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Storia di Tumun-Gabil (parte I)

Quando ero ancora un ragazzino avevo una grande passione per la paleontologia, in particolare per i dinosauri. Ricordo molto bene che mi divertivo a sorprendere il parentame sciorinando una serie di nomi scientifici di tutti quei dinosauri che colpivano la mia fantasia, dai più grossi ai più piccoli. Crescendo, questa passione si è in parte affievolita, ma non è del tutto scomparsa, anzi: provo sempre un grande piacere, quando il lavoro me lo permette, nel leggere articoli che trattano la scoperta di nuove specie, oppure che approfondiscono le teorie sull’estinzione di questi grandi e sorprendenti animali. Come molti ragazzi della mia generazione, inoltre, sono rimasto profondamente affascinato dal film Jurassic Park: in particolare, ricordo con un misto di stupore e paura i velociraptor (o meglio, la rappresentazione che se ne aveva negli anni Otttanta-Novanta) che mi colpirono per la loro ferocia e intelligenza. Fu così naturale, per me, combinare la mia passione per questi dinosauri con quella per la Terra di Mezzo. Niente paura: non ho trasformato Sauron in John Hammond (che, per chi non lo sapesse, è il miliardario che finanziò l’opera di clonazione dei dinosauri nei romanzi di Crichton e nei film di Spielberg), anche se, tuttavia, lo stesso Sauron si diletteva di quella che, oggi, chiameremmo genetica applicata (a questo proposito, ricordo che durante gli anni del Liceo, anziché scrivere il nome del prof. di biologia e chimica sul mio diario, avevo deciso di soprannominarlo Tevildo, in onore del primo nome che Tolkien aveva scelto per Sauron). Già nella Prima Era, infatti, Sauron aveva partecipato attivamente alla creazione degli Orchi nelle prigioni di Utumno e di Angband, mutando la razza degli elfi a suo piacimento; nella Seconda Era, invece, aveva dato il via all’aggressiva razza degli Orchi di Mordor (Gandalf vi accenna durante il combattimento nella Camera di Mazarbul); infine, nella Terza Era, prima della sua definitiva sconfitta, aveva creato la razza degli Olog-hai, che, a differenza dei normali troll, non temevano la luce del sole e le Cavalcature Alate dei Nazgul, una delle quali fu uccisa da Legolas poco prima che la Compagnia si sciogliesse.

Le Bestie Alate colpirono fin dal principio la fantasia degli appassionati del Signore degli Anelli: in una lettera indirizzata a Tolkien un suo lettore gli chiese se questi esseri, simili a piccoli draghi, non gli fossero stati ispirati dalla visione, in un qualche museo o in un libro sulla fauna preistorica, di una serie di rettili volanti, gli Pterosauri. D’altra parte, la somiglianza non era solo fisica (potete controllare voi stessi su Wikipedia): nella descrizione delle Bestie volanti, infatti, Tolkien accenna in modo enigmatico a un remoto passato della Terra di Mezzo, del quale non si farà poi più cenno, un passato dal quale quelle creature sarebbero giunte fino ai tempi della Guerra dell’Anello, come se si trattasse di una sorta di «fossili viventi».

Era forse una creatura di un mondo scomparso, la cui razza, sopravvisuta in montagne nascoste e fredde sotto la Luna, non si era ancora estinta, covando questi ultimi arcaici esemplari, creati per la malvagità. E l’Oscuro Signore se n’era impadronito, alimentandoli con cibi crudeli, facendoli crescere oltre la misura di ogni altro essere alato; li aveva dati ai suoi servitori da usare come destrieri. (Il Signore degli Anelli, p. 637)

Tolkien negò di essersi ispirato agli pterosauri o ad altri animali analoghi; con molta onestà, tuttavia, dopo aver verificato egli stesso la somiglianza fra le Bestie Volanti e i rettili del passato, ammise che potesse esservi un legame in tal senso.

Questo scambio epistolare, unito alla mia passione per i grandi rettili del passato, mi ha quindi ispirato questa parte della storia in cui Erfea, sollecitato da un racconto che spero i miei lettori, come il principe numenoreano, trovino affascinante, si imbarca in una perigliosa avventura, che lo vedrà fare la conoscenza di nuovi nemici.

Buona lettura!

«Naug Thalion trascorreva molto del suo tempo con Erfea e la loro amicizia fu duratura e profonda; non tutti i signori del popolo di Durin serbavano tuttavia il medesimo atteggiamento nei confronti del secondogenito e molti temevano che costui avrebbe ben presto condotto alla rovina il loro popolo. Non era forse fuggito anni addietro dalla sua patria, portando seco disgrazie e sventure ovunque si recasse? Gli elfi di Edhellond avevano subito l’attacco dei servi dell’Oscuro Signore, mentre sire Morwin e dama Elwen si erano smarriti e di essi nessuno conosceva il destino ultimo. Paura ed invidia presero il cuore di costoro, ed anche questa era opera della maligna influenza di Sauron, ché fra essi vi erano coloro che possedevano gli anelli che il Maia corrotto aveva forgiato secoli addietro nell’Eregion. Voci codarde si levarono nel seno di Khazad-Dum e l’ombra cadde sulle amene sale. Durin IV, tuttavia, cauto e riflessivo, meditava su quanto ascoltava e non lasciava mai trapelare alcuna delle sue intenzioni: accadde dunque che una mattina di Narvinye[1], il concilio del sovrano si riunisse nuovamente per ascoltare le richieste di un messaggero della stirpe di Druin[2], i cui discendenti dimoravano nell’estremo levante, tra i monti Ruurik. A tale consesso prese parte anche Erfea e nessuno osò parlare apertamente contro di lui, né egli degnava di uno sguardo coloro che sapeva denigrarlo e averlo in odio; tale fu però il corso dell’udienza, che le menti di costoro furono impegnate ad elaborare una subdola strategia, il cui fine era eliminare l’inopportuna influenza del Dunadan sulla corte del re. In principio, s’avanzò tra la folla un nano dal portamento fiero, abbigliato tuttavia di laceri vesti e ricoperto dall’infame marchio di violenze ed angherie subite in tempi recenti. La voce non venne però meno all’ambasciatore, né egli mostrava il benché minimo segno di cedimento: con grande curiosità Erfea prese ad osservarlo, ché mai aveva mirato nel corso della sua lunga esistenza un nano della casa di Druin e, sebbene egli non si fosse mai spinto così ad est, pure il suo interesse per quelle contrade sì remote non era scemato negli anni.

Tali furono le parole con le quali il messaggero esordì: “Porgo a Durin IV, erede di Durin I, colui che chiamano il Senza morte, gli omaggi del regno di Ruurik e delle stirpi di Durin il Prode e Bain il Timido! [3] Onore e gloria ai suoi eserciti e ai suoi fabbri! Giungo alla dimora di Khazad-Dum come latore, ahimè, di notizie insolite ed inquietanti!” Il volto di Durin IV, sebbene non rivelasse alcunché dei sentimenti che nutriva nel profondo del proprio cuore, parve illuminarsi all’udire parole così cortesi e ricambiato i saluti, invitò lo straniero a proseguire il suo racconto: “La mia dimora è in Ruurik, la grande catena montuosa posta nell’estremo ponente di Endor: ivi hanno dimora le genti della sesta e settima tribù da innumerevoli generazioni. Nel corso dei secoli, tuttavia, alcuni del popolo di Druin, ancor prima di giungere in codesta terra, abitarono alle pendici di un colle non distante da qui, Tumun-Gabil.” Mormorii si levarono all’udire quel nome, ché esso non era mai stato obliato ed era presagio di antiche e nuove sventure; tuttavia nessuno osò interrompere il messaggero ed egli proseguì nella sua narrazione.

“Al principio di questa era, un nano proveniente dalle Montagne Grigie, scoprì un vulcano quiescente, il cui nome nella lingua degli Eldar è Amon-Lanc[4], al di là del Grande Fiume, che gli elfi chiamano Anduin; il suo nome era Narin, signore dei nani della stirpe di Druin: coraggioso era il suo temperamento ed egli soffriva nel sapere confinati in anguste dimore i nani del suo popolo, desideroso com’era di vederne restaurata l’antica dignità e splendore. Egli si recò allora dal suo sire, Druin il Prode, il quale animato dalle medesime ambizioni del suo vassallo, pianificò il trasferimento del suo popolo nella Valle Deserta, che si estende tutto intorno ad Amon-Lanc; secondo quanto narrano le storie che il mio popolo si tramanda, essi trovarono un prezioso giacimento di laen rosso all’interno della struttura vulcanica e aumentarono in potenza e in numero, fino a costituire l’impero sì agognato da Druin e Narin. Borin, il secondogenito dello scopritore di Amon-Lanc era un grande fabbro, ché aveva appreso conoscenze dagli Eldar del regno dell’Eregion, del quale al nostro popolo non è più giunta notizia da quando l’Oscuro Sire lo distrusse secoli orsono: Borin costruì la prima fucina per lavorare i metalli alla maniera degli elfi[5], nel profondo di Tumun-Gabil ed acquisì notevole fama tra la mia gente. Nel volgere di qualche decennio, tuttavia, le aule di Tumun-Gabil divennero anguste e tra il popolo serpeggiava ribellione e insoddisfazione, ché le ricchezze non erano sufficienti per tutti, né ciascun nano godeva dei medesimi benefici: accadde dunque che Druin e la maggior parte del suo popolo intraprendessero un lungo e periglioso viaggio che avrebbe avuto termine solo nelle calde terre dei Chey[6], ove essi avrebbero edificato nuove e lussuose dimore nei monti Ruurik. Borin, tuttavia rifiutò di seguire il suo sovrano, ché egli ambiva ottenere il dominio sulla corporazione dei fabbri di Tumun-Gabil e le vene di laen rosso non erano ancora esaurite; egli restò dunque, in qualità di signore dei fabbri e trasmise la sua carica a suo figlio Torin e questi ai suoi eredi. Trascorsero numerosi secoli e il male si destò a Nargun[7], sicché i Rukhi[8] si diffusero su tutta la Terra di Mezzo, devastandola a loro piacimento: i nani di Tumun-Gabil, tuttavia, non mostrarono preoccupazioni di sorta per tali eventi, ché non temevano la minaccia di Sauron ed erano distanti dai confini del suo oscuro reame; al termine del trentesimo secolo di questa Era, tuttavia, un elfo della stirpe dei Noldor si presentò alle porte di Aman-Lanc; costui aveva nome Celedhring[9] e si narra fosse stato al seguito di Celebrimbor quando costui accolse Sauron ad Ost-in-Edhil. Quanta veritiera possa essere tale storia, io non saprei dire, ché molto tempo è trascorso da allora: tuttavia non dubito che gli intenti dell’elfo fossero malvagi, ché egli sembrava trarre diletto dal seminare discordia e rancori tra i nani: fu Dworim, erede di Borin, ad accogliere nelle sue sale il servo di Sauron e questi sedusse lui e il suo popolo, allettando i loro spiriti creativi con la promessa di forgiare gemme simili a quelle che un tempo gli elfi ammiravano ad Aman. Dworim si mostrò entusiasta della proposta di Celedhring, ché era maestro indiscusso nell’arte dei metalli e delle gemme, e gli mostrò l’impianto delle fucine. Nel volgere di un secolo i nani, coadiuvati dall’oscura arte dell’elfo corrotto, crearono la Khazad-Khezed, la gemma dei nani; così vivida era la sua superficie che alcuni dicono si potesse leggere attraverso di esse il fine delle azioni di colui che la impugnava nel proprio pugno. Ahimè! Essa non fu fonte di letizia, ché era un opera di Sauron e non una creazione spontanea: ben presto codesta gemma si impadronì delle menti dei signori dei nani, privandole dal libero arbitrio, sicché essi presero a realizzare grandi progetti, il cui fine è stato celato e poi obliato. Ignoro quale sia stata l’oscura arte che abbia permesso tale maleficio, ma essa deve essere stata potente, ché giammai volontà perversa è riuscita a domare ai propri fini il fiero popolo dei nani.” Con l’animo invero preoccupato, Erfea non notò il re ed alcuni tra i signori del suo popolo sfregarsi le mani, né tuttavia in caso contrario avrebbe potuto comprendere il significato di tale gesto, ché il segreto dei sette anelli dei nani è tale che esso viene tramandato di padre in figlio e nessun altro ne viene messo a conoscenza.

“Trascorso circa un secolo, il laen del filone di Tumun-Gabil si esaurì, poiché i fabbri l’avevano utilizzato per edificare strutture ignifughe, la cui finalità non è mai stata rivelata. Celedhring allora fuggì e si recò a Mordor ove rallegrò il suo mentore, assicurandogli di aver ottenuto quanto era nel suo scopo: i nani superstiti fuggirono verso Ruurik e al termine di tale migrazione, nelle silenziose e deserte aule di Tumun-Gabil, rimasero solo sette nani. Tra coloro che per qualche anno ancora si aggiravano nei corridoi e nei passaggi desolati dell’antica cittadella, vi era anche Dworim, consumato dalla pazzia e dalla paura, oserei dire dal terrore di dover condividere la gemma con gli altri compagni; in breve egli mise fine alle loro misere esistenze, restando così l’unico superstite di Amon-Lanc.” Durin IV allora l’interruppe: “Dici che egli fu l’unico a sopravvivere: come è possibile dunque che tu sappia questo?” “Invero, sire, allorché molti degli abitanti dell’antica cittadella fuggirono, si recarono nelle dimore della mia gente, lì ove narrarono tale storia così come l’avete testé ascoltata. I miei sovrani allestirono allora una spedizione, affinché i superstiti di Tumun-Gabil fossero costretti ad abbandonare quelle aule maledette Fui invitato a prendervi parte e con venti compagni mi misi in cammino, ignorando tuttavia quali pericoli avrei incontrato al termine del mio cammino.” Tacque, e per un attimo parve rivivere quegli attimi terribili e si portò le mani innanzi al viso; infine parlò, ma era come se egli si rivolgesse solo a sé stesso: “Giungemmo ad un enorme salone, ormai in rovina e comparso di detriti e polvere; ivi recuperammo le salme degli ultimi sei abitanti della cittadella. Infine…e qui la sua voce si fece simile ad un fioco bisbiglio…morte.”

Un mormorio di orrore si levò dalla folla dei nani presenti, ma tosto il silenzio prese a regnare nuovamente nella sala. Nori, uno tra i compagni più giovani e ardimentosi di Naug-Thalion alfine parlò: “Dove sono dunque i tuoi consanguinei? Quale orribile maleficio si è abbattuto su di loro? Parla dunque!” Lo sguardo vacuo dall’ambasciatore fissò per qualche istante l’intrepido nano, infine colui che era sopravissuto alla tragedia, frugando nelle tasche del proprio mantello, estrasse un oggetto, la cui forma in principio sembrava indistinguibile. Furono chiamati i portatori di luce e presto nella sala fu possibile scorgere quale macabro cimelio mostrasse il nano della stirpe di Druin: un artiglio era, dalla lunghezza di venti pollici circa e di colore bruno ramato: la maggior parte dei presenti scosse la testa, in preda a dubbi e sconforto; tosto tuttavia Erfea si levò dal proprio scranno e si avvicinò al nano; stupito costui lo osservò, ché non aveva mai veduto prima d’ora un Dunadan e l’isola di Elenna rappresentava per lui solo una remota leggenda: tosto allora si ritrasse, temendo che un grande male fosse caduto su di lui e che costui fosse un servo del Nemico. “Non temere Narin, figlio di Borlin! Costui è un uomo proveniente dal lontano occidente ed è un profondo conoscitore di Endor e delle sue creature. Si narra infatti che a Numenor vi siano parchi ove sia possibile osservare animali esotici, provenienti finanche dalle Terre dell’Aurora[10]. Non è forse così, Erfea?” “Sì – rispose il Dunadan – ed io stesso ho appreso il nome di strani e feroci animali che abitano tuttora nell’estremo meridione di Arda.”

Soppesò l’artiglio nella sua possente mano destra, lo accostò ai suoi occhi, infine parlò: “Non ho mai veduto nulla di simile prima d’ora. Non v’è dubbio tuttavia che Narin abbia scorto colui che se ne adornava e sia dunque in grado di descriverlo ai nostri occhi.” “Non v’è molto da dire – rispose quello, rabbuiato in volto – l’oscurità incombeva sulla grotta ed i miei sensi non scorsero alcunché. I miei compagni – e qui iniziò nuovamente a tremare – soccombettero per primi. Io menavo colpi con la mia ascia, quando ad un tratto compresi di aver colpito quell’essere; allora fuggì in luoghi che la mia mente rifiuta di rimembrare ancora. Non so – concluse – non vidi altro.”

Erfea non disse nulla, ma rifletté ancora per qualche istante: infine sguainò la spada, mentre molti nani lo guardavano allibiti e timorosi; egli tuttavia non si curò di loro, ma fissò con crescente inquietudine i bordi di Sulring emettere una luce azzurrina, al principio lieve, infine visibile a tutti coloro che erano con lui. Erfea allora sospirò e abbassata la lama, proclamò a voce alta, affinché ciascuno potesse udire le sue parole, quale fosse il suo pensiero: “Qualunque sia la creatura cui appartiene tale artiglio, essa non è figlia dei Valar, né è stata concepita dal pensiero di Eru Iluvatar.” Adesso non vi era alcun nano nella grande sala il cui sguardo si volgesse ad altri che ad Erfea ed egli proseguì: “Colui che ha trucidato i compagni di Narin è un empio servo di Morgoth, l’oscuro nemico del Mondo.” Durin IV lo fissò per alcuni istanti, non meno sorpreso dei suoi sudditi; tosto tuttavia levò alto il braccio e parlò: “Temo che il Dunadan abbia ragione, ché le lame forgiate dagli elfi si illuminano di luce propria qualora vengono a contatto con i servi del Nemico.” Qualcuno tra i nani osò tuttavia esprimere il suo dissenso apertamente: “Eppure egli è un mortale, non un erede di Feanor. A che pro costui tenta dunque di ingannarci? Gondolin è stata annientata molti secoli fa e ora più non si erge la bianca torre di Turgon. Chi è dunque costui per affermare un simile parere?” Fredda fu la risposta che Erfea gli riservò: “Non mi importa quale sia il tuo pensiero in tale frangente, Gori, figlio di Frain, dal momento che dubito tu abbia la volontà di recarti a Tumun-Gabil.” Tuttavia, anziché dimostrare risentimento per una simile affermazione, il signore dei nani proseguì: “Benissimo. Dica e faccia pure quello che costui crede: temo però che il sovrano si mostrerà meno indulgente nei tuoi confronti di quanto lo sia stato io.” Durin IV allora intervenne e con voce grave ammonì il suo vassallo: “Dimentichi forse quanto ha riferito Naug Thalion sul Dunadan? O la tua conoscenza degli artefatti elfici è venuta meno? Quanto a me ho preso una decisione e mi auguro che troverà il consenso dei presenti. In  caso contrario – concluse con tono minaccioso – non vedo come l’autorità regale possa essere diversamente esercitata.” “Mio signore e voi tutti – disse Naug Thalion – che nessuno di voi dubiti di quanto affermai in passato; costui invero è Erfea, figlio di Gilnar, della stirpe degli Hyarrostar, colui che chiamano il Morluin. Egli ha sconfitto numerosi servi di Sauron e si narrano sul suo conto numerose leggende, molte delle quali a me ignote; tuttavia quanto ho visto e udito è sufficiente perché io possa dichiarare innanzi a voi che non vi è altro uomo a cui affiderei una missione tanto perigliosa, se egli lo vorrà.”

“Mio padre afferma il vero – aggiunse un giovane nano, il cui nome era Groin – nutro piena fiducia in quest’uomo ed egli è stimato da tutta la mia gente.” Grida di sfida si levarono allora dalle guardie del corpo di Gori ed essi sarebbero venute alle mani con i sostenitori di Naug Thalion se Erfea non avesse parlato: “La vostra unica ricompensa, se impugnerete le armi gli uni contro gli altri, sarà il riso crudele di Sauron! Suvvia, acquietatevi, ché è destino dobbiate adoperare altrove le vostre asce. Quanto a me, mi unirò ad una spedizione, qualora essa venga realizzata, ché molto desidero esplorare le antiche sale di Tumun-Gabil.”

Silenzio si fece allora in tutta la sala, ché nessuno ambiva volere esplorare tali luoghi: allora si levò dallo scranno Naug Thalion e parlò con rabbia: “Se nessuno dovesse assicurare la propria ascia al Dunadan, ecco che egli non avrebbe più degno motivo di essere chiamato nano di Khazad-Dum. Io partirò con Erfea, e la mia decisione è irrevocabile.” Molti nani allora mutarono parere e proclamarono di volersi unire ai due esploratori, sebbene molto temessero le ombre di Tumun-Gabil: una spedizione fu in breve tempo apprestata e Durin IV così ne salutò i membri: “Siate cauti, ché un grande male è all’opera nelle antiche aule di Amon-Lanc; non portate veco stoltizia o imprudenza, ma astuzia e coraggio: sebbene Erfea non ne abbisogni, chiunque lo desideri può procurasi l’equipaggiamento presso l’armeria reale.” Sorridevano nell’ombra i signori dei Naugrim ostili ad Erfea ed ad una futura alleanza con gli uomini, convinti che la morte avrebbe accolto tutti quei folli nel suo vuoto abbraccio qualora quelli avessero oltrepassato i cancelli di Tumun-Gabil; tuttavia dissimularono ogni ostilità e salutarono il Dunedan con rispetto: “Possa l’antica stella degli Edain e della casa di Durin rischiarare le tenebre ove giace sepolto un grande segreto!” Erfea, tuttavia, non pronunziò alcuna parola, ma si limitò ad inchinarsi, ché al suo orecchio quelle parole echeggiavano fredde e meschine.

All’alba del giorno successivo, la compagnia si mise in marcia, scendendo lungo i ripidi pendii della valle dei Rivi Tenebrosi, che i nani chiamano Azanulbizar, evitando i boschi che si aprivano sotto di loro, ché i nani temevano gli elfi e non desideravano che questi potessero in qualche modo venire a conoscenza della missione che avevano intrapreso; al tramonto, i membri della compagnia organizzarono il bivacco notturno in un ansa del Grande Fiume e tutto intorno a loro echeggiava il dolce canto dei cigni; lieto divenne allora Erfea e presto la sua voce si levò in un canto quale mai i nani avevano ascoltato fino a quel momento. A lungo essi restarono in silenzio, affascinati dalle parole che costui pronunciava, pur non comprendendone il senso. Terminato il canto, alcuni tra i più giovani applaudirono, trovandolo divertente ed allegro, mentre i più anziani meditavano in silenzio, assorti nel rimembrare l’eco delle ultime parole che dal fiume ancora saliva: infine Naug Thalion parlò: “Ho ascoltato numerosi lai nel corso della mia esistenza, tuttavia non ho mai udito nulla di sì commovente. Alcune strofe mi parvero note, mentre di altre ignoro ogni cosa: non dubito tuttavia che ella sarebbe stata lieta se avesse potuto ascoltare le tue parole.” Erfea non parve prestargli attenzione e da principio non rispose: infine parlò, e fu come se la sua voce giungesse dai flutti dell’Oceano: “Dici il vero affermando questo, dal momento che fu ella a comporre tale canzone anni addietro; aveva appreso molte cantiche dagli Eldar di Lindon e sovente si dilettava nel comporre versi e nel suonare l’arpa; mai suoni più dolci e melodiosi si udiranno in quelle terre, ché Numenor è stata occultata e giace nell’abisso invisibile agli occhi dei mortali.” Sospirò, infine tacque e parola non pronunciò più quella sera. Nei giorni successivi, dopo aver guadato con facilità l’Anduin a nord, lì ove le acque erano più basse, i nani e il Dunadan giunsero ai primi boschi che si estendevano nel Rhovanion, lì ove pochi uomini vivevano e tutto era silenzio; a lungo cercarono il sentiero che conducesse ad Amon-Lanc senza tuttavia averlo trovato, nonostante Erfea fosse abile nell’individuare le tracce dei servi di Sauron; infine, stanchi ed amareggiati, essi si distesero a terra. A lungo giacquero, senza pronunziare parola alcuna; infine Erfea sguainò Sulring, ché nel suo cuore era sorta una grande minaccia. La lama non emetteva bagliori tali da credere che il nemico fosse nelle vicinanze, tuttavia i suoi bordi splendevano fiochi nella penombra della foresta; tosto i nani si ridestarono, avendo scorto la fioca luce azzurra della spada del Dunedan: “Oscuro è il significato di quanto i miei occhi scorgono – notò Gori, un nano della stirpe di Durin – tuttavia non dubito che Erfea sarà in grado di fornire una ragione plausibile.” “Dubito che il Dunadan possa scorgere una traccia in tale foresta, prima che sorga il sole. Grande era la maestria dei fabbri di Gondolin nel forgiare spade e coltelli, tuttavia temo che questi non possano indicarci alcun percorso” disse un altro nano, il cui nome era Furin. “A quale pro ci ha condotti in tale contrada selvaggia? – inveì un terzo – dal momento che non v’è un percorso sicuro, costui dovrebbe avere il buon senso di continuare nell’esplorazione.”

