Informazioni

Khamul, il Secondo, l’Ombra dell’Oriente.

Il secondo dei Nove in potenza, aveva nome Komul I ed era nato nell’anno 1799 della Seconda Era nella città di Laeg-Goak, posta all’estremo Est della Terra di Mezzo: egli era il figlio più anziano di Hionvar Mul Tanul di Womaw, e aveva avuto come nutrice Dardarian, moglie di un principe degli Elfi Avari, la quale, in seguito, era divenuta la sua prima consigliera, fino alla sua ascesa al trono nell’anno 1849. L’influenza dell’ambiziosa Elfa fu molto forte nei confronti di Komul, tanto da spingerlo a desiderare sopra ogni altra ambizione l’immortalità; egli infatti, pur avendo sangue elfico nelle vene, non era della stirpe dei primogeniti, e la durata della sua esistenza, nonostante fosse maggiore rispetto a quella dei suoi sudditi, gli pareva ben poca cosa. Il regno di Womaw era il più potente fra coloro che si estendevano all’Est della Terra di Mezzo, e i suoi abitanti erano soggetti all’influenza degli Elfi Avari, dai quali avevano appreso le arti della parola e della lavorazione del legno: essi discendevano dai medesimi padri dei Numenoreani, e la loro ricchezza superava in splendore quella dei regni circostanti.

Komul I era affascinato dalla grandezza degli eredi degli Edain, e sotto il suo regno, l’influenza degli ambasciatori di Numenor aumentò, con grande disappunto del suo popolo, irritato dalla continua intromissione di questi nei loro affari. Sin da quando i Numenoreani avevano iniziato ad avere relazioni commerciali con il regno di Womaw, molte colonie erano state stabilite nei loro territori; durante il regno di Komul, tuttavia, gli Uomini dell’Ovest avevano preso a fortificare i loro possedimenti, ottenendo dal sovrano numerose concessioni, con l’unico risultato di esasperare il malcontento popolare. Dal 1944, la stabilità interna del reame fu minacciata dalle rivolte di molti fra i signori dei Womaw, che vennero meno alla fedeltà nei confronti del loro signore: Komul, disperato e impotente, si rivolse all’antica consigliere Dardarian, la quale lo sedusse con la sua bellezza e la promessa dell’immortalità; egli accettò, e strinse un’alleanza con il regno Avaro di Hekaneg; tale mossa politica gli permise, l’anno successivo, di ritirare le concessioni fatte ai Numenoreani, impedendo che il suo regno si disgregasse; tuttavia, la caduta dei Womaw era stata solo rimandata, ché Dardarian era una spia di Sauron di Mordor e aveva ricevuto da questi l’incarico di corrompere Komul. Nel 1999, l’Elfa consegnò nelle mani del re womaw l’artefatto che gli avrebbe concesso l’immortalità e l’infinita schiavitù sotto il giogo del Signore degli Anelli; la scomparsa di Komul, l’anno successivo, aprì una stagione di lotte sanguinose per il trono. Assassini e intrighi matrimoniali sconvolsero quella che un tempo era una pacifica nazione; infine, cinque anni dopo aver accettato l’Anello, Komul fu costretto ad abdicare al trono, in favore della fazione sostenuta dai Numenoreani, il cui esponente era suo cugino Aon. Nessuno comprese dove fosse fuggito Komul; si venne in seguito a sapere, tuttavia, che al termine di una lunga peregrinazione, raggiunse i cancelli di Barad-Dur nell’anno 2000 e ivi assunse la carica di scudiero dell’Oscuro Signore, mutando il suo nome in Khamul, secondo la lingua nera di Mordor. Il secondo fra i Nazgul rimase a Mordor fino al 3263, allorché il suo padrone fu tratto in catene a Numenor ed egli fuggì verso l’Est, nelle terre dei Chey, ove il suo influsso malefico corruppe tre grandi tribù, i cui guerrieri militarono nelle file di Mordor durante la guerra contro l’Ultima Alleanza.

