario all’interno di una grotta in Asia Minore (Anatolia) da dove si dovrebbe svegliare quando sarà giunta l’Ora. Per tacere, poi, delle più note vicende arturiane….

Ad eccezione del seguito di Ar-Pharazon, comunque, Tolkien sostiene che sopravvissero alla Caduta solo tre gruppi di Numenoreani: oltre ai già citati membri della spedizione comandata dalla famiglia di Elendil, l’autore menziona i Numenoreani che già da tempo vivevano nelle colonie che i loro avi avevano fondato nella Terra di Mezzo, come Pelargir e Annuminas. Nell’estremo Sud, infine, continuarono a sopravvivere le colonie dei Numenoreani Neri, gente che si era trasferita a vivere nella Terra di Mezzo per venerare Sauron perché erano avidi della conoscenza della sua Magia Oscura.

Fatta questa doverosa premessa storica, la prima domanda che dovremmo porci riguarda la demografia della società numenoreana: quanti abitanti vivevano a Numenor prima della sua Caduta? Per rispondere a questa domanda, è utile ricordare come nel volume «War of the Jewels» (non ancora tradotto in italiano) si accenni alla quasi estinzione degli Edain al termine della Prima Era: secondo Tolkien, probabilmente solo 10.000 tra uomini e donne erano sopravvissuti alla Guerra d’Ira. La maggior parte di loro, in seguito, fece vela verso la loro nuova patria, anche se un certo numero di Edain è probabile che possa essere rimasto nella Terra di Mezzo. Questi ultimi rappresentanti dei Secondogeniti, grazie alle arti degli Eldar e alla lunga pace che ne seguì, si moltiplicarono in fretta, fino a raggiungere una popolazione che deve essere stata ragguardevole, numericamente parlando. Non sappiamo, tuttavia, quanti fossero i Numenoreani: il bellissimo e ricco volume Atlante della Terra di Mezzo, scritto da Karen W. Fonstad, sostiene che l’Isola dell’Ovest fosse 40 volte più grande di Big Island, nelle Hawaii. Facendo due rapidi conti – e ipotizzando che i Numenoreani fossero più o meno al nostro stesso livello di scienza medica, come sembra suggerire Tolkien quando ricorda le loro arti di guarigioni al termine dell’Assedio di Gondor, definendole in grado di curare qualunque male umano, eccetto la vecchiaia – potremmo ipotizzare che a Numenor vivessero almeno 6,4 milioni di persone. Una cifra importante – data dalla moltiplicazione dell’attuale popolazione di Big Island per l’estensione di Numenor rapportata alle sue dimensioni – se paragonata a quella di altri regni tolkieniani: piccola, al contrario, se paragonata all’effettiva importanza che Numenor ricopriva nei meccanismi di potere della Seconda Era.

Quanti di questi Numenoreani potrebbero essere sopravvissuti alla Caduta? È molto difficile ipotizzare una risposta in merita: molto dipenderebbe dall’effettiva capacità di carico delle navi che furono usate da Elendil e dai suoi figli per sfuggire al disastro. Immaginando che fossero simili ai grandi galeoni di epoca moderna, potremmo azzardare un paragone con la Mayflower, la nave che nel 1620 salpò alla volta degli odierni Stati Uniti d’America: essa era in grado di portare circa 130 persone (compresi i membri dell’equipaggio). Se ipotizziamo come base di partenza 130-150 uomini per nave, allora le nove imbarcazioni numenoreane potrebbero aver salvato circa 1170-1350 Dunedain: un po’ troppo pochi, in effetti, per fondare due regni, Arnor e Gondor, nella Terra di Mezzo. Dobbiamo allora supporre che essi furono accolti da una fiorente comunità di esuli numenoreani (cui apparteneva anche Erfea, tanto per restare in tema); tuttavia Tolkien, pur ammettendo che negli anni precedenti alla Caduta molti Numenoreani avevano preferito stabilirsi nella Terra di Mezzo, non offre alcuna cifra utile per quantificare il loro numero. Possediamo, tuttavia, due indizi indiretti per cercare di avere un’idea, almeno sommaria, della popolazione dei Regni in Esilio: al termine dei colloqui imbastiti per decidere quale strategia adottare contro Sauron, infatti, Imrahil di Dol Amroth ricorda i bei tempi andati di Gondor, paragonando la piccola schiera raccolta dai Capitani dell’Ovest all’avanguardia dell’esercito di Gondor nel suo glorioso passato. Considerato che Aragorn aveva raccolto circa 7500 uomini (ma tra questi andrebbero considerati anche i Rohirrim), dovremmo immaginare che l’esercito di Gondor ai tempi del suo apogeo fosse costituito da un minimo di 21.000 uomini (se accettiamo che un terzo di loro combattessero all’avanguardia) ad un massimo di 28.000 (se invece optiamo per un rapporto retroguardia/corpo centrale dell’esercito di 1 a 2). Indubbiamente un numero di tutto rispetto; tuttavia, se confrontato con quello di altri eserciti medievali o di età moderna, appare sensibilmente piccolo (per esempio, l’armata francese alla battaglia di Azincourt nel 1415 contava tra i 36.000 e i 50.000 uomini; ancora, l’esercito della sola città Atene alla battaglia di Maratona del 490 a.C. annoverava almeno 10.000 uomini). Questo dato potrebbe gettare luce sulla popolazione globale di Gondor: considerato che mancano esempi di leva obbligatoria nei romanzi di Tolkien, e dato perciò per assunto che l’esercito del regno del Sud fosse costituito solo da professionisti, potremmo immaginare che la sua popolazione fosse compresa tra i 300.000 abitanti (un soldato per ogni dieci abitanti), fino ad un massimo di 1.500.000 (un soldato per ogni cinquanta abitanti). Un dato, quest’ultimo, che confermerebbe la bassa densità demografica del regno di Gondor, considerato che alla sua massima espansione territoriale, la sua superficie era pari a circa 700.000 miglia quadrate. A complicare la questione, inoltre, bisogna considerare che Imrahil avrebbe potuto fare riferimento all’esercito di Gondor in un altro momento storico di grande sviluppo del Regno del Sud, quale, per esempio, quello connesso con la dinastia dei Re Navigatori fra il IX e il XII secolo della Terza Era…

Nel regno di Arnor, la cui estensione non superò mai le 250.000 miglia quadrate di superficie, la situazione avrebbe potuto essere anche peggiore, sotto un punto di vista demografico: nel racconto dedicato al disastro dei Campi Iridati, presente nel volume «Racconti incompiuti», Tolkien sostiene che la perdita dei 200 uomini che componevano la guardia del corpo di Isildur arrecò un grave colpo alla stabilità del regno di Arnor, la cui popolazione risultò sempre inferiore rispetto a quella del suo gemello meridionale.
È questo un concetto che spiega molto bene Elrond, durante il consiglio con i rappresentanti dei Popoli Liberi: «A nord, dopo la guerra e la catastrofe di Campo Gaggiolo, gli Uomini dell’Ovesturia erano scemati, e la città di Annuminas vicino al Lago Evendim cadde in rovina; e gli eredi di Valandil si trasferirono a Fornost sulle alte Lande del Nord, ed anche lì ora tutto è desolazione. […] Il popolo di Arnor infatti si estinse, e i suoi nemici lo divorarono, e la loro signoria scomparve, lasciando soltanto tumuli verdi sulle colline erbose» (SdA, p. 199).
Potremmo quindi azzardare un paragone con la storia greca e più precisamente con Sparta, il cui sovrano, in epoca classica, era protetto da una guardia del corpo di 300 uomini (i famosi protagonisti dell’omonimo film del 2007). Oltre a questi soldati, Sparta poteva mettere in campo circa 10.000 soldati: quindi, utilizzando l’ipotesi precedente, potremmo stabilire in circa 100.000 unità la popolazione del regno di Arnor (soglia minima) e 500.000 (soglia massima). Si comprende bene, perché, dunque, con la tripartizione del regno del Nord avvenuta nell’anno 861 della Terza Era, Arthedain, Cardolan e Rhudaur, le nuove entità statali succedutesi allo scomparso regno di Arnor, fossero divenute facili prede del Re degli Stregoni di Angmar (il capitano dei Nazgul).

E giungiamo così, dopo questa lunga premessa (che spero i miei lettori mi perdoneranno) alla scomparsa dell’Arthedain – ultimo dei regni dei Dunedain nel Nord – nell’anno 1974 della Terza Era: Tolkien scrive chiaramente che, nonostante la distruzione, avvenuta nel corso dell’anno successivo, della potenza di Angmar, resa possibile grazie alla collaborazione fra forze di Gondor, degli elfi del Lindon e dei supersititi dell’Arthedain, non fu possibile più restaurare alcun organismo statale al Nord. Una delle maggiori cause a favore di questa scelta potrebbe essere stata la drastica riduzione della sua popolazione, che non riuscì più a riprendersi dalle distruzioni e dai lutti della guerra, nonostante la linea regale fosse sopravvissuta: i pochi sopravvissuti alla caduta dell’Arthedain divennero noti come i Raminghi, probabilmente perché persero i connotati tipici di una civiltà urbana a favore di un maggior nomadismo. Un destino invero infelice per gli eredi di un popolo che, stando a quanto riferì Ghan-Buri-Ghan a Theoden, utilizzavano tanta di quella pietra per le loro costruzione da far credere che fosse il loro alimento preferito!

Quanti Dunedain sopravvissero a Nord? È molto difficile dare una risposta a questa domanda: nel dialogo che segue fra Gandalf e Frodo dopo il risveglio di questi nella casa di Elrond, lo stregone non sembra essere molto fiducioso nelle capacità di recupero dei discendenti di Numenor, perlomeno di quelli stabilitisi al Nord: «La stirpe dei Re venuti dall’altra sponda del Mare è quasi estinta. È probabile che questa Guerra dell’Anello sia la loro ultima avventura» (SdA, p. 181) Nel corso del romanzo, alla vigilia della grande guerra contro Sauron, Aragorn viene soccorso dalla Compagnia Grigia; Halbarad, portavoce della Compagnia, così si esprime in merito alla sua formazione: «Ho trenta Uomini con me […] Tutti coloro che riuscii a radunare in fretta; ma anche i fratelli Elladan ed Elrohir fanno parte del gruppo» (SdA, p. 589).

Queste indicazioni, se pur scarne, possono aiutarci ad abbozzare una tesi, per quanto essa possa sembrare semplice, quasi rudimentale: è possibile, infatti, che la Grigia Compagnia fosse costituita dai Dunedain che abitavano o comunque agivano nei pressi di Gran Burrone; questa ipotesi si regge sulla compartecipazione dei figli di Elrond alla Compagnia. Se questi Raminghi, infatti, fossero giunti a Rohan da altre regioni del regno scomparso di Arnor avrebbero probabilmente impiegato molto più tempo ad arrivare; senza considerare che, con ogni probabilità, fu Galadriel a comunicare ad Elrond la necessità che i superstiti del popolo di Numenor si radunassero per aiutare Aragorn nella sua missione. Per inciso, questa circostanza ci permette di approfondire un’interessante questione: come facevano Galadriel ed Elrond a comunicare a distanza? Sembra possibile che essi potessero parlare telepaticamente, come sembra sia avvenuto, per esempio, al termine della Guerra dell’Anello, quando, durante le notti, essi erano soliti chiacchierare con Gandalf senza però pronunciare parola.

Tornando alla questione demografica dei Raminghi, ad ogni modo, il numero di trenta uomini sembra molto esiguo: le parole di Halbarad, comunque, sembrano alludere alla presenza di altri Raminghi sparsi nelle regioni dell’ex regno di Arnor, ma non ci dicono altro. Nei «Racconti Incompiuti» si accenna, in una delle tante versioni scritte da Tolkien della caccia all’Anello tentata dai Nazgul, ad uno scontro che sarebbe accaduto tra i Raminghi e i Cavalieri Neri per impedire agli Spettri dell’Anello di entrare nella Contea. Dalla scarna narrazione delineata dall’autore si può intuire che vi fossero almeno una decina di Raminghi: ma anche volendo considerare quest’altro piccolo gruppo, saremmo ancora a 40 uomini. Immaginando che per ogni uomo in assetto di guerra vi fossero almeno una donna, un/a bimbo/a e un anziano, potremmo arrivare a 120 persone. Stando al racconto che narra Gandalf ad Omorzo, al ritorno a Brea dopo la caduta di Sauron, i Raminghi abitavano ancora fra le rovine di Fornost: dobbiamo quindi considerare una loro presenza anche in quella che era stata un tempo la capitale dell’Arthedain. Con uno sforzo ulteriore di speculazione, quindi, potremmo immaginare che vi fossero almeno 100 Raminghi, ed avere una popolazione pari a circa 400 individui, simile a quella che attualmente abita un piccolo paese in Italia.