Erfea però non si curava di costoro, ma osservava attentamente un cespuglio di biancospino che cresceva innanzi a lui; i suoi boccioli non si erano ancora dischiusi e pareva straziato da un immenso dolore: allora egli comprese e comandò ai nani di seguirlo in fretta altrove: lievi come elfi percorsero un miglio, inoltrandosi nella foresta ombrosa, mentre all’esterno il sole calava all’orizzonte. Infine si fermarono nei pressi di una fonte, alla quale si abbeverano avidamente. Naug Thalion fu il primo a pronunciare parola: “Mai avevo veduto un simile terrore sul volto di un uomo, Erfea Morluin! Cosa è accaduto in codesto luogo per turbarti ed indurti ad abbandonarlo sì repentinamente?” “Un grande male è all’opera qui – rispose Erfea, scuro in volto – né sono gli orchi o le belve della foresta che io temo; vi era piuttosto un’aria infetta, la quale ha reso informe e putrescente molte piante ivi cresciute.” Rabbrividì e in seguito non volle pronunciare altre parole, raccomandandosi tuttavia di vegliare a turno quella notte. La mattina seguente, Groin si accostò ad Erfea svegliandolo: “Vi è una creatura mai vista in questi boschi, Dunadan!” Erfea annuì e fu condotto dal suo compagno su un angusto sentiero, smarrito tra i possenti tronchi di querce: una serie di impronte ne marchiavano il percorso, invisibili a chi non avesse disposto di sufficiente luce per distinguerle. Entrambi gli esploratori discussero brevemente su quale comportamento sarebbe stato opportuno adottare, eppure Erfea era in preda a grandi dubbi e in balia di oscuri ricordi, ché non era la prima volta che il suo sguardo si posava su tracce simili: ciascuna di esse era lunga quanto due palmi o forse più, e all’estremità superiore si dipanava in tre sezioni minori, impresse nel limo da altrettanti artigli. Groin tuttavia comprese lo smarrimento di Erfea e ne chiese il motivo: questi tuttavia era reticente a parlare, ché tali tracce gli rimembravano la fortezza degli Ulairi posta nell’estremo Harad. Infine parlò, seppure a malincuore, ché nel suo cuore albergavano paura e nausea; cinereo divenne allora il volto di Groin ed egli non volle domandare altro: tosto allora fecero ritorno all’accampamento, ove discussero con gli altri su quanto avevano visto ed elaborarono una strategia. Erfea si sarebbe presentato innanzi al cancello di Amon-Lanc, dichiarando di essere un numenoreano nero, servo del Re Stregone, e l’anello che un tempo cingeva il dito di Adrahil e che era andato smarrito durante il combattimento, avrebbe costituito una prova valida per le sue argomentazioni. Due fra i nani avrebbero dovuto ricoprire il ruolo di prigionieri, destinati al signore del Maniero, la cui identità era fino a quel momento ignota a tutti: Naug Thalion e Groin si offrirono volontari, mentre i rimanenti compagni avrebbero atteso in quella valle per sette giorni e sette notti; qualora il Dunadan e i due signori dei nani non avessero fatto ritorno, essi avrebbero dovuto immediatamente fare ritorno a Khazad-Dum ove la notizia sarebbe stata comunicata a Durin IV».

[continua]

Note

[1] “Gennaio” nella favella degli Elfi Grigi

[2] Padre della settima casa dei nani.

[3] Padre della sesta casa dei nani.

[4] Tumun-Gabil era la traduzione nella lingua khuzdul del nome elfico Amon-Lanc, Colle del silenzio.

[5] Non è chiaro a cosa alludesse il messaggero, utilizzando tale espressione: è plausibile, tuttavia, che essa indicasse le “Fucine a freddo”, ove avvenivano la lavorazione delle leghe del galvorn, e dell’ithildin. Poco o punto è stato tramandato sul funzionamento di tali forge, ché esse scomparvero dopo che Ost-In-Edhil fu rasa al suolo e Khazad-Dum abbandonata dai nani in fuga dal Balrog, un demone dei Tempi Remoti servo di Morgoth.

[6] I Chey erano una confederazione di tribù stanziate nell’Endor centrale, ad est del Khand: bellicose e supersitiziose, adoravano i demoni della natura e gli spiriti degli antenati. Nel corso del secondo millennio della Seconda Era, furono assoggettati da Sauron attraverso l’influenza che Ren il Folle, l’ottavo in potenza fra i Nazgul, esercitò su di loro.

[7] “Mordor” nella favella dei Khazad.

[8] “Orchi”nella favella dei Khazad

[9] Celedhring nacque nella città di Gondolin centotrenta anni prima che fosse saccheggiata dalle armate di Morgoth; in seguito a tale evento, attraversò il Beleriand e giunse stremato nei pressi delle Montagne Azzurre, ove fu soccorso dai Moriquendi che ivi abitavano dai tempi remoti. Al termine della Prima Era, in preda a grande terrore per gli sconvolgimenti che seguirono la caduta di Morgoth, fuggì e di lui si perse ogni traccia per lunghi anni; tuttavia, allorché il regno dell’Eregion fu fondato, egli ritornò nell’Eriador ed ebbe la custodia delle chiavi delle aule di Ost-In-Edhil, chè era stato fabbro a Gondolin e la sua conoscenza era onorata dagli Eldar di quella contrada. Lunghi secoli trascorse Celedhring nell’Eregion, prestando scarsa attenzione alle voci che narravano del ritorno dell’Ombra ad est, ché se grande era in lui la conoscenza delle antiche arti, non meno possente era la superbia e l’invidia ed egli avversava Galadriel, ritenendola indegna del comando; sovente sobillava Celebrimbor contro di lei, fallendo tuttavia nel suo scopo, ché il figlio di Curufin l’amava teneramente, né Celedrhing era dotato di volontà sufficiente per costringerlo a mutare parere. Annatar, il Signore dei Doni, si avvide di tale sentimento e lo mutò in rancore, trovando nel Custode delle Chiavi un valido alleato per raggiungere il suo fine; al termine di numerosi colloqui, Annatar persuase Celebrimbor a proclamare decaduta la signoria di Galadriel e Celeborn sull’Eregion ed essi abbandonarono la città. Negli anni seguenti Celedhring collabrorò con Annatar e Celembrimbor alla forgiatura dei Nove e dei Sette; allorché il Signore dei Doni abbandonò la città per recarsi a Mordor, Celedrhing lo seguì e ne divenne fedele discepolo: al termine della Seconda Era non esisteva in Mordor un fabbro più abile dell’orgoglioso Noldor all’infuori di Sauron stesso ed egli aveva assunto il titolo di Custode delle Forge; durante la guerra contro Gondor progettò l’enorme trabucco con cui gli eserciti del suo signore  abbatterono il cancello di Minas Ithil. In seguito, durante l’assedio a Barad-Dur, Celedhring forgiò alcune delle numerose macchine che provocarono numerose vittime nelle schiere dell’alleanza: allorché le armate dei servi di Sauron furono disperse, tuttavia, egli fu trucidato da Glorfindel e il suo spirito si allontanò dalla Terra di Mezzo.

[10] Le Terre dell’Aurora si estendono ad est di Endor; scarsamente abitate e povere di metalli e gemme preziose, furono esplorate dai Numenoreani nel corso della Seconda Era, sebbene costoro non vi avessero mai edificato insediamenti, ché una scura ombra le aduggiava ed essi ne erano impauriti: in seguito alla Caduta di Numenor, più nessun secondogenito di Endor si è recato in tali contrade e di esse si è perduto il ricordo.

Erfea dinanzi alle porte di Khazad-Dum

Continuo in questo articolo la narrazione della storia iniziata in quello intitolato «Storia di una grande amicizia». Erfea, accompagnato dai suoi nuovi amici nani, è invitato da questi a visitare l’antica città di Khazad-Dum situata all’interno delle Montagne Nebbiose. Dopo un lungo viaggio, all’interno del quale avviene un evento che stravolgerà per sempre migliaia di vita, compresa quella di Erfea, il gruppo giunge sino ai Cancelli Occidentali di Moria. Come se la caverà Erfea, alle prese con l’enigma della porta, che, molti secoli più tardi, metterà in difficoltà la Compagnia dell’Anello? Buona lettura!

«La mattina seguente, abbandonata la Locanda del Cacciatore alle prime luci dell’alba, Erfea si allontanò da Brea, seguendo la compagnia di nani, ché questi lo avevano invitato a visitare le sale dei loro padri all’interno dei Monti Nebbiosi e grande era il desiderio del Dunedan di mirare le dimore che la stirpe di Durin I, che il popolo chiamava il Senza Morte, aveva reclamato per la sua gente: le vaste aule di Khazad-Dum si estendevano da occidente a ponente, dalla sorgente del Sirannon alle cascate dei Rivi Tenebrosi.

Poche miglia avevano percorso i compagni, allorché il mondo fu mutato, ché Manwe Sulimo revocò il suo volere dal mondo e Eru Iluvatar scagliò nell’Abisso l’isola di Numenor con i suoi forzieri traboccanti di gioielli. Come è narrato altrove, nessuno, ad eccezione di coloro che veneravano gli Ainu o di coloro che erano fuggiti altrove anzitempo, fu salvato dal cataclisma e lo stesso Sauron, il cui potere vantava essere superiore a quello di Manwe, fu scagliato nel profondo dell’Oceano. Un greve silenzio cadde sui nebbiosi colli degli Emyl Gortayd [1], disturbato solo dal profondo eco di una collera impetuosa; pochi sono i racconti sopravvissuti alla caduta di Numenor, eppure nessuno scritto potrebbe rendere lo sbigottimento e l’angoscia che presero gli esseri della Terra di Mezzo: finanche le feroci belve delle remote giungle del sud si rintanarono nelle loro tane inaccessibili, desiderose di sfuggire la violenza della collera di Eru Iluvatar. È stato detto che perfino i servi di Sauron, acquietati nelle tetre fortificazioni di Mordor abbiano volto lo sguardo l’un l’altro, in preda a grande paura e sgomento; finanche i servi degli Anelli, gli Ulairi, la cui perfidia e malizia erano note presso tutte le genti della Terra di Mezzo, paventarono che fosse giunta sulle ali della tempesta la collera dei signori del Vespro, ed ebbero tema del giudizio dei Vala, fuggendo in luoghi oscuri e privi di speranza.

Una Tenebra senza nome ricoprì l’intero creato, né gli astri del cielo furono visibili, finanche agli acuti sguardi degli Eldar, finché essa non scomparve; grave divenne allora il peso del dolore sui cuori degli orgogliosi numenoreani ed essi compresero alfine quanto la follia del loro signore avesse condotto i loro destini alla follia: eppure, nessuno di loro scampò al giusto castigo, ché trovarono la morte ad attenderli in qualunque pertugio essi si rifugiassero per sfuggire l’ira di Iluvatar. Turbati in volto, i nani esitarono e più non proseguirono, osservando sgomenti quanto accadeva intorno a loro: tetre divennero allora le loro espressioni ed essi non parlavano né osavano respirare, temendo di disturbare la collera del possente Iluvatar. Presto tuttavia gli uccelli presero nuovamente a cantare nelle fronde delle selve e l’aria non fu più satura dell’ira dell’Uno; allora essi sospirarono e volsero il proprio sguardo al Dunadan: egli sedeva su una roccia che il tempo aveva reso simile ad un enorme scranno, e, silente, non pronunciava parola. Perso e vuoto era il suo sguardo, eppure lacrime amare non turbavano il suo viso, ché sebbene fosse grande il suo dolore, nel suo cuore Numenor era svanita anni prima ed essa non era più la sua terra.

Trascorsi alcuni istanti in profonda meditazione, egli si levò dallo scranno, e lasciato cadere il prezioso elmo, rivolse le labbra ad occaso, pronunciando tristi parole di commiato: “Miriel, Tye-mela[2]”; sebbene i nani avessero ascoltato ogni parola, solo Naug Thalion comprese quale doloroso significato esse esprimessero e chinò lo sguardo a terra, colmo di dolore. Lungo tempo trascorse in doloroso silenzio, infine Erfea parlò nuovamente, ché egli aveva compreso quanto era accaduto e non temeva doverlo rivelare ai suoi compagni: “Una nuova era del mondo è prossima ad iniziare, ché Endor è mutata e più sarà visibile Aman agli occhi dei mortali.” Stupefatti allora i nani gli strinsero attorno, ponendogli numerose domande, ma il Dunedan non seppe placare tutti i loro dubbi “ché – si giustificò – non è il mio animo la fonte che ispira tali parole” ed altro non volle aggiungere.

Costernati, allora i nani proseguirono lunga l’antica strada che collegava le miniere di Belegost e di Nogrod con la fortezza di Khazad-Dum. Lunghe miglia essi percorsero, con passo lento ed esitante, ché grande era nei loro cuori lo smarrimento e il dolore per quanto accaduto: sovente, durante le veglie notturne, Erfea cantava antichi poemi della sua gente o appresi dai bardi dei Noldor, ed i suoi compagni, affascinati dalla sua voce melodiosa e profonda, gli si stringevano attorno, obliando per qualche tempo le fatiche che attanagliavano i loro animi e gravavano sui loro capi.

All’imbrunire del ventesimo giorno dacché Numenor era caduta, i viaggiatori giunsero in vista dei primi contrafforti delle Montagne Nebbiose: “Ivi si ergono le mura ed i cancelli di Khazad-dum” – indicò Naug Thalion ad Erfea che, silente, osservava le pallide vette montuose, sfiorate dal riverbero dell’ultimo sole – “Nelle profondità degli anfratti rocciosi in seno ai monti che gli elfi chiamano Caradhras, Celebdil e Fainudolh, sono situate le dimore dei figli di Durin” concluse l’anziano nano.

Salirono lungo la strada che conduceva al cancello, ed Erfea notò che vi erano grandi e maestose siepi di agrifogli posti su entrambi i lati del sentiero; tuttavia, non ne fu stupito, ché fin dagli albori del regno dell’Eregion, gli elfi solevano adornare le loro terre con simili alberi. Dopo aver percorso quattro miglia, i nani si fermarono dinanzi ad una nuda parete di roccia: stupefatto, Erfea si approssimò ad un suo compagno, chiedendo il perché di tal gesto. Quello, per nulla turbato o meravigliato gli sorrise: “Dunadan, pochi elfi e ancor meno uomini sono penetrati nei nostri domini fin dall’inizio del Tempo. Non crucciarti, ché altre meraviglie ti attendono all’interno! Questo è il cancello di Khazad-Dum, che voi chiamate Nanosterro: esso non è visibile a chiunque e i suoi portali non sono edificati solo sulla nuda roccia.”

Incuriosito dal significato delle parole appena udite, Erfea scrutò la nuda roccia: non un solo ciuffo d’erba ricopriva il pendio, né l’umile lichene ne sfiorava la superficie, ché nero e lucido il granito si ergeva maestoso. Improvvisa si levò Ithil da un banco di nubi e meraviglia! La parete rocciosa fu ornata da sottili disegni e da rune incantate: grande fu lo stupore del Dunadan, ché comprese quale abilità avessero raggiunto i nani nella loro arte; ma quelli, osservando l’inchino che egli rivolgeva loro presero a ridere e a battergli pacche sulla schiena: “Grande è la cortesia dei figli degli Edain, ed ecco, essa onora i figli di Durin! Tuttavia riserva la tua ammirazione per altri manufatti forgiati dai nani, ché su queste porte sono impresse conoscenze ben più antiche della nostra arte. Un tempo i Noldor si stabilirono nell’Eregion e fondarono un reame: ivi molti del nostro popolo si recarono desiderosi di apprendere le antiche arti della parola che si diceva gli elfi avessero tramandato fin dagli albori dei giorni remoti, sconosciuti al sole e alla luna; Telchar, un rinomato artista, strinse amicizia con sire Celembrimbor, erede di Feanor ed insieme escogitarono l’artifizio che apre il cancello.” Naug Thalion rise per qualche momento, infine continuò: “Neppure Sauron in persona riuscì ad apprendere il segreto che si cela in queste rune.” Con attenzione Erfea le esaminò, infine lesse ad alta voce: “Ennyn Durin Aran Moria: pedo mellon a minno. Im Narvi hain echant: Celebrimbor o Eregion teithant i thiw hin. Le porte di durin, signore di Moria. Dite, amici, ed entrate. Io Narvi le feci. Celembrimbor dell’Eregion tracciò questi segni.” Rifletté per alcuni istanti, infine facendo scivolare dolcemente le proprie dita sulla lucida superficie della roccia, pronunciò un’unica parola: “Mellon!” Allibiti rimasero i nani e tra essi vi fu chi balzò in piedi per lo stupore, mentre Naug Thalion, palesemente compiaciuto, si inchinò dinanzi all’uomo: “Non credere Erfea, figlio di Gilnar, di aver superato in possanza le Oscuri Arti del Nemico! Grande è stata la tua intuizione e pochi fra i mortali possono vantarsi di avere una mente sì lungimirante: tuttavia, tale iscrizione è solitamente occultata e segrete sono le parole che ne evocano i caratteri.” Lieto in volto Erfea ricambiò l’inchino, infine rise: “Non desidero emulare le azioni dell’Oscuro Signore, ché esse conducono ad un fine che rifiutai tempo fa. Tuttavia, non sono sorpreso per quanto accaduto, ché il concetto di amicizia è quanto più distante possa esservi dall’ambizione che il Nemico nutre nel suo distorto animo.” Allora i nani lo acclamarono e gli diedero il nome di Khevialath, che nella loro lingua vuol dire il lungimirante: due guardie accolsero i viaggiatori, osservando con palese stupore l’alto mortale, ché da tempo un discendente degli Edain non varcava l’ingresso di Moria. Erfea attraversò lunghi corridoi, illuminati da lampade azzurrine, la cui luce emanava da cristalli purissimi, i cui nomi oggi sono stati obliati finanche tra i discendenti dei Naugrim. Vaste sale scolpite si aprivano a volte innanzi alla compagnia ed Erfea, pur non vedendo alcuno, ebbe tuttavia la sensazione che il suo arrivo non fosse passato inosservato: infine, dopo aver percorso molte miglia, i nani si fermarono innanzi ad una porta intarsiata di mithril e acciaio. Un pallido sole si era levato ad oriente del mondo e le sue affusolate dita illuminavano archi e soffitti la cui altezza era incommensurabile; a lungo Erfea attese, infine domandò a Naug Thalion quale evento o creatura stessero attendendo dinanzi a tale portale: l’anziano nano gli sorrise: “Non temere Dunadan! Il Re è stato avvertito del tuo arrivo e presto sarai ricevuto innanzi a lui. Vi è un motivo valido per cui ti chiedo di essere paziente. Sii fiducioso del mio giudizio, e più non domandare.” Ancora non si erano spenti gli ultimi echi di tali parole, che il sole si levò in tutta la sua possanza. Allora Erfea tacque e sul suo viso si dipinsero meraviglia e stupore, ché non vi erano parole nella sua lingua o in quella di qualunque altra creatura per descrivere la magnificenza della visione che gli si offriva: grandi specchi convessi, della cui esistenza non avrebbe mai sospettato, gli apparvero in tutta la loro eleganza e grazia, rimandando i raggi di sole che entravano da un pozzo di luce che si apriva nella volta della sala. Abbagliato da tanta luminosità, per un istante Erfea dovette distogliere lo sguardo, soffermandosi sulle alte colonne, il cui  motivo a guisa d’ascia si ripeteva su qualunque superficie della sala; presto, tuttavia, egli fu distratto dalle sue meditazioni, perché una grande folla di nani gli si fece incontro: il Dunadan osservò che fra essi vi erano molti bambini e ne fu invero sorpreso, ché ben pochi sono quelli tra i nani che prendono moglie, dal momento che essi dedicano gran parte della loro lunghe vite al lavoro nelle forge e nelle miniere, trovando in essi diletto e godimento. Scorgendolo sì stupito, Borin, un nano della casa di Naug Thalion, così gli si rivolse: “Ahimè Dunadan, ben m’avvedo quanto il tuo stupore sia grande! Non ti nascondo che simili ai tuoi sarebbero i sentimenti di ciascuno di noi, ché altrove i nani languiscono o si riducono di numero, eppure forte sono le aule di Khazad-Dum e l’ingordigia non ha ancora rovinato i nostri cuori. Forse avrai udito più di un mio compagno vantare una forza superiore a quella di qualunque creatura, eppure sappi che essa non è sufficiente a placare il desiderio di oro e di altri nobili metalli, quando esso si risveglia nel nostro cuore! Le genti di Nogrod e Belegost abbandonarono le loro fortezze secoli fa e da molte vita di uomini dimorano nelle nostre magioni, tuttavia il loro numero decresce ancora oggi e non sappiamo il perché. Fortunati gli uomini – concluse il nano sospirando – ché altrove ricercano i loro tesori e non permettono che le loro esistenze si smarriscano nella cerca di informi metalli e pallide gemme”. Tristemente Erfea gli rispose: “Eppure così non è: infatti finanche i possenti uomini di Numenor sono diventati schiavi delle proprie ambizioni, inseguendo oltre ogni limite la fiamma delle Terre Imperiture, concludendo miseramente le proprie esistenze. Un’ambizione distorta è simile ad una gemma poliedrica, la quale disorienti l’artista che la possegga: in essa infatti sono visibili tutti i colori del creato e non è degno di nessuna delle creature mortali ambire i segreti dei Vala. Neppure gli antichi Eldar, sebbene possano ancora percorrere l’antica strada per far ritorno alle proprie dimore natie, sono immuni al dolce veleno dell’ambizione, ed essi giungeranno ad Aman per fuggire il turbamento dei sensi. Tempo fa conobbi un’elfa il cui amore per il mare era sì forte nel suo cuore da obliare ogni altro sentimento esso nutrisse; ora ella più non dimora fra noi, ma percorre sentieri ignoti agli altri esseri.” Profondamente colpito dalla saggezza di tale pensiero, il nano si inchinò, accompagnando il tale gesto con siffatte parole: “Invero Erfea, figlio di Gilnar, possiedi uno spirito degno della tua stirpe, ché da molti anni non udivo un discorso sì nobile e consolatorio dalle labbra di un mortale. Molte credenze sono diffuse presso il mio popolo sul destino delle nostre anime, allorché esse si dipartono dal nostro corpo; tuttavia è forse possibile che al termine del nostro percorso mortale, i sentieri che siano stati tracciati in vita si incontrino nuovamente? I nani non posseggono tali risposte.” Erfea gli sorrise: “I fini dei Valar e di Eru non sono stati rivelati ai loro figli, fossero elfi uomini o nani: rimembro che ai nostri padri fu detto di operare nella nostra esistenza terrena e di non stancare le nostre fragili membra alla ricerca affannosa di risposte a tali quesiti, né, tuttavia, di ignorare tali dubbi, ché essi sono alla base del nostro agire; solo in esso troveremo sollievo alle nostre peregrinazioni sui sentieri che la mente e il corpo percorrono.”

“Parole sagge, mortale! Eppure quale senso avrebbe la nostra esistenza, se essa non si aggrappasse con forza alle proprie ambizioni?”

Silenzio si fece in tutta la sala ed Erfea diresse il proprio sguardo a colui che aveva parlato: egli sedeva su un grande trono di porfido rosso, intarsiato da rune di quarzo, il cui potere era invero grande. Anziano era il nano che ora mirava il viso del dunadan, ed imperscrutabili i suoi occhi, ricolmi di infinita tristezza: “In quale altro modo si potrebbe misurare il valore dei mortali se non in base a quanto essi ambiscono? Un desiderio è un tramite per l’immortalità, ché esso perdura oltre la morte e diviene follia o gloria per coloro che ci sopravvivono.”

A lungo lo fissò Erfea e nulla era visibile sul suo viso; infine così parlò: “Mio signore, non è sulle ambizioni che si misurano le qualità dell’uomo, dell’elfo o del nano. Mente stolta e animo crudele possono nutrire infinite aspirazioni, eppure nulla garantisce che esse trovino soddisfazioni. La realtà è la misura di ogni nostra ambizione.”

“La tua, figlia di Numenor, è una risposta astuta e cauta allo stesso tempo”; mentre così discorreva, Erfea notò con quanta delicatezza egli sfiorasse con la mano destra le dita della sinistra, seppure senza comprenderne il motivo[3].

“Suvvia Erfea, figlio di Gilnar! Le tue vicende mi sono note e ti sono grato per aver difeso l’onore e la vita di coloro che appartengono al mio popolo in innumerevoli occasioni. Nulla obliamo, ché non vi è futuro senza passato e il valore di un principe o di un minatore si misura sugli anni che costui ha trascorso in tali lande. Felice e fortunato quel popolo il cui valore affiora fin dalla notte dei tempi, ché quello non bisognerà di altre garanzie per poter prosperare nei giorni futuri.”

“Mendace è tale affermazione, signore di Khazad-Dum, ché ancora una volta hai obliato il tempo presente: ben poco conta il valore degli atti ormai trascorsi o le buone intenzioni che ciascuno dei presenti nutre per il futuro, se ad essi non si accompagna la volontà di incidere nel tempo in cui viviamo. Numenor fu creata dagli Ainu e data in dono alla mia gente, ché essa onorasse l’impegno preso con le genti libere di Endor, eppure molti secoli sono trascorsi da quando i marinai di Elenna giungevano a queste coste in veste di amici e maestri, essendo ora divenuti padroni arroganti e infidi: tuttavia non più tardi di venti giorni, Numenor è sprofondata e l’ambizione di Ar-Pharazon ha ricevuto un premio degno della sua follia. Possente è stata l’ira dei Valar, eppure essi hanno agito con giustizia, ché hanno giudicato gli uomini in base a quanto hanno compiuto in questo tempo. Non ritieni che imprudente e avventata sarebbe stata l’azione di Eru se fossero stati scagliati nell’Abisso anche coloro che si opposero alla turpe azione di Sauron e del re? Eppure essi condividono con i Fedeli il medesimo sangue e lignaggio: non è questo dunque un criterio insufficiente per giudicare i figli di Eru? La fama e la saggezza si acquisiscono negli atti presenti, non sono eredità dei tempi trascorsi.”

