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Akhorahil, il Re Tempesta, il Quinto

Nato nell’anno 1888 della Seconda Era, Akhorahil era il primo figlio di Ciryamir, appartenente al medesimo lignaggio del re di Numenor, Tar-Ciryatan; sebbene fosse un Uomo dotato di una forza prodigiosa e di una mente lungimirante, Akhorahil fu corrotto dalla sua sfrenata ambizione. Nel 1904, Ciryamir ottenne una licenza dal sovrano per fondare e amministrare una colonia reale nel meridione della Terra di Mezzo. L’anno successivo, Akhorahil navigò con la sua famiglia fino a sbarcare con il suo esercito presso il porto di Hyarn, in Endor e di lì, attraverso il fiume Aronduin, giunse alla cittadella, recentemente fondata, di Barad-Caramun (Torre del Tramonto). Ivi, Ciryamir fondò il reame di Ciryatandor, ed esso si estendeva dal mare fino ai contrafforti delle Montagne Gialle.

Giovane nella mente e nel corpo, Akhorahil godette della sua nuova dimora, ma il suo spirito ambiva incutere timore in quanti lo circondavano; tale era la sua ambizione che si applicò con ferrea volontà allo studio della arti oscure, eppure i risultati ottenuti in tale campo non soddisfecero appieno la sua fama di potere. Non trascorsero molti anni che il suo cuore iniziò a reclamare il trono del padre, finché nel 1918 egli promise a un anziano sacerdote dell’Harad che avrebbe scambiato i suoi azzurri occhi con le due Gemme del Dominio, le stesse che avevano permesso al suo precedente possessore di diventare il maggior esperto delle Arti Oscure nel regno degli Haradrim.

Tosto, il crudele Numenoreano adoperò tali artefatti per controllare la mente del padre e condurlo alla pazzia e infine al suicidio: in tal modo, colui che ormai si faceva chiamare il Re Tempesta, ottenne il trono paterno e sposò la sorella Akhoraphil.

Nel corso del ventesimo secolo, Akhorahil conquistò vaste contrade nel meridione della Terra di Mezzo, suscitando l’interesse di Sauron, il quale voleva appropriarsi di tale reame: un ambasciatore fu inviato presso il Re Tempesta, con il segreto incarico di offrire al Numenoreano il quinto Anello del Potere degli Uomini, promettendogli una conoscenza illimitata e una gloriosa immortalità. Consumato dall’avidità e dall’ambizione, Akhorahil legò la propria anima a quella dell’Oscuro Sire, ottenendo il suo Anello nell’anno 2002.

Nei successivi duecentocinquanta anni, il Re Tempesta non fu visto da alcuno dei suoi sudditi, mentre sua moglie e il suo primogenito abbandonarono la corte, sconvolti dalla metamorfosi che aveva subito il folle Numenoreano; il Nazgul, tuttavia, decretò prematuro rivelarsi al mondo e continuò a pagare i tributi a Numenor, ché non voleva destare sospetti alla corte del sovrano. Infine, allorché ritenne i tempi maturi, proclamò l’indipendenza di Ciryatandor, beffandosi dei tentativi del suo sovrano, Tar-Ancalimon, di riportare il suddito all’obbedienza: dopo alcuni anni, le armate di Numenor annientarono il reame del Re Tempesta; tuttavia, costui era fuggito nell’ultima contrada ove i suoi nemici l’avrebbero cercato, ed elesse Elenna stessa a sua nuova patria, dimorando nell’isola del Dono fino al regno di Tar-Palantir, il quale si dimostrò incorruttibile all’azione dei suoi servi. Nel profondo dell’Harad, il Nazgul aveva fondato una fortezza imprendibile e ivi si diresse allorché fuggì da Numenor; con suo grande disappunto, tuttavia, Erfea Morluin si addentrò nei tenebrosi meandri della sua dimora, ivi scoprendo le vere identità degli Ulairi. Grande ira covò nel suo cuore il Re Tempesta allorché la sua cittadella fu violata e furente giurò di trucidare con le sue stesse mani colui che aveva osato compiere un simile atto.

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Suggerimenti di lettura:

I Nazgul

Er-Murazor, il Primo dei Nove

Khamul, il Secondo, l’Ombra dell’Oriente.

Dwar di Waw, il Terzo, il Signore dei Cani

Indur, la Morte dell’Alba, il Quarto

Hoarmurath di Dir, il Re del Ghiaccio, il Sesto.

Adunaphel l’Incantatrice. La Settima

Ren il Folle, l’Ottavo

Uvatha, il Cavaliere, il Nono

Per altri luoghi e per altre vie: gli Anelli del Potere un ponte per altri mondi?

Inizio questo articolo con una citazione del bellissimo racconto a fumetti: «Favola di Venezia» di Hugo Pratt. Al termine di una vicenda intricata e onirica il protagonista del racconto, il marinaio Corto Maltese, trova una gemma magica, la «Clavicola di Salomone», nel Ghetto di Venezia, che gli permette di andare «in posti bellissimi e in altre storie» come recita la didascalia della vignetta che ho scelto come immagine in evidenza per questo articolo.

Le proprietà de «La clavicola di Salomone», che permettevano al suo possessore di aprirsi la strada verso altri mondi, mi hanno suggerito una riflessione sui Grandi Anelli del Potere che, spero, possa fare luce su alcune delle loro caratteristiche intrinseche. Come tutti sanno, l’uso prolungato degli Anelli porta con sé una serie “effetti collaterali” perniciosi di dipendenza: non escludo da questi neppure gli Anelli degli Elfi, perché, se ci pensate bene (a parte l’Anello di fuoco, affidato a Gandalf) costringono, più o meno implicitamente, i loro possessori a isolarsi dal mondo, aiutandoli a realizzare delle bellissime oasi come Rivendell e Lorien, le quali, tuttavia, a causa della loro natura, per così dire “artificiosa”, sono isolati dal resto delle terre circostanti. Ricordate cosa accade ai membri della Compagnia dell’Anello quando abbandonano Lorien? Scoprono che sono trascorsi molti più giorni rispetto ai loro conti: il tempo scorre diversamente nella terra di Galadriel, contribuendo ad isolarla dal resto della Terra di Mezzo. Gli Elfi sono orgogliosi delle loro dimore: eppure, venuto meno il potere dell’Unico Anello, avvertono il senso di stanchezza (o forse dovrei dire di inadeguatezza) che la Terra di Mezzo comunica loro e forse – ma questa è una mia opinione – comprendono che, magari non nel volgere di pochi anni, ma con il trascorrere del secoli, Lorien e Rivendell avrebbero perso le loro proprietà intrinsiche di bellezza, legate com’erano ai poteri degli anelli di Elrond e Galadriel, e decidono di rinunciarvi spontaneamente, veleggiando verso Ovest e conservando così intatto il ricordo struggente della bellezza e armonia di quei luoghi.

Anche per i Nani, che pure risultavano molto resistenti alla magia, l’uso degli Anelli comportò conseguenze perniciose: in realtà, conosciamo molto poco delle proprietà degli anelli del popolo di Durin, fatta eccezione forse per una frase dal significato piuttosto oscuro che nelle Appendici del «Signore degli Anelli» Thror rivolge a Thrain, consegnandogli l’ultimo Anello del suo popolo: «Questo potrebbe essere per te la base di una nuova fortuna, benché sembri improbabile. Ma per fare oro occorre averne» (JRR Tolkien, SdA, p. 412).

Per quanto riguarda gli Anelli degli Uomini siamo maggiormente informati, non fosse altro perché sappiamo che il loro possesso li trasformò in servitori schiavi della volontà di Sauron, i Nazgul, realizzando così l’obiettivo primario dei piani del Nemico: rendere i possessori degli Anelli suoi schiavi immortali. Siamo a conoscenza, altresì, degli effetti “positivi” che caratterizzavano questi artefatti: rendevano i sensi dei loro proprietari più acuti (ricordate cosa successe a Bilbo nell’Hobbit?) e, almeno nel caso degli Anelli degli Uomini, resero le loro menti più brillanti e i loro corpi più resistenti, prolungandone la vita magicamente: in questo modo essi potettero diventare famosi sovrani, guerrieri e stregoni, prima di cadere vittime della nequizia di Sauron. Fin qui abbiamo brevemente ricordato le principali caratteristiche degli Anelli e il destino finale dei loro possessori, senza però avvicinarci ancora al tema anticipato nel titolo.