Decisamente troppo pochi per rifondare un Regno.

Se questa teoria fosse vera, giustificherebbe i timori di Gandalf in merito alla possibile estinzione dei Dunedain, in caso avesse vinto Sauron, alla fine della Guerra dell’Anello. Anche arrivando a ipotizzare 1000 abitanti sparsi nelle regioni che un tempo appartenevano ad Arnor, resterebbe un numero troppo basso di abitanti per poter ricolonizzare quelle terre. Concludo questo lungo articolo ipotizzando che la ripresa di Arnor avvenne solo grazie all’emigrazione massiccia di Uomini dalle regioni meridionali della Terra di Mezzo: si può supporre che i Dunedain superstiti fossero stati integrati nella nuova società del regno, magari assumendo cariche di primo piano a livello politico e finendo così per costituire la «nuova» nobiltà del rifondato Regno del Nord.

Nascita di una stella fredda

Quella che segue è la terza versione del «Racconto del Marinaio e della Mezzelfa», che potrete leggere nella sua versione approfondita nei seguenti articoli: Il nemico del mio nemico…è mio nemico; L’assedio di Edhellond; I dubbi di una scelta difficile: Elwen, Morwin ed Erfea. Come scritto in precedenza, si tratta di una versione diversa dalle altre: sono del tutto assenti, infatti, il linguaggio e i temi epici che solitamente caratterizzano i miei racconti. Si tratta, in effetti, di una rielaborazione in chiave «intimistica» degli eventi e dei pensieri che turbarono Elwen subito dopo la riappacificazione con Erfea. È un racconto – incompleto – che tenta di far luce sul carattere e sulle scelte intreprese dalla bella mezzelfa e sul suo tormentato rapporto con Erfea e Morwin.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Le ombre della notte non si erano ancora dileguate quando la mezzelfa si destò dal suo irrequieto sonno. Stupita, battè leggermente le palpebre, mentre la mano, istintivamente, cercava il corpo dell’uomo che, la sera precedente, si era addormentato accanto a lei.

Il letto era freddo. Si poteva indovinare, tuttavia, dalle increspate impronte che i suoi muscoli avevano impresso sulle bianche lenzuola, ove avesse disteso il suo corpo quella notte. La mezzelfa lasciò scorrere la mano, ancora per qualche minuto, sul guanciale accanto al suo, immersa in un profondo silenzio, meditando su quella unica parola che, durante la notte, aveva squarciato il velo oscuro che era calato sui loro visi.

Adesso era del tutto desta; con la naturale grazia tipica della sua stirpe, afferrò una vestaglia in seta bianca che la sera precedente aveva ripiegato con cura lungo lo schienale di uno scranno di ebano nero e si mosse verso una piccola finestra che dava ad oriente.

Fuori, albeggiava lentamente, quasi che Arien non avesse avuto alcuna intenzione di sorgere sul mondo. Era quell’ora in cui tenebra e luce si incontrano, partorendo larve che le menti dei figli di Iluvatar temono o perchè atterriti dalla loro presenza, o perchè bramosi di ottenerle senza alcuna speme.

Ella era una mezzelfa nel fiore degli anni, di una bellezza quale ogni bardo desiderebbe cantare, salvo venire meno all’impegno preso, allorché avesse scorto il suo sembiante ergersi in tutta la sua splendente grazia. Ricordò che sua madre, un tempo, le aveva raccomandato di occultare il suo volto con un lungo velo bianco, per tema che gli occhi degli uomini e degli elfi fossero sconvolti da tale beltà; ella non aveva mai seguito questo saggio ammonimento, avendo avuto, al contrario, cura di esporre il suo viso in pubblico, convinta com’era che la luce potesse solo riscaldare i cuori ed illuminare le menti, senza che questa potesse arrecare alcuna sofferenza ai figli di Iluvatar.

Egli, invece, era la tenebra. Era giunto sulla spiaggia di Edhellond sette anni prima, ricoperto di alghe e con la pelle scura incrostata da sale e sabbia. Gli abiti nobili che un tempo indossava erano stati dilaniati dalla furia di Ulmo ed a malapena era riuscito a salvare dai flutti una lama come i Primogeniti erano soliti forgiare nei secoli precedenti il sorgere del primo sole dell’era nella quale avevano avuto in sorte di nascere. Ai pescatori che erano accorsi in suo aiuto, lo straniero aveva narrato di essere giunto a quella contrada in seguito ad un fortunale che si era abbattutto sulla sua nave. Non aveva denaro con sè, nè amici o patria sulla quale vantare i propri domini: tuttavia, gli elfi più anziani, coloro che in tempi antichi si erano recati nell’Ovesturia, ora sommersa dalle acque del tempestoso oceano, per ascoltare i canti che colà si udivano all’ora del vespro, presero a mormorare, dapprima negli oscuri recessi delle proprie dimore, poi nelle pubbliche piazze, che il naufrago portava impressi sul volto i lineamenti degli Uomini del Mare, i Numenoreani. Un marinaio che era stato alla corte di Gil-Galad negli anni precedenti la venuta dello straniero, infine lo riconobbe e lo chiamò con il suo nome: tra l’incredulità e lo stupore generali, tuttavia, l’uomo, pur senza disdegnare i referenti appellativi che gli erano stati rivolti, non volle accettare alcun inchino da parte di coloro che gli erano tutt’intorno; al contrario, quasi avesse avuto disagio nell’abitare presso di loro, aveva accettato con gratitudine l’offerta di occupare una minuscola dimora, prossima all’Oceano, ove, egli diceva, non avrebbe recato fastidio ad alcuno, uomo od elfo che fosse. Trascorsero alcuni giorni prima che l’uomo facesse ritorno alla città di sire Morwin, eppure non si tratteneva a lungo nei suoi bianchi vicoli, ove la luce del sole amoreggiava con la chiara pietra con la quale erano stati edificati torri e minareti, terrazze e bastioni, preferendo di gran lunga oltrepassare i suoi cancelli quando calava l’oscurità: questa attutiva l’eco dei suoi pesanti passi, smorzava la sua profonda voce e, finanche, allontanava il suo ricordo dalle menti e dai cuori di coloro che, per sorte o per libera scelta, discorrevano con lui. Era la Tenebra; e come la sua Signora, non poneva alcuna domanda, eppure ascoltava le parole che, elfi ed uomini, gli rivolgevano, esitanti, nel cuore della notte.

Arrestò, per un istante, il flusso dei ricordi. Avvertì la forte aura dell’uomo nella stanza accanto a quella ove lei si attardava rimembrando episodi del passato. Inspirò profondamente. Egli, dunque, non si era allontanato dalla sua città. Non ancora.

Ne fu rasserenata.

In passato, quando il nome del forestiero giunto dal mare risuonava alle sue orecchie oscuro quanto la tenebra che striscia dalle Montagne Bianche, ella non avrebbe tollerato quanto era accaduto quella mattina. In fondo, era una mezzelfa che aveva scelto il destino dei Primogeniti. La linearità, l’eternità del domani, l’avversione al cambiamento: queste erano le ragioni che l’avevano spinta a rinunciare alla sua mortalità, non altro. Detestava il fragile mondo degli uomini, intento a ricorrere le folli chimere suscitate dagli oscuri poteri che erano sorti a levante, avvizzito entro fragile mura dalle quali, alte, si levavano le grida folli. Questi erano gli uomini, così come ella avrebbe potuto definirli sino a pochi anni fa. Gli uomini sprezzanti di ogni legame; gli uomini vogliosi di accrescere le proprie brame a scapito delle altre creature di Arda; gli uomini, violenti e fedifraghi.

Perchè, dunque, condivideva il suo talamo con un uomo?

Il suo sposo, se fosse stato presente, non l’avrebbe compresa, né sarebbe giunto a giustificare un simile tradimento. Conosceva l’uomo, così come gli altri elfi della sua casata; eppure, non avrebbe smesso di detestarlo, e quanto era accaduto in sua assenza, certo non avrebbe contribuito a riappacificarlo con la stirpe dei Secondogeniti. Non v’era, apparentemente, alcuna ragione che potesse avallare il suo comportamento; in quanto elfa signora della sua città, ella aveva commesso peccato tre volte: dinanzi a se stessa, dinanzi al suo sposo e dinanzi al suo popolo. La sua coscienza, secondo il parere dei dotti fra il suo popolo, era stata ora macchiata da una colpa sì grave per la quale l’esilio sarebbe stata una pena necessaria per riportare l’ordine nella bianca città. Il cerchio, entro il quale i Primogeniti si erano rinchiusi dopo la rinuncia al loro dominio sul mondo, doveva essere ripristinato, pena la distruzione dell’ordine entro il quale le loro leggi avevano valore.

Ella era cosciente di aver infranto la legge e di aver rinnegato la sua natura di elfa.

Il cerchio era stato infranto con troppa veemenenza perchè qualunque legge, pena o rinuncia potesse ripristinarne l’antica forma. La luce che splendeva nel suo cuore era stata corrotta dalla tenebra che l’uomo aveva recato con sè, provenendo da abissi remoti e senza nome.

No.

Per lungo tempo si era ingannata.

La sua luce, di cui andava così fiera da esporla come vessillo della sua grazia e della sua beltà, non era altro che un pallido riflesso della luminosità che splendeva negli occhi dell’uomo giunto dal mare.

Ripensò a giorni lontani.

Con le arti che le erano congenite l’aveva sedotto, legandolo al suo destino di giovane fanciulla, resa inquieta da una profezia lontana, che risaliva ai primi anni della sua vita, quando ancora la madre risiedeva in città e non aveva oltrepassato il mare. Per i suoi disegni, l’uomo rappresentava null’altro che un tramite verso il più profondo disio che ancora riuscisse ad ancorarla al mondo dei miseri mortali: le vaste distese oceaniche il suo cuore ambiva, non potendole possedere come qualsiasi altra brama la sua anima avesse desiderato soddisfare. Disprezzava l’uomo che aveva costruito il proprio eremo lontano dalla civiltà e dai ricordi che le erano cari: pur essendo null’altro che una minuscola ombra, vagante in compagnia delle sue sorelle generate dalla notte, ella non poteva fare a meno di notare come fosse attratta dalla remota pace che era in lui. Elfi possenti, il cui lignaggio nessuno avrebbe potuto mettere in discussione, le avevano chiesto invano non già la mano – un privilegio al quale ambivano inutilmente da diversi anni – ma finanche il semplice piacere della sua compagnia: ella, tuttavia, aveva sempre disdegnato tali proposte, non perché non fosse insensibile al loro corteggiamento, ma perchè riteneva che avrebbero potuto spezzare il delicato – eppure, quanto forte le era sembrato in quei giorni! – equilibrio sul quale poggiava la propria esistenza. Non desiderava condividere la propria vita con alcuno che non gli paresse degno: ed ella mostrava sarcasmo ogni qual volta la madre, desiderosa di congedarsi da lei salutandola con quell’appellativo che per innumerevoli anni era stato il suo e di tutte le elfe della sua stirpe, la pregava di mutare parere. Non erano che ombre di una virtù ben più grande, le parole che le erano rivolte da signori elfici cortesi nei modi ed eleganti nell’eloquio; eppure, allorché essi avevano in sorte di potere discorrere con lei, frustati facevano ritorno alle loro dimore, non già perchè inefficaci si erano rivelate le parole con le quali si erano presentati davanti al suo uscio, ma perchè senso di inadeguatezza provavano nei loro cuori e ne erano turbati ed atterriti. L’armonia sulla quale si reggevano le loro vite era sul punto di andare in frantumi: ma avrebbero, essi, accettato di rinunciare alle antiche leggi dei loro padri per ottenere quanto non erano in grado di confessare neppure a loro stessi, per tema di scorgere ferite all’interno del proprio cuore? Non lo erano: sicché, dopo qualche tempo, essi smisero di offrire i propri omaggi alla fanciulla impertinente che si burlava, a loro dire, di ogni eloquenza e creanza, e presero ad allontanarsi dalla sua dimora».