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Suggerimenti di lettura:

Elwen la Mezzelfa

Per cavalleria, dopo Miriel, passo a presentare l’altro personaggio femminile del Ciclo del Marinaio, Elwen la Mezzelfa, figlia di una Noldo di Edhellond, una piccola città elfica situata nel Gondor meridionale, e di un uomo numenoreano, del quale però non conosciamo il nome. Si tratta di un personaggio opposto e complementare rispetto a Miriel: laddove la principessa di Numenor è una donna dolce, riflessiva, ma anche immatura rispetto al ruolo che il Fato le ha riservato, Elwen, invece, è orgogliosa, decisa a reclamare ciò che ritiene, a torto o a ragione, suo, passionale, irrequieta come il Mare cui anela e che nel suo cuore sa essere il suo vero amore. L’unico attributo che potrebbe unirle è quello di una profonda irrequietezza, per la mezzelfa legata alla sua difficile condizione di non sentirsi appartenere nè agli Uomini nè agli Elfi, per la numenoreana, invece, dettata dal presentimento triste della fine della sua Isola e della sua gente in modo tragico. Il destino di Elwen era stato preannunciato implicitamente dalla madre al momento della sua nascita:

«Sacra a Elbereth sarà questa nostra figlia – fece notare la madre rivolta a quanti le stavano vicino – ma un’ombra le aduggia il capo, ché tuttavia la sua parte mortale ne risentirà quando il momento della scelta verrà, inevitabile e terribile» (Ciclo del Marinaio, p. 129).

La difficile scelta fra due amori diversi, uno più somigliante al suo carattere, il sire elfico Morwin di Edhellond, l’altro diverso, Erfea di Numenor, ma capace di risvegliare in lei una fanciullesca curiosità, ben rivela il suo animo ancora “adolescente” rispetto a quello di Miriel, costretta a crescere più in fretta, non solo per una diversa natura biologica (l’una umana, l’altra solo in parte), ma anche per le incombenze di governo che premevano sul suo capo.

«Mai in Elwen si estinse il desiderio del bianco mare, nemmeno quando i tempi mutarono […]. Tuttavia, in un primo momento, tale desiderio fu soffocato dal suo cuore, ché non riteneva fosse giunto il momento di allontanarsi dalle città di Endor, e molte erano le bellezze che ancora non conosceva; inoltre ambiva alla potenza degli avi di sua madre, sembrandole la massima vetta del potere. Tali erano dunque i suoi pensieri quando in quelle contrade il nome di Erfea Morluin iniziò a diffondersi, facendo germogliare nel suo animo una fanciullesca curiosità. Non era gli forse un Uomo del mare proveniente dalle gloriose città di Elenna? Grande invero era la sua curiosità, ma ancora più profondo in lei era radicato il desiderio della gloria, e un mortale, seppur Numenoreano, ben poca cosa le pareva rispetto ai visi gravi e saggi degli Eldar di Edhellond» (Ciclo del Marinaio, p. 130).

A differenza di Miriel, Elwen è un personaggio che non esiste in alcun racconto di Tolkien: ispirata a Arwen, della quale, tuttavia, capovolge integralmente il destino ultimo, rappresenta la difficile condizione di un individuo che fallisce nel percorso personale di vita piuttosto che in quello pubblico. A pensarci bene, sia che Miriel che Elwen sono due personaggi fallimentari, sia pure in modo molto diverso: il fallimento della loro esistenza conduce dolore e sofferenza a quanti sono loro vicini e tuttavia lascia come ultimo retaggio la possibilità di tramutare il dolore in consapevolezza, in maturazione.

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Tra linguaggio cinematografico e letterario: due scene che avrei voluto vedere nella trilogia di PJ

Continuo il mio viaggio fra rappresentazione cinematografica e letteraria cercando di sfatare uno dei luoghi comuni al quale spesso si appellano i fan di PJ: la mancanza di scene spettacolori nel Signore degli Anelli; o, almeno, di scene d’azione facilmente convertibili in pellicola. Come ho scritto precedentemente, bisogna saper distinguere i due linguaggi: è ovvio, ad esempio, che mentre l’amore fra Aragorn e Arwen può essere inteso anche da piccoli dettagli sparsi qua e là nel libro, fino ad arrivare al matrimonio, nel film sia necessario rendere la relazione sentimentale più evidente, tanto più che si tratta solo di una delle tante “sotto-trame” che il regista deve snodare via via lungo tutta la pellicola.