Molti mormorii si levarono in tutta la sala, provocati non solo dalla triste notizia che il Dunadan aveva loro annunziato, ma, soprattutto, dalla saggezza delle parole pronunciate da costui.

A lungo Durin IV si accarezzò la folta barba bianca, intrecciata in sette trecce, meditando su quanto aveva appreso; infine parlò nuovamente: “Mai avevo appreso in passato il sapere degli Uomini di questa era. Consideravo le loro stirpi deboli, instabili e arroganti oltre ogni misura, tuttavia lungimiranti sono state le tue parole, sebbene io non abbia compreso tutti gli ignoti sentieri che esse hanno tracciato nel mio animo.” Batté sette volte le mani rapidamente e sette servitori gli si presentarono innanzi: “Desidero che il Dunadan sia ospitato con tutti gli onori – ordinò loro – che gli sia concesso il libero accesso alle meraviglie di Khazad-Dum.” Grida e non già mormorii di stupore si levarono dinanzi a tale richiesta e alcuni tra i più lungimiranti si domandarono nel profondo dei propri animi quale ascendente avrebbe esercitato il Dunadan sulla ferrea volontà del sovrano, in giorni che si prospettavano oscuri e senza speranza. Immaturi erano tuttavia i tempi ed ogni speranza o dubbio fu tosto accantonato; Erfea fu condotto nella propria dimora, ove trascorse il resto della mattinata in preda ad un sonno ristoratore e benefico. Quando si levò dal proprio giaciglio, trovò che tutte le armi e i suoi vestiti erano stati ripuliti dal fango e dall’usura di quei lunghi mesi trascorsi all’addiaccio nelle Terre Selvagge, ove pochi uomini si recano; grato per la gentilezza, tuttavia il suo pensiero più intenso nutrì nel suo cuore verso colei che gli aveva donato un lungo manto finemente intrecciato[4]. Occhi inesperti, forse, si sarebbero soffermati unicamente sulla delicata tessitura e avrebbero ammirato l’effigia dello stemma della casata degli Hyarrostar, un dragone azzurro e nero avvolto da una rosa bianca, apprezzando l’intensità dei colori che ne ricoprivano la superficie; eppure, coloro che avessero avuto sufficiente volontà nell’indagare la sottile trama che ne intrecciava i fili, non avrebbero potuto fare a meno di notare, nel lembo superiore del manto, una piccola e graziosa runa duplice[5], senza tuttavia comprendere il suo significato, noto e caro al cuore di Erfea. A lungo il paladino tenne il manto nel suo poderoso pugno, quasi che il rimpianto e il desiderio potessero essere leniti da quel tocco.

Infine si vestì e uscì dalla propria camera e un’espressione di meraviglia si dipingeva sul suo viso, allorché egli posava il suo sguardo su ogni anfratto, sala o piazza i nani avessero edificato nel corso dei millenni, né essa scemava, ché finanche a Numenor aveva scorto meravigli simili.

Copiose fontanelle, la cui acqua scintillava pura alla luce delle antiche lampade, rallegrarono l’animo del ramingo oppresso dal dolore della perdita, che lieve al principio si era ora accresciuta: ivi il fabbro martellava l’incudine, ivi l’incisore con abili mani decorava un’armatura con rune d’ithildin[6], ivi il cantore accordava l’arpa e il liuto. Le prodigiose forge, la cui fama era nota presso ogni reame di Endor, le formidabili armerie, paragonabili solo a quelle anticamente possedute dagli elfi di Gondolin e i maestosi anfiteatri, immersi nel silenzioso riposo dei monti: tutto questo Erfea vide e il suo cuore fu colmo di letizia; molto egli apprese dai Nani, ed essi non si stancarono di mostrargli le immensurabili opere che il lavoro dei loro padri aveva prodotto, lieti che il loro ospite si mostrasse invero attento e mai scortese. Lieti furono i giorni trascorsi da Erfea nella magione dei Naugrim: numerosi banchetti lo videro gradito ospite, ed i suoi commensali applaudirono ogni qual volta egli levava in alto il calice tempestato di gemme luminose, apprezzandone la saggezza e la lungimiranza; non trascorse molto tempo che il principe degli Hyarrostar iniziò ad assistere ai concili del regno dei nani, fornendo ovunque fosse richiesto il proprio ausilio e sostegno, ché era un uomo dotato di favella accorta e nobile».

Il Ciclo del Marinaio, pp. 197-206

Note

[1] Tale regione collinare, nota anche come la Terra dei Tumuli, si estendeva ad ovest della città di Brea: durante la Prima Era del mondo, numerosi Edain provenienti dall’estremo oriente, avevano eretto numerose costruzioni e fortificazioni sui suoi colli ed ivi avevano riposo i gloriosi corpi dei guerrieri periti durante la Battaglia dell’Ira.

[2] “Miriel, ti amo” nella favella degli Eldar.

[3] Durin III, secondo quanto hanno tramandato i nani, ricevette il primo degli anelli forgiati per il suo popolo direttamente dalle mani dei fabbri di Ost-In-Edhil e non già da Sauron; tuttavia, sebbene è plausibile che tale storia sia vera, finanche tale anello risentiva dalla malvagia influenza dell’Oscuro Signore, ché era stato forgiato per mezzo della sua malefica arte ed obbediva al volere del Maia Caduto. Punto o poco si conosce del destino dei rimanenti sei anelli, anche se vi è stato chi ha detto che essi furono assegnati da agenti di Sauron ai signori del popolo di Durin e non ad altre stirpi, essendo costoro già sotto il dominio di Sauron o troppo distanti dalla sua sfera d’influenza.

[4] Elwen la Mezzelfa

[5] La duplice runa anghertas “E” indica le iniziali di Erfea ed Elwen.

[6] Lega metallica costituita da mithril e alluminio: sovente  adoperata per le incisioni su superfici lucide, si otteneva tramite un processo noto solo presso i Fabbri dell’Eregion e di Khazad-Dum.

Storia di una grande amicizia: Erfea e Naug Thalion

Erfea Morluin, come forse avranno intuito i miei lettori, è un gran viaggiatore, amante di tutte le contrade della Terra di Mezzo, nei confronti della quale prova fin dall’infanzia una grande attrazione. Ci sarà modo (e tempo) per conoscere le vicende della sua fanciullezza e per capire come mai Erfea anelasse alle verdi sponde di Endore: in questo articolo, invece, voglio soffermarmi sulle origini di una lunga amicizia, quella che legò per molti anni un Numenoreano a un Nano. A uno sguardo superficiale, può sembrare strano un simile sodalizio, tuttavia, come ho scritto in precedenza, Erfea era un uomo di mentalità aperta, molto lontano dal razzismo nel quale si riconoscevano la maggior parte dei suoi connazionali. Un razzismo che, come avrete modo di leggere in questo articolo, spesso non si limitava alle parole, ma diveniva pericolosamente aggressivo nei confronti degli «altri». Buona lettura!

«A lungo Erfea esplorò le selvagge contrade di Endor, stringendo alleanza con quanti tra i figli di Eru si opponevano ai voleri di colui che un tempo era stato il luogotenente di Morgoth. Molte stirpi, i cui nomi sono ora obliati, egli conobbe, e grande era la sua gioia allorché il nero artiglio del nemico allentava la sua ferrea presa dalle contrade a lui care: le genti di Endor ne apprezzavano il forte braccio e la mente acuta, ed egli sovente si recava presso le loro dimore, chiedendo ospitalità, ché Ar-Pharazon lo temeva e ne aveva decretato la condanna a morte, qualora fosse stato tratto in catene nei domini numenoreani. Lungo e periglioso fu il peregrinare di Erfea, ché i servi dell’Oscuro Signore non cessavano di seguirne le tracce e vi erano molti esseri oscuri in quei giorni sì lontani; avvenne dunque, che al termine della stagione di Tuile[1], Erfea si recasse nella ridente città di Brea, logorato dagli scontri con i guerrieri di Ar-Pharazon e di Sauron. Siepi ben curate di eriche e rose lo accolsero, mentre egli percorreva a cavallo il viale principale: un esile fumo si levava da una costruzione che si distingueva dalle altre per dimensioni e sfarzo, ché era la Locanda del Cacciatore, un’antica dimora costruita dai primi Numenoreani al tempo del loro arrivo nella Terra di Mezzo. Edificata su tre piani, questa struttura si affacciava sulla strada su ciascuno dei lati, affinché fosse visibile a tutti i viaggiatori e ai forestieri da qualunque luogo fossero giunti: la fama della locanda si era diffusa per molte leghe intorno e sotto il suo tetto elfi, uomini e nani coabitavano, uniti dalla passione allegra per il vino e la birra; eppure, perfino in tale ambiente caloroso, rissa e litigi non erano rari, ché i servi di Sauron erano sempre all’opera e non mancavano di prendere alloggio a Brea, allorché il loro padrone stendeva il suo nero artiglio così a nord. Oltre a queste, tuttavia, altre stirpi, ostili al luogotenente di Morgoth, alloggiavano nella locanda la sera in cui Erfea fece il suo ingresso, occultato agli sguardi dei presenti dalla sua pesante cappa e dal fumo cinerino che si levava dai grandi bracieri. Era prossima la festa di Loende e molti viaggiatori erano giunti da contrade remote per prendervi parte: fra costoro, Erfea riconobbe una famiglia di Naugrim provenienti dal Regno sotterraneo di Khazad-Dum; a lungo il Dunedain ne osservò i lineamenti e i gesti, ché da numerosi anni non mirava gli eredi di Durin ed il suo cuore si rallegrava nello scorgere i copricapi a punta che i nani indossano durante i loro viaggi.

Breve fu tuttavia la sua gioia, ché egli intravide uomini di Numenor farsi avanti, diretti al tavolo ove i nani banchettavano: con sgomento ed ira, il Dunedain comprese essere quelli del Partito del Re, adoratori di Sauron e di ogni sua malvagia opera; i suoi avversari però non lo notarono, ché la loro attenzione era rivolta unicamente ai figli di Aule: “Feccia del mondo, alzatevi da quegli scranni! La vostra vista infastidisce i miei occhi e le vostre insulse voci turbano discorsi che le vostre rachitiche menti non possono certo sperare di comprendere. Ho udito non esservi stirpe più resistente della vostra fra quante dimorano in Endor, tuttavia non credo che la mia lama, forgiata nel fuoco di Armenelos, possa mancare alla prova! Avanti, raba[2], preparati a strisciare sul fango e la lordura del pavimento!” Rise fragorosamente, palesando la sua ubriacatura a quanti erano sbigottiti dalla sua presenza; eppure egli non se ne curò, ma avanzò attorniato da altri due Numenoreani Neri, arroganti e infidi.

Il nano guardò freddamente colui che aveva parlato, né si mossero le sue sopracciglia, bianche come candida neve sulle vette del Funhuidad[3]; infine parlò, e la sua voce profonda echeggiò per tutta la fumosa sala: “E’ consuetudine che lo straniero si presenti prima di lanciare la sua sfida. Qual è il tuo nome, Numenoreano? Suvvia sii celere nel rispondere, ché i manici delle asce dei nani recano incisi i nomi delle loro vittime e ben m’avvedo quanto tu abbia fretta nel porre a termine la tua futile esistenza.”

Forte echeggiò il riso dei Numenoreani nella sala, e colui che gli aveva lanciato la sfida, gli si inchinò ironicamente: “Adrahil, figlio di Gimilkhad è il mio nome, raba, ed è con sommo piacere che lo pronuncio, affinché esso sia scolpito con abilità sulla tua tomba, in onore di colui che ti ha privato di un fardello sì inutile.” “Allora Adrahil, figlio di Gimilkhad, sappi che la tua lingua è sì caustica che potrebbe lavare via la ruggine che adombrasse la mia ascia, qualora essa ne fosse ricoperta.” Lesto allora il nano estrasse la sua arma dalla cintola, seguito in questo dai suoi famigliari; tra i nani, infatti, sia i maschi che le femmine sono addestrati all’uso delle armi.

Per un istante Adrahil sembrò esitare, infine levò in alta la sua spada, mentre i suoi compagni estraevano lunghi pugnali: silenzio era sceso nella sala e nessuno pareva avere l’ardire di intervenire. I nani più anziani si strinsero attorno a coloro che non erano ancora in grado di impugnare l’ascia: rise ancora Adrahil, mentre il suo sguardo cadeva sulle piccole figure che la fioca luce delle lampade illuminava appena. “Lavoreranno bene costoro, quando l’acciaio di Numenor avrà incatenato loro mani e piedi.” Levò il braccio, pronto a vibrare il colpo, allorché un lancinante dolore gli attraversò il fianco, mentre un pugnale gli sibilava accanto; furente si tastò la ferita, imprecando e giurando atroce vendetta contro chiunque avesse osato intromettersi nel suo duello. Un uomo alto si levò dal proprio scranno, mentre la folla, incuriosita, gli si apriva innanzi: “Straniero, chiunque tu sia, pagherai con la morte un simile oltraggio. Adrahil di Numenor non può tollerare che un cencioso mendicante, avvolto in stracci e lordura, possa sfiorare le mie carni con un’arma sì vile.” Lo straniero lo osservò, e nel suo sguardo baluginava l’acciaio: “Numenoreano di Armenelos, non è per viltà che la vita si agita ancora in te. Mandos avrebbe potuto accogliere sdegnato il tuo spirito, se lo avessi voluto, tuttavia non adoro la Morte e non distribuisco i suoi giudizi imparziali quando non sia necessario farlo.” I compagni di Adrahil lo osservarono timorosi e uno fra quelli sussurrò oscure parole di ammonimento all’orecchio del suo capitano; questi tuttavia lo respinse con forza e perso ogni interesse nei confronti degli eredi di Durin, voltò loro le spalle, concentrando la propria attenzione sull’alta figura che si ergeva innanzi a lui: giovane pareva eppure la voce che aveva ascoltato sembrava provenire dall’eco di numerosi anni di solitudine e da grandiose fatiche. Nulla era visibile del suo volto, coperto da una logora cappa, decorata da ricami ora sbiaditi ed illeggibili; il suo sembiante non pareva differente da quello di numerosi profughi che in quei giorni fuggivano dall’Oriente devastato dalla guerra, eppure i suoi occhi grigi come la spuma marina brillavano profondi e severi nella caliginosa fuliggine che adombrava il salone.

A lungo Adrahil sostenne lo sguardo dello straniero, infine stanco ed irritato, così gli si rivolse: “Sembri saggio e risoluto, straniero! Forse sei davvero un grande guerriero o invece solo un mendicante imprudente; temo tuttavia che non abbia alcuna importanza.” Egli fece allora un cenno ai suoi compagni, affinché si lanciassero contro l’uomo, ma questi, con una rapidità sorprendente, aprì il logoro manto, lasciandolo cadere disteso lungo il pavimento; un orribile grido elevarono quelli ed esitarono, profondamente turbati: finanche Adrahil abbassò la sua lama, ché mai aveva veduto un simile uomo prima di allora. Un elmo alato, forgiato nel mithril, adornato da due pennacchi intrecciati nelle bianche penne degli uccelli marini, copriva il suo capo, mentre lunghi capelli neri scendevano fino alle forti spalle, lambendo una preziosa cotta di maglia in galvorn[4], la cui lucentezza era tale da essere rischiarata finanche dalle fioche luci della locanda. Schinieri affusolati e lucidi bracciali ne adornavano gambe e braccia, mentre al suo fianco pendeva una lunga lama, la cui elsa era scolpita nel laen azzurro e intarsiata da ithildin; un ampio mantello di nobile fattura, differente dalla stinta cappa di cui si era fino a quel momento ricoperto gli pendeva sulle spalle: un grazioso fermaglio di fattura elfica lo cingeva all’altezza del sottile collo.

A lungo lo stupore sembrò echeggiare muto nella sala, infine il capitano dei Numenoreani sorrise sprezzante e gli si inchinò beffardo: “Ben m’avvedo di mirare le fattezze di un signore degli elfi. Troppo preziose e possenti sembrano le tue armi, tali che nessun mortale potrebbe procurarsene di simili. Tuttavia, la mia stirpe denigra gli Eldar non meno dei Naugrim! Pagherai con la tua morte la tua stolta intromissione!” Allora cristallino echeggiò il riso dello straniero nel vasto salone: “Elmo forgiato a Minas Laure, cotta di maglia e spada provenienti dall’obliata Gondolin, manto, pegno d’amore della remota Edhellond, schinieri e bracciali donati dalle genti di Belegost e destriero proveniente dalle steppe del Rhovanion. No Adrahil, non sono un signore degli elfi ma un erede dei principi di Numenor.” Estratta la lunga spada, la cui lama baluginava di riflessi azzurri, pronunciò tali parole di sfida, e tutti coloro che gli furono accanto riconobbero la maestà dei Dunedain dell’Ovesturia: “Mira questa lama, figlio di Gimilkhad, ché essa è nota a coloro che servono Ar-Pharazon il Dorato! Sulring, forgiata a Gondolin da Galdor, fabbro del re è il suo nome!” Nuovo timore ed apprensione crebbero nei cuori dei Numenoreani Neri, ché invero possente e determinato pareva l’uomo che si ergeva dinanzi a loro ed essi non osavano avvicinarsi, temendo sopra ogni altra cosa la lucentezza della lama. A lungo essi rimembrano quanto avevano appreso sui Nimruzirim[5], le genti di stirpe adunaica alleate agli elfi ed avversari del re e del suo partito; infine, uno fra questi, il cui nome era Aghabad, si approssimò ad Adrahil e gli sussurrò parole colme di rancore e di timore: grande fu l’ira che avvampò nell’animo del Numenoreano ed egli pregustò il dolce nettare della vittoria: “I miei uomini affermano che il tuo nome, straniero, è invero noto al sovrano di Anadune[6]; ben comprendo ora per quale motivo ti sia immischiato nei nostri affari, ché lungo è il tuo braccio e insolente la tua mente. Fuorilegge ed esiliato da Numenor, è qui ora, innanzi a me, Erfea figlio di Gilnar, che i suoi amici chiamano il Morluin: non è forse questo il tuo nome? Quanto agli affari che hanno condotto i tuoi piedi lontano dagli osceni tuguri degli elfi, non ho motivo di dubitare che siano i medesimi che ti procurarono un tempo grande e meritata infamia! Tale è la tua curiosità, da spingerti finanche nei domini imperiali e da mostrare il tuo volto sì impunemente ai tuoi esecutori mortali.”

Rise il capitano di Numenor, infine pronunciò parole di scherno: “Lunghi giorni hai trascorso ad Edhellond la Bella! Ebbene, la tua testa compirà ora un ultimo viaggio verso il porto elfico, affinché sia di monito per tutti coloro che sostengono scioccamente la tua causa.”.

Inchinatosi rapidamente, così Erfea gli rispose: “Ben m’avvedo che gli schiavi di Ar-Pharazon non abbiano obliato né il mio nome, né il mio sembiante! Tuttavia hanno esitato troppo lungo e non osano levare un colpo contro un uomo solo. Ahimè, Adrahil, avresti trascorso un’esistenza più serena se fossi rimasto seduto accanto al trono dorato del tuo padrone, colmando le sue orecchie di sciocche illazioni e sorseggiando del buon vino.” Tacque un attimo, infine, osservata la lama che il suo avversario stringeva nel suo fragile pugno, lo derise apertamente: “Mai avrei creduto che i fabbri di Armenelos avessero obliato l’antica arte di forgiare spade, tuttavia ben m’avvedo quanto le corrotti arti dell’Oscuro Signore, al quale dedicate sommi sacrifici, non si limitino a sussurrare il veleno nelle orecchie di chi gli ha prestato stoltamente ascolto, ché ben più simile ad una lama di orchi delle caverne è la spada che impugni Adrahil, figlio di Gimilkhad.” Cieca scese allora la furia sugli occhi del Numenoreano Nero ed egli si scagliò contro il suo avversario, pronunciando parole ingiuriose, ma Sulring fu più rapida della sua favella, ché mandò in frantumi la sua spada, troncandogli di netto la mano destra. Gemendo per il dolore e la vergogna, Adrahil cadde in ginocchio, attendendo il colpo di grazia, ma Erfea si limitò a pronunciare simili parole di condanna: “I servi di Sauron temono la morte nelle sue innumerevoli sembianze, ed a esse innalzano pire fumanti di incenso e obelischi di porpora adorni; i popoli liberi non paventano l’ultimo respiro e rispettano le altrui esistenze, quando le proprie non siano minacciate dalla follia di quanti si nutrono della propria arroganza e delle altrui lacrime: va’ ora e non insudiciare il pavimento con il tuo sangue corrotto.” Furente ed inferocito, Adrahil avrebbe affrontato nuovamente il suo avversario, tuttavia venne trattenuto dai suoi uomini che lo trascinarono fuori, ed essi non turbarono più la tranquillità di Brea.

Dipartiti gli sgraditi ospiti, la gente tornò ai propri posti, conscia di quanto i loro occhi erano stati testimoni quel giorno. Profondamente grato, il nano più anziano si inchinò ad Erfea il quale, preso posto su un basso sgabello, puliva la sua lama dall’umore nero che l’aduggiava: “Nessun figlio di Aule hai mai obliato un oltraggio o un favore che gli sia stato arrecato nel corso della sua lunga esistenza. Invero, figlio di Gilnar, il tuo nome è noto alle genti di Khazad-Dum ed esse lo onorano, ché sono innumerevoli i servi di Sauron che hai abbattuto nel corso delle tue peregrinazioni.” Lesto allora si inchinò Erfea e con liete parole si assicurò che nessuno tra i suoi famigliari fosse stato turbato dai Numenoreani Neri, ma il nano lo rincuorò con allegre risate: “Non temere, Erfea Morluin! Invero le parole pronunciate da Adrahil figlio di Gimilkhad sono veritiere, ché forte e leale è la tempra dei nani, ed essi non temono né le fiamme selvagge né il gelo costrittore. Bòr, figlio di Dwarim è il mio nome, signore dei nani di Durin III, e Naug Thalion sono chiamato in lingua sindarin.” Lesti, allora, i suoi famigliari porsero omaggio all’alto Dunedan e mentre questi si inchinava dinanzi a loro profondamente, lo salutarono con grande deferenza, ponendo al suo servizio le proprie famiglie, secondo le consuetudini del popolo di Durin; infine, non appena Erfea ebbe ricambiato la medesima cortesia nei confronti di ognuno di loro, Naug Thalion esortò il Dunedan a seguirlo, ché grandi rivelazioni aveva da comunicargli; giunti in una sala appartata, l’anziano nano emise un profondo sospiro, infine parlò con voce bassa e profonda: “Da tempo desideravo mirare nuovamente le sembianze di Erfea, figlio di Gilnar, ché nel mio cuore non è svanito il ricordo di una notte di Loende di molti anni fa. Un giovane uomo eri allora, Erfea, chiamato adesso il Morluin, ma la tua lungimiranza era tale che pochi fra coloro che sedevano al consiglio dello Scettro esprimevano pareri più arguti dell’erede degli Hyarrostar; una dama di indicibile bellezza sedeva accanto a te, ed entrambi discorrevate piacevolmente, ché letizia era nei vostri occhi ed ella era erede al trono di Numenor: Miriel la Bella era il suo nome, e mai il ricordo delle sue chiome intessute nell’oro svanirà dal mio cuore, ché esso squarcia la tenebra intessuta di paura ed inganni che altrimenti attanaglierebbe il mio animo”.

Stupefatto lo osservò Erfea, mentre il nano discorreva in tal modo e un’ombra parve oscurare il suo animo quando il nome della sua antica e dolce amica fu pronunciato; tuttavia, sorrise, allorché Naug Thalion ebbe terminato il suo racconto: “Tutto quanto hai narrato avveniva molti anni fa; adesso, tuttavia, ti riconosco, figlio di Dwarim! Invero l’oblio questa sera regnava nel mio cuore, se il tuo nome era suonato estraneo alle mie orecchie; eppure molti eventi hanno turbato il mio animo negli ultimi tempi e alcuni fra coloro che un tempo gioivano, ora hanno voce muta. Gli echi delle forge di Mordor disturbano il mio sonno e innumerevoli sono gli eserciti che si accampano nell’oscurità che avvolge le tetre pianure di Mordor.”

A lungo il nano fissò il Dunedan, infine le sue parole risuonarono chiare e decise nella piccola stanza: “Naug Thalion sono chiamato, ché invero la forza del mio braccio in innumerevoli occasioni è stata messa alla prova dalle battaglie tra le nostre schiere e i servi dell’Avversario. Non desidero – concluse bellicoso – non desidero che il laido artiglio di Mordor ricopra di fetore e morte le aule della mia città.” “Eppure, l’ora in cui lo scontro finale avverrà è prossimo e tosto dovremo far fronte all’oscurità dilagante. Sebbene Numenor sia ormai caduta, il seme degli uomini non è ancora avvizzito ed i suoi petali giungeranno dall’Oceano su fragili vascelli in preda all’ira degli dei: allora l’ora del confronto giungerà. Sarà lesta la tua ascia quando gli Spettri dell’Anello giungeranno invadenti?”