Il nemico del mio nemico…è mio nemico

Un vecchio adagio recita: «il nemico del mio nemico è mio amico», ma spesso la realtà si dimostra molto più complessa rispetto ai detti popolari…come impareranno a loro spese Erfea e Morwin, protagonisti della terza ed ultima parte del racconto «Il Marinaio e la Mezzelfa». Vi ricordo che potrete leggere le prime due parti di questo racconto all’interno di questi due articoli: I dubbi di una scelta difficile: Elwen, Morwin ed Erfea e L’assedio di Edhellond

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Eppure silenzioso era il mondo posto tutto intorno a loro, ché nubi gravide di sventure si addensavano su Edhellond, e il Signore degli stregoni covava vendetta nei tetri meandri di Barad-Dur, furente per la sconfitta subita.

Quando notizie figlie di gravi sventure giunsero infine alla città degli Elfi, il cuore di Erfea tremò, ché gli parve inutile attendere la marea nera chiuso nella sua roccaforte. Numerosi pensieri allora elaborò la sua lungimirante mente, e sovente ne faceva parola con Elwen, ché teneva il suo parere in gran conto, stimolandolo di gran lunga superiore a quello di molti capitani della sua stirpe; allorchè giunse il momento di partire, egli si congedò con parole affettuose dalla sua amata: “Mia signora, il fato mi chiama ad altre imprese e vedo già il mio sentiero attraversare ardue difficoltà e orrori indescrivibili. Tuttavia, fin quando il mio compito non sarà terminato e la Primavera non spargerà benedette le sue lacrime sui nostri vittoriosi visi, mi attenderai tu dinanzi al cancello?”

“Soffierà il terrore e ruggirà lo spavento, eppure il mio cuore resterà qui, saldo come quello dei gabbiani durante le traversate invernali: sicuro sarà il giorno fin quando la tua lama splenderà tra le remote tenebre”.

“E allora festosa sarà la scura notte, fin quando chiare le stelle si specchieranno nei tuoi grigi occhi”. Tale fu il loro ultimo saluto, ed Elwen a lungo lo pianse, ché sebbene fosse una fiera fanciulla, pure il suo cuore non resse a tale dolore e silenziosa si recò nella sua stanza, e tale rimase per molti giorni a venire. Naturalmente, questo comportamento attirò l’attenzione di Morwin, non appena questi fu di ritorno a Edhellond, avendo egli combattuto eserciti di Sauron in remote terre[1]. A stento il capitano riconobbe la sua sposa, ché solo in seguito fu informato della visita di Erfea; tuttavia, essendo egli signore tra gli Eldar, nutrì il sospetto che in qualche modo Elwen fosse stata oltraggiata.

Infine, stanco di quel silenzio, e informatosi su quanto era realmente accaduto il sire di Edhellond si recò nella bianca dimora di Elwen: “Mia signora, davvero ingrata sarebbe la dama che non nutrisse sentimenti di riconoscenza verso colui che le ha salvato la vita nell’ora della morte. Tuttavia, tale è il corso del mondo, che facilmente i sentimenti mutano forma e sostanza, confondendo finanche le menti più argute”. Lesta fu la risposta di Elwen: “Non capisco cosa tu voglia dire, Morwin di Edhellond, ma senza dubbio la fortuna dimostra di possedere grande vigore se continua ad assisterti. Tuttavia io credo che altre siano le accuse celate dal tuo formalismo, ché non vi è dubbio o incertezza, quando una dama è presa da passione”. Stupore comparve allora sul viso di Morwin: “Non comprendo il segreto valore delle parole che sgorgano dal tuo animo, tuttavia vedo bene quanto Erfea Morluin sia il responsabile di tale repentino cambiamento d’umore; ebbene una parola sola non aggiungerò, finche tale sarà il tuo comportamento nei miei confronti”. Elwen non rispose, ché lungi il suo pensiero vagava, all’Occidente tempestoso[2] dove infine Erfea l’avrebbe condotta, non appena la sua missione fosse stata portata a buon termine.

Invero difficile era il cammino che il condottiero di Numenor si accingeva a percorrere, essendo giunto alla grande fortezza di Umbar, capitale delle colonie Numenoreane poste sulle coste di Endor: degli Uomini del Re era la fortezza e da tempo ai Fedeli ne era negato l’accesso. Tuttavia, Erfea riuscì ad entrarvi, a costo di grandi fatiche, ché egli era uomo dotato di grande forza e di possenti arti magiche, apprese durante la sua giovinezza. A lungo allora esplorò la possente guarnigione, scoprendo numerosi gli inganni di Sauron, che in quella città aveva da tempo calato la sua cupa mano. Infine, ad Erfea parve di scorgere, remota eppure chiara, la figura di un uomo o di un elfo che sembrava avvicinarsi sempre più; grande fu allora il suo stupore, ché era Morwin per cui nutriva profonda avversione.

A lungo essi si osservarono, poi il sire di Edhellond prese la parola: “Sorpreso sono nel vedere la tua bianca rosa in tali contrade, abitate solo dalla paura e dal terrore; tuttavia questa non è arte del subdolo nemico, ché davanti a me ho Erfea Morluin, l’indecoroso amante della mia sposa”.

“Dure parole le mie orecchie ascoltano – gli rispose Erfea – ché esse sono l’eco di ben altri pensieri, più neri e foschi di quelli di che una volta concepivi. Invero difficile è conquistare l’amore di una fanciulla con l’odio e con la vendetta, signore di Edhellond”.

Furente divenne allora Morwin, il quale per tutta reazione estrasse la sua lunga lama dal nero fodero: “Arrogante e infida è la tua favella; non sei degno di Elwen, esule assassino. Troppo a lungo ho arrestato la mia mano, tuttavia giunto è finalmente il momento della vendetta”.

Iniziando stava dunque il duello e gli animi dei due guerrieri, resi forti da anni di dure battaglie, già iniziavano a bruciare come le betulle nella calda estate, quando ad un tratto, cogliendo impreparati i due duellanti, lesta come il corvo nella nebbia serale, così giunse Adunaphel, potente fra i Nazgul, e il fato, che dapprima intendeva separare i due capitani, li riunì in una disperata lotta per la vita.

Adunaphel, tuttavia, si faceva beffa dei suoi nemici, ché era certa della vittoria; tali erano i suoi poteri, infatti, che ben pochi avrebbero avuto il coraggio di affrontarla in duello. Si narrava che fosse stata la più abile spadaccina di tutti i tempi e che avesse ricevuto un’educazione militare molto rigida, simile a quella di molti capitani; cresciuta come un guerriero, dunque, Adunaphel aveva poi appreso le arti magiche della guerra, subendo il fascino perverso della negromanzia esercitata da Sauron in persona, il quale le aveva affidato uno degli anelli degli uomini, promettendole l’immortalità, se avesse accettato di consegnarli l’anima. Possente era la forza di Adunaphel il Nazgul, e mai ella era dovuta intervenire di persona per sedare un duello in corso nella sua città; ché Umbar, sebbene fosse formalmente un dominio del re, e come tale governato da un suo funzionario, in realtà era feudo di Sauron, teatro di spaventose magie. Ivi Adunaphel aveva stabilito il suo dominio, celando il proprio potere e la propria natura sotto mentite spoglie, ché era esperta nel mutare forma; una fanciulla, curiosa e vivace, ma pur sempre innocua, appariva agli occhi dei profani, ché ben di rado gli uomini indovinavano quale fosse la sua vera essenza, incapaci com’erano di sostenere il potere della sua mente corrotta. Da tempo, ormai, il Nazgul sia aggirava tra le corti della sua città, presenza inquieta e tuttavia ben più pericolosa di quanto la sua apparente natura non lasciasse intendere: quali oscuri pensieri concepisse, mai nessuno mortale riuscì a comprendere, operando ella come serva di Sauron e non già come sua avversaria; tutto quanto Adunaphel faceva, intrigo o magia, era ispirato dalla volontà di Sauron, a cui aveva ceduto la propria libertà. Mortale era il suo sguardo e gli uomini lungimiranti lo evitavano accuratamente; sovente i suoi stessi servi, gente infida e scaltra, non osavano guardarla in viso, tanto era il terrore che accompagnava ogni sua manifestazione. Sauron, da parte sua, era invero soddisfatto di una tale servitrice, che gli pareva l’unica in grado di lacerare l’animo degli uomini, laddove essi risultavano più deboli; molti segreti, in tal modo, la sua mente avvizzita fu in grado di apprendere, e grande fu la sua preoccupazione quando capì che il suo mortale nemico, Erfea, si apprestava ad entrare nel suo dominio.

Non appena ella ebbe comunicato tale notizia al suo padrone, ricevette l’ordine di rimanere guardinga, nell’attesa che il Signore dei Nazgul giungesse ad Umbar, portando con sé tutti gli altri Ulairi. La dama Numenoreana, tuttavia, aveva preferito attendere Erfea nella propria roccaforte, lasciandogli l’illusione di avere libero accesso ai più oscuri segreti della città, allo scopo di tendergli una trappola che mai il capitano di Numenor, per potente che fosse, avrebbe potuto evitare.

Spie di Mordor avevano altresì avvertito il Settimo dei Nazgul dell’immanente arrivo di Morwin alla città di Umbar, e grande era stata la gioia di Adunaphel, quando questa missiva le era stata comunicata: “Tale è il loro ardire, che senza dubbio essi oseranno addentrarsi nei meandri di Umbar, sicuri che Sauron sia ancora distante, e che nessuno controlli il loro operato. Grande dunque sarà la sorpresa e lo sgomento, quando la verità sarà loro manifesta!” Tali erano i pensieri di Adunaphel, e tale era anche il volere di Sauron che ogni sua azione ispirava. Tuttavia, deludendo le aspettative dell’Oscuro Signore, né Erfea, né Morwin le si prostrarono tremanti; al contrario la resistenza che entrambi opposero al Nazgul e ai suoi servi fu tale che alla conclusione dello scontro risultarono vincitori, sconfiggendo le speranze di Mordor.

Tre volte Adunaphel chiamò sé gli schiavi di Sauron, orchi e altre abominevoli creature della notte; e per tre volte Erfea e Morwin scagliarono oltre i cancelli del nulla le orde delle tenebre. Infine, stanca di quel combattimento, Adunaphel in persona accettò di sfidare la possanza e la forza dei due capitani, e in primo momento le sembrò di aver scelto il momento opportuno; tale era, infatti, la stanchezza dei due capitani, che il perfido servo dell’Anello fu vicino ad ottenere una vittoria che per l’elfo e per l’uomo avrebbe significato la morte certa. Tuttavia, proprio quando le speranze dei due capitani sembravano non trovare riscontro nella realtà, e l’ora della sconfitta si avvicinava sempre più, allora possente si levò il vento dell’Ovest: esso riscaldò l’aria tutto intorno, messaggero del glorioso sole, che si apprestava a prendere possesso del mondo. Grande fu l’ira della sgomenta Adunaphel, la quale non seppe opporre resistenza a un tale potere, fuggendo al di là dei brumosi monti, fin quando la sua corsa rovinosa non l’ebbe condotta a Barad-Dur, dove Anor mai sarebbe giunto a sfidarla.

Tale fu dunque la conclusione di uno scontro inaspettato, e sebbene sia Morwin che Erfea fossero risultati vincitori, liberando per qualche tempo la città di Umbar dalla lordura dei servi di Sauron, tuttavia Adunaphel sopravvisse, ombra schiava dell’oscurità, fin quando il suo padrone non venne privato dell’anello, molti secoli al di là a venire, ed ella scomparve, scagliata al di fuori dei cancelli del mondo.