Per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo riprendere una frase del Silmarillion che entra nel vivo della questione dei poteri degli Anelli: «Potevano aggirarsi, volendolo, invisibili agli occhi di tutti in questo mondo sotto il sole, e vedere cose in mondi invisibili ai mortali; ma troppo spesso non scorgevano altro che fantasmi e finzioni di Sauron». (Il Silmarillion, p. 364). Or dunque, che Sauron evocasse le larve degli spiriti dei morti non è una novità: fu proprio attraverso l’inganno perpetuato a danno di uno dei compagni di Barahir, il padre di Beren, mostrandogli il fantasma della moglie morta, che il discepolo di Morgoth apprese del nascondiglio dei suoi nemici e potè così procedere alla loro eliminazione. Per comprendere tuttavia a cosa alludesse Tolkien parlando di «mondi invisibili ai mortali», dobbiamo recuperare un altro breve passaggio dei suoi scritti. Ricordate cosa successe a Frodo quando, al Guado di Bruinen, era sul punto si trasformarsi in uno Spettro? «Mi parve di vedere una figura bianca che risplendeva e non si offuscava come le altre: era dunque Glorfindel?». «Sì, per un attimo l’hai intravisto com’è nell’altro mondo: uno dei potenti fra i Priminati». (SdA, La Compagnia dell’Anello, p. 305). Possiamo dunque immaginare che gli Anelli del Potere, un po’ come la Clavicola di Re Salomone fossero ponti di passaggio fra mondi diversi? E se sì, cosa c’era davvero in quei luoghi, a parte le finzioni di Sauron (che, come i Priminati, doveva avere potere in entrambi in mondi)? Purtroppo a queste domande Tolkien non offrì mai alcuna risposta: è affascinante, tuttavia, immaginare che gli Anelli del Potere potessero permettere ai loro possessori di avere una visione di Aman (declinata tuttavia secondo le caratteristiche dei vari popoli: per fare un esempio, i Nani avrebbero potuto scorgervi le grande ricchezze materiali degli immortali, mentre gli Uomini sarebbero rimasti maggiormente affascinati dal potere che queste figure emanavano), rendendo tuttavia i loro possessori via via meno legati a questo mondo e desiderosi, invece, di fuggire al di là del Mare per sempre? Forse è per questa ragione che Tolkien, riferendosi a un Thor ormai anziano, lo descrisse come rimbambito a causa dell’età o dell’Anello. È possibile che la malvagità di Sauron risiedesse anche nell’offrire ai possessori degli Anelli un’immagine di un mondo stupendo, del quale, a un certo punto, non potevano fare più a meno?

Erfea, o degli eroici imperfetti

Quando ero adolescente lessi un libro giallo molto piacevole, intitolato «La Società dei Gatti assassini» la cui trama ha, come potete immaginare, poco a che vedere con Tolkien e la Terra di Mezzo. Mi sono tuttavia rimaste impresse queste parole che riporto di seguito perché credo che possano essere utili per aprire questo nuovo articolo: «La piaga più grande dei nostri tempi sono i mezzi-talenti, che vengono considerevolmente sopravvalutati. Io comunque conosco i miei limiti».

Ripensando a queste parole e a una discussione che avevo iniziato in un altro articolo a proposito degli eroi nella Terra di Mezzo, mi sono chiesto se sia possibile immaginare – oltre alla categoria degli eroi senza macchia e senza paura e a quelli che eroi si improvvisano per necessità di forza maggiore, una terza specie, quella degli eroici imperfetti. Cosa intendo con questa espressione? Si tratta di personaggi singolari, particolarmente dotati in alcune attività, ma che falliscono altrettanto clamorosamente in altre. Prendiamo un esempio abbastanza noto: Batman. Provate ad immaginarlo mentre combatte contro Joker, oppure nel tentativo di sventare i piani del Pinguino: la sceneggiatura fila benissimo; ma se immaginate l’Uomo pipistrello con famiglia, magari alle prese con i problemi di un figlio adolescenziale…beh, sentite che qualcosa non quadra. Naturalmente conosciamo il background del Cavaliere Oscuro: sappiamo dell’omicidio dei suoi genitori, di un trauma mai superato, della sua avversione per le armi da fuoco, etc. etc. Nell’epopea tolkeniana, un eroe di questo tipo potrebbe essere ritenuto Boromir: l’autore lo presenta, nelle appendici a fine romanzo, come un uomo che poco si interessava del passato, salvo che per il racconto di battaglie remote, e che non aveva alcuno interesse sentimentale. Al di là del suo fallimento e poi del suo riscatto finale, resta l’impressione di un personaggio apparentemente bloccato da un punto di vista emotivo: tuttavia, sforziamoci di immaginarlo come ha fatto Jackson ne “Le Due Torri” e ne avremo l’immagine di un guerriero glorioso, di un leader affermato che sa fare molto bene il suo mestiere, ossia la guerra (ricordate le scene in cui Faramir rimembra il giorno della presa di Osgiliath)?

Erfea, il protagonista maschile principale del «Ciclo del Marinaio» potrebbe essere senza dubbio descritto come un eroico imperfetto. Unico figlio di una delle più potenti famiglie principesche di Numenor, Erfea è indubbiamente un personaggio dotato di una ferrea volontà, di un carattere d’acciaio e di una salda tempra morale. Tutte qualità che siamo soliti ascrivere, senza alcun dubbio, agli eroi classici. Ma Erfea non lo è, o almeno non lo è del tutto: compie errori di valutazione, a volte si fida delle persone sbagliate e – soprattutto – non riesce a comprendere davvero come le persone a lui più care possano compiere scelte che lui non approverebbe mai e che lo spingono, in nome della sua rigidità mentale, a rompere i rapporti piuttosto che a provare a salvarli. Certamente Erfea vive durante il periodo peggiore di tutta la storia numenoreana: figlio di uno dei principi del partito dei Fedeli, infatti, egli deve scontrarsi con una società nella quale i Numenoreani Neri, al contrario, esercitano un potere crescente. Egli sarà marginalizzato per molti anni a causa di questa sua appartenenza ai Fedeli e ne condividerà le amarezze e le disillusioni prima con Amandil (suo coetaneo) e poi con suo figlio Elendil e i suoi celebri nipoti Isildur e Anarion.

L’universo tolkieniano è senza dubbio molto vasto e tanti sono gli spazi che si offrono a quanti desiderano approfondirne le vicende: perchè, dunque, scegliere di ambientarle a Numenor, nell’ultimo periodo della sua storia? La risposta è molto semplice: come ho scritto in un recente articolo, trovo personalmente che le storie degli Uomini possano essere approfondite grazie al ricorso all’allegoria: e quale epoca migliore della nostra per spiegare i comportamenti dei Numenoreani giunti al termine dei loro giorni? Ci sono molti elementi in comune: non siamo ancora arrivati a vivere 200 anni (per fortuna o forse no), ma indubbiamente la nostra vita media (almeno nei Paesi Occidentali) è cresciuta tantissimo negli ultimi tempi, arrivando a mettere in dubbio tutta una serie di certezze che accompagnavano l’impersonificazione dei ruoli tradizionali: nonni, genitori e figli devono oggi confrontarsi con un mondo nuovo, che mette in discussione le certezze acquisite. I Numenoreani erano all’apice della loro ricchezza, eppure (o forse proprio per questa ragione) fra loro non mancavano individui infidi, corrotti e manipolatori delle coscienze altrui: gli ultimi anni della loro epoca, inoltre, erano caratterizzati da un imbarbarimento dei costumi e da un odio crescente verso quelli che erano ritenuti popoli da sottomettere. Da consiglieri e dispensatori di doni, i Numenoreani si erano trasformati in avidi conquistatori: credevano di fare concorrenza a Sauron nel dominio della Terra di Mezzo ma in fondo, senza neanche rendersene conto, ne erano già succubi. Situazioni che, purtroppo, sono oggi molto diffuse: ciascuno può trovare i paragoni che più gli aggradono. La generazione di Erfea, Amandil, Miriel, inoltre, subiva il peso di una crisi morale, economica e sociale sempre più forte: educati secondo i valori tradizionali, dovevano invece misurarsi con situazioni nuove, che richiedevano grande coraggio nelle scelte da compiere e la consapevolezza che la probabilità di perdere qualcosa o qualcuno fosse molto elevata. Infine – ed è un fattore da non trascurare, tutt’altro – le opere di Tolkien ambientate nella Seconda Era sono poche e spesso frammentarie: certamente l’Akallabeth mi è stato di ispirazione, così come il racconto di Aldarion ed Erendis, tuttavia ho potuto spaziare abbastanza liberamente all’interno di un universo spaziale e temporale che Tolkien ha solo sommariamente descritto, lasciando pagine bianche per chi avesse voluto cimentarsi nel continuare a raccontare le storie di quei tempi, nel rispetto, naturalmente, dei punti fermi da lui stabiliti.