“Ben poche sono le verità di cui gli animi dei mortali si nutrono, eppure se il chiaro albeggiare dovesse morire prima della pugna, mai vedrai Naug Thalion e il suo popolo tradire l’antica alleanza stretta tra i Popoli Liberi all’albore dei tempi.” Silenzioso fu stretto in tale circostanza un patto fra i Dunedain e i Khazad[1],  e in virtù di questo, le armate dei nani delle casate di Belegost e Khazad-Dum, combatterono nelle pianure dinanzi a Mordor; tuttavia, poiché altrove vengono narrate le cronache di quei lontani giorni, qui non se ne trova altra traccia».

Note

[1] “Primavera” nella favella degli Elfi Grigi.

[2] “Cane” in adunaico: in origine tale favella era parlata dalla terza delle case degli Edain, ma tosto si diffuse a Numenor, divenendo in seguito la lingua degli “Uomini del Re”, i Numenoreani Neri.

[3] Una delle tre vette delle Montagne Nebbiose sovrastanti gli scavi di Khazad-Dum.

[4] Lega metallica costituita da eog, mithril e titanio.

[5] I “Fedeli” in lingua adunaica.

[6] “Numenor” in lingua adunaica.

[7] I “Nani” in lingua Khuzdul.

Ritratti

In questa giornata nella quale riesco a condividere con Tolkien qualcosa in più rispetto alla passione per la Terra di Mezzo, mi piace mostrare ai miei lettori i bellissimi ritratti di Erfea e Miriel disegnati dallo storico disegnatore di fantasy Angelo Montanini, attualmente insegnante presso l’Istituto Europeo di Design di Milano e già autore di stupende illustrazioni per la casa editrice Stratelibri, specializzata in libri-game e giochi di ruolo ambientati nella Terra di Mezzo, fra i quali GiRSA e Rolemaster.

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Una vittima di fake-news? Balin e la fallita riconquista di Moria

Dal momento che il prossimo racconto del «Ciclo del Marinaio» sarà ambientato a Khazad-Dum, ho pensato di dedicare questo articolo a uno dei nani più importanti della linea di Durin, lo sfortunato Balin, cugino di Thorin Scudodiquercia e primo signore di Moria dopo che i nani fuggirono via dalla loro ancestrale dimora nel 1981 della Terza Era, spaventati dal risveglio del Balrog.

Balin dimostra fin dal principio dello «Hobbit», romanzo nel quale appare per la prima volta, una grande umanità e disponibilità a collaborare con Bilbo: è l’unico nano, infatti, al quale l’hobbit si rivolge senza adoperare la consueta formula di saluto che adotta con gli altri nani (Bilbo Baggins servo vostro). Scioccato dall’apparizione di quegli ospiti non previsti nella sua casa, Bilbo risponde al suo saluto con un semplice «grazie». Balin, tuttavia, non sembra prendersela a male: per avere un’idea di paragone con la reazione di un altro nano, ossia Thorin, considerate che al suo arrivo Bilbo dovette scusarsi «tante di quelle volte che alla fine egli grugnì un «per favore, non importa», e spianò il suo cipiglio» (Lo Hobbit, p. 23).

Al termine della fuga dalle Montagne Nebbiose, Bilbo, che è riuscito a sgaiattolare dinanzi alla guardia di Balin grazie ai poteri dell’Anello, ha modo di chiudere l’imbarazzante scenetta che l’aveva visto protagonista durante il primo incontro con questo nano. «Be’, è la prima volta che perfino un topo mi è passato proprio sotto al naso facendo attenzione e in silenzio, senza che io l’abbia avvistato» disse Balin «e ti faccio tanto di cappello». E così fece. «Balin al vostro servizio» disse. «Baggins, servo vostro» disse Bilbo (Lo Hobbit, p. 113). Anche in questo caso, come si può notare, Balin non reagisce in modo stizzito dinanzi all’abilità dimostrata da Bilbo, anzi ne riconosce in modo sportivo la bravura. In seguito, durante la prigionia nelle segrete di re Thranduil, è Balin, il più anziano della compagnia dopo l’apparente scomparsa di Thorin (che è stato, in realtà, imprigionato dagli elfi prima dei suoi amici) a provare a difendere se stesso e i suoi amici dall’accusa di aver commesso un crimine nel territorio degli elfi silvani: «Ma che cosa abbiamo fatto, o re? […] È forse un crimine perdersi nella foresta, avere fame e sete, essere intrappolati dai ragni? I ragni sono dunque i vostri animali domestici o vostri cari amici, che ucciderli vi fa infuriare?» (Lo Hobbit, p. 198).

Dopo aver con successo ritrovata e aperta la porta segreta sul fianco della Montagna Solitaria, è ancora Balin «che aveva molto simpatia per lo hobbit» (Lo Hobbit, p. 243) a offrirsi, unico fra i suoi compagni, per accompagnare Bilbo all’interno del passaggio segreto che conduceva alla grande sala di Thror, ove dormiva Smaug. Ed è sempre Balin che cerca di confortarlo dopo che Smaug lo aveva quasi ucciso e soprattutto, dopo che aveva instillato nell’animo di Bilbo il dubbio che i Nani lo avessero ingannato riguardo alla spartizione del tesoro (Lo Hobbit, p. 260). Dopo l’attacco di Smaug a Pontelagolungo, è ancora Balin a cercare di aiutare Bilbo, disperso nel buio della Montagna (Lo Hobbit, p. 271). Al termine della Battaglia dei Cinque Eserciti, è Balin che, a nome di tutti i nani superstiti della compagnia di Thorin, saluta Bilbo e gli augura di ritornare da loro per visitare il regno restaurato (Lo Hobbit, p. 328) ed è, ancora, l’unico nano che, accompagnato da Gandalf, torna a fare visita a Bilbo alcuni anni più tardi (Lo Hobbit pp. 341-342).

Nel «Signore degli Anelli» Balin non è più presente fisicamente, ma compare solo nel ricordo dei personaggi che lo conoscevano, primo fra tutti, Gloin, membro della compagnia di Thorin, e poi divenuto ambasciatore del Regno sotto la Montagna, che accenna alla sua figura prima in un colloquio con Frodo, poi, in modo più dettagliato, durante il Concilio di Elrond.

«Son già passati molti anni – disse Gloin – da quando un’ombra inquietante cadde sul nostro popolo. Sulle prime non ci rendemmo conto da dove venisse. Parole incominciarono a sussurrarsi in gran segreto: si disse che eravamo intrappolati in una terra stretta e scomoda, e che nel resto del mondo avremmo trovato maggiore splendore e ricchezza in quantità. Alcuni parlarono di Moria: le imponenti opere dei nostri padri, chiamate nella nostra lingua Khazad-Dum; essi sostennero che ormai eravamo finalmente abbastanza potenti e numerosi per ritornarvi. […] Ma ora se ne parlava di nuovo con nostalgia, eppur con timore, perché nessun Nano ha osato varcare le porte di Khazad-Dum da molti e molti anni. […] Infine, comunque, Balin prestò orecchio ai sussurri e decise di partire; e benché Dain non fosse molto entusiasta di vederli andar via, portò con sé Ori ed Oin e molti dei nostri, e si misero tutti in cammino verso sud. Questo avvenne all’incirca trent’anni fa. Per un certo tempo giunsero notizie che parevan buone: messaggi comunicavano che essi erano entrati a Moria, e avevano messo in opera grandi lavori. Poi vi fu il silenzio, e da allora non abbiamo più ricevuto una sola parola da Moria» (Il Signore degli Anelli, p. 197).

Come si può notare da questa lunga citazione, Tolkien descrive molto bene il meccanismo delle fake-news, anche se immagino non fossero molto diffuse ai suoi tempi: nessuno fra i Nani è in grado di indicare con precisione chi abbia iniziato a diffonderle, eppure non può ignorarne l’esistenza; come ogni fake-news che si rispetti, inoltre, è stata costruita in modo da non apparire palesamente falsa all’interno di uno specifico uditorio; in terzo luogo, si dimostra in grado di spaccare la comunità fra coloro che vi prestano ascolto (Balin & Co.) e quanti mantengono perplessità e riserve, come Dain e lo stesso Gloin. Quanto alla seconda condizione, vorrei sottolineare come una fake-news che avesse sottolineato la liberazione di Moria dal Balrog sarebbe stata troppo grossolana per essere creduta, dal momento che avrebbe suscitato diversi interrogativi, come questi che riporto di seguito: «Quando è stato ucciso?» e soprattutto «Qual è stato l’eroe in grado di misurarsi con un avversario così temibile?» La fake-news, invece, deve dimostrarsi credibile, facendo, allo stesso tempo, leva sull’orgoglio e sull’ambizione di chi l’ascolta: sono i Nani ad essere divenuti troppo numerosi e potenti per restare confinati nella Montagna Solitaria, non è il resto del mondo ad essere cambiato. Balin, nonostante tutta la sua esperienza e saggezza ci casca: probabilmente, si può immaginare che alla base della sua valutazione errata, ci fosse il ricordo dello sfortunato tentativo di Thor, che aveva cercato, inutilmente, di reclamare il trono di Moria, e la necessità di rintracciare alcuni cimeli della casa di Durin, come l’Ascia di Durin I il Senzamorte e l’ultimo anello dei Nani che, erroneamente, credeva fosse stato nascosto in una delle tombe regali di Khazad-Dum, mentre, come sappiamo, era stato estorto da Sauron a Thrain II nelle segrete di Dol-Guldur molti anni prima.

La storia della colonizzazione di Moria da parte di Balin e dei suoi compagni avrebbe meritato un’appendice a parte: è davvero un peccato, a mio parere, che Tolkien non abbia scritto altro su questo valoroso, ma sfortunato tentativo di riacquistare il controllo di Moria da parte dei Nani. Si può ragionevolmente supporre che nel libro di Mazarbul fosse narrata questa vicenda in modo approfondito: giustamente, tuttavia, la Compagnia non poteva dedicarvi il tempo necessario per esaminarlo nella sua integrità, sia perché le sue condizioni materiali erano penose, sia perché mancava il tempo per farlo (anzi, si potrebbe aggiungere che averne lette alcune pagine abbia fatto correre il rischio di portare al fallimento l’intera missione, facendo cadere la Compagnia nell’agguato degli Orchi e del Balrog). Pur non essendo l’argomento principale di questo articolo, mi preme sottolineare un dettaglio che spesso sfugge ai lettori e agli appassionati in genere del «Signore degli Anelli» in merito all’incantesimo che protegge i cancelli occidentali di Moria. Molti fan, infatti, sia sui blog che sulle pagine facebook dedicate alla Terra di Mezzo, si sono chiesti perché Sauron, ai tempi delle guerre contro i Nani e gli Elfi dell’Eregion, non sia riuscito a superare le difese delle porte di Moria, nonostante la possibilità di risolvere, come fece Gandalf, l’enigma intorno alla parola di comando del cancello. Si dimentica, invece, a questo proposito, che le lettere tracciate sulla porta del reame nanico, a differenza di quanto mostrato nella prima opera cinematografica di P. Jackson, non sono «automaticamente» richiamate dalla luce dei raggi della luna e delle stelle, ma dormono sin quando non sentono «il tocco di chi pronunzia parole ormai da tempo obliate nella Terra di Mezzo» (SdA, p. 246), e che Sauron, a differenza di Gandalf, evidentemente non conosceva.

Chiusa questa piccola parantesi, cerchiamo di comprendere quale possa essere stata la storia della colonia: sappiamo, in primo luogo, che Balin fu accompagnato da molti nani. È difficile però stabilire il loro numero: proprio in alcuni paragrafi successivi alla descrizione del libro di Mazarbul, infatti, Tolkien dichiara che Aragorn e Boromir uccisero molti orchi: in realtà, il computo finale delle vittime è di soli 13 caduti, in pratica poco più di un orco ucciso per componente della Compagnia. Una cifra che, almeno apparentemente, ci appare deludente per giustificare l’uso del termine «molti» da parte dell’autore, soprattutto se confrontiamo il brano in questione con la sua rappresentazione cinematografica, ove gli orchi muoiono a decine. Cosa intendeva dire, dunque, Tolkien, quando scriveva che la compagnia di Balin era composta di numerosi nani, destinati a colonizzare almeno una parte del vasto regno nanico? Cinquanta, o ancora di più? Purtroppo è difficile rispondere a questa domanda: Gandalf, leggendo alcune pagine del libro di Mazarbul, annota solo sette morti: Fili, che viene ucciso nel primo scontro con gli Orchi; Balin stesso; Frar, Loni, Noli nella difesa del secondo salone; infine Oin e Ori. Decisamente troppo pochi per fondare una colonia in un territorio così ostile come quello di Moria. Dagli scarni brani recuperati dal libro di Mazarbul, inoltre, veniamo a sapere che i nani di Balin dovevano essere stati in grado di riaprire almeno una parte delle miniere di mithril e che dovevano aver recuperato dai sepolcri reali alcuni cimeli come l’Ascia di Durin. Sembra, inoltre, che i Nani stanziarono un dominio abbastanza circoscritto, occupando stabilmente solo i saloni attigui al Cancello Orientale, mentre una piccola spedizione potrebbe essere stata inviata al cancello dell’Agrifogliere, ossia quello dal quale aveva fatto il suo ingresso la Compagnia dell’Anello, e a recuperare le armerie superiori del Terzo Abisso. A questo punto, una domanda sorge spontanea: i Nani della colonia possedevano mappe di Moria, oppure si orientavano a tentoni? Quest’ultima ipotesi sembra difficilmente credibile, considerando che avrebbe potuto così incrementare la possibilità di imbattersi nelle aree occupate dagli Orchi: ritengo, dunque, che i Nani avessero conservato mappe di Moria, alle quali, però, non tutti dovevano avere accesso, dal momento che Gimli sembra orientarsi più facendo affidamento alle tradizioni orali della sua gente che non a indicazioni precise sui luoghi che stavano attraversando. Un altro dubbio al quale è difficile offrire una risposta riguarda la questione alimentare: come fecero i Nani, che solitamente non praticano l’agricoltura, a sopravvivere in un territorio ostile come quello di Moria per ben cinque anni? Solitamente essi ricorrevano al commercio per procurarsi le derrate alimentari: ma con quali popoli potevano commerciare a Moria (Orchi a parte)? Si può credere che essi, spinti dal bisogno e dalla disperazione, avessero preso a coltivare le terre vicine al Mirolago; credo, tuttavia, che non avessero rinunciato neppure al commercio, magari con i beorniani, (se consideriamo che con gli Elfi di Lorien essi non avessero rapporti a causa dell’ostilità fra i due popoli), dal momento che alcuni messaggeri, stando alle parole di Gloin, erano riusciti a percorrere una distanza anche maggiore rispetto a quella che separava Khazad-Dum dalle dimore dei beorniani, facendo la spola tra Moria e la Montagna Solitaria per alcuni anni. A meno che – un’opzione da non escludere a priori – i messaggi non fossero portati da uccelli, come avviene nell’Hobbit.

L’ultima pagina tratta dal libro di Mazarbul è, come confessa lo stesso Gandalf, spaventosa a leggersi: la colonia viene distrutta attraverso quella che sembra, a tutti gli effetti, un’azione concordata e non improvvisata. Notiamo, infatti, i seguenti elementi: 1) nuove truppe di Orchi sono richiamate dall’esterno, da est lungo l’Argentaroggia; 2) il livello dello stagno vicino al Cancello Occidentale sale, bloccando così la fuga verso ovest di alcuni nani che avevano tentato di intraprendere quella strada e l’Osservatore dell’acqua uccide Oin; 3) i nani odono tamburi negli abissi, una sorta di «chiamata alle armi» che precede il massacro finale. Resta da capire chi abbia ordito l’attacco ai Nani: la risposta più plausibile indica nel Balrog la mente strategica dietro tutto questo. Lungi dall’apparire come una sorta di gargoyle medioevale – tale, infatti, è l’aspetto della creatura nella pellicola di Jackson – credo sia più opportuno immaginare il Balrog come un demone dalla forma indistinta, ma dai tratti più umanoidi rispetto alla nota rappresentazione sopra citata. In basso, una rappresentazione del Demone di Fuoco secondo me maggiormente fedele alla (scarna) descrizione tolkieniana:

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Un demone in grado di parlare e pronunciare incantesimi (come quello con il quale tentò di impedire a Gandalf di chiudere la porta della Camera di Mazarbul) e, in conclusione, di ordire un’azione militare ben congegnata per distruggere il breve tentativo dei nani di Balin di riprendere possesso dell’antica città di Khazad-Dum.

Osgiliath cadrà? Scontro finale

Proseguo la narrazione della storia dell’assedio di Osgiliath da parte delle armate di Sauron al termine della Seconda Era. Nell’articolo precedente il Drago del Freddo Bairanax aveva aperto una breccia nelle mura della città: mi rendo conto, tuttavia, che non ho spiegato per quale motivo il Re Stregone avesse reclutato questa specifica specie di drago. Le mura esterne della città era state costruite con il laen, un materiale refrattario al fuoco, ma estremamente vulnerabile nei confronti delle temperature basse. Per questa ragione Sauron desiderava avere nei suoi eserciti i draghi del freddo: essi, infatti, a differenza dei più noti draghi del fuoco, erano in grado di emettere un getto di azoto liquido, avente punto di ebollizione pari a -195,82 gradi celsius, che aveva un effetto deleterio sulle mura di Osgiliath (oltre che sui malcapitati esseri viventi che avessero avuto la sfortuna di trovarsi nei paraggi). Buona lettura!

«Un grande e selvaggio clamore si levò dalle schiere di Sauron ed esse esultarono, ché la città era prossima a cedere; tuttavia, essi non avevano mezzi per superare il profondo canale ed erano riluttanti a immergere le proprie membra nella fredda acqua che lambiva le mura; Angurth allora soffiò sulla sua morbida superficie e la rese rigida, affinché le creature di Mordor potessero attraversarla e recarsi in città. Grida confuse si levarono da Osgiliath e molti capitani, senza che alcun ordine fosse stato dato loro, gettarono le armi e a nuoto attraversarono l’Anduin, raggiungendo in tal modo la sponda occidentale, ove credevano stoltamente non sarebbe giunta la minaccia dei Nazgul; impaurite, le schiere degli alleati arretrarono e la catastrofe sarebbe invero giunta su ali di tenebra, se Erfea non fosse balzato lesto sulla breccia, soffiando nel suo olifante.

Risero gli schiavi di Mordor, ché erano ancora in gran numero e non temevano la collera del Numenoreano; allora Erfea suonò nuovamente e coloro che si davano alla fuga, impugnarono nuovamente le armi e nuovo coraggio e vigore affluì nelle vene dei combattenti dell’Alleanza. Una terza volta risuonò nella notte il corno del Sovrintendente ed era codesta una sfida all’Oscuro Signore e alle sue armate; possente si levò la voce di Erfea ed essa chiamava a duello il Capitano Nero: “Murazor! Murazor! Murazor! Se non hai obliato la ignominiosa caduta dinanzi al cancello di Edhellond, vieni innanzi a me! O forse la parole di Erfea, figlio di Gilnar, colui che chiamano il Morluin, incutono troppo timore nel tuo codardo cuore?” Stupiti si arrestarono allora i soldati di entrambi gli schieramenti, ché non pareva loro possibile che un Uomo osasse sfidare il Capitano degli eserciti di Mordor, il Signore dei Nazgul e Re di Morgul: lame furono abbassate, frecce dall’acuminata punta riposte nelle loro faretre e visiere alzate; per un lungo istante gli schiavi di Mordor dubitarono e le loro membra sembrarono cedere dinanzi alla terribile sfida che il Comandante dei loro nemici aveva lanciato; stupefatti e timorosi, essi si guardavano l’un altro, senza pronunciare parola alcuna; finanche i grigi segugi di Dwar si accucciarono e l’unico suono che si udì nella pianura fu quello dei loro silenziosi guaiti.  Non vi era follia nello sguardo di Erfea, né rassegnazione, ché la morte non gli incuteva timore, avendola scorta infinite volte nel corso della sua vita; rapide, le sue labbra levarono un’ultima preghiera a colui che è sopra le potenze di Arda, infine aspettò che il suo nemico gli si mostrasse e accettasse la sua sfida: non dovette attendere tuttavia a lungo, ché il Capitano Nero tosto apparve. Fosco era lo sguardo del nemico dei Popoli Liberi e nulla era possibile leggervi in esso, eccetto l’odio e il disprezzo: lente riecheggiarono le sue parole e coloro che le ascoltarono furono presi da grande terrore: “Nessuno aveva mai osato pronunciare prima d’ora tale nome, Erfea figlio di Gilnar”. Si interruppe, infine riprese a parlare: “Forti erano le tue membra e lungimirante la tua mente, tuttavia ben m’avvedo come tu sia ora solo un pallido fantasma di quanto un tempo eri. A lungo sei sfuggito alla cattura e ora giungi alla mia lama come un incauto mendicante; se è un destino di morte quello che il tuo cuore ambisce ottenere, ebbene esso non mancherà di essere da me soddisfatto”. Rapida allora levò la possente mazza e stridulo echeggiò nella silenziosa piana un urlo foriero di odio indicibile; saldo tuttavia restò il cuore del Dunadan ed egli con elegante maestria si scansò lesto: allora Sulring si abbatté sul capo dell’oscuro nemico, eppure la ferrea corona attutì l’impatto, sebbene essa stessa finisse in frantumi.

Cruento fu il duello e nessuno fra quanti vi assistettero ne obliò mai il ricordo: letale era tuttavia il Signore dei Nazgul e la potenza del suo padrone era in lui, mentre il braccio di Erfea era stanco per il gran combattere di quei lunghi mesi, e il suo animo era provato dal dolore e dalla perdita; gioì lo spettro, ché la sua oscura lama affondò nel basso ventre del suo avversario e vicino fu a ottenere la sua vendetta, allorché essa gli sfuggì di mano e un intenso dolore gli attraversò il nero spirito; annebbiata gli divenne la vista, mentre tutt’intorno a lui l’aere brillò e la luce penetrò nelle sue carni. “A use, mol Mordoro! (Fuggi, servo di Mordor)”; sopraffatto da tali parole, il Signore degli Stregoni fuggì lontano e le sue schiere tremarono e si dispersero nella pianura; alto sorse il Sole sul mondo ed esso allontanò le tenebre di Mordor; Glorfindel e Bor furono lesti a impugnare le armi e la loro furia fu tale che nessuno fra quanti combattevano nelle fila dell’Avversario poté resistere loro.

Esamine giaceva Erfea sulle rovine delle mura; per un istante egli obliò ogni cosa e gli parve di intraprendere sentieri che nessun altro essere aveva mai percorso: lucida allora gli parve l’immagine di Elwen dinanzi a sé e nel suo cuore baluginò la speranza che ad altri toccasse l’arduo cammino intrapreso anni prima. Infine tutto disparve ed egli ascoltò nuovamente il lamento delle armature scosse da fredde lame, i gemiti degli Uomini morire nella triste alba e le oscene voci dei Nazgul reclamare la preda perduta: la realtà penetrò allora in lui, simile a un rapido coltello ed egli si scosse ché la guerra lo chiamava alla sua folle danza. Non vi era più traccia della ferita che il nero servo di Mordor aveva inflitto alle sue carni ed egli non avvertiva nel suo cuore più alcuna paura o dolore; lacrime felici gli ornarono il viso, ché aveva compreso a chi dovesse la vita: liete, allora salirono al cielo parole di ringraziamento e di amore ed egli si rizzò in piedi mentre la calda luce parve avvolgerlo nel suo abbraccio. Glorfindel era lesto accorso al suo fianco, allorché lo aveva visto cadere sotto il crudele colpo del Re Stregone e ora lo mirava in volto, stupefatto per quanto era accaduto: per alcuni istanti nessuno parlò fra loro, infine Glorfindel rise e coloro che lo udirono non poterono fare a meno di provare il medesimo sollievo: “Lieto è il mio cuore nello scorgere il Signore dei Dunedain in salute, ché molto avevo temuto per la tua vita; nessuno oblierà quanto compisti per le nostri sorti e il tuo nome risuonerà come un monito per le schiere dell’Avversario”. Rise anche Erfea, infine parlò: “Non fui io a sconfiggere l’oscuro spettro, ma colei che i miei sensi mortali perdettero molti anni fa e che in questa ora buia mi ha salvato da morte certa”. Ristette un istante in silenzio, infine parlò nuovamente e le sue parole echeggiarono chiare per tutta la piana: “Elwen vanimelda, namarie!” (Elwen dolce amata, addio!) Annuì lentamente Glorfindel: “Comprendo quanto le tue parole affermano e il mio cuore gioisce, ché non dovremo temere l’oscuro braccio del Capitano Nero per qualche tempo; temo, tuttavia, che egli non sia stato distrutto e che debbano trascorrere molte altre epoche prima che ciò accada”. “Lungimiranti sono le tue parole, Signore dei Noldor; non sarà per mano di un Uomo che egli perirà, eppure ciò accadrà, quando sarà giunta l’ora. Suvvia, ora rechiamoci dai nostri compagni, ché grave una minaccia pesa ancora su di noi, e la malefica schiatta di Morgoth non è stata ancora abbattuta”.

Discesero i due capitani e a lungo Glorfindel serbò nel suo cuore le parole del Numenoreano, senza che nessun altro ne venisse a conoscenza; Uomini, Elfi e Nani andavano adunandosi innanzi a loro, ché la speme era tornata a fiorire nei loro cuori e sebbene i quartieri orientali di Osgiliath fossero stati invasi dalle armate di Mordor, pure il ponte sull’Anduin non era caduto e la fortezza che su esso era stata edificata al principio della fondazione della città restava sotto il loro controllo: lesti, dunque, essi accumularono travi annerite e qualunque altro materiale fosse reperibile e si accinsero a fortificare l’accesso che dava ai quartieri occidentali e a Minas Anor. Barricate furono innalzate nelle strade che conducevano alla cittadella e i soldati corsero a recuperare le armi e altro materiale bellico che, nella confusione della prima rotta, erano stati incautamente abbandonati: severi erano i loro sguardi, ché più non avvertivano la disperazione nei loro cuori e sebbene la difesa della città fosse ora molto più difficoltosa che in partenza, pure erano fiduciosi e i loro animi privati dall’Ombra che il Capitano Nero aveva portato fra loro.