Esauritesi le ostilità e sopraggiunta una pesante stanchezza, i due duellanti, Erfea Morluin di Numenor e sire Morwin di Edhellond, presero a fissarsi negli occhi, ciascuno appoggiandosi alla propria spada: “Invero è strano il nostro destino, se io, da sempre acerrimo avversario della vostra stirpe, ora sono in debito con un suo capitano! Vi è dunque qualcosa che comprendere non si possa, remota all’orizzonte e pur sempre vigile? Eppure, tale è la sapienza e la conoscenza di noi Noldor, che tale entità presto si sarebbe rivelata in tutta la sua forza. Qual è dunque la verità?”

Lenta fu la risposta di Erfea, che in tali termini si espresse: “Non confondere scienza con conoscenza, erudizione con sapienza! A te, capitano degli Eldar, posso rivelare solo questo: ben poco ci è dato di conoscere sulla nostra sorte, che attende i nostri spiriti quando la morte ci strappa al dolce tepore della vita. Tuttavia, io non credo che i nostri destini si siano incrociati in questo frangente per un puro caso. Vi è forse un potere che muove le nostre azioni, secondo un suo disegno ben preciso, del quale io, pur conoscendo in parte i contenuti, ignoro però le forme. Certo, differente dal nostro è il credo degli Eldar, essendo la loro sorte intrecciata con quella dell’intero creato”.

“Sagge sono le tue parole, principe dei Numenoreani. Tuttavia, non credere che Morwin abbia dimenticato il suo antico rancore, ché una grave colpa è posta sulle tue spalle e lieto mai sarà il tuo destino”. Erfea però, non lasciò trapelare nessuna emozione, e impassibile in volto, si accinse a rispondergli: “È probabile che io debba penare ancora a lungo; tuttavia, sebbene non desideri un simile avvenire, tale è il destino di colui che liberamente decide di assumersi determinate responsabilità. Potrai fuggire, Morwin, eppure esse ti inseguiranno ovunque tu diriga i tuoi passi, mai paghe di rimembrarti il tuo dovere, ché da un patto ferreo, ma libero, esse traggono linfa vitale”.

“Ben dici, Erfea; e meglio sarebbe se tu apportassi a guisa di esempio, il vincolo stretto tra me ed Elwen. Mai potrai spezzare i suoi anelli, più forti del tempo e dello spazio, ché essi si ergono di là del flusso e dell’essenza, simili a monoliti scolpiti da ciclopiche mani, ormai obliate nelle leggende e nei canti”.

Erfea rise dinanzi a tali parole: “Non vi è alcun vincolo tra te e lei, ché non Elwen lo pronunziò, ma l’eco di ancestrali paure, gelide e soffocanti, come gli antri di caverne nei luoghi profondi della terra. Timori e freddi inganni hanno soffocato quanto ella avrebbe davvero voluto, ed ecco! La primavera giunge finalmente vittoriosa e con essa le nostre ferite sono lavate con profumata acqua di fonte. Più grande di te è il nostro giuramento, Morwin; a nulla servirà la tua ira funesta, ché dovessi morire oggi stesso, ecco che anch’ella si allontanerebbe dalle sponde mortali, e mai più tu la vedresti, ed essa porterebbe con sé il mio , e non già il tuo ricordo”.

Parole non aggiunse Erfea e niente trovò da ribattere Morwin, ché la verità finalmente gli era stata rivelata, e più avrebbe potuto ignorarla, fingendo che il suo volere sarebbe stato sufficiente a ricondurre a sé Elwen.

Mai, da quando egli aveva ottenuto il potere su Edhellond, una sì grande sconfitta gli era stata impartita da un mortale; e mai notizia fu per lui più amara, quando, ritornato alla sua città natale, apprese con tristezza che Elwen era fuggita, portando con sé le ultime vestigia della luce di Arda.

Più le storie narrano di Morwin, il sire e il fabbro della bianca città degli Eldar, esperto nel trattare i metalli e i servi di Sauron, secondo il caso, e sebbene i bardi ignorino la sua fine, tuttavia, secondo alcuni della sua famiglia, anch’egli avrebbe abbandonato la città, errando a lungo per il vasto mondo senza una meta, memore soltanto del proprio nome e di quello della sua antica sposa , fin quando, stanco di quel vagabondare senza scopo, egli avrebbe deciso di unirsi all’esercito dell’Ultima Alleanza. Nella battaglia della Dagorlad[3] Dwar di Waw trucidò il sire di Edhellond, mentre costui difendeva una colonna di elfi silvani sorpresi dall’attacco dei Mumakil: in tal modo glorioso Morwin concluse la propria esistenza, silente custode della propria fama e della propria amarezza.

Di Elwen, non v’è più traccia certa nelle storie della Terra di Mezzo; certuni affermano che visse per qualche tempo a nord, nella regione del lago di Vesproscuro, governando con sapienza gli uomini e gli elfi di quella remota regione insieme ad Erfea; taluni, invece, dicono che Elwen non sia mai giunta ad Edhellond, dove il Dunadan l’attendeva impaziente, e che sia stata uccisa lungo la strada, allontanandosi così per sempre dalla Terra di Mezzo, soddisfacendo in tal modo il suo fanciullesco desiderio e portando nel proprio petto il ricordo dell’amato Erfea, ultimo dei grandi capitani dell’Ovesturia ad aver traversato indenne un’epoca cosi turbolenta.

Note

[1] Nell’anno 3277 S. E., le armate di Dwar avevano compiuto scorrerie nel Calhenardon, minacciando Lorien: timorosa di un massiccio attacco al suo reame, Galadriel aveva chiesto ed ottenuto l’appoggio delle schiere di Edhellond, per mezzo delle quali il nemico era stato respinto.

[2] Si ignora a quale contrada facessero allusione tali parole; è verosimile, tuttavia, che Elwen si fosse riferita al Lindon, la regione più occidentale di Endor, ove vivevano in quei giorni molti della sua stirpe.

[3] Si veda anche Oropher o del cattivo Fato degli Elfi

L’assedio di Edhellond

Continuo in questo articolo il racconto «beta» del «Marinaio e della Mezzelfa», iniziato in I dubbi di una scelta difficile: Elwen, Morwin ed Erfea. Consumata la rottura tra il Numenoreano e la mezzelfa, ecco che un’inattesa e drammatica circostanza potrebbe permettere il riavvicinamento di Erfea ad Elwen, mentre nuovi e vecchi nemici sono all’opera e la sinistra ombra di Sauron minaccia di estendersi fino alla ridente cittadina di Edhellond…

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«Tutto questo accadeva mentre Erfea era lontano per contrastare le forze di Sauron, in tali giorni di terrore e di incertezza, ahimè, spesso dimenticato. Tuttavia, sebbene, egli fosse distante e notizie non gli pervenissero da Edhellond, un’ombra non tardò ad invadergli il cuore, costringendolo a ritornare repentinamente nella città elfica, lì ove i suoi timori si rivelarono esatti. Appena giunto nel cortile del palazzo, senza badare al proprio cavallo o alle armi preziose che costui portava, egli si diresse a grandi passi verso la dimora di Elwen. Ivi la trovò che ricamava e gli parve che le fiamme del camino ridessero crudelmente, come se avessero una vita propria “Tale è il pensiero degli Eldar, dunque, che essi non si preoccupano neppure di ricevere i propri consorti? Una fitta ombra mi ha gelato il cuore e tuttavia vedo bene quali altri cuori il freddo abbia imprigionato nella sua fredda morsa”. Fu solo allora che Elwen alzò il fiero capo, non già per scusarsi, ma per deriderlo apertamente: “Salve a te capitano dei Numenoreani! Dici bene quando affermi che il mio cuore è diventato gelido. Ma guarda! Forse che tale freddo non è figlio di una tua degenza? Di una colpa mai confessata? Palese ti sia ora, Erfea, quanto dolore il tuo atto insulso abbia scatenato: freddo nel mio e nel tuo cuore. Non nutrire sterili speranze, che non vi sarà primavera dei mortali in grado di riscaldarle”. Tale fu la derisione e la sorpresa che sulle prime, nulla Erfea trovò da ribattere; ma fattosi forza rispose: “Colei che accusa un uomo senza prove è una stolta o un’ingenua, e quale delle due tu sia io non saprei dire. Tuttavia ben mi avvedo quanto oculatamente tu abbia nascosto il mandante di tali accuse; ché la sua voce ora ascolto, e non già la tua eco”. Così dicendo, grande fu la furia che lo invase, e tutti i servi della casa si coprirono le orecchie con le mani, tanta era la potenza della voce. Tuttavia Elwen non batté ciglio, limitandosi a restituirgli l’anello della stirpe degli Hyarrostar, l’emblema della casata di Erfea, accompagnando il gesto freddo con ancor più fredde parole: “Questa non è più la tua dimora, dunque allontanati in fretta!” Incollerito, ma impotente, Erfea rimase in silenzio, livido per la collera, ché qualunque azione avesse compiuto non gli avrebbe portato alcun giovamento in quel delicato frangente; allora, coperto il viso con il cappuccio del suo lungo mantello, egli si apprestò ad abbandonare quel luogo.

Era dunque sul punto di sellare la sua splendida cavalcatura, quand’ecco che una delle dame di Elwen, a nome Finduilas, gli si accostò turbata in viso, come se una grande paura covasse in lei. Ma Erfea la tranquillizzò con dolci parole e poi le domandò se avesse nuove da consegnarli; dinanzi a tale domanda, l’elfa non più in grado di nascondere il suo disappunto e la sua preoccupazione, facendosi forza gli rispose tremante: “Mio signore, questa mattina, sire Morwin si è recato da dama Elwen. Non ho potuto ascoltare la loro conversazione, ma vi assicuro che questo non è stato il loro unico incontro e io temo per la vostra incolumità; avrei dovuto mandarvi un messaggero, tuttavia non conoscevo la meta del vostro peregrinare. Perdonatemi per quanto dirò, ma negli ultimi tempi il comportamento di dama Elwen è insolito”.

Erfea Morluin sorrise lievemente: “Sì, Finduilas, non sembra esservi una spiegazione apparente, tuttavia ti prego di proteggere questa casa e le persone che in essa dimorano fino al mio ritorno. Sappi che in verità gravi sono gli avvenimenti di recente accaduti, e ben poco possono gli uomini, se non esercitare un controllo continuo, a costo della loro stessa vita e di quanto hanno più caro”.

Tali furono le parole pronunciate da Erfea, e più elfo di Edhellond lo vide per molto tempo, mentre Finduilas serbò nel suo cuore le ultime parole pronunciate da Erfea prima della sua partenza, e mai vi fece cenno con la sua signora.

Elwen, tuttavia, non di rado rivolgeva il proprio pensiero all’errante, sebbene fosse sorpresa da tale comportamento, ché ella ancora amava Morwin, e solo in seguito si sarebbe pentita del suo gesto. Sette lunghi anni trascorsero dalla dipartita del Dunadan e molte notizie giunsero dal mondo esterno, tutte funeste. Sovente gli elfi si imbarcavano sulle navi ancorate nel porto di Edhellond, e più non vi facevano ritorno, abbandonando la Terra di Mezzo ed i suoi problemi, ché un nuovo potere si era levato, simile ad un manto oscuro, e da levante invadeva Endor.

Draghi si risvegliavano nel Nord, orchi ed altre empie creature accorrevano numerose sotto lo stendardo di Sauron, ché egli riteneva fosse giunto il momento del confronto con i propri nemici; allora nove cavalieri giunsero da terre obliate e si accinsero a condurre in battaglia il potere dell’anello e del suo padrone. Oscure erano le loro stirpi ed obliati i loro nomi, ché raramente essi rivolgevano parola ad altri che non fosse Sauron in persona; ma nei canti sopravvissuti a quella oscura epoca, molto si parla degli Ulairi, o schiavi dell’Anello, e dei loro molteplici e terribili poteri.

Immense e spaventose erano le arti magiche esercitate dai Nazgul, ché traevano la loro forza da quella dell’Oscuro Signore; l’anello posto al suo nero artiglio, muoveva infatti tutti i loro passi ed essi erano i suoi più fidi luogotenenti, nonché gli schiavi di gran lunga più potenti.