Alcuni anni fa una lettrice mi fece notare, dopo aver letto tutto il romanzo e le appendici incluse, come Erfea si rivelasse un uomo fin troppo fortunato, per aver passato indenne un’epoca così turbolenta come fu quella finale della Seconda Era: resto tuttavia convinto che gli eroici imperfetti, al contrario, perdono per strada molti pezzi del loro vissuto, spesso in modo doloroso, pur riuscendo a «non frammentarsi» del tutto: l’unica ancora di salvezza alla quale possono aggrapparsi è ammettere lucidamente, come fa il protagonista della «Società dei Gatti Assassini» citato all’inizio di questo articolo, i propri limiti, imparando a conviverci.

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L’ultima battaglia della Seconda Era

Su invito di uno dei miei lettori, dedicherò questo articolo alla descrizione della battaglia avvenuta sulle pendici dell’Orodruin tra Sauron e i principali comandanti dell’Ultima Alleanza. Come probabilmente saprete, in quel durissimo scontro morirono sia Gil-Galad che Elendil, e Isildur sconfisse Sauron, togliendogli l’Unico Anello. Curiosamente, nonostante questo episodio segni la fine di un’era e del dominio dell’Oscuro Signore sulla Terra di Mezzo, Tolkien non vi dedicò particolare attenzione. Non sappiamo, ad esempio, se Sauron fu ucciso da Isildur, il quale poi gli tagliò il dito per impossessarsi dell’Anello o se gli eventi presero una piega simile a quella che si vede nel primo film della Trilogia di Jackson. Nei miei racconti ho concepito questa scena, nella quale si narra come Isildur compì la sua più gloriosa impresa anche grazie ad un aiuto…inaspettato. Spero che possa piacervi, buona lettura!

«Al termine del settimo anno d’assedio, infine, avvedendosi che le sue armate non potevano più opporsi alla collera delle schiere dell’Alleanza e che la sua fortezza era stata sguarnita, l’Oscuro Signore uscì dalla sua tenebrosa dimora e si accinse a sfidare a singolar tenzone i condottieri della Libere Genti; in preda al panico, ché invero terrificante era a vedersi il negro sembiante del Maia Caduto, i soldati indietreggiarono, coprendosi il volto con entrambe le mani, ché non osavano mirare il volto di colui che un tempo era stato il luogotenente di Morgoth; pure egli non si curò affatto di loro, ma si diresse verso i Signori dell’Alleanza, avendo in mente di trafiggere le loro mortali carni con la sua asta, né dovette cercare a lungo, ché costoro, a gloria della maestà di Iluvatar che è sopra i destini del mondo, non fuggirono ma lo attesero impavidi sul versante orientale dell’Orodruin, ove la malizia dell’Anello sovrano era maggiore e colui che lo portava sperava ottenere facile la vittoria. Primo, fra quanti erano nel novero dei comandanti dell’Alleanza, Gil-Galad non attese che il discepolo di Morgoth gli si scagliasse contro, ma, rapido come il vento che spira da occidente, affondò la sua portentosa Aiglos, che si diceva fosse stata forgiata da Feanor allorché costui era ancora a Valinor e la luce degli Alberi non era venuta meno; pure l’Oscuro Signore non si rivelò meno agile nell’evitarne il colpo, provocando lo sbilanciamento del re dei Noldor, sicché questi cadde e la sua arma si frantumò sotto di lui. Rapido, allora, il grifagno artiglio di Sauron afferrò il figlio di Fingon per il collo e coloro che erano con lui in quel momento si avvidero che la carni di Gil-Galad bruciavano, mentre la vita di costui veniva meno; scosso dalle grida che il sovrano degli Eldar emetteva nell’agonia della morte, lanciando un possente urlo di battaglia, Elendil cercò di portargli soccorso ma le oscure e oscene parole che il sire di Mordor pronunziò in quell’ora ne arrestarono l’impeto ed egli fu trafitto dall’asta che costui impugnava.

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Rise allora Sauron ed era invero terribile a vedersi, ammantato nella sua lugubre armatura, mentre fiamme si libravano come lingue di serpe dalla punta della sua arma; lesto, si scagliò allora contro quanti fra i Signori dell’Occidente erano sopravvissuti e, nel suo pesante incedere, frantumò la lama di Elendil, Narsil la Splendente, forgiata dal grande fabbro Telchar di Nogrod allorché il Sole e la Luna erano giovani e il Beleriand non era ancora stato sommerso dalle impietose acque dell’oceano. Eppure la sua letizia non era completa, ché egli si avvide non essere fra quelli Erfea Morluin, nonostante le sue spie gli avessero riferito essere quello sopravvissuto a ogni scontro: infine, avvertì la sua presenza, ché il figlio di Gilnar si era inerpicato lungo l’antico percorso che conduceva alla Sammath Naur, la fucina dell’Oscuro Signore e ivi, aiutato da Glorfindel, aveva messo in fuga il suo antico nemico, il Capitano degli eserciti di Mordor; lesto, l’eco del suo passo risuonava ora tra gli antichi anfratti dell’Orodruin, che gli Uomini chiamano Monte Fato. Terribile a udirsi fu allora il grido di Sauron, ché egli aveva in serbo di annientare colui che per molti anni era sfuggito alle trame ordite dai suoi servi; leste, allora pronunciò parole di malizia e crudeltà intessute sicché l’intera montagna tremò e un possente pinnacolo di lapilli e fuoco si levò dalle viscere della terra e l’Anello Sovrano splendette nell’oscurità della tenebra; pure, desideroso com’era di trucidare Erfea, egli obliò quanti erano alle sue spalle e tale dimenticanza gli fu fatale, ché Isildur, primogenito del re ed esperto combattente, afferrata l’elsa di Narsil – ché la sua arma era stata corrosa dalla perfidia di Sauron – si scagliò contro il Signore degli Anelli. Nessuna lama, tuttavia, neppure quella forgiata dalla possente arte di Telchar il fabbro nei Giorni Remoti, poteva annientare l’oscuro bordone che Sauron impugnava con forza, creato a Utumno allorché il Sole e la Luna non erano ancora sorti. Isildur vibrò con disperata fierezza il colpo e l’elsa che nel suo pugno stringeva si abbatté sull’arma del Nemico: il troncone della lama di Narsil fu scalfito, pure, l’Oscuro Signore non poté gioire, ché esso, scivolando in basso lungo la lucida superficie della nera asta, ne recise la mano sinistra. Sauron, allora, vacillò e cadde. Nella piana che si estendeva ai piedi di Barad-Dur, le schiere di Mordor si arrestarono ed esitarono, ché si avvidero essere venuto meno il volere che sorreggeva le loro membra; sconvolte, allora, esse fuggirono, mentre la montagna si spaccò e vomitò ceneri e lapilli; sotto gli attoniti occhi di Isildur, il corpo mortale di Sauron si consumò, finché, con un ultimo gemito, egli disparve nella bruma che da oriente sorgeva e del suo sembiante non rimase nulla eccetto le armi che costui aveva condotto in battaglia e l’Anello Sovrano. A lungo l’erede di Elendil esitò, ché Elrond e Gil-Galad molto l’avevano messo in guardia sul nefasto fato che attendeva chi, qualora Sauron fosse scomparso dal mondo, si fosse impossessato dell’Anello Sovrano; infine, la sua volontà cedette, o perché egli, ingenuamente, credette essere venuto meno con la scomparsa delle spoglie mortali del suo nemico anche il suo volere malefico, o perché fu soggiogato dalla malizia dell’Unico, la cui superficie era ancora rischiarata nelle tenebre da una cupa fiamma che si agitava sopra essa. La rovina degli eserciti di Sauron fu totale, e coloro che sopravvissero alla sua caduta fuggirono nelle remote contrade del levante, ove si narra che anche gli Ulairi e il nero spirito del Maia umiliato trovassero scampo per lunghi secoli, finché non ebbero acquisito forza a sufficienza per tornare a reclamare quanto avevano perduto al termine della Seconda Era. Invero, fu quella una vittoria incompleta, ché l’Anello non andò distrutto, come avrebbe dovuto essere, ma fu concupito da Isildur, il quale, nonostante i saggi ammonimenti degli altri comandanti, reputò di avere forza di volontà sufficiente per dominarlo e lo portò seco al Nord, ove fu trucidato dagli Orchi due anni dopo la morte del padre».