Un messaggero a cavallo giunse lesto e chiese udienza al Sovrintendente, ché aveva da consegnargli novelle di buon auspicio; giunto che fu innanzi a lui, il messo così parlò: “Mio signore, l’isola di Cair Andros è stata sguarnita dalle truppe di Mordor, ché essi si ritirarono seguendo la direzione che conduce alle steppe della Dagorlad e ai Cancelli Neri; quali sono i tuoi ordini? Il guado è ora incustodito”. Lesto rispose Erfea: “Invero liete sono tali novelle e il tuo nome, othar, non sarà obliato: conduci innanzi a me Aldor Roch-Thalion, Signore dei Cavalli e Herim l’Impavido, affinché essi siano pronti a una sortita a cavallo”. Un breve inchino seguì la richiesta di Erfea ed ecco che i due capitani dei Popoli Liberi furono da lui: “Miei signori, per un motivo a me ignoto, le schiere di Mordor fuggono a Nord, lasciando sguarnita Cair Andros: è giunto dunque il tempo di caricare sul fianco destro l’esercito di Sauron, ché nessuno si opporrà a noi durante l’attraversamento dei Guadi e la sorpresa tra le armate del nemico sarà totale, ché essi non sospettano nulla. Celere deve però essere la nostra manovra, ché se fossimo individuati e scoperti, allora ogni nostra resistenza sarebbe vana”. Annuirono i due capitani degli Uomini, e riunirono i loro battaglioni, ai quali si aggregarono anche i cavalieri elfici comandati da Edheldin; giunti che furono innanzi alla porta occidentale, Erfea chiamò a sé Aldor e lo pregò di restare in città, ché nel suo cuore sorgeva grave una nuova minaccia e non avrebbe desiderato che Osgiliath rimanesse del tutto sguarnita di capitani di valore, ché sebbene grande fosse la sua fiducia nelle genti di Khazad-Dum, pure sapeva che essi non avevano mai sostenuto un assedio di tali dimensioni e non erano soliti combattere all’aperto.

Seppur a malincuore, ché molto gli premeva cavalcare contro le immonde schiere che minacciavano la sua gente, Aldor accettò tale ordine e, raggiunti Bor e Glorfindel, prese il comando delle schiere rimaste in città. Penose furono le ore che seguirono, ché gli schiavi di Sauron, dopo l’iniziale smarrimento seguito alla scomparsa del loro Capitano, si erano radunati nuovamente e ora marciavano contro i soldati dell’Alleanza; antichi palazzi e maestosi minareti, edifici ricolmi di antichi tomi recuperati a Numenor, nulla fu risparmiato dalla furia dei guerrieri di Mordor ed essi appiccavano il fuoco ovunque: non potettero però fare prigionieri, ché i loro nemici si erano ritirati al di là del fiume ed essi non avanzarono oltre, ché una fitta pioggia di frecce scese sulle loro avanguardie ed essi si ritirarono nei quartieri che avevano conquistato, mentre alcuni fra loro inviavano messaggi a Khamul, ora comandante delle schiere dell’Occhio, perché egli conducesse i superstiti draghi del freddo all’attacco finale.

Mai giunse tale messaggio all’Orientale, ché esso fu intercettato dalla cavalleria alleata, e invero fu un bene che ciò accadesse perché, in caso contrario sarebbero affluiti notevoli rinforzi alla città; i Vermi di Morgoth, tuttavia, resisi conto di quanto era accaduto, si mossero lesti e le loro minacciose sagome proiettarono inquietanti ombre sugli edifici della città: stridule e possenti le loro urla riecheggiarono nei vicoli deserti di Osgiliath, eppure tali malvagie creature non incutevano lo stesso timore che aveva colto impreparati i Figli di Iluvatar in precedenza, sicché i loro cuori restarono saldi e non temettero.

Sovente Aldor e Glorfindel accorrevano laddove il pericolo era maggiormente presente e coloro che li osservavano erano colti da stupore, ché parevano fratelli di antica data; eppure, nessun combattente ricevette tanti elogi quanti il figlio di Bor, Groin Hroa Sarna: saldo era infatti rimasto il suo cuore perfino quando era stata aperta la breccia nelle mura ed egli era l’erede di una stirpe spietata. In preda al panico, Orchi e altre creature delle tenebre fuggivano dinanzi alla sua ascia bipenne ed egli tenne la sua posizione senza arretrare di un solo passo. Glorfindel non pronunciava parola, né verso i suoi nemici, né nei confronti degli alleati, eppure la sua sola vicinanza procurava agli Uomini diletto e pace e nessun ombra si allungava su di lui; frecce erano scagliate dal suo arco ed egli sovente ricorreva alla sua maestosa spada allorché gli Orchi osavano avvicinarsi troppo; beltà e saggezza erano impressi sul suo volto, a gloria della maestà dei Signori degli Eldar dei tempi remoti. Aldor Roch-Thalion combatteva con una grande violenza e finanche i pesanti fanti dei Numenoreani Neri non osavano incrociare le loro larghe lame con quella del capitano degli Eothraim; alti si levavano i suoi gridi di guerra e gli Orchi erano atterriti dalla sua furia cieca; Bairanax lo scorse sul ponte, possente figura, ergersi su quanti tentavano vanamente di contrastarlo e il suo soffio gelido si abbatté su di lui, senza tuttavia scalfirlo, ché nel suo animo era scesa la forza di Orome il Cacciatore, che il suo popolo chiama Bema, ed egli non temeva alcun nemico; rapido, il Theng si scagliò allora contro il drago e balzato agilmente sul suo dorso, vi piantò la lancia in frassino che impugnava nella sua mano sinistra, gridando parole di vittoria, ché nel suo cuore non si era spento l’eco del sacrificio di Ariel ed egli desiderava ottenere giusta vendetta.

Terribile fu l’agonia di Bairanax e il suo grido di morte echeggiò per molte miglia intorno; infine si accasciò al suolo e tutte le creature di Mordor si riversarono fuori dalla città, ché temevano la furia di Aldor e non osavano avvicinarsi a lui; un grande numero di fanti si radunò tuttavia dinanzi alla Città delle Stelle e tosto si disposero nuovamente per l’assalto, ché si avvidero essere in superiorità di almeno uno a venti e non temevano le mortali frecce dei Numenoreani, né le letali asce di Khazad-Dum.

Solitario risuonò allora nella piana un olifante e un cavaliere apparve all’orizzonte; risero, le infami schiere del nemico, ché non temevano la sua sfida; allora l’olifante del cavaliere risuonò ancora e il dubbio si insinuò nel cuore degli Orchi, ché non avevano obliato il figlio di Gilnar e alcuni fra loro affermavano essere tale cavaliere il loro mortale avversario; eppure, essi erano in numero tale che non potevano temerne l’ardore e la collera e tosto l’arroganza subentrò nuovamente nei loro cuori. Lesti, però, centinaia di corni echeggiarono nuovamente e sembrava che l’intera armata dei Vanyar fosse giunta alla Terra di Mezzo su ali intessute di rugiada; tremarono gli Orchi e si diedero alla fuga, ché la cavalleria degli alleati era giunta su di loro ed essi si avvidero che la loro fine era prossima.

Nessuno udì le parole che Erfea figlio di Gilnar pronunciò prima di condurre le sue schiere alla carica, eppure, egli non abbisognava che di un solo cenno per guidarne l’assalto, ché grande era nei cuori dei soldati la stima per il Sovrintendente di Gondor e lo avrebbero seguito ovunque egli avesse condotto i loro destrieri; rapidi dunque cavalcarono i Figli di Iluvatar e nelle prime ore del mattino spezzarono le linee degli eserciti di Mordor. Nessuno poté resistere alla loro carica impetuosa; i selvaggi Esterling, i possenti Haradrim, finanche gli enormi Troll delle caverne ondeggiarono e caddero; simili a ciottoli che i flutti della marea sommergono con violenza impetuosa, così i bianchi cavalieri dell’Ovest calpestarono i nemici che si ergevano pateticamente innanzi a loro, mentre altri inseguivano coloro che tentavano di scappare.

Un giorno di gloria fu dunque quello, ché non solo l’assedio cessà e la battaglia fu vinta, ma avvenne anche che il sovrano Anarion, scosso dal suo profondo sonno dall’eco di infiniti corni nella piana, si riscuotesse e, essendo balzato fuori dal suo giaciglio, conducesse i fanti gondoriani alla vittoria ed essi combatterono lieti, ché il figlio di Elendil era tornato a nuova vita. Canti furono uditi quel giorno echeggiare nella città di Osgiliath, e sebbene altri pericoli dovevano sopraggiungere a Gondor, pure le sue imponenti mura non furono mai più minacciate nel corso di quell’era e la vittoria arrise a coloro che mai avevano disperato in essa».

Il Ciclo del Marinaio, pp. 303-310

I Draghi nell’assedio di Gondor

Sono sincero: una creatura che avrei voluto avesse più spazio nel legendarium tolkieniano è certamente il drago. Indubbiamente non si può dimenticare l’importanza di Glaurung nel Fato di Turin e di sua sorella Nienor, né si può restare indifferenti all’epico scontro verbale avvenuto tra Smaug e un piccolo hobbit coraggioso di nome Bilbo; per tacere, infine, di draghi come Ancalagon il Nero e Scatha, destinati ad affrontare grandi eroi come Earendil e Fram, per poi esserne uccisi. Tolkien scrisse anche una storia divertente, dal titolo Il cacciatore di draghi, ma per quanto ben riuscita, non rientra nel continuum spazio-temporale della Terra di Mezzo. In particolare, mi sono spesso domandato perché, nell’intero arco della Seconda Era, nessun drago sia riportato nelle cronache storiche della Seconda Era: una mancanza, questa, piuttosto curiosa, dal momento che, nel Silmarillion, l’autore spiega come Sauron, una volta forgiato l’Unico Anello e gettato la maschera del generoso e illuminato Annatar, decise di porre sotto il proprio dominio le creature che un tempo avevano servito il suo padrone Morgoth: orchi, troll, uccelli malvagi…e i draghi? Tolkien non dice nulla sul loro eventuale impiego da parte di Sauron nella Seconda Era: per amore di verità, bisogna anche ammettere che l’autore, nella cronologia finale delle tre ere della Terra di Mezzo presentata nell’appendice A del Signore degli Anelli,  sostiene che i Draghi si risvegliarono nel corso della Terza Era, dedicandosi poi al saccheggio dei tesori dei Nani conservati all’interno delle Montagne Grigie.

[Illustrazione gentilmente concessami da Andrea Piparo Art #Andreapiparoart #dragon]

Sembrerebbe, dunque, che i Draghi, così come l’ultimo (?) Balrog della Terra di Mezzo sopravvissuti alla Guerra d’Ira, avessero impiegato un maggior numero di anni, rispetto agli Orchi oppure ai Troll, per uscire da una sorta di «letargo» nel quale la sconfitta di Morgoth li aveva fatti precipitare. Nulla vieta di immaginare, tuttavia, nel pieno rispetto delle vicende narrate nel corpus tolkieniano (alle quali, mi piace precisare, ho sempre cercato di adeguarmi per quanto possibile), che il risveglio accennato dall’autore non si riferisca alla Prima Era, bensì alla Seconda (almeno per i Draghi; la questione del Balrog è più difficile da affrontare, dal momento che non sembra ve ne siano stati altri citati nelle cronache tra l’apparizione del demone a Moria e la loro sconfitta al termine della Prima Era). In fondo, è lo stesso autore a sostenere che nella battaglia sostenuta dall’Ultima Alleanza dinanzi al Cancello Nero di Mordor vi fossero rappresentanti di tutte le specie viventi della Terra: perché non pensare, dunque, anche ai Draghi? A questo proposito, mi sono posto una domanda che spero i miei lettori possano trovare stimolante e che si riallaccia a un interrogativo che a lungo angosciò i sogni di Gandalf dopo la comparsa di Smaug e la distruzione del Regno sotto la Montagna: «E se Sauron avesse potuto beneficiare dell’alleanza di un Drago, cosa sarebbe accaduto?»

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«L’assedio durava da ormai tre lunghi mesi, allorché un violento nubifragio sconvolse i piani d’assedio del nemico, ché le sue macchine d’assedio si impantanarono nel fango ed essi non riuscirono più ad avanzare; le schiere di Mordor allora si ritirarono nell’oscurità di Minas Ithil e per qualche tempo la città di Osgiliath godette di una pace inquieta, ché le aquile di Manwe non mancavano di riferire ai capitani dei Popoli Liberi quanto i servi di Sauron andassero nuovamente radunandosi, presagendo la sconfitta degli Uomini del mare. Vi erano, tuttavia, altri alleati del Nemico che i messaggeri di Manwe non riuscivano a scorgere, ché essi si erano ritirati fin dalla caduta del loro signore, al termine della Prima Era, nei recessi montuosi del Nord, lontani dalle contrade abitate dai Figli di Iluvatar; nelle steppe aride, al di là dei Monti Grigi, ove un tempo sorgeva la fortezza di Utumno, i Grandi Draghi prosperavano e nulla di quanto era prima presente in tali terre era sopravvissuto alla loro forza distruttiva. I Vermi di Morgoth non temevano Sauron, né lo servivano apertamente, reputando la sua autorità insufficiente per dominarli, ché solo al loro antico signore essi davano obbedienza; molto, tuttavia, avevano sentito dire dell’assedio che le schiere del più possente fra i servi del Vala Caduto muovevano al giovane regno di Gondor e mostravano di nutrire un certo interesse per le sorti di tale battaglia, ché volentieri avrebbero predato quanto gli eredi di Numenor avevano recato con loro dagli Abissi del Mare.

In quel periodo, tre draghi si levavano fra gli altri per possanza e crudeltà e non vi era servo di Morgoth, tra quanti condividevano il domicilio con tali perfide creature, che non ne temesse il gelido soffio e l’astuta parola; tali creature avevano nome Ando-Anca, Bairanax e Angurth ed erano nate dopo gli sconvolgimenti che avevano provocato l’inabissamento del Beleriand, al termine della Prima Era; mai essi avevano mirato le possenti torri di Thangrodim, né scorto, lugubre nella tenebra che la circondava, Barad-Dur la terribile, eppure alti si levavano in volo e finanche le grandi aquile di Manwe non osavano avvicinarsi a tali contrade, presagendo che un grande male fosse all’opera.

Orchi e altre creature della Tenebra erano all’opera in quei giorni ed essi tolleravano che prendessero parte alle battaglie che si svolgevano a Sud, ché prevedevano sarebbe giunto loro grande vantaggio dalla vittoria di Sauron, seppure non avessero in animo di prendervi tosto parte; grande fu dunque il loro stupore, allorché, una sera, giunse alla dimora nella quale erano soliti divorare i cadaveri delle loro incaute vittime, un cavaliere ammantato da un lungo manto nero e del quale erano visibili solo gli occhi, la cui rossa luminosità era tale da rischiarare perfino le tenebre nelle quali codesti esseri dimoravano; grande fu la loro ira, ché essi erano intenti all’orribile pasto e non tolleravano che alcuno disturbasse la quiete nella quale erano immersi. Ando-Anca, il più possente e anziano fra i tre, così apostrofò il nuovo venuto: “Chi sei tu che disturbi la gloriosa progenie di Glaurung? Lenta sarà la tua morte, ché nessun mortale ha osato violare la soglia dalla quale tu hai fatto sì impunemente ingresso!”

Glaciali erano state le parole che il Grande Verme aveva adoperato e gelido il suo tono; eppure, mentre egli nel suo cuore nero gioiva, pregustando un rapido e facile pasto, il suo animo fu raggelato da un potere quale mai i suoi occhi avevano scorto fin da quando era venuto fuori dal suo osceno uovo; un intenso dolore gli attraversò le membra e il suo capo fu sconvolto da visioni quali mai nessun mortale era stato in grado di infliggerli: inutile era ogni sua resistenza e presto si avvide che anche i suoi fratelli giacevano nelle medesime condizioni di dolore. Una cupa voce echeggiò allora nell’antro e coloro che la udirono furono avvinti al suo potere: “Stolti! Nessuno è in grado di pronunciare parole sì sciocche dinanzi al Capitano degli eserciti del Signore di Mordor senza avvertirne il feroce morso, ché invero io non sono un mortale quale le vostri fauci trafiggono nell’agonia della morte: Er-Murazor io sono, il Capitano dei Nazgul, gli Spettri al servizio del Re del Mondo”. Lentamente avanzò, e l’ombra parve crescere, sicché ogni cosa fu presto avvolta da una caligine fumosa e oscura, infine riprese a parlare: “Il mio signore vi rimembra che nei secoli che seguirono la dipartita dal mondo di Morgoth, il suo volere era considerato da quanti lo servivano verità e legge; vorreste forse oggi venire meno alla parola data e tradire il vostro nuovo padrone? Sappiate, Vermi di Morgoth – e qui parve che l’oscura figura ridesse – che Sauron di Mordor, colui che anticamente era noto con il nome di Gorthauron, non vi teme e non desidera che coloro che un tempo seguivano un unico vessillo, siano ora dispersi e indeboliti, ché tale infausta circostanza arreca invero molto vantaggio ai nostri nemici. Il discepolo di Melkor vi chiama e vi chiede di servire nei suoi eserciti!” Sconvolto nella mente e nel corpo, Ando-Anca tuttavia ribatté: “Se tale non fosse tuttavia la nostra volontà, cosa potrebbe la forza di un minuscolo Uomo contro la maestosità dei figli di Ancalagon? Invero, il tuo sembiante pare minaccioso e inquietante, tuttavia io dubito che tu conosca davvero quanto le tue parole sembrano dimostrare; che sia Sauron in persona, se tale è il suo disio, a reclamare il nostro aiuto, ché non ci piegheremmo certo innanzi a uno dei suoi schiavi”.

Beffardo rise il Signore dei Nazgul e, lasciato scivolare via il manto che ne occultava l’identità, si erse in tutta la sua malvagia figura; il panico si impadronì allora dei draghi, ché invero grande era la possanza di Sauron, il Signore degli Anelli, ed essa ora riluceva minacciosa nel negro spirito del suo Capitano; l’oscurità cadde sulle loro menti ed essi furono avvinti all’Anello Sovrano che adornava il nero artiglio del Crudele Nemico: remote, eppure chiare nell’oscurità, parve loro di ascoltare tali parole di potere e perfidia: “Folli! Sauron di Mordor non implora coloro che gli devono obbedienza, né tollera che la sua volontà possa essere messa in discussione! Un solo sentiero percorrerete d’ora innanzi, ed esso vi condurrà alla vittoria, ché gli auspici del mio signore si tramutano lesti in realtà”. In tale modo fu siglata la perigliosa alleanza tra i Grandi Vermi del Nord e l’Oscuro Signore che infiniti lutti avrebbe recato ai Figli di Iluvatar; lesti si mossero i draghi allorché le loro menti furono soggiogate al volere dell’Unico e all’alba del settimo giorno dacché il Capitano Nero aveva condotto da loro la parola del suo signore, essi giunsero alla città di Osgiliath, ove furono accolti dal grande entusiasmo degli eserciti del Nemico, consapevoli che non vi sarebbe stato ostacolo alla loro vittoria sulle schiere dell’Alleanza.

Cupi divennero i pensieri di Erfea allorché scorse le cuoiose ali piombare sulla città, sebbene egli sperasse nel suo cuore che non si trattasse dei Draghi del Ghiaccio, di cui molto aveva sentito dire nel corso dei suoi lunghi viaggi a settentrione; lesta, tuttavia, la sua speme venne meno allorché i servi di Morgoth ricoprirono di fredda brina i preziosi mosaici che ornavano i minareti e le ampie terrazze, seminando il panico tra i soldati. Gli arcieri di Edhellond fuggivano, abbandonando gli spalti alla mercé degli Orchi e degli altri oscuri servi di Sauron che lesti si erano arrampicati sulle torri d’assalto, poste dai Troll lungo le mura; drammatico divenne l’assedio della città per coloro che ne difendevano il bianco cancello, allorché, alla minaccia dei draghi si aggiunse quella non meno temibile di un grande ariete che era stato fatto avanzare durante la notte; centinaia di schiavi di Mordor ne trascinavano le enormi ruote e, quando alcuni di essi cedevano, sfiniti, alla fatica o erano colpiti dai proiettili che gli ultimi arcieri del regno scoccavano ancora, venivano subito sostituiti da altri Orchi e Uomini: in tal modo, nonostante l’imponente mole di cui era gravato, lesto giunse al Cancello l’enorme ariete ed esso fu trascinato lungo il ponte rialzato che conduceva alla porta.

Un tremolio lugubre scosse le fondamenta della città allorché i pesanti magli dell’ariete furono con forza issati e lasciati ricadere sulla massiccia porta: a lungo tale eco riecheggiò, si spense, e nuovamente atterrì di terrore tutti coloro che la udirono, eppure, restie a cedere erano le travi in acciaio e galvorn che sostenevano gli enormi battenti in quercia.

Ariel si ergeva ritta innanzi al cancello, simile a Varda prima che Morgoth fuggisse e la rovina piombasse su Valinor; penoso era il suo sguardo, eppure limpidi i suoi occhi, ché fiero era il suo animo e pure nella profondità della tenebra intravedeva un barlume di luce; lesta cercò l’Alto Theng del Rhovanion con lo sguardo e quando lo ebbe trovato, tali furono le sue parole di commiato: “Addio, Eothraim! Mai oblierò le tue cortesi parole e se questi non fossero stati tempi di guerra, diverso sarebbe stato il nostro percorso! Giunta è la mia ora; possa essere la tua altrettanto gloriosa!”

Possente riecheggiò l’urlo di guerra dell’Amazzone e gli Orchi fuggirono innanzi a lei; nulla poté Aldor, ché ella era una donna vigorosa e la sua scelta già presa; sola la vide avanzare nella tenebra, la lunga lama in acciaio sguainata accanto all’alto elmo di ali guarnito. Ando-Anca la osservò, minuscola figura, ergersi sulla rovina che il suo soffio gelido aveva causato; grande, allora, avvampò nel suo cuore l’ira, sicché allargò le ali e, simile a una saetta, si lanciò contro la donna; più lesta ancora fu tuttavia Ariel e con maestria affondò la mortale lama nelle fauci del nemico.

Schiumò e urlò, il possente figlio di Ancalagon, e la terra fu squarciata dalla sua atroce agonia; nulla poté tuttavia, ché, sebbene l’Amazzone fosse stata trafitta dai suoi possenti denti, pure la sua lama era affondata nel suo cranio, rimanendone fieramente incastrata, simile a un bianco vessillo ornato di sangue. Come una frana che tutto sconvolge, così Ando-Anca precipitò dalle alte mura, travolgendo quanti erano lungo la sua traiettoria; fuoco e ferro, acqua e legno, nulla sopravvisse al suo passaggio ed egli affondò in basso, trascinando nella sua rovina il possente ariete che le schiere di Mordor avevano condotto a Osgiliath; lesto allora il panico si impadronì dei servi di Sauron ed essi fuggirono per ogni dove; a nulla valsero le selvagge urla dei condottieri dell’Occhio, ché essi furono travolti dalla pazzia che sembrava aver invaso i cuori dei loro soldati. Un possente clamore si udì echeggiare nella pianura, infine tutto fu silenzio: Ariel era morta, ma il suo sacrificio aveva impedito alla città di cedere.

Smarriti si mossero gli Uomini in città, ché su tutti era piombata improvvisa una grande stanchezza; luce non vi era sul volto rigato dalle lacrime di Aldor Roc-Thalion e accanto a lui, silenti nel dolore che accomunava i loro cuori, erano Erfea e Herim, il cui braccio sanguinava copiosamente; infine, un nuovo Sole sorse e il mondo dei mortali e di coloro che non periscono sembrò vivere nuovamente, ché essi furono illuminati dai suoi possenti raggi: balzato rapidamente in piedi, il Signore del Rhovanion allora lanciò la sua spada in aria e tutti coloro che erano con lui in quel momento, crederono di aver visto Orome il Vala, possente nella sua forza.

“L’affetto più prezioso che avevo mi è stato sottratto dalle armate di Mordor e io non oblierò mai il dolore che avvolge il mio animo; possa tuttavia giungere lesta l’ora della vendetta, ché il mio cuore freme e in esso la collera è forte”. Nessun altro parlò in tale triste ora, ché non vi erano parole nei loro idiomi atte a esprimere quanto ciascuno racchiudeva nel proprio cuore ed essi si ritirarono, cercando invano nel sonno beffardo la quiete che i loro animi avevano smarrito molti anni prima.

Nei giorni successivi, sotto l’esperta guida di Bor e di suo figlio Groin, gli Uomini della città posero mano al martello e all’incudine, sanando le ferite che la guerra aveva condotto con sé; lame furono forgiate, secondo la tecnica di Khazad-Dum, ed esse atterrirono le schiere del Nemico, allorché giunse il momento di impugnarle: nessuno, tra coloro che dimoravano all’interno della mura di Osgiliath ancora inviolate, era in grado di prevedere quando sarebbe giunto nuovamente il momento del confronto. Erfea, tuttavia, diede ordine ai suoi soldati di intensificare la sorveglianza del Cancello e del Ponte e ne inviò alcuni per osservare i movimenti delle armate del Re Stregone; nulla però seppero riferire coloro che fecero ritorno alla città, ché l’Ithilien era desolato e il nemico si era trincerato nella fortezza di Minas Ithil, ove essi non avevano il coraggio di avvicinarsi, memori della crudeltà dei Nazgul e dei loro servi.