Grandi re e negromanti erano stati gli Spettri dell’Anello nella loro esistenza terrena ormai obliata, ed eterna la fama che si erano guadagnati in seguito alle loro guerre condotte contro gli elfi o i popoli mortali. Si narra che fossero nove, come nove erano gli anelli che il loro signore aveva diffuso tra gli uomini; ché l’intento di Sauron era quello di distruggere la stirpe dei secondogeniti, assoggettandola al suo volere, essendo codesta la più malleabile e influenzabile tra tutte. Fra i Nazgul, massimo era il loro sire, noto con il nome di Signore degli Stregoni o Capitano Nero; tale era la sua forza e la sua perfidia, che sovente Sauron gli affidava missioni delicate e complesse. Numenoreano il Nazgul era stato in vita e ora arma mortale nelle terribili grinfie di Sauron, ché egli era profondo conoscitore delle umane debolezze. Da tempo non guidava le truppe di Mordor nelle terre dei Popoli Liberi, e ciò accadeva a causa del timore che Sauron nutriva nei confronti di Galadriel, massima guardiana tra gli Eldar. Tuttavia, sebbene la Dama fosse potente, sovente ella era costretta ad allontanarsi dal bianco porto, lasciandolo così sguarnito, ché molti erano i popoli bisognosi della sua sapienza. Approfittando allora della latitanza di Galadriel, e di Erfea Morluin, anch’egli noto a Sauron, e da questi massimamente temuto, ché lungimirante e nel pieno delle forze, l’Oscuro Signore ordinò al Capitano Nero di marciare contro Edhellond. Lesta fu dunque l’azione bellica, ché Sauron proprio sulla sorpresa puntava, ritenendo che nessun nemico sarebbe stato così possente da resistere ad un attacco condotto dal Signore degli Stregoni in persona. E invero amara sarebbe stata la sorte del bianco porto, se Erfea non avesse fatto la sua ricomparsa nell’ora più buia che la città avesse mai affrontato nel corso della sua millenaria esistenza. Il capitano dei Numenoreani, giunto innanzi al cancello affrontò a singolare tenzone il suo mortale avversario, non temendo il suo lungo braccio, né la subdola magia: rapido, e tuttavia crudele, fu il duello, a tal punto che non fu mai dimenticato da coloro che vi assistettero, ed Erfea, seppur mortale, riuscì nella sua impresa, costringendo il perfido capitano degli spettri dell’anello a fuggire a Mordor, essendo questi stato privato della sua forma mortale.

Tuttavia, sebbene grande fosse il successo che Erfea ottenne da tale impresa, e gli orchi fuggissero lontani in preda al terrore, il primo tra i Nazgul non fu distrutto, ché la forza dell’Unico Anello era in lui e lo sosteneva; non era ancora giunta l’ora in cui una fanciulla del Nord[1] gli avrebbe dato la morte, perforando il diabolico incantesimo che lo sosteneva, permettendogli di rigenerare il suo corpo con il solo pensiero. Tale fu dunque il trionfo che Erfea riportò, che molti elfi si riunirono festanti, onorandolo per quanto aveva fatto, lui che pure era un mortale e non della loro stirpe. Finanche Elwen la mezzelfa accettò di riceverlo a palazzo, essendo Morwin in quella epoca lontano ed ella reggente della città; grande fu il suo stupore nel rivederlo e, tuttavia, bene seppe mascherarlo: “Prendi questa mantella che ho intessuto con le mie ancelle, ché grandi saranno le imprese che dovrai affrontare e spesso il volere degli dei non ti sarà favorevole, e freddo e gelo incontrerai; allora utile ti sarà il nostro presente, signore dei Numenoreani. Di rado si vedono degli stranieri indossare i nostri abiti, tuttavia è un dono, il mio, pari al tuo valore”.

Sebbene grande fosse la sua ira, ché mai l’aveva obliata, tuttavia Erfea restò impassibile, come il falco nella tempesta del nord. “È possibile che difficoltoso sia il mio cammino e invero numerosi sono stati i nemici che ho finora affrontato. Tuttavia, pur curioso mi sembra che la signora degli Eldar si preoccupi del mio agire, lei che in passato rinunciò alla primavera e al suo dolce tepore. Strano invero – concluse – è tale dono: ben poco servirà, temo, se la mano che l’ha tessuto nelle lunghe notti d’inverno è ancora gelida come il cuore che la tiene in vita”. Tale fu dunque la conclusione della discussione, essendo Erfea stanco per il grande duellare e desideroso non già di liti o rimproveri, bensì di riposo, ché numerose preoccupazioni gli gravavano l’animo.

Improvvisamente però il cuore di Elwen si scosse, e qualcosa in lei cambiò e per sempre, mutando il suo carattere, ma non il suo futuro, ché invero era stato già deciso il suo destino e mai più ella avrebbe conosciuto la mestizia della vecchiaia, essendo ora Eldar, come lo sposo a cui era legata: calde lacrime, allora, le scivolarono via dagli occhi grigi e parole non riuscì a pronunciare, tanto forte era la sua disperazione.

Erfea, tuttavia, che pure le stava innanzi, osservando il suo strano comportamento, parole non trovò per consolarla e andò via con lo sguardo chino, chiudendo lentamente la porta dietro di sé. Cupo fu il suo pensiero e consiglio non portò la notte tempestosa. La mattina seguente, svegliatosi all’alba, Erfea si diresse con passo incerto, ché contrastanti erano in lui i pensieri, verso il bianco cancello, con la speranza che il sole gli rivelasse quella risposta che da tempo cercava. Splendente gli parve il maestoso spettacolo dell’aurora, che tingeva le mura e le torri di una luce tenue, nascosta dalla fitta nebbia.

Nessuna creatura era sveglia, ché il creato era ancora immerso in una profonda veglia; tuttavia non trascorse molto tempo che il giovane Dunadan avvertisse la sensazione di non essere più solo. Infine, desideroso di scoprire quali sembianze si muovessero nell’ombra, scorse, tra le brume che il sole andava allontanando, una esile figura, immobile come il primo raggio di luna in una notte senza nubi. Per lunghissimi attimi, nessuna delle due figure accennò a muoversi, cercando invano di sondare la mente altrui. Infine, cedendo alla stanchezza di quella lunga attesa, la seconda figura si mosse, leggera foglia nell’autunno incipiente: “Possente invero è la mente dei mortali, capitano dei Numenoreani, se immutato ne esci da tale sfida, mossa da una signora degli Eldar”.

“Così è, infatti, Elwen; tuttavia stupito sono dinanzi alla tua affermazione, essendo tu per metà della mia stessa stirpe: hai dunque rinunciato alla tua mortalità?” le chiese Erfea, certo della risposta.

“Invero, mio signore, diversi sono ora i nostri destini, ché sono destinata al bianco mare e alle immortali terre che al di là di esso si ergono, fanali nel vasto oceano”.

Impetuoso, il vento soffiava in quella ora, ed entrambi si mossero, camminando lungo il viale che dal castello conduceva al tempestoso mare: “Qual è dunque il motivo per cui tu ora giungi innanzi a me? È forse un altro inganno ordito dalla tua mente distorta?”.

“Mio signore, animo gelido può avere mente distorta, è vero, eppure ora solo mi avvedo di quanto abbia errato senza alcuna giustificazione. Riuscirai ad obliare le mie dure parole? Non voglio più essere la bianca signora degli Eldar, ma la sposa del mare, ruggente sul mio triste viso” concluse distogliendo il suo malinconico sguardo dal bel viso di Erfea.

“Dure parole furono invero e mai vi sarà una scusa degna di tal nome per porre rimedio ad esse. Sanguinanti sono ora i nostri cuori, e il fosco oceano rigetta coloro che tradiscono la parola data. Tuttavia, ora entrambi siamo stati esiliati, io dall’amata Numenor, lontana nell’occidente profumato, e tu da Valinor la Beata. Invero dura è l’esistenza degli esuli e mai Vala potrà ricondurre i nostri spiriti al primigenio desiderio; eppure guarda! Luminosi siano ora i tuoi grigi occhi e tali rimangano per sempre!”
Ed Elwen, che ritta innanzi a lui, ne aveva ascoltato le parole, spinse lo sguardo oltre il velo malinconico di una pioggia benedetta. E meraviglia! Ogni cosa le parve di nuova luce avvolta e più la sua mente vagabondò per sentieri lastricati dal dolore. Eppure, sebbene una possente felicità le inondasse il cuore, sicché le parve primavera anche il freddo inverno, tuttavia parole non trovò, ché non le pareva più possibile parlare e ignorava con quale lingua potesse esprimere il suo sentimento: muta, dunque, come una stella cadente sull’orizzonte, ella si rifugiò tra le braccia di Erfea, e il vento dell’ovest scompigliò i suoi lunghi capelli; allora il sole sorse sul mondo illuminando le creature errabonde, insegnando un linguaggio nuovo ad Elwen, liberandola dalle sue pesanti catene. Allegra trascorse dunque la giornata, tale che parve simile alla primavera di Arda, sebbene l’inverno fosse ormai alle porte, gravando sui destini degli uomini e degli elfi. Lieti trascorsero i giorni successivi, e mai i loro cuori furono turbati dalle oscurità del mondo esterno, ché chiare splendevano ora le stelle sulle forti torri di Edhellond.

[CONTINUA]

Note

[1] Eowyn di Rohan: camuffatasi da uomo per recarsi alla battaglia in difesa di Gondor, ella uccise il Signore degli Stregoni, realizzando in tal modo le parole che Elwen aveva profetizzato ad Erfea e Glorfindel durante l’assedio di Osgiliath (Osgiliath cadrà? Scontro finale).

I dubbi di una scelta difficile: Elwen, Morwin ed Erfea

Come promesso nel mio ultimo articolo…e arrivò il Marinaio! Corto Maltese, Aldarion ed Erfea sulla genesi di quello che è stato il primo racconto del mio romanzo, introduco in questo articolo la versione «Beta» di Elwen, ricostruendo la sua infanzia e adolescenza e motivando le ragioni che la condussero a compiere una difficile scelta fra Morwin, sire di Edhellond, una piccola città elfica posta in quella regione che, centinaia di anni più tardi, sarebbe poi divenuta parte del regno di Gondor, e un Numenoreano dal passato oscuro e misterioso, giunto dal Grande Mare della Terra di Mezzo alle sue coste in circostanze drammatiche…Erfea Morluin.

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«Sul finire della Seconda Era grande era divenuto il potere dei Numenoreani, stanziatisi lungo la costa Sud-Est della terra di mezzo. Ivi avevano fondato numerose roccaforti e fortezze, tra le quali Pelargir e Umbar, sotto le quali prosperavano e si diffondevano sempre più, seguendo i corsi dei fiumi e le coste frastagliate di Endor, spinti però dalla cupidigia e non già dal desiderio di allietare le misere condizioni di vita dei mortali che abitavano in quelle terre. Simile ad un colosso dai piedi d’argilla, così la potenza Numenoreana iniziava a frantumarsi sotto i colpi della sua stessa arroganza e crudeltà, ché Sauron, il discepolo di Morgoth, aveva già impiantato con ferocia i suoi lunghi artigli nell’isola dell’Ovest. Ben pochi furono i Numenoreani che si sottrassero a tale corruzione, e questi furono a lungo perseguitati da sovrani avvizziti o vuoti, più simili a fantasmi che non a creature mortali. L’ultimo di questi re fu Ar-Pharazon il dorato, colui che nella sua follia immaginò di invadere la dimora degli dei, Aman, lungi nell’occidente: notevole fu il suo seguito e numerosi i capitani che si posero sotto il suo vessillo. Non tutti però lo seguirono, ché vi erano ancora molti spiriti liberi che si aggiravano nella terra di mezzo, esiliati per aver disobbedito al re, e dunque a Sauron. Fra questi massimo era Erfea Morluin, il capitano, e famose e molteplici le sue avventure, che lo condussero ad esplorare pressoché tutta Endor. Infatti, sebbene poche siano le canzoni e le storie sopravvissute alla caduta, quel poco che è rimasto, è fonte di grande meraviglia e stupore. Ché Erfea Morluin non solo era un capitano valente, un signore tra gli uomini, ma nei suoi occhi grigi come la spuma marina splendeva ancora la luce degli Eldar, che tanto tempo prima avevano istruito il suo popolo.