Tratto da «Il Ciclo del Marinaio», pp. 373-376.

Scrivere degli Uomini (II parte) Tolkien vs Dante, ovvero l’impossibilità dell’allegoria

Riprendo il discorso che avevo iniziato alcuni giorni fa in merito alle difficoltà di Tolkien di scrivere storie nelle quali gli Uomini la fanno da protagonisti. Non si tratta di una scelta penalizzante nei confronti della sola razza umana: come è emerso dai commenti seguiti alla pubblicazione della prima parte di questo articolo, Tolkien riconosceva pregi e difetti a tutte le razze della Terra di Mezzo: gli Hobbit hanno la tendenza al provincialismo, i Nani all’avidità dei metalli e delle gemme preziose, gli Elfi sono angosciati dalla necessità di preservare lo status quo, gli Uomini aspirano al dominio del Creato e sulle altre razze. Indubbiamente, tuttavia, la stirpe dei Secondogeniti gode di un bonus prezioso che non detiene nessun’altra razza nella Terra di Mezzo, ad eccezione (forse) degli Hobbit: non è legata al destino di Arda. Forse a causa di questa peculiarità, gli Uomini non si fanno troppo scrupoli a sfruttare le risorse naturali delle loro contrade, con il rischio di trasformarle in veri e propri deserti: basti pensare ai disboscamenti effettuati dai Numenoreani nella Seconda Era al fine di costruire la loro possente flotta. Gli Elfi, al contrario, e anche i Nani (basti pensare al dialogo fra Gimli e Legolas sulle Caverne scintillanti) avvertono un vincolo più forte nei confronti della Terra, alla quale attribuiscono maggior rispetto. Sotto questo particolare punto di vista, dunque, le simpatie di Tolkien non possono andare alla stirpe umana: basti pensare alla sua nota idiosincrasia nei confronti del progresso tecnologico fine a sè stesso, in grado solo di portare seco uno sviluppo economico diseguale.

Mi rendo conto, tuttavia, di non aver ancora affrontato la questione legata al titolo di questo articolo, ragion per cui proseguo nel mio intento rievocando una questione abbastanza nota ai lettori del professore inglese, ossia la nota antipatia che egli ebbe nei confronti dell’allegoria: nella lettera 181, riportata ne “La Realtà in Trasparenza”, così l’autore del Signore degli Anelli tacitava l’idea che il suo romanzo fosse una gigantesca allegoria dei tempi coevi: «Perché io penso che le storie fantastiche abbiano un loro modo di rispecchiare la verità, diverso dall’allegoria, o dalla satira (quando è elevata) o dal realismo, e per alcuni versi più potente. Ma prima di tutto la storia fantastica deve riuscire come racconto, divertire, piacere, e anche commuovere a volte».

Riporto questa lettera non tanto perché voglia soffermarmi su una questione già ampiamente dibattuta, ossia il carattere non-allegorico del Signore degli Anelli, quanto per avanzare un’ipotesi nuova: potrebbe il rifiuto di scrivere storie allegoriche legarsi in qualche modo alle difficoltà espresse nello scrivere storie degli uomini?

Per illustrare in modo più convincente questa mia ipotesi, ricorderò che Tolkien, pur ammirando da esperto filologo e docente qual era le opere di Dante, non riusciva a apprezzare l’idea base della Divina Commedia, ossia l’allegoria. Gli uomini e le donne che il sommo poeta incontra nelle tre cantiche rappresentano vizi e virtù del genere umano: sono realmente esistiti o, quantomeno, lo erano per l’epoca nella quale visse Dante (vedi Ulisse e altri personaggi semi-mitologici). Ciò che mi chiedo è se scrivere degli Uomini senza tuttavia considerare l’allegoria, anche all’interno di un contesto fantastico quale può essere la Terra di Mezzo, sia, nei fatti, molto problematico: una difficoltà nella quale potrebbe essersi imbattuto lo stesso Tolkien. Egli, infatti, commentando, ad esempio, la divisione dei Numenoreani in due fazioni (fedeli ai Valar e fedeli ai sovrani imperialisti), non mancava di far notare come la costituzione di due partiti sull’isola di Numenor nascesse dall’impossibilità per gli uomini di vivere in modo armonioso senza problemi e che la presenza di fazioni portasse inevitabilmente al conflitto (come in effetti a Numenor avvenne). Pensiamo tuttavia a come Dante seppe tratteggiare alcuni dei più affascinanti personaggi della Divina Commedia, pur sapendo bene che erano della parte avversa alla sua: un nome su tutti spicca, quello di Farinata degli Uberti, ghibellino fiorentino (Dante era guelfo). Tolkien sembra avvertire le suddivisioni degli uomini in modo sofferto, quasi a voler evitare di prendere una scelta a favore degli uni e degli altri: lo stesso ruolo di Sauron, portato in catene a Numenor, non è solo quello di corrompere Ar-Pharazon (cosa che effettivamente si verifica), quanto quello di seminare zizzania tra poveri e ricchi, tra ceti sociali diversi. La sensazione che si riceve, a questo proposito, è quella di un forte disagio avvertito dall’autore: non perché egli voglia difendere in alcun modo Sauron e i suoi accoliti, ovviamente, quanto perché una caratterizzazione più approfondita di queste lotte porterebbe inevitabilmente – tale è il mio pensiero – a una soluzione allegorica. Ho come la sensazione che scrivere degli Uomini, a partire dal contesto di riferimento – fantastico, fantascientifico, realistico o utopistico che sia – conduca l’autore, in quanto umano a sua volta, a rovesciare, non sempre in modo conscio, la propria esperienza, il proprio vissuto e, soprattutto, la sua coscienza dell’epoca nella quale vive, nei personaggi creati dalla sua penna. Mettersi nei panni di Elfi, Nani ed Hobbit, al contrario, può risultare più facile perché si parte da condizioni “esterne all’umanità” per così dire: per fare qualche esempio, gli Elfi sono immortali e sono legati al destino di Arda; le anime dei Nani si reincarnano periodicamente nei propri discendenti; gli Hobbit, infine, pur essendo mortali, non percepiscono il peso della morte come gli Uomini (o almeno Tolkien non ci presenta Hobbit con tali paure) e così via. Lucidamente Tolkien ripudia l’allegoria; ho tuttavia l’impressione che così facendo, in fondo, abbia allontanato da sè e dai suoi scritti una maggiore (e forse migliore) comprensione del genere umano.

Una sfida mortale

Arrivato alla soglia dei 20 articoli su questo blog, mi sono reso conto che, rispetto alle promesse iniziali, ho trascurato quello che doveva essere l’argomento principale, ossia le storie del Ciclo del Marinaio. Inizio a rimediare a questa mancanza raccontando della sfida fra il principe Erfea e il terribile drago femmina (draghessa non mi convince) Morluin. Buona lettura!