Proprio per questa ragione, tuttavia, non riesco a essere d’accordo con quanti affermano che nell’opera letteraria del Signore degli Anelli manchino – o siano carenti – quelle scene spettacolari che – considerati gli effetti speciali oggi disponibili – avrebbero potuto essere rese fedelmente nella trasposizione cinematografica. In particolare, vorrei soffermarmi su due “scene d’azione”, tra le più belle descritte da Tolkien (a mio parere): la fuga della Compagnia dell’Anello della Camera di Mazarbul in Moria e la distruzione dei cancelli di Minas Tirith. Lascio la parola all’autore:

Improvvisamente in cima alla scala vi fu uno squarcio di luce bianca. Si udì un sordo tuono e un pesante tonfo. Il rullo dei tamburi proruppe selvaggio, dum-bum, dum-bum, poi d’un tratto s’interruppe. Gandalf volò giù dalle scale e cadde per terra in mezzo alla Compagnia. “Bene, bene! Questa è fatta!”, disse lo stregone, alzandosi faticosamente. “Ho fatto tutto il possibile. Ma ho trovato un degno rivale, che mi ha quasi distrutto. Ma non restate fermi qui! Muovetevi!” […] Gimli lo prese per il braccio, aiutandolo a sedersi su di un gradino. “Cos’accadde lassù in cima alle scale?”, chiese. “Hai incontrato il battitore di tamburo?”. “Non so”, rispose Gandalf. “Ma mi trovai improvvisamente di fronte a qualcosa che non avevo mai incontrato. Non sapevo che altro fare, se non lanciare sulla porta un incantesimo che la chiudesse. Ne conosco parecchi; ma per fare questo genere di cose in piena regola ci vuole tempo, e ancorché riesca, chiunque potrebbe sfondarla con la forza. […] A un tratto, qualcosa entrò nella stanza…lo sentii attraverso la porta; gli Orchi stessi si spaventarono e tacquero. Afferrò l’anello di ferro, e in quel momento percepì la mia presenza e quella del mio incantesimo. “Che cosa fosse, non riesco a immaginare, ma mai ho sopportato una tale sfida. Il contro-incantesimo era terribile; fui quasi sopraffatto. Per un attimo persi il controllo della porta che cominciò ad aprirsi! Dovetti proferire una parola di comando, ma la tensione fu troppo forte. La porta volò in pezzi. Qualcosa di scuro come una nuvola bloccava tutta la luce nell’interno della camera e io fui scaraventato all’indietro giù per le scale. Tutta la parete cedette, e anche il soffitto della stanza, credo.
La Compagnia dell’Anello, pp. 428-430, passim.

Nella versione cinematografica della Compagnia dell’Anello, invece, purtroppo non c’è traccia di tutto questo: dispiace, anche perché si tratta di uno dei pochi punti delle opere tolkieniane in cui si parla esplicitamente di incantesimi: il duello magico tra Gandalf e il Balrog sarebbe stato bello da vedersi (e da ascoltarsi, considerati gli sforzi fatti dai linguisti che hanno collaborato alla stesura della scenografia). Indubbiamente la corsa disperata della Compagnia dell’Anello per guadagnare l’uscita è ben riuscita, però non credo sia superiore, quanto a pathos, a quella descritta dall’autore.

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La seconda scena, invece, riguarda, come ho scritto in precedenza, la descrizione della distruzione del cancello di Minas Tirith. Lascio ancora una volta la parola a Tolkien:

Grond continuava ad avanzare. I tamburi rulluvano selvaggiamente. Sopra i monticelli di cadeveri apparve a un tratto una mostruosa figura: un cavaliere, alto, coperto da un cappuccio e da un manto nero. Avanzava lentamente, calpestando i caduti, noncurante delle frecce. Poi si fermò e levò in alto una lunga e pallida spada. E al suo gesto una grande paura si impadronì di tutti; gli uomini lasciarono cadere le braccia lungo i fianchi e nessun dardo sibilò più. Per un momento tutto fu silenzioso. I tamburi rullavano. Con un’enorme rincorsa Grond venne catapultato avanti da enormi mani. Giunse al Cancello. Fu proiettato in avanti. Un profondo rimbombo echeggiò attraverso la Città come tuono fra le nubi. Ma le porte di ferro e i pali di acciaio resistettero al colpo. Allora il Capitano Nero si rizzò sulle staffe e urlò con voce spaventosa, pronunciando in qualche linguaggio dimenticato parole di potere e di terrore tali da lacerare cuori e rocce. Urlò tre volte. Tre volte rimbombò il grosso ariete. E improvvisamente all’ultimo colpo il Cancello di Gondor cedette. Come colpito da un lacerante maleficio, lo si vide saltare in aria: vi fu un lampo di luce accecante e i battenti crollarono in terra  frantumati in mille pezzi. Il Signore dei Nazgul entrò nel suo cavallo […] varcando l’arco che mai nemico aveva oltrepassato, e tutti fuggirono innanzi a lui. Tutti eccetto uno. In attesa, immobile e silenzioso in mezzo allo spiazzo del Cancello, sedeva Gandalf su Ombromanto […]. «Non puoi entrare qui» disse Gandalf, e l’enorme ombra si fermò. «Torna negli abissi preparati per te! Torna indietro! Affonda nel nulla che attende te e il tuo Padrone. Via!» […] «Vecchio pazzo! [rispose il Nazgul] Questa è la mia ora. Non riconosci la Morte quando la vedi? Muori adesso, e vane siano le tue maledizioni!» E con ciò levò alta la spada e delle fiamme ne percorsero la lama. Gandalf non si mosse. In quell’istante, lontano in qualche cortile della Città, un gallo cantò. Era limpido e chiaro, ignorava la stregoneria e la guerra, non faceva che acclamare il mattino che su nel cielo, oltre le ombre di morte, si avvicinava con l’alba. E come in risposta giunse da lontano un altro suono. Corni, corni e corni. Si udivano fiochi echeggiare nei fianchi del cupo Mindolluin. Grandi corni del Nord che suonovano con forza. Rohan era finalmente arrivato.
Il Ritorno del Re, pp. 119-120, passim.

Nella scena cinematografica, invece, il sentimento di attesa e speranza che anima il lettore alla fine della lettura del capitolo “L’assedio di Gondor” lascia spazio a un duello che nei fatti si risolve con la vittoria del Re degli Stregoni: in questo caso credo che PJ abbia ripreso un passaggio precedente del romanzo, nel quale Denethor rinfaccia a Gandalf di essere stato sconfitto dal Capitano Nero e questi risponde in modo allusivo che può essere accaduto, senza però entrare nel dettaglio di cosa sia avvenuto realmente. Il canto del gallo al quale rispondono gli echi dei corni dei Rohirrim rappresenta, secondo me, uno dei passaggi più emozionanti dell’intero romanzo: sono certo che sarebbe piaciuto a tutti gli spettatori – esperti o meno della saga tolkieniana – proprio perché, a mio parere, il canto del gallo che annuncia l’alba, e dunque la vittoria della luce sulla tenebra, è un messaggio semplice quanto universale, che avrebbe trovato largo consenso nel pubblico. Lo stesso duello “non-consumato” fra Gandalf e il Re-Stregone, inoltre, avrebbe creato suspence ed emozione. I Troll che nel film entrano in Minas Tirith, invece, li ho trovati un po’ banali, soprattutto se paragonati alla figura del Re Stregone: tutto si risolve in pochi fotogrammi. Grond picchia e picchia duro finché il portone cede, senza esplodere come accade nel romanzo. Fine. Certo, va detto che il tutto avviene all’interno di un contesto bellico pieno di azione, per cui lo spettatore non rimane deluso; però avrei preferito la sceneggiatura originale a quella cinematografica. Si tratta, peraltro, di un’altra delle poche scene del romanzo nelle quali trova posto la magia nella sua accezione più classica: mi sarebbe molto piaciuto vedere il Re Stregone pronunciare per tre volte il suo malvagio incantesimo, sarebbe stata una scena caratterizzata da un climax crescente. Per inciso (e per finire) mi sono spesso chiesto se, a sua volta, il Cancello di Minas Tirith non fosse protetto da una magia, considerato che il Capitano Nero dovette pronunciare più volte l’incantesimo per abbatterlo…

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Sauron: un antagonista svilito?

Riprendo la serie degli articoli incentrati sul paragone fra versione cinematografica e romanzo. Ricordo ai lettori che si tratta di una serie di riflessioni personali che non intendono offendere nessuna delle parti in gioco. Per semplificare la lettura, ho deciso di accorpare in un’unica categoria i punti della difesa e delle attenuanti, dal momento che sono molto simili. Buona lettura!