Erfea da tempo viaggiava nella terra di mezzo, capitano di molte navi [1], al servizio di Tar-Palantir l’ultimo sovrano che aveva tentato di riconciliare elfi e uomini. In seguito, tuttavia, il Numenoreano aveva lasciato il suo incarico, con grande sgomento e ira del suo signore Ar-Pharazon, che aveva in animo il desiderio di servirsene per guidare un massiccio attacco contro i popoli che ancora gli resistevano, fossero essi elfi o mortali; ché grande era la sua ingordigia e la sua ambizione, e spesso egli si definiva signore del mondo intero. Furente per il rifiuto del suo miglior capitano, il sovrano di Numenor diede disposizione che Erfea Morluin fosse esiliato fino alla fine dei suoi giorni dalla terra del Dono: “Ché ingrato davvero si è dimostrato – disse ai suoi consiglieri – quando gli fu offerto il comando”. “Si è venduto al nemico – aggiunse rivolto al popolo, che sgomento per la notizia attendeva un responso ufficiale – il vostro capitano è un traditore e bene ho agito, condannandolo all’oblio eterno”. Sebbene la maggior parte del popolo accettasse senza obiezioni le subdole parole del sovrano, tuttavia il gruppo dei fedeli scosse la testa, presagendo grandi sventure: “ Tale è il nostro destino – fece uno di loro, il cui nome era Elendil, della casa di Andunie, rivolto al figlio primogenito Isildur – per cui avremo bisogno di campioni simili, se vorremmo superare le avversità della nostra epoca”; ma l’altro rispose: “Padre, Erfea è il più forte tra noi, eppure temo che numerose difficoltà gli si presenteranno nel corso del suo lungo esilio. Ché non solo il male tende tranelli sulla strada dei giusti; è facile infatti che anche il cuore venga fatto prigioniero, e quando ciò accade, la vita di un uomo si scinde in due dolori contrastanti”. Stupito lo guardò Elendil, ché Isildur era ancora giovane e mai aveva parlato in modo così saggio; tuttavia non rispose e più parola pronunziò, fissando il sole divenire rosso sangue, presagio di chissà quali sventure.

Ad ogni modo, Erfea Morluin, nulla aveva appreso di quanto era accaduto, ché si trovava lungi dalla sua casa, essendo in corso la stagione della navigazione. Sebbene dunque nessuna nuova fosse trapelata al comandante di Numenor, alcuni marinai, gente infida e gelosa degli altrui successi, ne erano stati informati precedentemente, ché anteriore al viaggio era il desiderio di Ar-Pharazon di eliminare quello che considerava il suo più acerrimo nemico. Obbedendo dunque agli ordini degli emissari reali, tali marinai avevano sabotato la nave, simulando un incidente: non di rado, infatti, nelle acque che percorrevano si verificavano incidenti di ogni sorta, dovuti all’arroganza degli uomini, nonché a misteriose creature serve di Sauron. Tale sarebbe stata dunque la fine di Erfea, e il popolo l’avrebbe di certo interpretata come un segno del volere divino, obliando dalla propria mente il ricordo del capitano, se Erfea non fosse stato salvato da un generoso delfino, riuscendo a raggiungere terra. “In quale regione mi trovi, non saprei dire; tuttavia se il volere di Osse protegge il mio cammino, e se egli ha voluto che mi salvassi da morte certa, devo dunque credere che questa terra sia abitata da un popolo pacifico e industrioso”. Il suo presentimento, come avrebbero testimoniato le abitazioni situate di là della riva, era giusto, ché egli era giunto nella regione dove sorgeva Edhellond, il bianco porto elfico. Molteplici sono i canti che parlano del suo argenteo cancello, delle mura intarsiate di marmo bianco e rosato. Ivi avevano dimora alcuni di quei priminati, che al principio della prima era avevano abbandonato le terre Imperiture: fra loro vi erano Galadriel e Celeborn, che spesso si soffermavano in quelle aule per lunghi periodi. Tuttavia il signore dei porti non era né l’una, né l’altro, ma un Noldor membro della famiglia di Fingolfin, il quale aveva osato sfidare Melkor nella sua fortezza di Angband, perdendo poi la vita a causa delle ferite da questi inflittegli. Le storie narrano che il nome di tale principe era Morwin[2], e di lui si dice che fosse simile al suo avo Feanor, per ingegno e per aspetto: pregevoli infatti erano le sue opere artistiche e si narra che, con la stessa forza con la quale batteva il ferro rovente nella sua fucina, abbattesse i campioni di Sauron o dei suoi servitori. Tuttavia grande era anche il suo orgoglio e la sua possanza; ché egli, seppur a torto, credeva di dover vendicare l’avo da lungi scomparso, per potersi ergere simile a lui, come un eroe tra i capitani: ma codardo era il suo cuore e torbidi i sentimenti che da esso scaturivano, soprattutto verso la stirpe dei mortali, da lui ritenuti causa di ogni male. Morwin, infatti, era solito ripetere agli altri della sua famiglia quanto fosse dannosa la stirpe dei secondogeniti: “Forse che nessuno di voi non ricorda la strage della Nirnaeth Arnoediad [3], in cui i nostri avi perirono a causa del tradimento di quella indegna specie? Forse che adesso Fingon non sarebbe qui, se la guerra fosse stata condotta solo da noi Eldar?” Simili pensieri egli diffondeva, e mai l’odio per i mortali scemò, ma simile ad una terribile peste, si allargò e ne consumò l’animo, fino a renderlo impotente davanti al male, che in quel tempo si alzò in numerose contrade. In quella medesima città, molti erano i figli degli Eldar e alto il loro lignaggio, tale che poche erano le unioni con membri di stirpe diversa dalla loro. Vi fu tuttavia un uomo, marinaio di Pelargir, che invaghitosi di un elfa di quella contrada, la rapì e con lei concepì una figlia; la piccola fu chiamata Elwen, perché sembrava che nei suoi occhi si specchiassero tutte le luci del creato: “Sacra ad Elbereth sarà questa nostra figlia – fece notare la madre rivolta a quanti le stavano vicino – ma un’ombra le aduggia il capo, ché tuttavia la sua parte mortale ne risentirà quando il momento della scelta verrà, inevitabile e terribile”. Gravi furono le sue parole, e ancor più triste fu il suo destino, ché mai profezia si rivelò così veritiera. Qualche tempo dopo, la giovane Elwen ritornò in quella che era stata la città della madre: e grande davvero le parve, abituata come era alle abitazioni dei Numenoreani, di sicuro ben più modeste. Una sera, però, rossa in volto, e con gli occhi illuminati da una luce, quale mai si era vista in quelle contrade, Elwen si presentò alla madre: “Sono angosciata da un dubbio; mi chiedo infatti se per me sia salutare frequentare la compagnia dei nobili Eldar. Troppo piccola, infatti, mi pare la loro reggia maestosa, ché le vaste distese del mare il mio cuore ambisce”. Scura in volto divenne la madre, che le rispose in tali termini: “Figlia, invero possente è la stirpe degli Eldar e grande il suo potere. Tu però porti nelle vene il sangue di tuo padre, mortale come i pastori che sulle colline conducono i loro armenti, sebbene di diversa stirpe”. E così le raccontò la sua origine, la morte del padre e quanto sapeva sul popolo dei Numenoreani. Allora grande si fece in Elwen il desiderio del mare, delle sue candide spume e triste rivolse lo sguardo al porto dorato, quasi che le fosse possibile, al di là del muro d’acqua, intravedere le verdi coste di Numenor e oltre i confini mortali, la beata Aman.  La madre, pur notando la malinconia impressa sul volto della figlia, parole non aggiunse; ma da quel giorno ben poco si fece vedere, convinta che il tempo della sua partenza fosse giunto: “Il mare attende anche me” era solita sussurrare nelle lunghe ore della notte, quando allontanato da sé il sonno, trascorreva la veglia mormorando dolci nenie, immersa in malinconici pensieri. E infine giunse l’ora in cui ella si allontanò e mai più fu vista da occhi mortali.

Tutto questo accadeva qualche tempo prima dell’arrivo di Erfea, e mai in Elwen si estinse il desiderio del bianco mare, nemmeno quando i tempi mutarono e le coste furono stravolte da immensi terremoti.

Tuttavia, in un primo momento, tale desiderio fu soffocato dal suo cuore, ché non riteneva fosse giunto il momento di allontanarsi dalle città di Endor, e molte erano le bellezze che ancora non conosceva; inoltre ambiva alla potenza degli avi di sua madre, sembrandole la massima vetta del potere. Tali erano dunque i suoi pensieri quando in quelle contrade il nome di Erfea Morluin iniziò a diffondersi, facendo germogliare nel suo animo una fanciullesca curiosità. Non era egli forse un uomo del mare proveniente dalle gloriose città di Elenna? Grande invero era la sua curiosità, ma ancora più profondo in lei era radicato il desiderio della gloria, e un mortale, seppur Numenoreano, ben poca cosa le pareva rispetto ai visi gravi e saggi degli Eldar di Edhellond. E sì maestoso le sembrava il portamento di Morwin, sire del suo popolo; e spesso trascorreva le sere dialogando o passeggiando con lui lungo gli antichi giardini della sua reggia. Lo stesso Morwin, che pure non era avvezzo alla compagnia di stirpi che fossero, anche in parte, differenti dalla sua, iniziò a trarre piacere da quelle visite; dapprima in modo lieve, e poi sempre in maniera crescente, il suo cuore si volse ad Elwen, senza tuttavia mai rivelarle alcunché dei suoi propositi. Nulla la mezzelfa presagiva dei suoi intenti, ché ancora erano latenti in lei le facoltà del popolo paterno, essendo lontana dalla maggior età.

Fu proprio in quel lasso di tempo che Erfea la incontrò e allora il suo triste destino gli fu rivelato, ché invero duro sarebbe stato l’esilio, come Isildur tempo prima aveva previsto. Più maestosa delle donne numenoreane che fin a quel momento aveva frequentato gli parve Elwen: tuttavia, non lasciò trapelare il suo sentimento considerando ancora prematuri i tempi. Fu solo dopo l’incontro con il capitano dei Dunedain, che la stirpe paterna prese il sopravvento su quella materna e in Elwen qualcosa mutò: il suo viso si addolcì e parve ancor più bella agli occhi di coloro che la circondavano; e simultaneamente ebbe il dono della lungimiranza e manifesti le divennero allora i sentimenti di Erfea, nonché quelli di Morwin.

3

Confusione e dubbio allora la invasero, costringendola a ritirarsi nella sua bella dimora, ché non comprendeva quello che le stesse accadendo. Non le pareva possibile, infatti, che un sentimento di tal genere potesse oscurare in lei l’amore per il mare; e grigio divenne il suo volto, nei giorni che seguirono l’incontro con l’uomo dell’Ovest. Nondimeno Erfea era preso dal dubbio, tuttavia essendo maggiore in lui la sapienza e la maturità del suo popolo, ben comprese infine quale fosse lo stato d’animo della fanciulla, sebbene sulle prime fosse esitante nel parlarle, ché non era del tutto certo di prevedere quali effetti avrebbero prodotto in lei le sue dichiarazioni; tuttavia, essendo egli uomo chiaro e saggio, preferì affrontarla direttamente, che già alcuni mesi erano trascorsi e grave nel suo cuore avvertiva il peso di una minaccia: “Mia signora, niente in questi giorni sembra essere sicuro, eppure sarebbe non poca cosa che tu mi rivelassi quello che ti angustia” “Preferiresti una verità amara o una menzogna dolce?” – gli rispose lei, intimorita e al tempo stesso infelice – ché spesso i mortali travisano le parole che dal cuore degli Eldar di rado sfuggono”. “La verità senza dubbio – rispose il Numenoreano dopo alcuni istanti di silenzio – ché per quanto dura possa essere – aggiunse – tuttavia molto tempo avrei dinanzi a me per dimenticarla”. “Sei dunque certo di averne a sufficienza?” replicò lei, profondamente turbata. Allora egli rabbrividì, sebbene l’aria non fosse ancora fredda e le prime stelle sbocciassero in cielo. “Poiché tu vuoi la verità, eccola dunque, orgoglioso capitano dei Numenoreani. Ed ella lo baciò, incurante di essere osservata da Morwin, il quale rabbia e sgomento provò innanzi a quel gesto.