Poche o punte notizie giungevano dal Nord, ché scarsi erano i contatti tra il regno di Arnor e quello di Gondor e perfino in tale ora del bisogno Erfea ammoniva i Saggi di Gondor a evitare l’uso della Palantir, per tema che Sauron potesse impadronirsi della mente di chi avesse avuto l’ardire di scrutare nelle antiche pietre veggenti.

Trascorsero i giorni e giunse aprile, recando con sé nuove sofferenze, ché i campi furono gelati dalla neve e un gelido vento sferzava i pinnacoli delle torri della città e ancor più gli animi di coloro che la difendevano; inquieto divenne Glorfindel ed egli sovente volgeva il proprio sguardo a Nord, nella speranza di scorgere i lucidi vessilli di Gil-Galad e di Elendil; ma nulla si muoveva nelle brume settentrionali e numerosi Uomini morirono, decimati dalle malattie e dalle ferite. “Mai, dacché il reame di Gondor ebbe origine, la Primavera era stata sì crudele con i suoi abitanti – osservò Herugil una notte – “Codesta è opera del Re Stregone e dei suoi accoliti, ché si narra che egli sia in grado di evocare il freddo dagli Spazi oltre la Notte Eterna” – gli rispose Herim; nessuna parola fu pronunziata da Erfea, eppure il suo cuore sapeva essere veritiere le parole del Capitano degli orientali.

Giunse maggio e le bufere di neve sembrarono placarsi; nuova speranza sorse allora nel cuore delle Libere Genti, eppure questa altra non era che la volontà dell’Oscuro Signore, ché egli desiderava che non vi fossero impedimenti alla sua mossa finale: in gran segreto, i suoi schiavi presero nuovamente ad armarsi ed essi mossero rapidamente verso il fiume e la città di Osgiliath, finché, il primo di quel mese, essi non giunsero nuovamente alla capitale di Gondor, iniziando un nuovo assedio.

Nessun cronista di quei tempi fu in grado di apprendere quanti fossero i soldati e gli schiavi che militavano nelle file dell’Oscuro Signore, ché tale moltitudine sembrava aumentare di giorno in giorno. Scuro in volto, la mano destra che accarezzava l’elsa di Sulring, Erfea Morluin mirava quanto accadeva nella piana sottostante le possenti mura della città, mentre la mente era intenta a rimembrare altre battaglie alle quali aveva partecipato nei lunghi anni della sua vita; ratto tuttavia si voltò allorché apparve alle sue spalle Bor, seguito da Groin. Per alcuni istanti un eloquente silenzio regnò fra loro, infine la roca voce di Bor echeggiò bassa: “Salute a te, figlio di Gondor! Un nuovo assedio è pronto a iniziare e sebbene possa essere possibile che codesto sia l’ultimo al quale le nostre vite mortali prenderanno parte, non disperiamo, ché ben conosciamo il valore delle nostre stirpi ed esse non temono gli schiavi di Mordor. Mai, nel corso della mia pur lunga esistenza, avevo mirato un simile coacervo di razze unite sotto un’unica bandiera, eppure, poche fra queste risultano a me note, ché esse non provengono dalle contrade ove io in tempi di pace ho dimorato, né hanno mai incrociato le asce della mia gente prima che questo lungo assedio avesse inizio; tu però godi di una conoscenza degli schiavi di Mordor che neppure un signore degli Elfi qual è Glorfindel può vantare di possedere: illustraci dunque, o Dunadan, le stirpi di coloro che servono il Nero Nemico del Mondo”.

Erfea ristette a lungo in silenzio, infine parlò e la sua voce si levò calma e impassibile sui pinnacoli e sui minareti della città: “Invero numerose sono le genti i cui guerrieri militano negli eserciti di Sauron; vi dirò, dunque, quanto ho appreso nei miei lunghi anni di esilio nelle vaste e desolate contrade che si estendono nell’estremo oriente e meridione di Arda. Sappiate, infatti, rampolli della stirpe di Durin, che codeste regioni sono la dimora di tribù feroci e ostili ai Popoli Liberi, implacabili in battaglia e rese schiave dall’oscuro potere dell’Unico che procura infame gloria al Nemico; lesti i loro guerrieri sono accorsi a servire l’Occhio, perché i loro capitani e signori altri non sono che i Nazgul”. Annuì lentamente Groin Hroa Sarna, infine, indicando con il suo poderoso braccio le schiere di Sauron, così apostrofò il Dunadan: “A quale stirpe appartengono coloro che sono all’avanguardia dell’esercito del Nemico? Uomini sembrano, eppure sconosciuti mi sono i loro costumi e ignote al mio orecchio le favelle che essi adoperano: taluni sono armati di lunghe alabarde la cui fattura mi risulta nuova, mentre altri adoperano robusti archi di tasso. Rozzi usberghi in cuoio proteggono i loro villosi petti ed essi indossano elmi piumati”. “Codeste schiere – riferì Erfea – servono Uvatha e Ren, i due Ulairi del Sud, e provengono dalle contrade del Khand e del Chey, ché tali sono, infatti, le patrie cui appartengono quei Nazgul”.

“Imponenti sembrano ai miei occhi quelle bestie che sulla sinistra dello schieramento avanzano – interloquì Bor – e non vi è nome nella mia lingua per definirne la terribile collera che sembrano emanare”. “Veritiere sono le tue parole, ché essi sono chiamati mumakil nella lingua dei popoli presso i quali sono impiegati, e olifanti nella favella dei cavalieri del Rhovanion: innanzi a me scorgo avanzare un possente esemplare di tale razza, dipinto di rosso e nero, sul dorso del quale si erge un imponente baldacchino di oro e avorio intarsiato: colui che ne impugna con sprezzante autorità le lunghi redini, altri non è che il quarto Nazgul in possanza, Indur Re del Mumakan e delle contrade a esso sottomesse, colui che i suoi servi chiamano il Flagello dell’Alba. Prodigioso è il suo elmo ricavato dal cranio di un olifante quale egli cavalca, e letale è la scimitarra che egli impugna nella battaglia; guardatevi dal suo letale manto – concluse Erfea – ché esso conduce chi lo osserva alla follia e alla perdizione”.

“Gravi e saggi sono i tuoi ammonimenti, Erfea figlio di Gilnar e noi ne terremo conto – gli rispose Groin – Invero vasta è la tua conoscenza delle schiere del Nemico e grato ti sarà il mio animo se mi vorrai indicare il nome e la stirpe di colui che cavalca uno splendido stallone, quale mai i miei occhi hanno mirato; numerosi cavalieri seguono tale condottiero ed essi sembrano feroci nell’aspetto, sicché perfino il più valoroso fra gli Uomini potrebbe temerne la carica. Chi è dunque costui?”

“Egli è Khamul l’Orientale, colui che i suoi servi chiamano il Re Dragone, secondo in possanza fra i Nazgul; letale cacciatore delle terre che si estendono a Nord del Rhovanion, il suo elmo dorato, intagliato a guisa di drago, riluce minaccioso nella piana; non vi sono cavalieri sì audaci nelle schiere del Nemico quali sono quelli che servono nell’esercito di Khamul ed egli è invero uno spirito esperto della negromanzia e dell’arte del combattimento”. Mentre così dialogavano i tre condottieri, le schiere del nemico si approssimarono alla città e presto fu possibile scorgere anche le milizie che sostavano alla retroguardia: erano costoro i veterani dell’esercito di Mordor, coloro che avrebbero permesso al loro Oscuro Sire di trionfare, qualora avessero preso parte alla battaglia.

“Ben m’avvedo come codesti guerrieri siano d’aspetto feroce e d’indole implacabile, tuttavia ignote mi sono le stirpi cui essi appartengono; chi comanda quei carri di vimini e di seta intessuti, la cui polvere sollevata è simile a una nube?” osservò Bor, mirando tali schiere.

“Hoarmurath di Dir è il suo nome, ed egli è sesto fra i Nazgul in possanza; invero crudele è il suo animo e il suo arco nero ha mietuto numerose vittime tra i nostri eserciti; codesti guerrieri sono Esterling provenienti dal mare interno di Rhun, a levante dei Colli Ferrosi: rapidi nella pugna, essi incutono infinito timore, ché non vi è fante che non tema di essere calpestato dai loro mortali carri”.

Improvviso, un grande clamore si levò nell’aria e risa selvagge furono udite echeggiare in tutta la piana; nuova inquietudine crebbe nel cuore di Erfea ed egli indicò ai Nani coloro che comandavano le schiere che sì impunemente procedevano, acclamate dall’intera armata. “Una grande moltitudine scorgo innanzi a me, tale che ogni altra forza del nemico a essa paragonata sembra poca cosa; Orchi e Troll delle caverne ne guidano l’avanguardia, e il loro fetore è tale che giunge fin qui: non sono tuttavia costoro che incutono timore nel mio animo, ché una fitta schiera di Numenoreani Neri segue i loro passi ed essi sono i nostri nemici più pericolosi”.

“Invero – interloquì Bor – codeste nuove armate dell’Oscuro Signore sembrano meglio equipaggiate rispetto a quelle che abbiamo affrontato e vinto fino a oggi. Un grande latrare i miei orecchi ascoltano e il mio cuore è colto da improvvisa paura ché mai aveva udito simili grida, le quali paiono giungere dall’Abisso!”

Erfea annuì: “Hai dunque udito le schiere di Dwar di Waw, il capitano del Cancello Nero e terzo fra i Nazgul; Signore dei Cani lo chiamano i suoi accoliti e le sue bestie sono tra le più feroci fra quelle che calcano le contrade di Endor”.

Mentre così discorrevano, Groin emise un urlo strozzato e parve a chi lo mirava che il colore dal suo viso fosse svanito; tremante, il suo dito indicava tre possenti armate che, lentamente, procedevano verso la città: tre enormi figure nere cavalcavano alla loro testa e due fra loro erano attorniate da soldati e dai mostruosi segugi da guerra di Dwar; la terza, più alta e imponente delle altre, procedeva solitaria e nessuno aveva l’ardire di marciare a meno di cento piedi da essa, ché emanava una malvagità tale da atterrire finanche i selvaggi Orchi e gli irascibili Troll. Una grande corona ferrea cingeva il suo capo e una pesante mazza pendeva al suo fianco sinistro, mentre una lama lunga sessanta pollici era cinta alla sua destra; autorità e terrore lo procedevano e un grave silenzio scese al suo arrivo, tale che perfino sugli spalti delle mura nessuno ebbe l’ardire di spezzarlo.

“È giunto colui che temevo sopra ogni altro nemico, eccetto l’Oscuro Signore in persona: egli è infatti il Capitano Nero, Signore degli Stregoni e Re degli Spettri; infette sono le sue oscure parole e le menti degli Uomini sono avvinte al suo potere, ché la volontà del suo padrone è in lui e la sue armi, che le storie narrano siano state forgiate dalle oscure mani di Sauron in persona quando egli era ancora un servo di Morgoth, incutono timore e terrore fra quanti le osservano”.

Lesto riprese l’assedio e parve che invero fosse giunta l’ora in cui la città degli Uomini del mare avrebbe infine ceduto; restio era però il suo Sovrintendente a effettuare una sortita a cavallo, ché sebbene il parere di Herim e Glorfindel fosse contrario, sapeva essere i Guadi e l’isola di Cair Andros in mano alle schiere del Nemico ed egli era solito ricordare che dei diecimila cavalieri che erano ancora in città non ne sarebbero giunti vivi che la metà, qualora essi avessero tentato di impadronirsi dell’isola e di cogliere il nemico sul fianco destro.

Una mattina, tuttavia, giunsero a Osgiliath inaspettatamente novelle di speme intrise, ché le aquile di Manwe riferirono che le prime avanguardie delle schiere di Gil-Galad e di Elendil avevano attraversato l’Alto Passo sulle Montagne Nebbiose e si accingevano a fare il loro ingresso nelle vaste distese del Rhovanion; lesti, allora, furono richiamati a Nord i reparti di mumakil, Carrieri e delle altre schiere a cavallo, ché Sauron provava nel suo cuore grande paura e temeva che i Cancelli Neri sarebbero rimasti sguarniti qualora i nemici fossero giunti alla sua dimora.

L’entusiasmo dei condottieri dell’Alleanza si mutò tuttavia lesto in inquietudine e poi in terrore allorché comparvero nuovamente i grandi Vermi di Morgoth; l’intera città tremò sino alle fondamenta allorché il soffio gelido della maligna prole del Vala Caduto ne deturpò i possenti torrioni e i gai giardini; vana fu ogni difesa, ché i soldati dei Popoli Liberi erano ormai prostrati e non vi era più forza nelle loro bracce: numerose difese furono abbandonate e molti fuggirono al di là del ponte che conduceva a ponente e alla città di Minas Anor, convinti che Osgiliath orientale fosse perduta. Lesta cadde la notte e alle schiere di Uomini si aggiunsero quelle delle infami creature della Tenebra; restia a cedere era però la difesa del cancello e nessuno fra quanti comandavano le laide schiere del Nemico osava ancora approssimarsi al gelido splendore di Sulring, la lama di Erfea, e con lui erano anche i Principi dei Nani di Khazad-Dum e i Signori dei Noldor in esilio.

Atti di valore furono compiuti durante quella di notte ed essi risuonano ancor oggi gloriosi agli orecchi di quanti ascoltano narrare tali vicende; non vi erano, tuttavia, solo i pesanti battenti delle porte da difendere, ché le mura esterne erano state abbandonate nelle mani degli Orchi e degli altri schiavi sottomessi a Sauron e se costoro non avevano ancora fatto il loro ingresso in città avveniva solo perché gli arcieri, protetti e occultati dall’enorme mole delle torri e dei merli interni, continuavano a scagliare frecce e proiettili su quanti si approssimavano loro.

Per qualche ora, dunque, le difese ressero ancora; infine, una grande ombra cadde su di loro e Bairanax, il Verme del Ghiaccio, piombò su quanti combattevano sugli spalti a meridione, travolgendo nell’impeto della sua foga alleati e nemici; letale, il suo fetido alito imprigionò nel ghiaccio Uomini e Orchi, infine si abbatté con foga sulle mura: alle due del mattino del giorno successivo, una breccia fu aperta e il pericolo piombò improvviso sulla città».

Il Ciclo del Marinio, pp. 297-302

Un erede al trono di Numenor?

Su suggerimento di un mio lettore, il quale, giustamente, mi faceva notare come, nella prima parte del racconto «La Rosa e l’Arpa», da me intitolata «Ritratto di una principessa», si trovi un riferimento a una figura che nel racconto non compare affatto, ossia l’erede al trono di Numenor, mi è sembrato giusto dedicare un articolo alla figura di questo personaggio, la cui genesi, come leggerete nel testo che qui troverete trascritto, è volutamente oscura. L’ispirazione per la genesi di questo personaggio mi è venuta dalla lettura di un passaggio del «Ritorno del Re», nel quale Ioreth, la donna addetta alla Casa della Guarnigione, cerca di spiegare alla cugina chi siano Frodo e Sam:

«No, cugina, non sono bambini», disse Ioreth alla sua parente d’Imloth Melui che era in piedi accanto a lei. «Sono dei Periain, della lontana terra dei Mezzuomini, e dicono che siano principi di grande fama. Io so tutto, perché ne avevo uno da curare nelle Case. Sono piccoli ma valorosi. Pensa, cugina, uno di essi è andato nella Terra Nera solo con il suo scudiero, ed ha combattuto contro l’Oscuro Signore appiccando fuoco alla sua Torre. O almeno queste sono le voci che corrono in Città». Il Ritorno del Re

In questo caso, come si può notare, Ioreth non si mostra in grado di fornire le notizie corrispondenti alla verità alla sua parente: si limita, infatti, a raccogliere le voci che in quei giorni giravano a Minas Tirith peri imbastire una storia plausibile allo scopo di dimostrare a una donna ignara dell’Anello come mai gli Hobbit fossero stati resi tributari di così grandi onori da parte dei reali di Gondor. Oggi la defineremmo una «fake-news»: Ioreth non si preoccupa di verificare se le sue fonti siano o meno attendibili e si limita a fare da cassa di risonanza a una storia che altri hanno elaborato. Naturalmente, in questo caso, la menzogna non intacca il valore di Frodo e Sam, anzi, paradossalmente, ne aumenta i meriti, raffigurandoli come grandi maghi e guerrieri in grado di tenere testa a Sauron in persona, arrivando addirittura a sconfiggerlo!

Il meccanismo di costruzione della menzogna elaborato da Ioreth, dunque, mi ha portato a riflettere sulle implicazioni pericolose di questa forma mentis: mi sono chiesto: «cosa accadrebbe se la diffusione di una fake-news a Numenor portasse con sé pesanti ombre sull’identità del figlio di Miriel e Pharazon?» La risposta la troverete nel seguente brano estratto dal racconto «La Rosa e l’Arpa». Buona lettura!

«Si narra che in quel giorno almeno quindicimila Fedeli, accorsi al porto per ascoltare gli echi dell’arpa del loro principe, abbiano intonato il canto di sfida nei confronti di Ar-Pharazon e del suo mentore Sauron e che costoro abbiano avuto tema non solo di arrestarli, ma anche di uscire fuori dai postriboli lussuriosi nei quali gli unici suoni che si ascoltavano erano i gemiti delle schiave colà percosse per il loro perverso piacere: fra coloro che erano dei Numenoreani Neri, solo un uomo sorrise e, dopo aver abbandonato la sala d’armi nella quale era intento ad accrescere la propria violenza, si diresse, occultato dalle arti oscure che aveva appreso, alla spiaggia di Andunie, ove mirò l’imponente adunata dei Fedeli ivi accorsa.

Il Nero rise in silenzio, infine si allontanò con la stessa velocità con la quale era colà giunto: non vi erano motivazioni per le quali egli dovesse condividere la preoccupazione di suo padre, né egli era sensibile alle emozioni che si erano impossessate del cuore della madre; freddo era il suo spirito ed esso era lungimirante, ché sapeva essere codesto rigurgito di ribellione dei Fedeli l’ultimo cui il regno avrebbe assistito sino alla sua ascesa al trono che sperava giungesse lesta sulle ali del vento dell’est, ché egli aveva nome Vareneli, erede di Ar-Zimraphel e di Ar-Pharazon. Non vi era uomo fra quanti abitavano le contrade di Numenor il quale si fosse rivelato in grado di scorgere letizia o rabbia sul volto del principe e questo accadeva perché egli era abile nell’occultare le sue emozioni, sicché si mormorava che non scorresse solo sangue mortale nelle sue vene e che egli fosse stato concepito dall’Oscuro Signore in persona, donde proveniva il malizioso detto che i suoi seguaci menzionavano di continuo [1]: nessuno, tuttavia, seppe accertare la veridicità di una simile diceria e ciò accadeva a causa della ritrosia che la sovrana mostrava nel discorrere con i suoi ospiti del figlio.

“Si rallegri pure la gente di Amandil, ché essi provino ancora una volta la delusione che accompagna la letizia immotivata e sappiano trarre da essa il medesimo dolore che provò il Morluin allorché si avvide che Ar-Zimraphel, alla quale aveva volto inutilmente il cuore, sarebbe andata in sposa a colui che detestava sopra ogni altro uomo: nessuno di essi sfuggirà al giusto castigo che attenderà i loro animi ed essi arderanno per la gioia del mio Signore”».

[1] “L’autorità di Sauron si estende ovunque domini il sovrano, finanche nel talamo reale”. Varaneli nacque nel 3256 S. E., un anno dopo che Ar-Pharazon si fu impadronito dello scettro di Numenor e si narra che le levatrici che assistettero la regina nel parto fossero state tutte colpite da un misterioso morbo che le aveva condotte alla pazzia ed infine alla morte; sebbene Ar-Pharazon avesse sollevato l’infante dalla culla secondo l’uso e la tradizione dei suoi antenati, assegnandogli il nome, pure erano in molti a dubitare della sua reale paternità, ché il giovane principe era di gran lunga il più bello fra i Numenoreani, sembrando essere più simile ad un Vanya quale Sauron stesso si spacciava, che non ad uno della stirpe dei Secondogeniti: i suoi capelli, infatti, erano chiari come le piume dei gabbiani ed i suoi occhi, scuri come le profondità degli abissi di Ulmo, erano sì luminosi che ben pochi fra gli Uomini erano in grado di reggerne lo sguardo.

Fu dunque la sua inquietante somiglianza con Annatar ad indurre alcuni fra i Saggi di Numenor a ritenere che sotto le sue spoglie mortali si celasse un terribile segreto e che l’Oscuro Sire avesse infine ottenuto l’erede al quale affidare il comando dei suoi eserciti: quale che fosse stata la verità, Varaneli fu tosto iniziato alle Arti Oscure, nelle quali mostrò un’abilità quale neppure il Re degli Stregoni, che era nel loro dominio maestro, seppe mai possedere; non era ancora giunto alla maggiore età che era già divenuto esperto di ogni malefizio ed i Nazgul, molti dei quali si recavano periodicamente dal loro Padrone durante il suo soggiorno a Numenor, presero a chiamarlo “Signore” e a rivolgerli i medesimi tributi che erano soliti recare a Sauron. Non vi era affetto o amore nel cuore di Varaneli nei confronti di sua madre, sebbene egli fosse cauto e mascherasse il suo disprezzo sotto forma di un arido formalismo; altresì, poco o punta stima rivolgeva a colui che chiamava padre, ché ne derideva la lussuria, alla quale non fu mai dedito, considerando le donne come frivoli passatempi con i quali trastullarsi durante le fredde sere di Inverno, e la vanagloria, che stimava essere propria degli uomini deboli.

Temuto dai Neri e dai Fedeli, Varaneli trascorse gli anni della sua pur breve esistenza, se paragonata a quella dei suoi padri, avendo in animo l’intenzione di scovare e di annientare Erfëa, che egli riteneva il massimo tra i suoi avversari: il dolore che gli procurò l’irrealizzabilità di tale desiderio accorciò drasticamente i giorni della sua vita ed egli perì prima ancora della Caduta.

Ritratto di un principe

Concludo il racconto iniziato nell’ultimo articolo: la regina Miriel, ormai adulta e sposata con Ar-Pharazon, racconta al giovane Anarion, cresciuto con il “mito” del paladino Erfea, un episodio risalente alla loro adolescenza, nel quale emergono caratteri inediti dei due personaggi, ancora acerbi e in via di formazione. Per una migliore comprensione di questo racconto, suddiviso in due articoli, è bene tenere presente alcune premesse: Erfea ha 20 anni quando incontra per la prima volta Miriel, più giovane di lui di 5 anni; egli non sospetta ancora che la fanciulla di cui è innamorato sia la figlia di Palantir, perché ella è stata reclusa nel palazzo reale per paura di ritorsioni da parte dei sostenitori di Gimilkhâd (padre di Pharazon). La principessa, tuttavia, stufa di essere prigioniera nella sua stessa casa, di tanto in tanto, con la complicità delle sue dame, si allontana dalla sua dimora, indossando abiti semplici per non destare sospetti, per conoscere la sua gente e la sua terra: in una di queste fughe si imbatte in Erfea, al quale rivela di essere la figlia di un pescatore e di avere nome Earien. Per questa ragione, è sorprendente che Erfea abbia deciso di chiamarla Miriel, attribuendole, in realtà, il suo vero nome senza conoscere la sua reale identità. In questa seconda parte del racconto, Erfea deve mettere alla prova la sua giovanile impazienza nel tentativo di risolvere un enigma che gli pone il suo maestro Numendil, nonno di Elendil.

Buona lettura!

La Rosa e l’Arpa (parte seconda)

«Una settimana prima della Cerimonia dei Nomi [1], il mio Maestro Numendil, che all’epoca si mostrava ben poco nei corridoi e nelle aule dell’Accademia a causa dei palesi contrasti che erano fra lui e i principi dell’avversa fazione, chiamatomi in disparte, così mi parlò “Figlio di Gilnar, alcuni Maestri riferiscono che tu sei lesto nell’apprendere, sebbene disdegni gli altrui consigli e mostri insofferenza verso coloro che osano mettere in dubbio la tua preparazione”.

“Maestro – gli risposi io, non prima di essermi inchinato con referenza – dite piuttosto che l’insofferenza nasce negli animi di coloro che non scorgono altra Via se non quella che essi così stoltamente e pericolosamente percorrono.”

Numendil sospirò: “La Via è unica, tanto per i figli di Iluvatar, quanto per la prole di Morgoth e per quelli che segretamente lo onorano. Credi forse che i miei occhi siano ciechi, che non scorgano la corruzione che serpeggia in questi antichi corridoi? No, giovane Ëarel, tu hai colto solo un aspetto della Via e ti sei limitato ad apprendere quanto il tuo cuore desiderava fare suo. Sei abile con le armi e pochi possono tenere il confronto con la tua favella; eppure, pur essendo tu lesto con la mente, non lo sei altrettanto con il cuore ed esso disdegna il confronto. Il tuo sguardo è rapace nel cogliere le altrui debolezze, eppure questa è un’abilità di infima importanza, che non farà di te un Signore come un tempo ve n’erano a Numenor. Sai riconoscere le conseguenze delle azioni che tu ed i tuoi compagni compite, ma non sei in grado di cogliere l’origine di esse ed il tuo animo disdegna profondamente sentimenti come amore e pietà.”