La bellissima illustrazione in copertina mi è stata gentilmente fornita dal bravissimo illustratore Emauele Manfredi: potrete ammirare altre creazioni di questo artista alla sua pagina facebook: https://www.facebook.com/EmanueleManfrediGallery/

«Rapida si diffuse nell’isola la notizia che Erfea avrebbe affrontato il Grande Verme; la gente accorreva dalle campagne e dai porti per mirare il folle che avrebbe affrontato Morluin, quando molte voci si levarono dalle navi, angosciose, trasformando l’entusiasmo dilagante in terrore: “Fuggite, fuggite, il Grande Drago è qui!”. Il panico si impadronì allora degli spettatori, che corsero a rifugiarsi all’interno degli edifici del porto, fino a che tutte le banchine non rimasero deserte. Il cielo si incupì, lentamente le tenebre strisciarono dall’Ovest e l’ultima luce si spense tra i ruggiti del mare tempestoso: la notte si approssimava, tuttavia Morluin non si contorceva più nella sua furia, ma attendeva, osservando i volti dei Numenoreani nascosti, deridendone la paura, schiacciandone le menti con il suo odio feroce.

La notte avanzava, ma Erfea ancora indugiava nei pressi del porto, invisibile agli occhi dei presenti; sentì le sue membra tendersi verso lo sforzo finale, mentre con le rapide dita si allacciava l’armatura di suo padre Gilnar.

Una pallida Luna si levò all’orizzonte, mentre l’ira del mare non accennava a placarsi, ruggendo contro le navi e i porti di Numenor, sferzando i legni con la fresca spuma dell’Oceano.

Giunto infine alle rive del crudele mare, Erfea levò una preghiera a Manwe: “O signore dei cieli, delle aquile e dei venti tempestosi! Ascolta le mie invocazioni, affinché in questo frangente la tua forza sia la mia, il tuo coraggio il mio, e la tua lama la mia: rapida si appresta l’ora della pugna, e lontano dalla soglia di casa mi strappa rapace la morte traditrice dagli occhi funesti e dalle ali nere. A te, che conosci il destino di ogni Uomo, affido questa supplica, affinché il mio fato non si compia tra il mare e la città in questa oscura notte. Tuttavia, se tale deve essere la conclusione del mio viaggio, per cui più avrò la possibilità di rivedere la bianca spuma di Osse e ascoltare il canto lamentoso dei gabbiani, ebbene fa che il disonore non colga il mio corpo e la mia isola”.

Aveva da poco terminato questa invocazione, quando il mare ruggì nuovamente, ed ecco, il sinuoso collo di Morluin apparve in tutta la sua grandezza; troppo a lungo aveva atteso e ora la sua rabbia era cresciuta, simile a quella del fiume, quando rotti gli argini, semina morte nella verde campagna. Crudele il pensiero del Grande Verme, e agili le sue membra, ché molto aveva appreso della natura degli uomini e numerosi erano i suoi poteri; tuttavia alla vista di Erfea, piccola ombra sotto una Luna inquieta, non poté trattenersi dal ridere, mentre pronunciava parole di scherno e di odio: “Salute a te guerriero numenoreano! Codardi a tal punto sono diventati gli Uomini di quest’isola, razza infime, da inviarmi come loro paladino, il più giovane fra quanti impugnano le armi? Non nego, Numenoreano, che grande è il piacere che provo nello scorgere la tua paura strisciare fuori dal tuo cuore per ghermirti; come un leone afferra la sua preda, quando questa crede di essere al sicuro nella sua tana, così io colpirò voi tutti!”

Così parlò e le sue parole erano veleno per le orecchie degli stolti, che strisciarono via in fretta, lasciando Erfea silente, come l’aurora a Oriente: ed ecco egli estrasse la sua spada e fu una luce nelle tenebre; tuttavia non l’alzò contro il Grande Verme, ma la tenne vicino al suo forte petto, come la rosa che l’amato stringe a sé per non abbandonare all’oblio i dolci pensieri che il suo cuore nutre.

Furente allora lo guardò Morluin e mai nessun Grande Verme odiò con tanta ferocia un mortale, fin dai tempi in cui Turin Turambar incontrò e uccise il padre di tutti i draghi; rapida tuttavia l’ira si dileguò e Morluin diventò fredda, ché l’avvicinarsi dell’alba l’aveva placata e ora attendeva come un serpente nella sua tana il malcapitato essere che vi sarebbe caduto: era ancora forte e l’odore del sangue lo chiamava sé. “Ben mi avvedo, guerriero, del tuo coraggio e della tua forza: lascia che io ti dia il premio che ti sei così meritato. Ti proporrò tre enigmi; se a essi saprai dare la giusta risposta, io mi dichiarerò vinta e abbandonerò Numenor. Sappi però che se la tua risposta sarà sbagliata o attesa da lungo tempo, niente sarà in grado di arrestare la mia ira”.

“Comincia, dunque – replicò Erfea – ti ascolto”.

Morluin rifletté alcuni istanti, poi formulò il primo dei quesiti: “Dimmi, allora, qual è l’albero che ha le foglie tinte di nero su una superficie e di bianco sull’altra?”

Erfea rimase in silenzio, fissando la Luna sull’orizzonte, poi, sospirando rispose: “Drago, l’albero di cui tu parli è il tempo, ché Ithil illumina nella notte un verso, mentre le luminose dita di Anor sfiorano l’altro al mattino. Non è forse questa la giusta risposta alla tua domanda? Rispondi, dunque!”

Imperturbabile rimase Morluin, come il duro ghiaccio nei gelidi antri delle terre dei Lossoth: “Ecco, dunque, il mio secondo enigma, o mortale. Prima degli Elfi immortali furono creati, ma già nati, vennero alla luce in seguito”. Sorrise, il cuore malvagio di Morluin, perché questo era un segreto noto solo a pochi tra gli immortali, i quali però non ne facevano volentieri parola con i membri delle altre stirpi.

Erfea, tuttavia, aveva conosciuto molti Eldar, quando, ancora ragazzo, giungevano da Valinor la splendente, a bordo di vascelli dorati e argentati, recando doni di là di ogni immaginazione e racconti dei Tempi Remoti, in gran parte sconosciuti agli Uomini di Numenor: leggende di epoche precedenti al ritorno dei Noldor nella Terra di Mezzo e alla guerra dei Silmaril, quando ancora Ungoliant non aveva fatto scempio degli Alberi di Varda e il loro nettare fluiva negli alti tronchi. Molto aveva appreso Erfea dagli Eldar e dai loro poemi di conoscenza, e ora la sua memoria, spinta dal bisogno, rintracciò la giusta risposta:

“Drago, sono i Figli di Aule, quelli che tu chiami Priminati. E invero quanto dici non è lungi dalla verità, ed essi furono davvero i primi esseri del mondo creati dal volere degli dei; tuttavia, poiché diversamente aveva disposto Eru Iluvatar, e il loro momento non era ancora giunto, i Nani dormirono nella roccia, come le braci che ardono sempre vive sotto la caliginosa cenere del focolare. Non è forse questa la risposta giusta? Rispondimi, dunque!”

Morluin lo fissò a lungo, quasi a voler misurare con il suo sguardo l’abilità e l’intelligenza che il Numenoreano opponeva alla sua volontà; eppure ella non cedette, ché le forze non le erano venute meno e la sfida era ancora lungi dall’essere conclusa:

“Ecco, dunque, il mio terzo e ultimo quesito, o mortale: quali nomi ebbero in vita i nove Spettri degli Anelli? Lesta sia la tua risposta, ché la notte muore, mentre la mia ira cresce impetuosa”.

Letale era stata la domanda di Morluin, perché, finanche nelle terre di Numenor, obliati erano i nomi e le stirpi degli Uomini che un tempo si appropriarono dei Nove Anelli del Potere, svanendo così nel mondo delle tenebre.

Chino, divenne allora il capo di Erfea; allora, grande, invero, fu la gioia di Morluin, ché lesse negli occhi del suo avversario il timore e l’incertezza. Come serpe dal crudele veleno, così il Grande Verme avvolse le sue spire attorno alle gambe del Numenoreano; già la sua mente gustava il dolce sapore del suo crudele inganno, quando, rapida come la prima luce del giorno, così la lama di Erfea le squarciò le carni.