“Piacevole è quindi la risposta, ben più di quanto avessi osato sperare. Tuttavia non è mia consuetudine giudicare prima che i tempi siano maturi, fanciulla elfica” le disse Erfea dopo qualche attimo. “Sii felice del mio consenso, signore – gli fece notare Elwen – ché un’orgogliosa fanciulla tu hai davanti agli occhi e mai ella si chinerà ad altri volere se non il suo. Consentimi dunque, prima di suggellare il nostro amore, di recare visita alle profonde acque di Osse, di giungere all’isola che i Valar donarono alla tua gente”. A quelle parole, forte si risvegliò in Erfea il rimpianto per la terra perduta; e fu con difficoltà che egli le rispose: “Mia signora, grandi invero sono le acque di Osse, ma non altrettanto le menti di coloro che si avventurano in queste acque senza il volere degli dei. Sii dunque paziente e in primavera veleggeremo insieme su una nave d’argento con le vele intessute di ithildin”. Convincente parve ad Elwen la risposta che Erfea le diede e più non fece domande, rivolgendo il proprio pensiero alla primavera che le pareva ancora distante; ben diversa, sarebbe stata, tuttavia la sua reazione, se avesse davvero compreso quello che il capitano temeva di doverle dire. Trascorse alcune settimane, accadde che nuovamente Elwen e Morwin parlassero; da tempo, ormai, i due evitavano qualunque conversazione, ché un velo adombrava i loro visi quando si incontravano e parola no pronunciavano. Quella sera però Morwin si trattenne a lungo e ambigue furono le frasi che le rivolse: “Ti saluto, signora degli Eldar! Ecco il sole che nuovamente si riposa oltre la coltre di nubi – e così dicendo le indicò il tramonto, rosso sullo sfondo dell’orizzonte – “Poiché ben di rado ci incontriamo in questi giorni, devo dunque dedurre che il tuo cuore sia diventato gelido, come la neve sulle alte vette. Tuttavia so bene quanto la prima impressione si dimostri spesso errata; eppure mi è nota la tua nuova passione che ti tinge di rosso il viso, simile al sole che tramonta nel freddo inverno, pur sempre caldo, ma troppo remoto per riscaldare i cuori che errino lontani sulla terra, sempre che essi non lo supplichino con vive preghiere. E anche allora Arien non troverebbe nessuna ragione per dar loro ascolto, ma anzi deriderebbe la loro fragilità, ritenendo giusto concedere la sua calda luce alla luna e non già a misere creature terrestri. Ben m’avvedo quanto il Numenoreano ti abbia stregato al punto tale da obliare antiche promesse” e così dicendo egli fece per andare via, non avendo altro da aggiungere. “Infame davvero è ogni tua dichiarazione, e ora, ecco, la mia stima nei tuoi confronti diminuisce ulteriormente. No! Frena la tua ira, signore, ché io non ti sono debitrice di nessun giuramento. Dì piuttosto che il tuo risentimento nasce da codardia, più che da rabbia legittima”. Dinanzi a quella affermazione, il viso del sire di Edhellond rimase impassibile: “Può essere – replicò in tono neutro – eppure anche tu riterrai che ben più grave della codardia sia l’infamia. Un cuore menzognero è simile ad una pianta rigogliosa che abbia però radici divorate da vermi ciechi e feroci. Sei tu abbastanza saggia da individuare la prole di tali parassiti?” concluse, abbandonandola allo sconforto. Morwin si era a lungo informato sul misterioso uomo, che così repentinamente era apparso all’orizzonte: emissari egli aveva inviato a Pelargir, dove voci crudeli e cuori codardi gli avevano riferito dell’editto emanato da Ar-Pharazon il dorato contro Erfea. Mai avrebbe dovuto ascoltare la voce della menzogna, l’eco di quella di Sauron: perché anche questa era opera sua ed invero difficile ignorarla quando si possiede un animo tormentato, come quello di Morwin. Grave davvero fu il suo errore, ché pure egli sapeva benissimo quanto fosse malvagio e infido Ar-Pharazon, così come era informato sull’attività dei servi di Sauron tra le genti Numenoreane: eppure, malgrado tutto ciò, veritiera gli parve la notizia pervenutagli. “Bene – si disse – tale è dunque il suo destino, ed è un destino di morte, a meno che non ritrovi il senno e si penta. Grave atto è infatti tradire la propria famiglia”: tale era stato l’inganno teso dai servi di Sauron, che il sire di Edhellond aveva creduto Erfea assassino del proprio padre e della propria madre, e dunque punito giustamente con una grave pena; tuttavia egli non aveva il coraggio di affrontarlo, ritenendolo al di sopra delle sue forze, ché bene conosceva le imprese del Dunadan contro le schiere di Mordor. Il sire di Edhellond intensificò dunque la sua opera di persuasione presso Elwen; e la fanciulla, che sulle prime si rifiutava di credere alle sue parole, alla fine ne fu succube, la sua mente fu oscurata e più non splendettero le stelle nei suoi grigi occhi. “Egli è un traditore e un assassino. Non ritieni che la vita di Elwen sia in pericolo con un uomo così malvagio? Non credi più opportuno salvare l’onore della tua stirpe, piuttosto che un uomo già condannato dal fato? Ricorda quanto la casa di tua madre soffrì per il comportamento subdolo degli uomini; ché se è forte è nel tuo animo il desiderio del mare, ancor più splendente è la luce dei due alberi, che si nutrono del tuo luminoso animo”.

Note

[1] In realtà Erfea non era un ammiraglio, ma il comandante della cavalleria di Tar-Palantir; tuttavia, data la penuria di alti ufficiali nella flotta, ché molti fra questi erano stati corrotti da Sauron e dai suoi servi, il sovrano gli aveva delegato anche tale incarico.

[2] Il sangue di Fingon non scorreva però nelle vene di Morwin, ché questi era stato insignito del titolo di principe allorché il sovrano dei Noldor lo aveva accolto nella sua casa ancora in fasce, in seguito ai saccheggi che gli orchi avevano compiuto nella contrada dello Hitlum durante la Seconda Battaglia (Dagor-nuin-Giliath, La battaglia sotto le stelle) combattuta contro le schiere di Morgoth. Al termine della Prima Era, Morwin aveva condotto una numerosa schiera di Eldar a sud, ove essi avevano edificato il porto di Edhellond.

[3] “La Battaglia delle Innumerevoli Lacrime”, la quinta fra le battaglie combattute contro Morgoth: essa si concluse con la sconfitta dei nemici del Vala caduto e con la morte di Fingon, Alto Re dei Noldor, per mano di Gothmogh, Signore dei Balrog e Capitano di Angband; durante tale scontro, gli orientali di Uldor tradirono l’alleanza con Maedhros, figlio di Feanor, e si schierarono con il Nemico.

…e arrivò il Marinaio! Corto Maltese, Aldarion ed Erfea

Continuo in questo articolo il racconto della genesi del «Ciclo del Marinaio» iniziato nel contributo In principio era…Othello, ovvero come nacque il Ciclo del Marinaio. All’indomani dell’abbandono del progetto originario di un racconto psicologico che aveva come tema la gelosia e la distruzione dei rapporti di amore e amicizia fra Gilnar, Elwen e Morwin, mi dedicai, come ho accennato nel precedente articolo, alla poesia, senza più curarmi del legendarium tolkieniano. Qualche anno più tardi, conobbi un personaggio letterario che ebbe un’indubbia influenza sugli sviluppi successivi della genesi del «Ciclo del Marinaio»: si tratta di Corto Maltese, probabilmente uno dei soggetti del fumetto internazionale più noti, creato e disegnato dalla penna del maestro Hugo Pratt. Al di là delle sceneggiature e delle illustrazioni spettacolari, che costituiscono valide ragioni per consigliare la lettura di questa «letteratura disegnata», come ebbe a definirla Umberto Eco, mi colpirono particolarmente alcuni tratti caratteriali di Corto Maltese: la sua malinconica ironia, il suo essere eroe nonostante la sua apparente pigra indolenza, il romantacismo sotteso al rapporto con il gentil sesso e, soprattutto, la lucida consapevolezza di essere il testimone di un passaggio epocale, quello consumato fra la Prima Guerra Mondiale e gli anni Trenta del secolo scorso. Nelle sue storie, infatti, non è raro imbattersi in alcuni personaggi storici realmente esistiti, oppure in altri fittizi che, tuttavia, si fanno interpreti degli sconvolgimenti che il mondo viveva in quegli anni. Un altro aspetto che mi colpì particolarmente del personaggio di Hugo Pratt fu il suo rapporto con le donne: facile agli innamoramenti, spesso nei confronti di fanciulle dal carattere non sempre facile (per usare un eufemismo), o addirittura sue nemiche, Corto Maltese è in realtà legato al ricordo di una ragazza conosciuta durante la sua giovinezza, della quale non sappiamo praticamente nulla, ma la cui presenza aleggia in alcune delle storie più famose di questo marinaio, figlio di un inglese e di una zingara. Un terzo aspetto che mi piacque di questo personaggio, infine, fu la sua capacità di sapersi misurare con culture diverse e di avere amici sparsi in giro per il mondo, dall’Argentina alla Russia, dalla Cina agli Stati Uniti: un pregio non da poco, se si considera la profonda cappa di razzismo che aleggiava nella società occidentale all’inizio del Novecento.

La lettura delle opere di Hugo Pratt mi riportò alla mente uno dei racconti più suggestivi scritti da Tolkien, che definisco personalmente come il più bello tra quelli appartenenti al legendarium tolkieniano: «Aldarion ed Erendis, o la Moglie del Marinaio». La storia di questo racconto si incentra sul rapporto difficile e tormentato tra Aldarion, l’erede al trono di Numenor, ed Erendis, una fanciulla numenoreana. Lo definisco uno dei più belli racconti tolkieniani perché, più di ogni altro, contribuisce ad approfondire quelle dinamiche dei rapporti umani che sono valide in ogni epoca, in ogni mondo, primario o secondario che sia. La storia termina tragicamente, anche se, alla fine del racconto, si coglie un certo rimpianto nelle scelte operate dai protagonisti, che hanno avuto come esito quello di allontanarli reciprocamente.

Aldarion e Corto Maltese sono due personaggi letterari che hanno molto in comune: entrambi amano il mare, esplorare nuove terre e venire a contatto con popoli diversi, e non riescono ad avere una relazione stabile e duratura con la donna che amano, anche se fanno fronte a quest’ultima difficoltà in modo diverso: Aldarion si rifugia nella sua missione esploratrice, mentre Corto Maltese tende a innamorarsi delle donne che incontra nelle sue avventure, perché gli ricordano quella che ama veramente. Entrambi, infine, tendono a fuggire dalle loro responsabilità «pubbliche»: Aldarion si mostra riluttante nell’assumere lo scettro di Numenor, mentre Corto Maltese non vuole essere immischiato nelle questioni politiche del suo tempo (anche se, tuttavia, ha una sua precisa visione del mondo, alla quale si attiene fedelmente).

Questi due personaggi, dunque, mi aiutarono a richiamare alla mente quel progetto, abbozzato alcuni anni prima e poi abbandonato, di una scrittura ambientata nella Terra di Mezzo: non mi sentivo, tuttavia, ancora pronto a scrivere un testo in prosa nello stile di Tolkien, ragion per cui «ripiegai», se così si può dire, su un genere che, in quel momento, mi sembrava più congeniale («semplice» non sarebbe il termine più opportuno), ossia la poesia epica, sulla quale mi sentivo – se non più preparato – quanto meno più ispirato.