Accusa: Molto bello il prologo iniziale, che spiega in pochi minuti la questione della forgiatura degli Anelli e la sconfitta di Sauron alla fine della Seconda Era. Questa affermazione dovrebbe figurare nel paragrafo successivo, invece l’ho usata come incipit per aprire quello delle critiche. Per quale motivo, si chiederanno i miei lettori? Ebbene, perché è proprio all’interno del prologo che si evidenziano alcuni dei problemi che, secondo me, caratterizzano sia la trilogia cinematografica del Signore degli Anelli sia quella dell’Hobbit e che cercherò di sintetizzare in due parole: eccessiva spettacolarizzazione. Proverò a sostenere questa accusa analizzando la figura di Sauron nella trilogia cinematografica:

La figura di Sauron: L’impatto emotivo ricevuto dallo spettatore che si misura per la prima volta con il principale antagonista della Terra di Mezzo è certamente appagante. Non c’è alcun dubbio su questo aspetto. Sauron appare come un guerriero super corazzato, altissimo (provate a rivedere le scene nelle quali si confronta con Elfi e Dunedain e ve ne renderete conto) e naturalmente malvagio da far paura. Un’immagine su tutte conferma questo ritratto: Sauron forgia il suo Anello nel Monte Fato, in piena armatura, e le fiamme si stagliano sullo sfondo. Proprio questa scena, tuttavia, nasconde un involontario tocco di comicità: che senso aveva, infatti, forgiare l’Anello in questo modo? La corazza era forse di amianto per proteggerlo dal calore del Monte Fato? Mah…

Il lato pù grottesco della rappresentazione di Sauron, tuttavia, si palesa nelle scene finali della battaglia dell’Ultima Alleanza. Egli avanza in campo aperto, sovrastando tutti dall’altezza del suo elmo e la sua mazza abbatte elfi e uomini a destra e a manca…No, fermi tutti! Se davvero Sauron fosse stato così potente, che bisogno avrebbe avuto di confrontarsi con i suoi nemici solo alla fine, quando, stando alla voce fuori campo di Galadriel, la vittoria dell’Alleanza era ormai prossima? La verità è che Sauron era in primo luogo un artefice: un forgiatore di metalli e di anime. Si tratta di un mentalista, di un essere in grado di muoversi su più piani di esistenza per manovrare i fili del Fato a suo vantaggio (perdonate l’eccessivo lirismo, ma un personaggio come Sauron lo merita!) Corrompe Celebrimbor e Ar-Pharazon, riesce a eludere la sorveglianza di Gil-Galad e di Galadriel, ammalia i nove re mortali che diventeranno poi i suoi schiavi più potenti, ecc. ecc. Non a caso Tolkien lo rappresenta come uno degli spiriti originariamente al servizio di Aule, il dio fabbro. Come Saruman, anche Sauron si mostra un ottimo oratore e un pericoloso interlocutore: raffigurarlo come una sorta di Distruttore di Marvellesca memoria (osservatelo nel film Thor del 2011 e non potrete non notare una certa somiglianza) svilisce e semplifica molto la sua figura.

Distruttore_(Marvel_Studios) (Immagine del Distruttore, tratta dal film “Thor” del 2011)

Il punto più basso si raggiunge poi in seguito, allorché Sauron appare solo sotto forma di occhio gigante, attento a scrutare le pianure sottostanti, proprio come farebbe un faro. Cerchiamo di fare chiarezza: Tolkien non ha mai affermato che Sauron nella Terza Era avesse assunto l’aspetto di un occhio gigante. È vero che Frodo avverte la presenza di un occhio vigile sul suo percorso; è certo che egli vide un occhio nello specchio di Galadriel che sembrava dargli la caccia e che la stessa regina confermò essere legato a Sauron; è innegabile che il simbolo di riconoscimento degli Orchi di Sauron sia un occhio rosso; allo stesso tempo, tuttavia, dobbiamo ricordare altre osservazioni che non sembrano confermare quanto rappresentato nell’opera di PJ. Gollum, per esempio, che dall’Oscuro Signore era stato torturato nelle prigioni di Mordor, afferma che Sauron era dotato di una nera mano con quattro dita; Pipino, invece, parlando con lui nel Palantir riesce a percepire la sua presenza, ma non è in grado di descrivere la sua forma (qualcosa che mi ha sempre ricordato l’indefinitezza di alcune creature mostruose presenti nei racconti di Lovecraft, dovuta al rifiuto della mente umana di memorizzare gli orrori indicibili a cui talvolta assiste); infine, pochi istanti prima della sua definitiva sconfitta, gli uomini dell’Ovest hanno l’impressione di scorgere una grande ombra proiettarsi al di sopra del Monte Fato ed essere poi spazzata dal vento.