Terrore e meraviglia presero Morluin, che mai nessuno tra i figli di Eru aveva osato infliggerle un colpo tanto potente, da spezzare la sua corazza intessuta di diamanti e rubini, penetrando all’interno; alto squillò il corno del figlio della casata degli Hyarrostar, che con tali parole si rivolse al nemico ormai vinto: “Verme di Morgoth, ascolta ora la risposta che Erfea, figlio di Gilnar, intende dare. Fallace e ingannevole è stata la tua domanda, ed ecco ora tu ti chini su di me, simile a un leone che si getta sul cervo non ancora sconfitto. Non sarò io la tua preda, né alcuno di questa isola, perché morte è la risposta che ti devo. Quale vita può, infatti, esistere nell’ombra? Quale nome può avere chi non più vive? Tutto questo viene con la morte obliato, mentre se qualcosa di noi sopravvive, come un seme all’interno della terra, ecco, esso germoglierà solo se nella vita abbiamo contribuito a dargli il giusto sostentamento. Non vi è speme nell’odio, né odio nel sacrificio supremo. Allontanati, dunque, servo di Morgoth! Ritorna alle profondità oceaniche!”

Folle di rabbia, sconfitta proprio nel momento in cui sembrava aver trionfato, Morluin agitò la coda tra gli spasmi del dolore, finché tra maledizioni e imprecazioni, si allontanò da Numenor, inabissandosi nell’oscuro pelago. Mai più avrebbe turbato l’isola del dono, con la sua ferocia e la sua ira, servo di Morgoth e di Sauron dei tempi remoti; si narra che per molti anni a venire, dinanzi alla spiaggia di Andunie, si potesse ascoltare ancora l’eco della rabbia e della collera di Morluin, vinto da Erfea, principe di Numenor, quando ancora le stelle splendevano pure e limpida era agli occhi dei mortali la bianca spiaggia di Tol Eressea di là dei mari del mondo».

 

 

Scrivere degli Uomini (I parte). Un limite di Tolkien?

Al solito, adopero un titolo un provocatorio per fare luce su una questione di cui lo stesso Tolkien pose le basi molti anni fa. Come è noto, il romanzo del Signore degli Anelli si conclude con la dipartita dei tre portatori degli anelli elfici dalla Terra di Mezzo che inaugura in forma simbolica il dominio degli Uomini nella Quarta Era. Dico simbolica perchè, in fondo, le altre razze non scompaiono – o almeno non subito -: su questo punto Tolkien stesso non offre molte indicazioni. Anche l’opera cinematografica di PJ mostra molto bene questo passaggio di consegne: il ruolo di guida che per tanti secoli avevano avuto gli Elfi e gli Istari, passa di mano ad Aragorn, nel suo nuovo ruolo di sovrano dei regni unificati di Gondor e Arnor.

Meno nota, invece, è la bozza di un romanzo che Tolkien iniziò a scrivere dopo aver terminato il Signore degli Anelli e che intitolò – provvisoriamente – New Shadow, ossia la Nuova Ombra. La trama è presto spiegata: l’autore immaginò che ai tempi di Eldarion, figlio di Aragorn, una nuova ombra – da cui il titolo – si fosse risvegliata nel regno di Gondor, colpendo soprattutto i ragazzi che tendevano a comportarsi come orchi. A dire il vero, un abbozzo abbastanza deludente, più una spy story che un racconto epico, che Tolkien marchiò piuttosto severamente con queste parole in una lettera datata 13 marzo 1964:

«Ho iniziato una storia che si svolge circa cento anni dopo la Caduta [di Mordor], ma si è rivelata sinistra e deprimente. Dato che abbiamo a che fare con uomini è inevitabile che si debba prendere in considerazione una delle caratteristiche più deprecabili della loro natura: il fatto che presto si stancano del bene. […] in epoche così antiche ci fu un fiorire di trame rivoluzionarie, incentrate su una religione satanica segreta; mentre i ragazzi di Gondor giocavano a travestirsi da orchi e andavano in giro a fare danni. Avrei potuto ricavarne un thriller con il complotto e la sua scoperta e la sua sconfitta – ma non ci sarebbe stato altro. Non ne valeva la pena».

Non c’è dubbio, dunque, che Tolkien non fosse soddisfatto della sua opera; chiunque in vita sua abbia provato a cimentarsi con la scrittura di un testo, d’altra parte, sa che ciò è inevitabile: non tutte le ciambelle riescono con il buco, tanto per usare una frase fatta. Quello che proverò a dimostrare in questo articolo, dunque, non è la necessità che Tolkien portasse a termine il lavoro indipendentemente dalla sua volontà: non sarebbe eticamente corretto. Confesso poi che, personalmente, trovo poco convincente l’idea dei ragazzacci-orchi, per cui non ho nulla da rimprovere all’autore per non aver terminato la scrittura di questo testo.

Ciò che voglio tentare di comprendere, invece, è la ragione per la quale Tolkien aveva un rapporto così difficile con le storie nelle quali gli Uomini sono assoluti protagonisti (o quasi). Se infatti consideriamo altri racconti che Tolkien iniziò a scrivere ma che non concluse, è possibile osservare che ve ne sono almeno altri due che hanno come “attori” i membri della razza umana. Uno è quello intitolato “Tal-Elmar” nel quale l’autore descriveva la colonizzazione della Terra di Mezzo da parte di Numenor, vista però da un’ottica diversa (ossia quella degli Uomini selvaggi), che fa luce sull’intenso sfruttamento cui furono sottoposti i boschi di Endor per costruire l’imponente flotta numenoreana. L’altro, invece, aveva come tema una sorta di viaggio nel tempo di alcuni uomini dei giorni nostri che si trovavano catapultati a Numenor (Tolkien aveva sostenuto che le ere della Terra di Mezzo corrispondevano a un antico passato della nostra Terra).

Per cercare di comprendere queste difficoltà, secondo me, bisogna partire da un dialogo intercorso fra Legolas e Gimli poco prima della partenza dell’esercito dell’Ovest alla volta del Morannon:

“Indubbiamente le migliori opere in pietra sono le più antiche e risalgono ai tempi della prima costruzione” – disse Gimli. “Ed è sempre così per tutte le cose che gli Uomini incominciano: una gelata in primavera, o la siccità in estate; ed essi non portano a compimento la loro promessa”. “Eppure è raro che i loro semi non germoglino”, disse Legolas. “Anche in mezzo alla polvere o al marcio, li si vede improvvisamente spuntare nei luoghi più imprevisti. Le azioni degli Uomini sopravvivranno alle nostre, Gimli”. “Riducendosi però dopo tutto a potenzialità fallite, suppongo”, disse il Nano. “A ciò gli Elfi non sanno rispondere”, disse Legolas. [Il Ritorno del Re, p. 173]

Trovo che questo brano sia significativo perché illustra una questione fondamentale dell’epica tolkieniana: un’ambiguità di sentimenti che Tolkien mostra nei confronti della razza umana. Intendiamoci: nelle sue opere gli eroi dei Secondogeniti non scarseggiano di certo e un loro elenco sarebbe lungo: pensiamo a Beren, Bard, Elendil, Turin, Aragorn, tanto per citare i primi che mi vengono in mente. Tuttavia, è difficilmente negabile come le parole di Gimli colgano nel segno: nei semi della grandezza umana è sempre nascosta la loro rovina. Simbolo di questo tragico destino è in fondo Isildur: egli sconfigge il più pericoloso nemico della sua gente e si trova però a dover cadere vittima del suo stesso potere. E non finisce qui, se si pensa che nel racconto che narra della sua morte a Campo Gaggiolo, Tolkien fa intuire che avrebbe voluto recarsi a Rivendell per chiedere consiglio a Elrondo sull’Anello. Un segno di pentimento della sua decisione di prenderlo con sè dopo la sconfitta di Sauron? Non lo sapremo mai, tuttavia una costante emerge da questi esempi: l’estrema fragilità degli uomini, sempre divisi tra Bene e Male, spesso oscillanti e incerti sulle scelte da prendere.

Tolkien ne aveva stima, certo (altrimenti, per fare un esempio, non avrebbe pensato a Turin come l’esecutore finale di Morgoth, in quella che avrebbe dovuto essere la battaglia finale del Mondo), ma dai suoi scritti traspare una diffidenza nei loro confronti che neppure i migliori eroi di quella razza sono riusciti a fargli passare. Sarà stata questa la ragione per cui non ha mai portato a termini i racconti menzionati in precedenza?

Chi è il Negromante?