Operai però alcuni cambiamenti: in onore di Corto Maltese, che spesso agisce e medita in completa solitudine, decisi di cambiare il nome di Gilnar in quello di Erfea, «spirito solitario» in quenya, mentre il nome precedente ora designava il padre del protagonista. Avendo in mente, inoltre, di andare oltre il triangolo Erfea-Elwen-Morwin, scelsi di spostare le vicende di questi personaggi nella Seconda Era, anziché nella Terza, perché mi sembrava, in questo modo, di avere maggiore spazio per la mia fantasia: a pensarci bene, infatti, la Seconda Era è quella che dura più a lungo tra quelle descritte da Tolkien, tuttavia è anche la meno conosciuta, nonostante al suo interno avvengano eventi decisivi, come la forgiatura degli Anelli o l’ascesa e la distruzione di Numenor. In onore di Aldarion, dunque, anche Erfea diventò un numenoreano di alto lignaggio, un principe lontanamente imparentato con la linea regnante sul trono dell’Isola del Dono; allo stesso modo iniziai ad immaginarlo come un marinaio, intento come Aldarion alla conoscenza del vasto mondo della Terra di Mezzo.

Giunto alla Terra di Mezzo, Erfea finiva collo stringere rapporti di amicizia con un nano, Naug-Thalion, e con un uomo del Nord, di nome Imracar Folcwine: insieme a questi amici, Erfea fondava la «Compagnia Silente», con la quale viveva numerose avventure, dando la caccia ai servi di Sauron. Pur restando di primaria importanza il rapporto con Elwen, cambiava la relazione con Morwin, che da amico ch’era stato nella passata concezione, diveniva estraneo e quindi avversario del numenoreano nel cercare di fare breccia nel cuore della bella mezzelfa. Si perdeva così, definitivamente, quella sottotrama ispirata all’Othello di Shakspeare.

Chiederò in questo caso un atto di affettuosa comprensione ai miei lettori: chi ha scritto questi versi, infatti, era uno scrittore piuttosto acerbo (oltre che molto più giovane di oggi) che provava a cimentarsi con la poesia epica, influenzato dai suoi studi classici e da una grande passione per le poesie del Signore degli Anelli. In modo particolare, ricordo di essere stato letteralmente conquistato dal poema che intona Gimli nell’oscurità di Khazad-Dum. Non avevo mai pubblicato prima d’ora questi versi, e non li avevo mai neppure trascritti al computer: ho dovuto rintracciarli su una vecchia agenda ed è con un sentimento misto di tenerezza e di nostalgia che li trascrivo qui. Riaprendo quelle pagine, tra l’altro, ho «riscoperto» che quello che oggi è chiamato «Racconto del Marinaio e della Mezzelfa», in passato era suddiviso in tanti «lai» (altro termine di ispirazione tolkieniana), del quale il principale era «Il Lai della Perdita», che raccontava l’incontro tra Erfea ed Elwen (il cui nome era erroneamente trascritto come Elwin). Si tratta di un componimento composto da 96 versi e suddiviso in 16 sestine, con rima baciata:

Giovani erano le stelle
e nel cielo si affacciavano sorelle
ammiccando fra loro
splendevano più dell’oro
(5) quand’ecco di gran carriera
giungere il prode Erfea

Veloce il suo passo, alto il portamento
della stirpe di Sauron il tormento
ché ad Occidente dimora aveva
(10) da Numenor tosto giungeva
nella Terra di Mezzo splendente
per ammirare l’antica gente

Poi bussò ad una porta
ed ecco di voce nobile la risposta
(15) «Benvenuto sotto il mio tetto»
e così dicendo gli fu aperto
ma entrando di gran passo
ahimé non fece caso al suo misfatto

Ché il saluto educato volse
(20) a principi e a principesse
volti da lungo conosciuti
gli parevano ormai vetusti
ma ecco, il suo cuore gli ordinò:
«Voltati o presto morirò!»

(25) Di dolci sembianze
una fanciulla aveva innanze
grigi occhi e capigliatura bella
della stirpe elfica la più snella
Elwin era il suo nome santo
(30) l’origine di tutto questo canto

Pareva diamante fra le stelle
quando fra le damigelle
rideva e sovente parlava
e la sua gentil voce intonava
(35) un preziosissimo canto d’amore
che a lui dedicato sarebbe stato grande onore

«Elwin» il giovane sussurrò
ed ella sorpresa lo guardò:
il suo sorriso ne usufruì
(40) ché più bello di quello mai più fiorì
ché Elwin la mezzelfa nome aveva
nella Terra di Mezzo ancora viveva

Ella infine gli si avvicinò
e con voce sicura gli parlò
(45) «Elfo sembrate, ma Dunadan sarete
ché nel profondo del cuore una luce avete.
Siete forse Erfea il valoroso
colui che non teme nemico periglioso?»

«Invero, signora mia
(50) non so se siate una fantasia,
troppo bella mi sembrate
ché perfino Luthien oscurate
Elwin del biancovento vi chiamerò
e al vostro cuore, il mio donerò

(55) Senza sosta danzarono e parlarono
e spesso le mani sfiorarono
ad Erfea sua sposa già pareva
anche se una sola ciocca muoveva
nel cuore del lieto festino
(60) il funesto filo aveva tagliato il destino

Ché nuvole nere apparirono
quando le speranze morirono,
ché sire Morwin, degli elfi il capitano
aveva già chiaro il suo piano
(65) Elwen tosto conquistare
ed Erfea poi allontanare

Con subdole parole l’ingannatore
imbrogliò la mezzelfa per rancore:
egli odiava tutta la progenie dei mortali
(70) ritenendoli responsabili di tutti i mali
A nulla valsero le parole dell’errante
ché Elwen lo abbandonò seduta stante

Erfea era davvero incollerito
ma tornare indietro non gli sarebbe servito
(75) ché già i due si amavano
e all’ombra di un lume mormoravano
fra i due imperava la passione
non riuscì a mutare la cattiva azione

 Così la via scelse dell’esilio
(80) e solo proseguì il suo cammino
l’amore vero nel suo cuore
e nella mente profondo dolore
quando su di lei lo sguardo posò
e poi tosto lo allontanò

(85) Vecchie sono ore le stelle
e fra di loro nemmeno più sorelle
triste e grigio ora il mondo
non gira più giocondo
feste e canti terminati
(90) chissà se saranno mai ripristinati

Ma Erfea è duro a morire
solo lui contro il male può agire
il suo volto triste e scuro
ma il suo cuore non ancora duro
(95) ché di Elwin la splendente
mai porterà un ricordo evanescente.

Nei prossimi due articoli trascriverò la versione «Beta» del «Racconto del Marinaio e della Mezzelfa» (in prosa) nella quale la vicenda di Erfea, Elwen e Morwin, pur ridimensionata all’interno di una cornice generale più ampia di eventi, ove Miriel ha decisamente scalzato Elwen dai panni della più importante protagonista femminile, conserva una sua coerenza interna, quasi come fosse un racconto separato dagli altri, e uno stile di scrittura più acerbo rispetto agli altri racconti (o almeno, questa è la mia impressione, tuttavia aspetto quella dei miei lettori per essere confermato o smentito). In questa versione Erfea mantiene ancora l’appellativo di marinaio, perché investito della carica di Ammiraglio da Tar-Palantir in persona: a differenza del progetto iniziale, tuttavia, il ruolo di Erfea come uomo di mare viene certamente ridimensionato, dal momento che è scritto esplicitamente che fungeva da comandante militare della flotta solamente perché il suo sovrano era a corto di uomini per quell’incarico, poiché la maggior parte degli Ammiragli servivano i nazionalisti numenoreani. In questo racconto, inoltre, si delineano in modo più articolato i destini di Elwen e Morwin, ormai inseriti compiutamente nella continuità del «Ciclo del Marinio»: della prima ne ho parlato in Nei meandri di Tumun-Gabil (parte II), mentre del secondo troverete il tragico e allo stesso tempo glorioso epilogo in Oropher o del cattivo Fato degli Elfi. Sulla figura di Elwen, della quale qualcosa ho già scritto alcuni mesi fa in Elwen la Mezzelfa, posso qui aggiungere che il suo ruolo fu ridimensionato a vantaggio di Miriel quando il personaggio di Erfea maturò rispetto alla sua primigenia concezione: da romantico ed avventuroso principe, senza grandi responsabilità nei confronti del suo mondo, a uomo profondamente politico nel senso classico del termine, vale a dire impegnato nelle «cose pubbliche» di Numenor. Dinanzi a questa evoluzione del personaggio maschile protagonista, ad Elwen spettava un compito diverso: non più quello di compagna dell’eroe, quanto quello di una «felice» deviazione dalla strada principale che Erfea aveva intrapreso a causa della sua educazione elitaria: un’occasione, per quest’ultimo, di riflettere sulla sua condizione di Uomo e mortale senza mescolare ambito privato con quello pubblico, come invece accadeva, inevitabilmente, con Miriel, che agli occhi di Erfea restava sì la fanciulla e poi la donna della quale era innamorato, ma anche la sua principessa e poi regina. Una contraddizione che avrebbe potuto spezzarsi solo nel momento in cui Erfea avesse accettato, a sua volta, di condividere diadema e scettro con Miriel, cosa che, evidentemente, il principe non era disposto a fare (sulle ragioni alla base di questa scelta ci tornerò prossimamente). Lo stesso appellativo di marinaio mi pose in difficoltà: provvedere ad eliminarlo oppure no? Alla fine scelsi di preservarlo, non tanto perché costituiva una sorta di omaggio ad Aldarion e a Corto Maltese, quanto perché le memorie di Erfea, che costituiscono la base letteraria del ciclo di racconti, furono riscoperte all’inizio della Quarta Era, quando i termini Numenor e Numenoreano evocavano il dominio sui mari raggiunto dagli uomini in epoche remote. Fu dunque naturale, per l’uomo che tradusse le memorie di Erfea, utilizzare come titolo della sua opera quello di «Ciclo del Marinaio», perché immediatamente evocativo della potenza raggiunta dagli Uomini dell’Ovest in passato (sulla «scoperta» delle memorie di Erfea tornerò con un articolo ad hoc). Una scelta analoga, in fondo, sarebbe quella di immaginare gli antichi Fenici solo ed esclusivamente nei panni dei mercanti, o gli antichi Vichinghi come pirati e guerrieri…dimenticando che saranno esistiti anche Fenici e Vichinghi pastori oppure contadini. Inoltre, è bene anticipare, lo stesso rapporto di Erfea con il mare cambierà profondamente, come sanno coloro che hanno letto Ritratto di un principe…Allo stesso modo di Aldarion, tuttavia, Erfea non ambisce alle responsabilità del potere regale, seppure all’interno di un contesto e con motivazioni molto diverse da quelle del suo lontano congiunto: anzi, si potrebbe aggiungere – all’interno di un ribaltamento di ruoli dal sapore, per così dire, moderno – che sia Miriel, pur tra mille perplessità e paure, a non sottrarsi alle sue responsabilità politiche, nonostante le sue decisioni in materia possano sembrare discusse e discutibili. Sotto questo punto di vista credo che Erfea rappresenti bene l’uomo moderno, in aperta conflittualità con doveri e responsabilità che gli provengano dalla tradizione, ma che non gli permetterebbero, se ad essi si conformasse, di compiere una serie di scelte difficili, in alcuni casi non condivise apertamente da famigliari e amici. Non mi riferisco, in questo caso, solo ai contrasti esistenti fra lui e Palantir in merito all’opportunità di sposare o meno Miriel, ma anche ai dissidi avuti con il padre (del quale conosciamo ancora poco, ma sul quale torneremo in un prossimo futuro) in merito alle sue scelte, per così dire, «professionali».

Nel secondo e ultimo articolo, invece, tratteggerò un ritratto di Elwen, rimasto incompiuto, che, come potrete constatare leggendolo, si distacca profondamente dallo stile epico e dalle tematiche fin ora presenti nei miei racconti, caratterizzandosi, al contrario, come una narrazione introspettiva, nel quale la mezzelfa riflette sulla sua natura e suoi sentimenti contrastanti verso Erfea e Morwin. Alla fine, dunque, sia pure in un contesto differente da quello concepito inizialmente, non si può non riconoscere che si sia verificata una «chiusura del cerchio»: da un racconto basato sullo svelamento della gelosia a uno nel quale, tuttavia, centrale resta la rielaborazione dei sentimenti e la difficile maturazione della protagonista.