Difesa: La mole di informazioni presenti nel romanzo del Signore degli Anelli è tale da non poter essere trasformata agevolmente in una proiezione cinematografica. L’esigenza primaria era quella di dare una forma riconoscibile al Sauron materiale (il guerriero che uccide Elendil) e a quello immateriale, privo di corpo, (il grande Occhio infuocato), in modo che lo spettatore fosse colpito soprattutto dalla capacità di Sauron di penetrare qualunque protezione e riuscire a vedere tutto (o quasi). Inotre, in molte culture antiche e presso le società segrete l’Occhio rappresentava qualcosa legato alla sfera magico-esoterica (l’occhio di Ra nell’antico Egitto, ma anche l’Occhio di Dio nei circoli massonici). La Battaglia della Dagorlad, che si vede nei primi minuti della Compagnia dell’Anello, si conclude con l’assedio a Barad-Dur, che però dura sette anni: ovviamente non c’era tempo e modo di mostrarlo nel film, però è a mio parere un elemento utile a comprendere come Sauron non fosse così potente sul piano militare come mostrato da PJ, altrimenti l’assedio stesso non sarebbe neppure iniziato. Il mio giudizio sulla rappresentazione cinematografica di Sauron è migliorato dopo la visione del secondo film dell’Hobbit, ove è mostrato il processo che porta lo spirito di Sauron ad assumere quella forma; resta, tuttavia, l’impressione di un certo gusto grottesco che avrebbe potuto essere risparmiato agli spettatori. Infine, come ultima attenuante, si può ammettere che Sauron nella Terza Era non ha più un ruolo così attivo come nelle epoche precedenti: è il Nemico per eccellenza, certo, ma se ci pensate bene, quanti riescono davvero a comunicare con lui? Aragorn, Pipino, Denethor, Saruman e Gollum. Per il resto, la sua mente e il suo spirito restano profondamente celati all’interno della Torre di Barad-Dur. Esprimo qui un desiderio: spero di vedere un Sauron più rassomigliante a quello letterario nella serie prodotta da Amazon, che dovrebbe riguardare, stando ai rumors che corrono in rete, gli antefatti delle vicende del Signore degli Anelli. Un Sauron più diabolico, che si mostri perfido oratore e seduttore, in grado di manipolare a suo piacimento i metalli e le menti dei suoi avversari.

 

Signori in aula, entra la Giuria! Requisitoria semiseria sul confronto libro vs film

Oggi, 25 marzo, è il Tolkien Reading Day e per celebrare l’occasione ho pensato di iniziare una serie di articoli che mettano a confronto la versione cinematografica del Signore degli Anelli di Peter Jackson (per comodità d’ora in avanti PJ) con quella letteraria. L’intento, come suggerisce il titolo, è palesemente semiserio e non intende offendere nè urtare la sensibilità di nessuno: si tratte di opinioni strettamente personali che, naturalmente, possono essere o meno condivise.

Generalmente gli appassionati della materia tolkieniana si dividono in due grandi categorie: grandi censori del film e ultras pronti a giurare sul genio di PJ. Personalmente, ritengo di avere attraversato entrambe le fasi: grande amore durante la visione e nei primi giorni successivi; grande rifiuto dell’eresia cinematografica; savio e moderato accomodamento.