“Mettetemi alla prova, Signore – lo provocai io, ferocemente – non vi deluderò”.

Numendil sospirò profondamente ed un’ombra di inquietudine parve occultargli il volto, infine parlò: “Sia dunque come tu desideri: ti affiderò il seguente Saitië [2].” Rifletté per un attimo, infine batté per tre volte le mani e parlò: “Tu puoi sentire il suono di due mani quando battono l’una contro l’altra. Ora mostrami qual è il suono di una mano sola.”

Inchinatomi in silenzio, abbandonai la sua aula e mi diressi nella mia dimora per meditare; quella sera, mio padre dava una festa ed i bardi trascorsero l’intero pomeriggio ad accordare gli strumenti: affacciatomi dalla balaustra ove ero intento a riflettere, mi avvidi che molti fra loro erano soliti compiere gli esercizi musicali con una mano sola; allora, certo di aver compreso, il giorno seguente tornai da Numendil e gli feci ascoltare i suoni che gli artisti il giorno prima avevano prodotto. Il principe di Andunie guardò i miei gesti, infine mi congedò con queste parole: “No, no, questo suono non corrisponde a quello che una mano sola sarebbe in grado di eseguire. Non hai compreso nulla, va’ a meditare ancora”.

Irato, lasciai che i miei passi mi conducessero altrove, nei grandi giardini della reggia di Armenelos, nei quali, già a quei tempi, non era solito recarvisi più alcuno fra i signori di questa terra: ancora furioso per lo smacco testé subito, mi sedetti su di un basso scranno di pietra consunto dall’umidità e dal tempo, e nel silenzio di quelli stessi luoghi nei quali oggi noi discorriamo, ebbi sentore dello sgocciolio dell’acqua lungo il mio sedile e ne fui affascinato; pian piano, esso entrò nella mia mente ed io esultai, perché mi parve di aver raggiunto la soluzione al quesito che il Maestro mi aveva posto. Non appena feci ritorno da lui, tuttavia, mi avvidi che egli non condivideva affatto il mio pensiero: “Cosa sarebbe, dunque, questo? La pioggia è il canto di Manwe, non quello di una mano sola! Va’ e medita ancora!”.

Confuso e ormai prossimo alle lacrime, fui colto dall’ira e sguainata la corta lama che pendeva al mio fianco, tranciai di netto una mano marmorea che apparteneva ad una statua lì situata: “Il suono che emette una mano sola – ringhiai allora, accecato dalla collera – è dolore e morte, ché se questa statua fosse stata costituita da carne e non da candida pietra, molto ne avrebbe avuto a soffrire.” Temevo – ora non ho esitazione nel confessarlo – che il mio Maestro avrebbe punito duramente il mio sfogo; con mio sommo stupore, al contrario, egli si limitò a sguainare la sua nobile lama e ad assumere la posa che tutti i Cynd seguono allorché sono intenti nella meditazione [3]. Confuso ed ignorando quale significato potesse avere il suo comportamento, abbandonai la sua dimora e mi diressi lontano, finché i miei occhi non riconobbero più i luoghi ove mi trovavo ed i miei piedi non furono troppo stanchi per proseguire oltre. Il capo chino su un costone roccioso, versai lacrime amare e mi abbandonai allo sconforto, finché il dolore per il mio comportamento errato non fu trascorso ed io non avvertii null’altro se non una grande tranquillità: per cinque notti meditai sul silenzio e mi parve che esso risuonasse al mio orecchio, più forte del grido di dolore che un uomo privato della sua mano avrebbe emesso, più forte dello sgocciolare dell’acqua sulle rocce, più forte della musica che i bardi creano nelle notti d’estate per alleviare i nostri animi dalle pene e dai dolori. Lieto in volto, corsi allora da Numendil e lo trovai nella sua dimora che chiacchierava piacevolmente con suo figlio Amandil, il quale sarebbe divenuto mio Signore allorché fosse giunta l’ora: allorché egli mi scorse, congedò con gentili parole suo figlio e si accinse ad ascoltarmi: “Mio Signore – esordì io prostrandomi a terra – poiché non vi era alcun suono che  potessi immaginare essere prodotto da una mano sola, ho superato il canto del gufo, lo stormire del vento tra gli alberi e il canto degli amanti nel giorno di mezz’estate ed ho raggiunto il suono senza suono.”

Numendil allora, con mia grande meraviglia, si levò dal suo scranno e dopo essersi inginocchiato dinanzi a me, alla maniera degli uomini di questa contrada, parlò: “Hai dunque udito il suono di una mano sola, il silenzio ed hai dato ad esso un nome: d’ora in avanti, esso non ti atterrirà più, perché saprà sempre parlare al tuo cuore e nel suo regno troverai conforto.”

Himel si arrestò un attimo, mentre la sua mano carezzava dolcemente il mio viso – e qui parve ad Anarion che Ar-Zimraphel seguisse con lo sguardo un movimento che era a lui invisibile – infine proseguì a parlare: “Puoi ben immaginare quanto fosse grande la mia felicità nell’apprendere che l’interpretazione era corretta; tuttavia, poiché la mia curiosità superava ogni altro sentimento, non riuscii ad esimermi dal domandare a Numendil perché mi avesse posto quel Saitië, pur sapendo che egli non avrebbe mai potuto rispondermi: “Giovane figlio di Gilnar, a questo punto dovresti aver compreso quale intento mosse il mio intelletto a porti una simile domanda. Non ti ha insegnato nulla questa esperienza?”

Riflettei a lungo, infine gli risposi: “Mio Signore, ho appreso come il Suono ed il Non Suono siano entrambi presenti e necessari alle nostre esistenze per conservare l’equilibrio e che se talvolta privilegiamo l’uno a favore dell’altro, questo non significa che quanto abbiamo escluso con la scelta venga meno.”

“Così è – rispose il sire di Andunie – eppure, bene sarebbe se tu rapportassi quanto hai testé pronunciato ad una realtà che ti è prossima: non ignorare quanto i tuoi sensi desiderano e non sacrificare l’unità del tutto in nome di una parte.”

Arrossii, infine compresi: “Voi sapete quale nome sceglierò domani, ché, ve lo leggo negli occhi, siete un uomo sì lungimirante come pochi altri potrebbero esserlo a Numenore: eppure, ora mi sovviene che esso non è adatto che ad indicare solo uno fra i piani della mia esistenza e non vorrei nel suo nome rinunciare a quanto è nel mio cuore; come il terzo appellativo è per le grandi occasioni, così il quarto lo è per tutte, piccole o illustri che siano. Non rinuncerò alla mia essenza più profonda ed essa darà luce al mio nome”. Riflettei ancora qualche istante, infine sussurrai all’orecchio sinistro del mio Maestro la mia scelta; egli acconsentì, infine, aperta una piccola scatola intarsiata che teneva sul massiccio tavolo di taek che troneggiava imponente nella sua dimora, ne trasse un gioiello, lo stesso che ora vedi brillare nel mio pugno e lo lasciò cadere nelle mie mani, pronunciando queste parole: “Diverrai un grande Paladino e l’indegna prole di Morgoth temerà a lungo il tuo nome; io temo, tuttavia, che i pericoli più grandi per te giungeranno non dall’esterno ma dal tuo cuore, ché esso sarà sottoposto a molte privazioni e non tutte saranno dovute alle tue incapacità. Prendi questo gioiello che secoli or sono la mia gente ricevette dagli elfi del Vespro e donalo a chi intreccerà il suo percorso con il tuo: possa essere la tua scelta giusta e saggia, perché in esso vi è intriso un grande potere.”

Pronunciate queste parole, Ëarel allora tacque e afferrata la catenina d’argento la cinse con dolcezza al mio collo e si approssimò a lasciare il luogo nel quale così a lungo avevamo discorso; prima che il suo nero mantello volgesse ad oriente, alla casa dei suoi padri, egli tuttavia si voltò e, sorridendo, pronunciò queste parole: “Hai dunque appreso il mio nome, signora dell’Andunie. Se il tuo cuore lo vorrà, io ti chiamerò Miriel, Colei che risplende ove ogni altra luce sembra perire”. Commossa ed intenerita da quelle parole, mi levai per sfiorargli ancora una volta il viso, ma egli era già sceso lungo il pendio boscoso e solo il pesante incedere dei suoi stivali riecheggiò ancora nella notte.

“Ignoravo questa storia, mia signora – interloquì allora Anarion, che affascinato dal suo racconto aveva ascoltato le sue parole in silenzio – eppure non sono sorpreso, ché Erfëa era solito parlare di voi in siffatti termini e riteneva che nessuna altra figlia di Iluvatar potesse eguagliare la vostra beltà e la vostra saggezza”.

“La saggezza l’ho perduta; quanto alla bellezza – rispose lei tristemente – non mi è oggi di alcuna utilità”. Sospirò, infine si congedò dal principe dell’Andunie con queste parole: “Oggi avete allietato il mio cuore: possano i Valar ricompensarti con quanto ambisci ottenere.” Ar-Zimraphel si voltò e si accinse a lasciar quel luogo; infine, ritornata su i suoi passi, si inginocchiò accanto ad Anarion e lo pregò di prendere il gioiello che un tempo era stato suo e di restituirlo ad Himel allorché l’ora fosse giunta: il figlio di Elendil, tuttavia, rifiutò, accompagnando il suo diniego con queste parole: “Il mio Signore lo affidò in voi in nome di un amore che il tempo e la lontananza non hanno eroso; a quale pro, dunque, rimetterlo nelle sue mani? Un simile atto indicherebbe ai suoi occhi che lo avete voluto dimenticare: è forse questo il vostro disio? Siete certa di quanto il vostro braccio ha intenzione di compiere?”

Stupefatta, Ar-Zimraphel mirò a lungo il bel viso del giovane Numenoreano, infine mormorò: “Sia così, dunque; anche quando la tenebra sarà intorno a me, la sua stella continuerà a brillare, come accadeva nei giorni che sono ormai fuggiti all’Occaso. Siete invero saggio, figlio di Elendil: in voi sopravvive la tempra del vostro Signore che i miei occhi sanno non poter più mirare per il resto della mia esistenza terrena”.

“In questa vita, forse – le fece eco Anarion – eppure, nessuno fra coloro che sono dei Secondogeniti ha appreso che cosa attenda i nostri spiriti allorché si compie il Fato di Mandos ed il mio cuore mi dice che non tutti i vincoli muoiono allorché giunge l’ora dell’addio.”

Ar-Zimraphel sorrise e per un istante parve ad Anarion che il fardello degli anni e del rimorso le fosse stato rimosso dal viso e dalle mani: infine si voltò e, mentre percorreva la strada che l’avrebbe ricondotta alla sua dimora, la stella di Himel brillò sì forte sul suo petto che Sauron, il quale fu l’unico a scorgerla allorché giunse a tarda ora al palazzo reale, ne fu sbigottito e si allontanò da qualche tempo da Armenelos, cercando la salvezza presso roccaforti e cunicoli che i suoi servi avevano edificato in gran segreto, ove punti o pochi uomini vi si avventuravano e ancor meno ne tornavano indietro per raccontare cosa vi avevano veduto.

Anarion, dopo aver a lungo meditato su quanto era accaduto quel dì, fece anch’egli ritorno alla sua città, ove alcuno gli pose domanda ed egli non pronunciò alcunché in merito a quanto era accaduto: nei giorni seguenti, sovente si avventurò al di fuori dei cancelli della contrada di Andunie, ove invano attese che Erfëa facesse ritorno alla sua patria; i venti del mondo erano però mutati ed egli non lo rivide più, ritto sul pontile della sua imbarcazione, giungere ad Andor come in passato e trascorsero molti anni prima che potesse scorgerlo, ancora fiero come nei giorni della sua gioventù, durante un mattino dorato, alle foci dell’Anduin, un giorno d’autunno».

Fine

[1] La Cerimonia dei Nomi (Arkhonator, nella favella dei Numenoreani) aveva luogo nell’Accademia Reale tra il decimo e l’undicesimo mese dell’anno e vi prendevano parte i giovani cavalieri allo scopo di essere consacrati secondo il nome che sceglievano e del quale, tuttavia, non avevano facoltà di parlare prima che fosse giunto il venticinquesimo anno di età. Non stupisce, pertanto, che Miriel abbia dimostrato un simile stupore dinanzi alla rivelazione che Erfëa fece riguardo al suo vero nome.

[2] I Saitië erano degli esercizi mentali che i Maestri ponevano agli allievi affinché fossero spronati a meditare e accrescessero la loro forza spirituale.

[3] Quando un Cundo meditava, era solito sedersi con le gambe incrociate sulla nuda roccia ed appoggiare la fronte sull’elsa della propria lama, la quale era sguainata e posta fra il capo e l’incavo che la posizione degli arti inferiori veniva a configurare; questo comportamento era dettato dalla triplice necessità da un lato di mostrare quanto il Paladino fosse un tutt’uno con la sua arma, dall’altro di apprendere, tramite il contatto fisico, le virtù proprie della spada e infine di rimembrare a coloro che erano dell’Ordine dei Paladini quanto i loro corpi fossero caduchi, mentre i valori per i quali essi combattevano e che erano incisi su ogni lama, fossero immortali: essi erano, nell’ordine in cui erano riportati, Comprensione, Amore, Pietà e Perdono.

Ritratto di una principessa

Abbandono temporaneamente la narrazione dell’assedio di Gondor, sulla quale tornerò per spiegare in quale occasione Anarion sia stato ferito, per dedicarmi a uno dei personaggi più affascinanti dei miei racconti, nei confronti del quale ho un debito letterario: Miriel, principessa e poi regina di Numenor. Scrivo così, perché, dopo aver terminato il corpus principale dei miei racconti, mi sono reso conto di non aver approfondito particolarmente questa figura, sulla quale, invece, avrei voluto soffermarmi maggiormente. Inizialmente, infatti, la figura femminile di riferimento di Erfea avrebbe dovuto essere Elwen, la Mezzelfa: immagino di essere stato influenzato in questa scelta dall’interesse suscitato in me dalla storia di Aragorn e di Arwen, che avrei voluto capovolgere, mostrando le difficoltà di essere a metà fra gli Uomini e gli Elfi, fra la mortalità e l’immortalità. Una mattina, invece, casualmente, iniziai a leggere il mito greco di Ifigenia, figlia del re Agamennone, uccisa con un inganno per permettere alla flotta greca di salpare alla volta di Troia e iniziare così il celebre assedio. Naturalmente conoscevo già, a grandi linee, la vicenda di Ifigenia; rileggendola, tuttavia, fui colpito da un aspetto che sino a quel momento avevo trascurato: il senso di profonda tragedia insita nella sua vita, dovuta all’inganno del quale era stata vittima. Suo padre, infatti, per non confessare alla moglie e alla figlia che questa avrebbe dovuta essere sacrificata alla dea Artemide, aveva mentito ad entrambe, giustificando la necessità di avere Ifigenia al campo greco con una ragione di stato alla quale la figlia non avrebbe potuto sottrarsi: il matrimonio con il più forte (e bello) degli eroi greci, il prode Achille. Nella riduzione a prosa della sua tragedia, mi commosse il profondo senso di fiducia che Ifigenia mostrava nei confronti del padre, prima di conoscere la terribile verità: non si sarebbe sposata con Achille, ma la sua vita sarebbe stata presa in pegno per permettere ai Greci di raggiungere Troia. La mia commozione e il senso di pietà nei confronti della fanciulla, tuttavia, raggiunsero lo zenith, quando lessi della sua reazione alla condanna a morte che posava sul suo capo: mentre sua madre giurava di farla pagare ad Agamennone (realizzando il suo proposito dopo la fine della Guerra di Troia, ma questa è, come si suol dire, un’altra storia), Ifigenia accettava di essere vittima della «Ragione di Stato» con un coraggio pari solo al senso di profonda rassegnazione mostrata in quella circostanza.

Perdonate questa lunga digressione, tuttavia era necessaria per spiegarvi le ragioni che mi spinsero ad affiancare ad Elwen, bella, capricciosa, un po’ immatura forse, ma anche dotata di grande orgoglio e voglia di vivere, un personaggio femminile diverso, sul quale gravasse il senso di una tragedia che avrebbe colpito non solo lei, ma tutto il suo popolo e la sua terra. Come Ifigenia, anche Miriel è una principessa: entrambe, inoltre, sono figlie di due sovrani molto potenti (Tar-Palantir era il sovrano del più ricco regno umano, così come Agamennone era il re di Micene, considerata la più potente città degli Achei). Entrambe sono cresciute seguendo un rigido codice comportamentale, come accade di solito a quanti vengono educati per assumere, da adulti, posti da comando: entrambe, infine, non si sono opposte al destino di morte che aleggiava su di loro, finendo comunque col sacrificarsi invano. Miriel accetta il matrimonio con suo cugino, Pharazon, sperando di mitigare gli aspetti più «controversi» del suo carattere, senza successo, anzi finendo con l’annegare durante la caduta di Numenor; Ifigenia, d’altro canto, accetta di morire per permettere alla flotta greca di raggiungere Troia e perpetuare così un ciclo di massacri e vendette che non avranno termine neppure alla caduta della città di Priamo. Entrambe, infine, avranno una vita sentimentale che avrebbe potuta essere molto diversa da quello che accadde realmente. Ifigenia, la più sfortunata delle due (forse), non ebbe neppure il tempo di viverla, ma solo di immaginarla; Miriel, invece, ebbe almeno qualche breve momento di felicità intima prima di legarsi indissolubilmente a Pharazon.

Il brano che vengo qui a presentarvi è una sorta di lungo flash-back, narrato da una Miriel ormai adulta a un giovane Anarion, nel quale, forse, la regina di Numenor rivedeva il suo amore perduto. La seconda parte del racconto, intitolata volutamente «Ritratto di un principe» sarà pubblicata nei prossimi giorni. Buona lettura!

La Rosa e l’Arpa

«Ar-Zimraphel avrebbe dovuta essere la legittima sovrana di Numenor, ma cedette agli inganni del cugino e di Er-Murazor, il Signore dei Nazgul: aveva, dunque, abdicato al trono e condannato la sua patria all’infame schiavitù da parte degli Uomini del Re, che adesso si facevano chiamare Numenoreani Neri; vi erano pochi, perfino fra i Fedeli, che conoscevano le motivazioni che avevano spinto la figlia di Tar-Palantir a rinunciare allo scettro del regno e ancor meno numerosi furono coloro che compresero la sua scelta: tuttavia, poiché ferite che ella credeva si fossero ormai rimarginate erano state riaperte a causa dell’incontro con Erfëa e dalle notizie che costui le aveva comunicato, ed ella era invero infelice, prese la migliore tra le decisioni che le si prospettavano e decise di aprire il suo cuore a quanti erano della stirpe degli eredi di Silmariel.

Accadde così, dunque, che una sera Miriel giungesse al cancello di Andunië e chiedesse udienza presso i principi di quella contrada: non appena l’ebbe ricevuta, ella fu condotta lungo una bianca galleria che collegava il cancello con la piazza centrale della città: ivi, ella scorse due giovani guerrieri che sfidavano un ugual numero di automi e per lungo tempo i suoi occhi e la sua mente furono impegnati a seguire i rapidi movimenti con i quali essi si difendevano o, al contrario, attaccavano i loro avversari. Non appena i combattimenti cessarono, ella si approssimò ai due othar e chiese loro di abbassare la visiera che ne celava i volti; allora il più grande fra i due parlò e la sua voce fu dura come l’eog che i fabbri di Ost-In-Edhil lavoravano molti secoli or sono: “Orsù, donna, non vedi che io e mio fratello siamo impegnati in simili combattimenti? La cotta di maglia madida di sudore ed il sangue non si addicono a quelle della tua stirpe, ché esse, lo so bene, sono abituate ai ricchi cuscini degli altezzosi palazzi! Vieni meco Anarion, lasciamo che codesta dama si trastulli con le finzioni e con i trucchi che i cortigiani di palazzo agitano dinanzi ai suoi occhi al solo scopo di avere un cenno della sua approvazione!”

Sulle prime, Anarion non pronunciò parola, ché egli era rimasto alquanto turbato: la dama era simile ad un sole che tramonta, ché il rosso le adornava le chiare gote ed i suoi capelli color dell’oro erano rischiarati dall’ultima luce morente che l’astro reca seco quando si diparte da Endor. Saggezza e lungimiranza erano in lei, sebbene un velo di malinconica bellezza le coprisse i chiari occhi e rendesse la sua voce simile ad un eco remoto che giunga dalle profondità di Osse. Lesto, il secondo figlio di Elendil si chinò dinanzi alla donna, non prima di aver calato il suo elmo: il suo volto, che mai nessun nemico aveva atterrito era ora rosso come il rame che adornava i tetti della dimora paterna; stupefatto lo mirò il fratello maggiore, che così aspramente gli si rivolse: “Cosa significa, dunque, questo comportamento? Mai avrei detto che mio fratello sarebbe stato così codardo da obbedire ad una donna. Non ricordi cosa il nostro Signore e Maestro ebbe a dirci allorché riprese la strada per l’esilio? Egli esortò i nostri spiriti a concludere le imprese senza che alcuna distrazione potesse impedirci di portarle a termine: così, dunque, tu verresti meno all’amore che egli ha dimostrato per noi in innumerevoli occasioni, per ottenere le lascive attenzioni di una pallida dama?”

“Fratello mio, i tuoi occhi sono divenuti sì ciechi da non riconoscere colei che è dinanzi a noi? Ella è la regina di Numenor, dama Ar-Zimraphel, sicché dovresti mostrarle maggior rispetto”.

Isildur sostenne a lungo lo sguardo della sovrana e a Miriel parve simile ad Himel allorché questi era giovane ed il fardello degli anni trascorsi in esilio non gravava ancora sulle sue spalle; infine parlò e la sua voce fu sì tagliente da risultare simile alle spade che Maeglin forgiava in Gondolin nei Giorni Remoti: “Come il cervo riconosce il lupo allorché fiuta il suo lercio umore nella boscaglia, così l’uomo probo avverte il pericolo che si cela nelle tenebre di questi giorni ancor prima che questo si manifesti. L’identità di tale donna non mi è sconosciuta, né potrebbe essere altrimenti, che dalla sua sopravvivenza è dipesa la dipartita del nostro Maestro. Rammenta quanto ti dico: ella conduce seco grandi disgrazie”.

Incerto, Anarion chinò il capo dubbioso: poco o punto note gli erano all’epoca le vicende del principe degli Hyarrostar ed egli non aveva ancora conseguito la maggior età quando il conflitto tra Fedeli e seguaci di Pharazon imperversava nella sua patria e nelle colonie; infine, poiché riteneva il silenzio ben più grave di qualunque offesa ed il suo era un animo incline al perdono e alla clemenza, così rabbonì il fratello:

“Amico mio, quanto tu affermi io non posso negare, ché all’epoca ero troppo giovane per ricordare simili eventi e sovente la memoria produce inganni ben più di gravi di quelli che conducono seco le parole pronunciate frettolosamente: lascia, dunque, che la regina parli dinanzi a noi o se non vuoi ascoltare quanto ella intende rivelarci, lascia che io rimanga in sua compagnia”.

Isildur mirò il fratello ed il sospetto che aveva dipinto sul volto fu sostituito dall’affetto, senza che esso, tuttavia, trovasse modo di scalfire la dura maschera che il principe di Andunie recava onde indurre i nemici a temerlo; speranza fugace si dimostrò questa negli anni a venire, che egli confuse arroganza con orgoglio e fece della sua rabbia una forza che non seppe controllare a lungo e che, al termine della sua vita, non gli giovò affatto; tuttavia, poiché altrove si narra di quanto accaduto al termine della seconda era, qui non si troverà altro cenno.

“Dal momento che la tua clemenza si è dimostrata di gran lunga superiore alla tua – e qui parve che la voce di Isildur si incrinasse per un attimo – comprendo perché il Maestro nutra una tale fiducia nei tuoi riguardi, fratello mio. Puoi rimanere, se tale è il tuo desiderio; io perseverò nell’allenamento, ché non sarà lontano il giorno in cui le Orde che costei ha così impunemente introdotto nel nostro reame saranno nuovamente affamate ed il loro Signore reclamerà quanto in passato non è riuscito ad ottenere con l’inganno e con la corruzione”.

“Nostro padre non condivide il tuo parere, fratello” mormorò Anarion e l’eco delle sue parole si perse nella bruma della sera.

“Elendil della casa di Andunie ignora molte cose – adesso il tono di Isildur era divenuto nuovamente cupo – né dovrò attendere a lungo prima che possa mutare parere”. L’erede di Silmariel sospirò, infine parlò nuovamente prima di prendere congedo: “Mostra cautela nei confronti di codesta dama, ché non si dica che tu sia caduto nel medesimo errore di chi in passato mostrò infinita stima ed amore nei suoi confronti”.

Non si era ancora spento l’eco delle sue parole che la lieve, ma stanca voce di Ar-Zimraphel si levò: “Figlio di Elendil, sei molto simile al tuo Maestro nel portamento e nella fierezza e se la mia lungimiranza non è del tutto scomparsa, dirò che verrà il tempo in cui lo supererai per fama e per abilità nelle arti del combattimento; tuttavia non sembri aver ereditato da lui la medesima cortesia e comprensione”.