Confesso che si tratta di un titolo provocatorio, naturalmente. La risposta, infatti, appare scontata, se non banale: il Negromante è uno dei tanti nomi che, nel corso delle Ere, sono stati adoperati per denominare Sauron, l’Oscuro Signore. Più precisamente, questo appellativo si riferisce alla sua forma spirituale durante buona parte della Terza Era, grosso modo dall’anno 1000 sino agli eventi narrati nell’Hobbit, millenovecento anni più tardi. In quel periodo Sauron si era rifugiato a Dol Guldur, una fortezza situata nel cuore della Grande Foresta della Terra di Mezzo, nel duplice obiettivo di riacciuffare tutti gli Anelli, (a partire dall’Unico), che ancora gli sfuggivano, e condurre una politica aggressiva nei confronti dei Popoli Liberi.

Questo piccolo riassunto della biografia di Sauron nella Terza Era è stato ripreso abbastanza fedelmente anche nella Trilogia cinematografica dell’Hobbit, anche se con alcuni cambiamenti, che però, in questa sede, ci interessano relativamente: ciò che conta è che l’equazione Negromante=Sauron è piuttosto palese sia nel Signore degli Anelli che nei film diretti da Peter Jackson.

Se però leggiamo lo Hobbit, la realtà appare un po’ diversa e, per certi versi sorprendente.

Il Negromante compare abbastanza presto nella narrazione: mentre Gandalf consegna la chiave di Erebor a Thorin, infatti, non può fare a meno di spiegargli come ne sia venuto in possesso. Viene così fuori la storia della sua missione nelle segrete di Dol Guldur – missione che, almeno nell’Hobbit, risulta particolarmente oscura e sulla quale lo stesso stregone è restio a fornire ulteriori dettagli – durante la quale un nano moribondo e ormai folle gli consegnò una chiave e una mappa, nella speranza che così facendo sarebbero potute arrivare nelle mani di suo figlio, ossia Thorin. La reazione dei nani è di puro orrore: il Negromante è conosciuto anche dai figli di Durin e la rabbia di Thorin, che apprende finalmente il destino ultimo del padre, dato per disperso tanti anni prima, è però subito messa a tacere da Gandalf, il quale, senza fornire ulteriori dettagli, lo dissuade dal muovere guerra contro il Negromante, perché sarebbe al di sopra della forza di tutti i Nani, anche se fossero riuniti da ogni angolo del vasto Mondo.

Del Negromante, in realtà a parte un breve accenno a metà dell’opera – quando Gandalf sconsiglia i nani dal prendere qualsiasi strada che attraversi Bosco Atro e che sia vicina alle nere torri di Dol Goldur – se ne riparla solo al termine della vicenda, quando Bilbo scopre i motivi che avevano spinto Gandalf ad abbandonare la compagnia di Thorin in un momento così cruciale, come l’attraversamento della grande foresta. Lo stregone, infatti, coadiuvato da un consiglio di maghi bianchi, aveva snidato il Negromante dalla sua tana, costringendolo a fuggire. Segue un breve scambio di battute tra Gandalf ed Elrond, nel quale entrambi si augurano di non avere notizie per un bel pezzo del Negromante, pur sapendo che questo è poco più di un auspicio. Fine. Del Negromante non si parlerà più; o meglio, nel Signore degli Anelli, verrà chiarito che Sauron e Negromante sono la stessa entità.

Meno noto, invece, è un passaggio dell’Hobbit, nel quale accennando brevemente alle origini del magico Anello che possiede la creatura chiamata Gollum, l’autore lascia cadere – quasi per caso – queste parole: «Ma chi sa in che modo Gollum era entrato in possesso di quel regalo, tanto tempo addietro, ai vecchi tempi in cui anelli come questo erano ancora diffusi nel mondo? Forse neanche il Signore che li dominava avrebbe potuto dirlo» [Hobbit, p. 101].

Emerge qui una figura che rappresenta un unicum nella storia della Terra di Mezzo: un artefice, quasi imperscrutabile, al di là del bene e del male, interessato solo alla sua Arte di forgiatore, che non è possibile identificare, in nessun modo con il Negromante. Quando ero un ragazzino – perdonate la digressione autobiografica – mi faceva venire in mente il mago maestro di Topolino nel celebre episodio dell'”Apprendista Stregone” del film d’animazione Fantasia: l’osservavo mentre, chino su un teschio (dettaglio abbastanza macabro, in verità) evocava una bellissima farfalla colorata, per poi disfarla. Ho sempre ritenuto che questo mago non fosse nè buono, nè cattivo: dava infatti l’impressione di essere solo interessato alla sua arte, senza porsi problemi etici di alcun genere.

Tornando alla questione principale, manca, infatti, una connessione chiave che sarà poi introdotta negli scritti successivi di Tolkien, e cioè che Sauron, nei panni del Negromante, aveva catturato Thrain per un motivo ben preciso, ossia quello di prendergli l’ultimo degli Anelli dei Nani che ancora sfuggivano al suo controllo. D’altra parte, l’Unico Anello, nell’Hobbit, non è associato a nessuna forma esplicita di malvagità, ed è questo un ulteriore elemento di sorpresa: l’unico riferimento che possiamo trovare in merito a un suo effetto collaterale pernicioso è l’irritazione che provoca alla pelle di Gollum, ma niente di più; l’aspetto orribile di Gollum e la ragione della sua lunga vita non sono messe in correlazione con l’Unico. In fondo, riflettendoci bene, i poteri dell’Anello sono quelli che potremmo definire di magia neutrale: rende invisibili, è vero, ma lo fa in modo indiscriminato, tant’è vero che Bilbo e Gollum, nonostante la diversità di carattere e di indole, ne sono “colpiti” allo stesso modo; permette all’hobbit di comprendere il linguaggio dei ragni, che sono creature malvagie, è vero, ma si può definire un atto deplorevole in sè conoscere la lingua nera? Certamente no, visto che anche Gandalf ed Elrond la conoscono e possono (all’occorrenza, certo, e con prudenza) adoperarla. Altri effetti “collaterali” dell’Anello non sono presentati nell’Hobbit: gli stessi Nani, quando Bilbo racconta loro del prezioso oggetto trovato nelle caverne delle Montagne Nebbiose, sono curiosi ed eccitati dalla notizia, ma nessuno di loro, neppure Balin suo grande amico, ritiene di dover mettere in guardia Bilbo dall’uso continuativo dell’Anello; nello stesso epilogo del romanzo, Tolkien si limita a precisare che Bilbo fece un uso appropriato dell’Anello, usandolo per sfuggire a parenti e visitatori antipatici.

Sauron, quanto meno sotto forma di Tevildo signore dei Gatti, era già presente nel mondo della Terra di Mezzo quando Tolkien scrisse il romanzo dell’Hobbit: sarebbe interessante, tuttavia, cercare di comprendere se all’origine del Signore degli Anelli – così come viene descritto nella storia di Bilbo – vi fosse un’entità malvagia (Sauron/Tevildo) o se questi fosse ancora slegato dal continuum della Terra di Mezzo allorché Tolkien scrisse lo Hobbit.

Suggerimenti di lettura:

Ritratti – Annatar, il Signore dei Doni

Dizionario dei personaggi de «Il Ciclo del Marinaio»

Akhallabeth – Scena V ed ultima. Il discorso di Sauron ai Numenoreani il giorno di Mezza Estate

Akhallabeth – Scena IV – Le tentazioni di Sauron

Da Numenor alla Terra di Mezzo: benvenuti, lettori de «Il Ciclo del Marinaio»!

Sauron: un antagonista svilito?

Sauron, il filosofo

Sauron, il politico

Il Ciclo del Marinaio

Indur, la Morte dell’Alba, il Quarto

Nato nella città di Korlan nel 1935 della Seconda Era, Ji Indur era l’erede di una ricca famiglia della repubblica di Koronande; possedette fin dall’adolescenza un carattere molto ambizioso, divenendo il più giovane governatore eletto in quella contrada. Allorché divenne un membro del consiglio di Koronande, egli promosse una politica volta a contrastare l’influenza di Numenor sulla sua patria; sotto il regno di Tar-Ciryatan, infatti, navi da guerra numenoreane erano per la prima volta apparse nelle acque della repubblica, destando notevole preoccupazione nell’animo del governatore.