In primo luogo, qualunque sia la posizione da cui si parte, bisogna essere onesti e riconoscere che PJ ha spesso descritto la sua visione del mondo tolkieniano come estremamente personale; durante una delle interviste che rilasciò in occasione dell’ultimo capitolo della trilogia cinematografica del Signore degli Anelli, infatti, il regista dichiarò che ciascuno di noi sviluppa nella propria mente una personale immagine della Terra di Mezzo. Sottoscrivo punto per punto questa affermazione: ritengo, infatti, che salvo certe caretteristiche ben delineate dall’Autore, per tutto il resto ciascuno sia libero di immaginarsi questo o quel personaggio, luogo o evento della storia. Da questo punto di vista, non posso rimproverare a PJ errori madornali: non ha reso Gandalf un giovane e prestante mago, per esempio. Indubbiamente le sue scelte di caratterizzare alcune scene in un senso o in un altro nascono da esigenze, gusti e sensibilità personali: sono pronto a scommettere che se confrontate minuziosamente, non ci sarebbero due rappresentazioni della Terra di Mezzo identiche in ogni loro aspetto e realmente fedeli all’opera di Tolkien. Per lo stesso motivo, tuttavia, non ritengo che quella di PJ sia stata la migliore in assoluto o che sia insensato proporre nuove versioni cinematografiche: solo un’eventuale pellicola girata da Tolkien in persona avrebbe reso le altre inutili, ma così non è stato; tutti, dunque, hanno diritto alla possibilità di rappresentare la Terra di Mezzo attraverso altri strumenti comunicativi.

Fatta questa premessa, passiamo all’esame dei principali passaggi raccontati nelle due versioni. Lo schema adottato sarà il seguente: accusa/difesa/attenuanti, naturalmente nei confronti di PJ.

P.S. l’articolo è uscito leggermente in ritardo…

Gli Orchi sono immortali?

Dopo aver approfondito la conoscenza dei Nazgul, vorrei adesso soffermarmi sugli Orchi. A differenza degli Spettri dell’Anello, gli Orchi solitamente non colpiscono particolarmente la fantasia del lettore e dello spettatore: entrati a buon diritto nei panni dei “cattivi” per eccellenza di tante saghe fantasy, sono noti soprattutto per la loro ferocia, brutalità e in qualche caso, per un QI non propriamente lusinghiero.

Questa, almeno, è l’opinione ricorrente sugli Orchi, rafforzata non solo da ambientazioni ludiche (penso a D&D, Hero Quest, ecc.), ma anche dalle pellicole cinematografiche di Peter Jackson. In questi film, inoltre, agli Orchi è riservato il ruolo di “carne da macello” per eccellenza: Aragorn, Gimli e Legolas, in particolare, ne ammazzano una gran quantità senza apparente sforzo. Per carità di patria, poi, tacerei su quello che accade durante la fuga della compagnia di Thorin dalle segrete di Thranduil nel secondo film della trilogia dell’Hobbit…

In realtà gli orchi descritti di Tolkien sono un po’ diversi da quelli cinematrografici.

In primo luogo, dimentichiamoci esperimenti genetici come quelli che commette Saruman nel primo film del SdA: incrociando orchi e goblin avrebbe ottenuto solo…orchi e goblin! Questo perché negli scritti di Tolkien entrambi i termini indicano l’orco tipico, la cui altezza è compresa fra i 120 e i 160 centimetri, dalla faccia aguzza e dallo sguardo obliquo, colore di pelle verdastro ecc. Questi erano chiamati nelle prime traduzioni del SdA come orchetti, un termine che secondo me rendeva bene la differenza fra questi e i grossi Uruk, orchi che erano stati selezionati da Sauron alla fine della Seconda Era per combattere contro gli eserciti dell’Ultima Alleanza, attraverso metodi ignoti: si può supporre solamente che, come avviene con gli animali, egli avesse incrociato fra loro gli individui più alti e robusti degli Orchetti sino a ottenere una nuova razza di orchi, ma è solo una mia teoria, non suffragata in nessun modo dagli scritti di Tolkien. Tutti gli Orchi, d’altra parte, derivavano a loro volta da una serie di incroci avvenuti fra alcuni Elfi, catturati da Morgoth, maestro di Sauron, e una serie di spiriti demoniaci non meglio specificati: la prole di questi accoppiamenti forzati, brutalizzata dalle torture, dalla mancanza di aria e luce, ecc. avrebbe dato vita alla razza degli Orchi. Almeno, questa era la teoria di molti dei Saggi della Terra di Mezzo. Morgoth, infatti, non poteva infondere la vita in una nuova creatura: quello era un potere riservato solo a Eru-Iluvatar, il dio creatore. L’unica soluzione alla quale poteva ricorrere Morgoth (e Sauron dopo la sua scomparsa) era quella di agire sulla “materia vivente” già esistente, modificandola per selezionare e ottenere creature più utili ai propri scopi malvagi.