“Così è – replicò lui fiero – dove l’hanno condotto, infatti, simili pregi? In tale epoca di terrore e di disperazione, io li considero poco più che lussi per quanti non possono o non vogliono rinunciare a qualcosa che non esiste o che è stato tale solo molti anni fa”.

“Non conosci gli avvenimenti di cui così impunemente discuti con me e con tuo fratello!” replicò lei, irata per la risposta che suo cugino aveva pronunciato.

“Conosco quanto il mio cuore sa essere vero; le tue menzogne non hanno presa sul mio animo, né la mia mente intende farle sue: credi, forse, che io abbia obliato quando accadde diversi anni fa? Ero giovane, è vero, eppure sufficientemente abile a discernere il vero dal falso, la mente dal cuore: se un tempo colui che rivolse i suoi pensieri a te fosse stato ispirato da un volere simile al mio, forse il destino di quanti oggi vagano per questa terra martirizzata dalla guerra sarebbe stato diverso”.

“Sei abile nelle parole, giovane othar – gridò Ar-Zimraphel, e nei suoi occhi comparve la rossa fiamma della collera – ma vi sono ancora molte abilità che ti sono precluse e che forse lo saranno fin quando Mandos non recederà i fili della tua vita!”

Isildur impallidì, ché egli temeva la morte sopra ogni altra cosa; tuttavia, poiché non desiderava che il suo avversario approfittasse del suo stato d’animo, fattosi forza replicò: “L’ora in cui Mandos reclamerà il mio spirito è sconosciuta ad entrambi, donna; mostri ipocrisia reclamando un simile dono di lungimiranza, ché esso è quanto di più lontano da te adesso ed io questo non lo ignoro.” Rise a lungo e dopo averle rivolto un inchino beffardo, si allontanò svelto.

Anarion gli rivolse un ultimo sguardo prima che sparisse, infine sospirò a lungo: “Perdona mio fratello per le parole avventate che ha pronunciato dinanzi a te; il suo animo non ha trovato più pace dal momento in cui Erfëa ha abbandonato questa contrada ed egli cova nel suo animo vendetta contro chi l’ha tradito.”

Sulle prime Ar-Zimraphel nulla ribatté, infine parlò e la sua voce fu compassata come lente sono le foglie a cadere nel grigio meriggio di un giorno d’autunno: “Non è l’ira di Isildur che io temo, ché egli poco o punto conosce di me ed i suoi ricordi sono distorti dal rancore di chi più non è qui e vaga lontano, in contrade remote”.

“Mia signora – rispose Anarion dolcemente – quanto più cara fu la persona che inferse la ferita, tanto più essa procura dolore in chi la riceve”.

“Cosa credi, dunque? – e la collera della regina fu nuovamente visibile – che il mio cuore non sanguini per quanto accaduto? Solo perché la sua ferita è visibile, tuo fratello riceve i conforti che nessuno ha mai rivolto al mio animo: tutto in questa terra mi è ostile, compresi quanti dovrebbero tutelare la mia esistenza!”.

Il secondogenito di Elendil le prese la mano destra e portandola al cuore, pronunciò sagge parole di conforto: “Non conosco bene quali timori e quali angustie turbino l’animo della mia regina, tuttavia ella potrà trovare in me un amico con il quale dissipare i propri dubbi. Suvvia, dunque, raccontatemi dei giorni passati, allorché colui che adesso chiamano il Principe Ramingo era il Signore di una contrada oggi abbandonata”.

Stupita, Ar-Zimraphel mirò a lungo il giovane uomo che infinita premura aveva mostrato nei suoi riguardi e per lunghi istanti solo la voce del ricordo parlò in lei: infine, quasi che fosse stata risvegliata da un lungo torpore, ella si mosse e gli cinse le forti spalle ed il robusto petto, ed essi rimasero a lungo l’uno nelle braccia dell’altro, trovando quel conforto che altrove era stato loro negato.

“Himel, che voi chiamate Erfëa, era abile con le parole così come lo era con la spada, né voi siete da meno: la mia gratitudine nei vostri confronti in questo momento supera il dolore che a lungo ha attanagliato il mio cuore. Ho da rivolgervi, dolce amico, una preghiera: sapreste allietare il mio animo con l’ausilio di un dolce strumento? In cambio, io accompagnerei la vostra musica con il mio canto”.

Sorrise a lungo Anarion, ed il suo fu tuttavia un triste gioire, ché egli era lungimirante e capiva che altro la sovrana non vedeva in lui se non un’ombra di colui che era stato in passato il suo Maestro: non volle, tuttavia, declinare il suo invito, ché egli sapeva quanto ella fosse volubile e temeva che la pazzia latente che covava nel suo sguardo sarebbe divenuta tosto un morbo che avrebbe finito con il divorare quanto ancora serbava dell’amore che aveva ricevuto un tempo; era ancora un giovinetto allorché Erfëa aveva ottenuto il titolo di paladino che gli spettava di diritto e sebbene di quei remoti giorni avesse preservato un pallido ricordo, pure era stato fra coloro che avevano rifiutato di prestare giuramento a Pharazon ed aveva appreso molto dal suo Maestro allorché era stato ospite di Amandil nei mesi trascorsi.

Lesto, un servo della dimora condusse al suo Signore l’arpa che un tempo era stata di Gilnar e che Erfëa gli aveva regalato allorché si era congedato da lui, ed Anarion suonò una ballata che gli elfi di Gil-Galad avevano insegnato ai suoi avi: lesta, la chiara voce di Ar-Zimraphel intonò un canto triste sulla caduta del Doriath: incuriositi ed affascinati da quanto si udiva riecheggiare tutt’attorno, uomini e donne, infanti ed anziani, aprirono i loro usci che la saggezza di quei tristi giorni consigliava tener ben chiusi e si diressero, dapprima incerti ed inquieti, verso il mare, ed i loro silenti sguardi furono testimoni di quanto più non avrebbero visto nel corso delle loro pur lunghe vite. L’erede minore di Elendil sedeva sulle rocce che la furia di Ulmo aveva smussato nel corso dei lunghi secoli ed i lunghi capelli neri che egli ora recava sciolti parevano ondeggiare seguendo il ritmo delle note che dalla sua arpa si sprigionavano: accanto a lui, la voce della sovrana di Numenor si librava chiara nell’aere e le sue tristi lacrime si mescolavano con quelle fiere e rabbiose di Ossë. Non vi era pietà, né cordoglio negli sguardi di coloro che erano del popolo di Andunie, ché essi erano dei Fedeli ed erano cresciuti in numero negli ultimi anni, da quando il decreto di Ar-Pharazon aveva costretto quanti erano di quel partito ad abbandonare le loro avite dimore per trasferirsi nel feudo degli eredi di Silmariel: con loro erano anche quanti dello Hyarrostar erano sopravvissuti alla guerra civile e non avevano ancora abbandonato i lidi a loro cari, non obliando tuttavia il ricordo di quei giorni infelici, né la fedeltà ad Erfëa; essi, ad ogni modo, compresero che il dolore di colei che un tempo chiamavano Miriel e che amavano sopra ogni altra dama della casa reale, era quello di chi aveva ceduto la sua libertà per preservare l’esistenza di una persona a lei cara. Non avevano, forse, anch’essi rinunciato a quanto avevano di più caro, accettando di trascorrere i loro giorni nell’amara agonia del rimorso? Non avevano, forse, respinto quanto i loro cuori agognavano per prestare fede al giuramento che nessun sovrano, per quanto crudele fosse, avrebbe mai potuto spezzare, neppure con la più crudele delle torture? Non era, forse, vero che anch’essi avevano amato Erfëa quanto la loro sovrana ed erano in questo accomunati dalla perdita? Dapprima esitarono, che il cantare era reputato disdicevole in simili giorni di terrore, infine, alcuni, fra i più giovani, acquisirono coraggio e così rimproverarono quanti ancora erano incerti sul da farsi: “Orsù, dunque, voi che combatteste contro colui che si fece tiranno calpestando le leggi e la tradizione di questo regno, avete obliato il ricordo della felicità dei tempi passati? Cantate, ché nessuno possa dire i Fedeli essere sì prostrati da aver tema di esprimere simili sentimenti! Cantate, voi che sovente avete narrato a noi giovinetti quanto forse i nostri occhi mai mireranno! E forse, giacché la nostra vista mai si soffermò su giorni più felici, il nostro cuore può fare a meno di ignorare il desiderio di inneggiare a quanto ci sarà per sempre negato? Cantiamo, dunque, ché i tiranni odano l’eco delle nostre voci e seppur indaffarati nel tetro gozzovigliare delle loro orge, temano il nostro canto come un tempo temevano le nostre lame!”

In principio, dunque, fu solo un giovane a levare il suo canto ed Anarion, che pure aveva udito poco o punto di quanto i Fedeli avevano discusso, comprese che la sua musica non era più consona ai sentimenti che egli, di gran lunga il più lungimirante fra i principi presenti, comprese essere vivi nei cuori dei suoi sudditi e mutò gli accordi sull’arpa, levando una melodia che egli non sapeva donde derivasse e che in seguito non seppe più riprodurre: Ar-Zimraphel, che era discesa lungo il crinale della scogliera, lasciando che la brezza marina le scompigliasse i lunghi capelli e l’acqua le lambisse i lembi inferiori del lungo abito grigio, resasi conto, seppur in ritardo rispetto al cugino, del mutamento che il canto del popolo aveva indotto nel suo cuore, mutò il proprio canto di dolore in uno che fosse colmo della medesima letizia che aveva colto gli animi che erano con lei e le sue lacrime cessarono di scorrere sulle gote che il vento percuoteva con forza. […]

Anarion, il quale era intento a pizzicare le corde della sua arpa, pur non riuscendo a scorgere l’oscuro sembiante dell’erede al trono di Numenor, né ad ascoltare le parole che costui aveva pronunziato a bassa voce, ebbe però il cuore turbato da un improvviso male, sicché abbandonò lo strumento ed il suo canto tosto tacque: Ar-Zimraphel, che era in basso ed aveva il mente ed il cuore colmati dalla possente voce di Ossë, se ne avvide in ritardo e stupita gli si volse con codeste parole: “Perché hai dunque arrestato il tuo canto? Perché le tue forti dita non stringono più le corde della tua arpa? Vi è forse qualcosa o qualcuno che turba il tuo cuore?”

“Sì – replicò dopo un lungo silenzio il figlio minore di Elendil – tuttavia non desidero farne parola con colei che tollera un dolore ben più forte del mio”.

Ar-Zimraphel, tacque, a sua volta irretita dalle parole che suo cugino aveva adoperato; infine, dopo che il popolo si ebbe ritirato nelle sue dimore, ella prese per mano Anarion e lo condusse nei pressi di un’isolata cala, ove solo gli uccelli e le foche osavano disturbarne la quiete: sospirò, infine parlò: “Non credere che io ignori quanto il tuo cuore crede di essere l’unico a conoscere, né che io non comprenda la tua ritrosia nel parlarne: sii felice, piuttosto, di non essere stato turbato allo stesso modo e di non dover rimembrare, ogni dì ed ogni notte, i terribili spasimi e le atroci sofferenze che accompagnarono la sua nascita”.

Anarion, profondamente infelice, volse il suo sguardo al mare, ed esso gli parve terribile a vedersi: sconvolto da tale paura, egli si risolse ad osservare una grigia foca che pareva fissarlo intensamente da uno scoglio; la sovrana, alla quale non era sfuggito il timore che il suo giovane amico aveva tosto mostrato nei confronti del mutevole dominio di Ulmo, sorrise e mirò lungi all’orizzonte: “Scorgo nei tuoi occhi il medesimo timore che agitava lo sguardo di Himel  allorché egli era giovane ed insieme percorrevamo i sentieri degli ormai abbandonati giardini della reggia di Armenelos”.

Anarion, al quale non era sfuggita la malinconia che pareva impossessarsi della sovrana allorché discorreva del suo antico amante, non poté tuttavia sorprendersi dalla domanda che pose alla sua interlocutrice: “Per quale motivo Himel mostrava inquietudine allorché scorgeva il mare?”

“Al tempo in cui avvennero i fatti di cui ti racconterò adesso, Himel non era ancora maggiorenne e, sebbene io lo chiamassi con il medesimo nome con il quale ancora oggi lo rievoco, pure egli era ancora noto con il patronimico[1]”.

La regina arrestò per un istante la narrazione, quasi che la sua mente andasse a quei lontani tempi, indi parlò nuovamente:

“All’età di quindici anni, per alcuni mesi, fui solita trascorrere le mie giornate in compagnia di Himel e credo che egli fosse felice della mia presenza, sebbene non fosse solito rivelarmi apertamente i suoi sentimenti: nessun altro si univa a noi ed il tuo Maestro non rivelava inquietudine per quanto accadeva e, sebbene io fossi più giovane di lui di alcuni anni, pure il suo viso esprimeva grande letizia allorché gli porgevo la mano perché lui la baciasse dolcemente. Accadde, dunque, che un caldo giorno di primavera, avendo intenzione di mirare le prime navi di pescatori che giungevano ai porti occidentali dopo aver trascorso in mare aperto la prima settimana di pesca, lo pregassi di seguirmi lungo lo stesso sentiero che abbiamo percorso questa mattina; egli era esitante e, per la prima volta dacché l’avevo conosciuto, sembrò intimorito: ancor più bello mi parve il suo sembiante, tuttavia, ché egli, finalmente, si mostrava a me senza che i suoi pensieri reali fossero stati occultati dalla maschera che era solito indossare. Himel, tuttavia, non comprese il mio sguardo, o forse, al contrario, lo intese fin troppo bene ed andò in collera: “Perché mi guardi così? Credevi forse che io non fossi un Uomo e che in me non scorresse lo stesso sangue che è nelle tue vene? Ho timore delle distese di Ulmo e nel mio cuore è forte il timore che esse, sollevandosi un dì, cancelleranno quanto vi è di più caro su questa isola ed i giorni di Numenor termineranno bruscamente. Non desidero che i tuoi occhi si posino sulle acque oscure che la luce di Anor non riesce a penetrare, né gradisco che il tuo animo sia preso dal desiderio di solcarne le remote vie che i Secondogeniti non dovrebbero mai voler percorrere.”

“I miei occhi, che in principio erano stati ricolmi delle lacrime che la durezza di quelle parole avevano suscitato in me, furono infine colmi di amore, ché mi avvidi per la prima volta – sebbene in me il dolce sospetto fosse presente già da qualche tempo – che Himel mi amava a tal punto da temere che qualche sciagura potesse abbattersi sul mio capo; allora, intenerita, gli presi la mano e la portai al mio volto da fanciulla, ove la mia pelle l’avvertii calda al tatto: per lungo tempo rimanemmo immobili lì ove gli oleandri affondano le loro radici nelle grigie scogliere che dai monti corrono al mare e non udimmo altro suono che l’eco delle onde infrangersi sulla battigia. Eppure, ben presto, avvertii un altro suono più dolce ad udirsi e mi avvidi che i battiti del mio cuore si susseguivano senza tregua l’uno dietro l’altro: arrossii allora e feci per svincolarmi dalla mano di Himel, eppure egli non intendeva lasciarmi andare via; avvicinò la sua bocca al mio capo e mi parlò dolcemente: “Perdona il mio accesso d’ira: era la paura a parlare in me, ché forte sarebbe nel mio cuore il dolore se dovessi perderti ed io non avrei voluto che tu abitassi sì vicino ai feudi di Ossë; tuttavia, poiché tale mio disio non è per il momento realizzabile, vorrei che tu potessi trovare in me sostegno ed affetto: Himel è il mio nome ed io ti chiamerò Miriel, ché non vi è altra fanciulla su questa isola in grado di eguagliare la tua bellezza.”

Arrossii in volto, sebbene le luci del tramonto occultassero, almeno in parte, il mio imbarazzo e risi, nel vanto tentativo di smorzarlo: “Il principe dello Hyarrostar è invero un uomo astuto, ché vuole cancellare dalla mia mente il ricordo della sua ira, sostituendo a tale eccesso un altro non meno falso, figlio della sua gentilezza: egli non abbisogna, tuttavia, di simili mezzi per ottenere il mio perdono, ché altrimenti sarebbe vana ogni mia parola ed essa suonerebbe alle sue orecchie niente altro che una cortese replica alle osservazioni che mi ha rivolto.”

Gli occhi di Himel, la cui luce splendeva nelle tenebre più chiara di quella che un diamante emette quando un raggio di sole vi si posa sopra, erano su di me ed io avvertii, per la prima volta nella mia vita, ritrosia mista ad una profonda eccitazione: arrossii nuovamente, tuttavia incrociai le braccia in segno di diniego e cercando di mostrargli quanto forte fosse il mio orgoglio, serrai le labbra ed assunsi un espressione certo buffa a vedersi; Himel rise, ma non vi era malizia nella sua voce, ché il suo volto aveva assunto la stessa tonalità del mio ed era vittima dello stesso artificio, sicché si limitò a pormi questa domanda: “E se invece ogni parola si fosse rivelata vera ed in me non avesse parlato la cortesia, bensì un sentimento più profondo, quale sarebbe stato il tuo parere?”

Esitai a lungo prima di rispondergli, perché avevo tema di quanto potere le parole che avrei potuto pronunciare in quella ora avrebbero potuto esercitare nei nostri animi, così timorosi eppure infinitamente inebriati dal nettare che il caldo vento del sud recava seco; infine, avvedendomi che la mia volontà di resistere veniva meno e che le mie braccia tendevano al suo forte e aggraziato collo, gli posi una domanda che non avevo mai avuto il coraggio di porgli, essendo stata fino a quel momento la mia paura superiore alla curiosità.

“Himel – gli domandai, assaporando lentamente quel nome mentre lo pronunciavo – all’Accademia Reale sono soliti chiamarti Erfëa, che nella lingua degli Eldar significa “Spirito Solitario” e corre voce che tu, anziché disdegnare questo nome, ne vada fiero, al punto tale che lo preferisci a quelli che tuo padre e tua madre ti hanno assegnato allorché eri in culla. Se tali voci sono veritiere, perché adesso hai rivelato il tuo vero nome alle mie orecchie, conscio del valore che esso ha presso il tuo popolo e, ancor più, presso di me?”

Anarion annuì, infine parlò a sua volta: “Se davvero hai posto un simile quesito a Morluin, allora egli ha amato l’unica donna che avrebbe potuto comprenderlo. Ignoravo che fossi a conoscenza del suo nome reale, ché egli ha sempre taciuto su ciò e parlava raramente del suo triste passato, se non quando rimembrava a me e a mio fratello le storie che aveva appreso presso lontani popoli che ancora oggi dimorano, forse, in contrade che nessun altro Numenoreano sarebbe più in grado di rintracciare; della sua vita privata, tuttavia, era sempre molto restio a parlare ed egli non si confidava né con mio padre né con mio nonno: fu con me, allorché fece ritorno alla terra natia, che aprì il suo cuore. Ignoro per quale motivo abbia agito in siffatta maniera, ché non sono sì lungimirante da intendere quanto è nell’animo del mio Maestro: tuttavia, egli ebbe a dire che sovente intravedeva nei due eredi di Elendil i propri figli e, sebbene abbia trascorso poco tempo con noi, non è mai stato parco di affetto o di consigli nei nostri confronti”.

Ar-Zimraphel sorrise e parlò dolcemente: “Ignoravo quanto testé la tua voce ha pronunciato dinanzi a me, ché Himel di rado si confidava con qualcuno e quando ciò avveniva era a causa di grandi turbamenti”.

Anarion annuì, sebbene non osasse rivelarle che a nessun altra donna od elfa, neppure ad Elwen, che pure godeva di infinita stima nel cuore del Principe e della quale molto aveva sentito narrare dalla sua bocca, era stato rivelato il proprio nome segreto e ciò per tema che l’animo della sovrana, da tempo provato dal dolore e dall’infelicità di quei giorni amari, avesse a soffrirne ulteriormente, rimpiangendo con maggior forza la sua folle scelta; trattenuta a stento, dunque, la sua curiosità giovanile, egli domandò ad Ar-Zimraphel cosa avesse risposto Erfëa al quesito che gli aveva posto.

“Egli rimase in silenzio per lunghi istanti – proseguì allora la figlia di Tar-Palantir – ed io, seppure non sapessi presagire che tipo di reazione avrebbe avuto, pure non venni meno alla mia domanda e non distolsi lo sguardo dai suoi occhi; infine, il suo volto, che ascoltando le mie parole era divenuto scuro e silente, parve rischiararsi ed egli parlò, dapprima con tono di voce basso, infine riacquistando la sicurezza che gli era propria: “Non avrei mai immaginato – rispose – che tu mi avessi posto un simile quesito e questo non perché dubiti del tuo coraggio o della tua lungimiranza, ma a causa della diffidenza che il mio corpo sembra alimentare in coloro che mi circondano e della quale, tuttavia, tu sembri essere esentata: possa la tua fiducia nei miei confronti non venire mai meno negli anni successivi”.

Ar-Zimraphel si interruppe e proruppe in un grido angoscioso da udirsi, piangendo a lungo: “Himel, Himel, manan hehtanelyen?[2] Infine, la fresca brezza dell’oceano parve giovarle ed ella si riprese, sebbene fosse riluttante nel proseguire la sua narrazione; tuttavia, poiché in Anarion scorgeva molto della gentilezza e della mitezza del suo signore – ché egli, invero, sapeva essere dolce come miele, sebbene il suo carattere abituale stridesse palesemente con tale affermazione – si fece forza e proseguì il racconto: “Himel, dopo aver accarezzato più volte il mio viso, sorrise e mi invitò ad osservare la volta celeste, che nel frattempo era stata rischiarata dalla luce degli astri notturni: restammo a lungo vicini, il mio capo appoggiato alla sua spalla ed egli infine, mi domandò se sapessi per quale motivo Ithil fosse sì pallido rispetto ad Anor.

Non sapevo per quale motivo mi avesse posto una simile domanda ed ero al momento decisa ad ignorare l’indecisione che mostrava nel rispondere al mio quesito iniziale, sicché mi limitai a sorridere ironicamente; egli allora mi sollevò il mento ed approssimò il suo volto al mio: “Ithil è pallido perché Amore lo indebolisce, mentre Anor è rosso, ché è divorata dalla gelosia nei confronti del congiunto: quaggiù, infatti, vi sono astri che brillano a tal punto da confondere le menti degli Ainur.”

Arrossii; infine, ignorando il disio più grande che avevo nel cuore, gli chiesi perché esitasse a rispondere alla mia domanda, tuttavia egli non parve inquietarsi e riprese a parlare: “La mia risposta poteva attendere ancora qualche istante, né era nel mio animo la volontà di ignorare quanto desideri apprendere; sappi, infatti, che da lungi desideravo tu mi ponessi un simile quesito. Sospirò per un istante, infine aprì una tasca all’interno del suo mantello e ne trasse un minuscolo gioiello: la chiara luce di Ithil ne rischiarava la superficie ed esso brillava intensamente. Himel lo accarezzò a lungo, infine, con un lesto movimento della sua mano, lo mostrò ai miei curiosi occhi ed io non potetti trattenermi dal lanciare un piccolo grido. Nessun occhio femminile, mi rivelò, aveva scorto quel gioiello, ché non dalla fucina di un uomo di Numenor o dai porti elfici nella Terra di Mezzo proveniva, bensì da Tol-Eressea o, forse, dalla gloriosa Valinor che si ergeva al riparo della sua mole; rimasi in silenzio a fissare quanto la sapiente arte dei Vanya aveva creato ed esso mi parve risplendere della luce di tutte le stelle di Varda, né tale pensiero mi parve inappropriato: appesa ad un’esile catenella di fine argento, come solo Celebrimbor nei giorni remoti sarebbe stato in grado di forgiare, vi era infatti una bianca stella. Affascinata, sfiorai l’oggetto con le mie dita e mi accorsi, con sommo stupore che, nonostante la gran quantità di luce che essa emanava, la sua superficie era fredda come l’Oceano ed il mio cuore ne fu turbato: tali erano i miei pensieri, in quell’ora incerta, che in principio non mi avvidi delle parole che Himel prese a pronunciare dinanzi a me, dapprima a bassa voce, indi con tono crescente».

Fine (I parte)

[1] Presso i Numenoreani, che avevano mutuato questa tradizione, come molte altre, dai figli di Fëanor, era consuetudine assegnare ad ogni nascituro non solo il nome del quale il padre se ne serviva per riconoscerlo come proprio figlio e attraverso il quale avrebbe esercitato la patria potestà fino al compimento della maggior età di costui, ma anche il matronimico. Giunto alla maggiore età, il Numenoreano aveva la facoltà di confermare il patronimico o di mutarlo a suo piacimento; accanto al nome “pubblico” che egli sceglieva in tale occasione, vi era anche il suo nome “privato”, che secondo alcuni rappresentava il vero nome e che veniva segretamente custodito, sicché non compariva neppure nei registri reali, per tema che qualcuno potesse scoprirlo; esso, di norma, veniva confidato solo agli amici più intimi e al proprio coniuge, dopo che con questo avesse trascorso la prima notte di nozze. Per tale ragione, dunque, è da ritenersi un atto di estrema fiducia quello che Erfëa compì nei confronti di Miriel, allorché le rivelò il suo vero nome; secondo le scarse testimonianze sopravvissute alla Caduta e che furono raccolte da Meneldil, quartogenito di Anarion, i nomi dell’ultimo principe dell’Hyarrostar furono questi: Ëarel (patronimico) Mîrmoth (matronimico) Erfëa (nome pubblico) Himel (nome privato ossia vero nome).

[2] “Himel, Himel, perché mi hai abbandonata?” nella favella degli Elfi Noldor.