L’influenza dei Numenoreani minò le basi sociali e politiche di Koronande, al punto tale che Indur temette per la stessa sopravvivenza del suo potere: reso timoroso da tale minaccia, con un colpo di stato, Indur sciolse l’assemblea nazionale e si proclamò re di Koronande. Tale soluzione politica non era tuttavia condivisa dalla maggior parte della gente di Korlan, ché essi erano fieri della loro libertà, né avrebbero permesso a Indur di estendere il suo potere: nei successivi ventitre anni, si verificarono una serie di guerre civili e ribellioni. L’intervento dei coloni Numenoreani di Tantarak, che mal tolleravano simili disordini, portò Indur ad appropriarsi nuovamente del suo regno, ma un’ultima sommossa popolare, comandata dal governatore di Korlan, una delle piazzeforti del nuovo regno, condusse il sovrano all’esilio e restaurò la repubblica.

Ji Indur fuggì nel Mumakan, sede di molti agenti di Sauron fin dal diciottesimo secolo della Seconda Era: ivi egli trovò ospitalità e la salvezza, ché era noto all’Oscuro Signore, il quale pensava di servirsi del re caduto per estendere il suo potere a Sud e gli offrì un nuovo trono.

Un’oscura alleanza fu siglata tra il giovane re e Sauron, e il Maia corrotto gli donò il quarto Anello degli Uomini nell’anno 2001: Ji Indur divenne uno schiavo dell’Oscuro Signore.

Il nuovo re del Mumakan mutò il suo nome in Ji Amaav II, affinché il popolo credesse che egli fosse davvero il discendente del precedente sovrano, il primo che avesse posato sul suo capo la corona ricavata dall’avorio del mumakil: il Nazgul regnò per milleduecentosessantadue anni, riuscendo a sottomettere la colonia numenoreana di Tantaruk, finché, con l’arrivo delle armate di Ar-Pharazon, egli dovette fuggire, rifu- giandosi nelle giungle dell’Harad.

Nei successivi anni, apprese dagli Haradrim le loro strategie di combattimento e ne divenne il sovrano. Durante l’assedio di Gondor, condusse i suoi eserciti in prima linea e pochi erano coloro che potevano osservare senza provare sgomento la corona del Re Mumakan; al termine della guerra, tuttavia, egli cadde nella Tenebra insieme al suo Oscuro Signore, quando costui fu privato del suo Anello.

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Suggerimenti di lettura:

I Nazgul

Er-Murazor, il Primo dei Nove

Khamul, il Secondo, l’Ombra dell’Oriente.

Dwar di Waw, il Terzo, il Signore dei Cani

Akhorahil, il Re Tempesta, il Quinto

Hoarmurath di Dir, il Re del Ghiaccio, il Sesto.

Adunaphel l’Incantatrice. La Settima

Ren il Folle, l’Ottavo

Uvatha, il Cavaliere, il Nono

Dwar di Waw, il Terzo, il Signore dei Cani

Dendra Dwar nacque nel 1949 della Seconda Era, nell’isola di Waw, figlio di un pescatore Wolim di nome Dendra Wim e di una lavandaia, Ombril, che morì dandolo alla luce. Dwar ebbe un’infanzia difficile, segnata dal dolore per la perdita della madre e dal duro lavoro che dovette praticare fin dall’età di sette anni: taciturno e malinconico, il giovane pescatore nutriva tuttavia una smisurata ambizione che crebbe con lui e ne determinò l’amaro destino; angusta gli sembrava la sua isola ed egli desiderava esplorare le coste della Terra di Mezzo che, nelle chiare albe d’Estate, erano visibili dalla barca ove egli lavorava.

L’isolamento di Waw dal continente di Endor terminò nel 1965, allorché i guerrieri del K’Prur di Hent sbarcarono nell’isola, saccheggiando Horn, la città natale di Dwar: le forze nemiche trucidarono selvaggiamente gli abitanti Wolim, bruciandone le case e i porti; Dwar, suo fratello Dwem e suo padre Wim trovarono rifugio nelle cave che si estendevano sotto le scogliere della costa occidentale. Wim, gravemente ferito durante la fuga da un giavellotto nemico, morì alcune settimane dopo: il giovane Dendra giurò sullo spirito del padre che avrebbe sterminato gli aggressori del loro popolo e si preparò al duro compito che tale giuramento obbligava a compiere.

Dendra navigò verso Nord, diretto alla terra di Wol, per apprendere le strategie di guerra delle tribù Wolim che ivi avevano dimora: Dwar sapeva che in tale contrada gli sarebbero state rivelate le conoscenze per allontanare il nemico dalla sua terra natia e prestò servizio nelle armate dei Wolim per molti anni.

In breve tempo Dwar acquisì grande fama presso quelle genti, ché era divenuto un guerriero feroce e implacabile: in qualità di esploratore delle armate di Wol, egli apprese le Arti della parola e del comando necessarie per addomesticare i feroci mastini da guerra che terrorizzavano i guerrieri di Hent, i cui corpi erano protetti da leggere armature in cuoio; tuttavia, sebbene Dwar fosse considerato dai suoi commilitoni un prode guerriero, egli ambiva ottenere conoscenze quali mai un Uomo della sua stirpe aveva appreso: nel 1974, Dendra divenne allievo di Embra Silil, un anziano sacerdote del culto di Morgoth e questi gli svelò le arcane Arti Oscure. A lungo il giovane mago si applicò in tali studi, dimostrando un talento quale pochi fra i Secondogeniti potevano vantare di possedere. Nel 1980, Dwar assunse la carica di Signore dei Cani e condusse un contingente delle sue truppe contro la cittadella di Alk Waw e la strappò al controllo dei guerrieri Hent: adoperando le sue Arti Oscure e le sue legioni di cani guerrieri, dopo un anno d’assedio, spezzò le linee dei suoi nemici.

Durante questi lunghi mesi, grazie all’azione combinata di duemila cani da combattimento e dei suoi Uomini, egli estese la sua influenza a tutta l’isola: ottenuta la vittoria, Dwar si proclamò Alto Custode dell’isola e rifiutò di riconoscere l’autorità del Consiglio degli Anziani.

Waw divenne nota come l’Isola dei Cani, governata dalle severe leggi emanate dal signore dei Wolim in persona; eppure, nonostante suo padre fosse stato vendicato, Dwar posò i suoi avidi occhi sulle terre circostanti, non pago di aver soddisfatto il suo giuramento, ché grande era divenuta la sua ambizione ed essa ora si misurava in virtù delle conquiste che egli presagiva ottenere: nel volgere di pochi anni, Wol, Brod, Cimonienor ed Hent caddero sotto il suo controllo e nel 1998, il potere di Dendra si era esteso in tutto l’estremo levante della Terra di Mezzo.

Il signore dei Cani, tuttavia, non era soddisfatto di quanto la sua brama di potere gli aveva consentito di acquisire e temeva la morte sopra ogni altra cosa, ché a essa ambiva sfuggire qualora fosse giunta l’ora: lesto allora afferrò l’offerta di immortalità che Sauron di Mordor gli offrì ed egli cadde sotto il dominio dell’Ombra, accettando il terzo degli Anelli degli Uomini nell’anno 2000.

Lentamente il suo sembiante fu consumato dalla malvagità dell’Anello e Dwar infine si mutò in uno spettro immortale, al servizio dell’Oscuro Signore di Mordor; pure egli poteva assumere forma fisica qualora lo desiderasse e in tale veste controllò l’operato del nipote Dendra II, il quale ora deteneva la carica di Alto Custode di Waw. Per duecentocinquanta anni, il terzo fra i Nazgul rimase all’ombra della torre di Alk Waw, finché non ebbe condotto le sue legioni nella terra di Mordor, ove servì il suo Oscuro Signore nei successivi secoli della Seconda Era.

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Suggerimenti di lettura:

I Nazgul

Er-Murazor, il Primo dei Nove

Khamul, il Secondo, l’Ombra dell’Oriente.

Indur, la Morte dell’Alba, il Quarto

Akhorahil, il Re Tempesta, il Quinto

Hoarmurath di Dir, il Re del Ghiaccio, il Sesto.

Adunaphel l’Incantatrice. La Settima

Ren il Folle, l’Ottavo

Uvatha, il Cavaliere, il Nono