Chiarito questo punto essenziale sull’origine degli Orchi, è naturale chiedersi se, come gli Elfi loro predecessori, gli Orchi potessero essere immortali (ed eternamente giovani). Non è facile risolvere questo quesito, perché, certamente, gli Orchi adoravano la guerra al di sopra di ogni altra cosa e questa passione contribuiva ad abbreviare la durata della loro esistenza in modo drastico, immortalità o no: qualche elemento, però, si può ricavare dagli scritti tolkieniani.

Nell’Hobbit, ad esempio, Gandalf si rivolge a Dain annunciandogli la venuta di Bolg, figlio di Azog, ucciso dal nano dinanzi ai Cancelli Orientali di Moria. Se osserviamo la cronologia della Terza Era della Terra di Mezzo, notiamo che lo scontro nel quale Azog fu ucciso avviene nel 2799; la battaglia dei Cinque Eserciti, invece, si svolge nel 2941, esattamente 142 anni più tardi! Anche immaginando che Bolg avesse solo un anno quando suo padre fu ucciso da Dain, questo significa che egli avrebbe avuto almeno 143 anni all’epoca dei fatti narrati nei capitoli finali dell’Hobbit! Non solo era vivo e vegeto, ma godeva di ottima salute, dal momento che scendeva in battaglia con i suoi eserciti!

Questo breve dialogo, inoltre, conferma l’esistenza di orchesse, che generavano piccoli orchi: ritengo, quindi, che ogni qual volta Tolkien scriveva di proliferazione e moltiplicazione di orchi, non intendesse alludere a nessuna tecnica di clonazione (che peraltro era sconosciuta nella sua epoca), ma disponibilità, da parte di Sauron, di tre elementi, necessari per accrescere una qualunque popolazione (elfica, umana, orchesca, ecc.): 1) disponibilità di cibo; 2) cessazione di ogni ostilità fratricidia; 3) protezione da pericoli esterni. In questo modo gli Orchi crebbero in gran numero: se poi aggiungiamo che, probabilmente, non si curavano troppo dei legami familiari e che le orchesse erano ingravidate di frequente da maschi diversi, ciò potrebbe spiegare anche la velocità con la quale il loro numero si accrebbe.

Un ultimo accenno lo vorrei dedicare alla mentalità orchesca: nei film del SdA e dell’Hobbit, essi appaiono sempre come creature votate alla malvagità assoluta, schiavi dei loro Padroni, ai quali non osano ribellarsi. Un dialogo fra due orchi di Sauron, presente nel libro “Il Ritorno del Re”, mostra, al contrario, una realtà molto più sfumata, indice della presenza, perfino fra gli Orchi, di un istinto rabbioso verso l’Oscuro Signore:

“Darò il tuo nome e il tuo numero ai Nazgul”, disse il soldato, e la sua voce era piena di paura e di rabbia. “Maledetto spione!”, urlò. “Non sai fare il tuo lavoro e non sai nemmeno rimanertene fra la tua gente. Va’ dai tuoi luridi Strilloni, e che possano spellarti vivo! Se il nemico non li prende prima. Hanno accoppato il Numero Uno [il Re Stregone], ho sentito dire, e spero che sia vero!” SdA, Il Ritorno del Re, p. 233.

I Nazgul

Credo che i Nazgul siano, tra tutti i personaggi “negativi” dell’epopea tolkieniana, quelli che sono ricordati maggiormente dal grande pubblico. I mantelli neri, il viso invisibile, le loro cavalcature simili a un piccolo drago…sono dettagli che spaventano e perciò affascinano sia lo spettatore che, naturalmente, il lettore. Nonostante le storie fantasy e gotiche siano colme di fantasmi e spettri più o meno terrorizzanti, trovo che la caratterizzazione dei Nazgul sia molto originale all’interno della vasta famiglia degli “ectoplasmi” letterari. Confesso che, sin dalla mia prima visione del film d’animazione di Ralph Bakshi del 1978 (sul quale tornerò con un articolo specifico), rimasi colpito da queste creature, così letali e allo stesso tempo misteriose.

Credo, infatti, che ogni buon tolkieniano si sia posto, almeno una volta, la seguente domanda: «Chi sono i Nazgul?»

Purtroppo Tolkien non è in grado di raccontarci molti dettagli sulle biografie di questi esseri. Può essere che, alla base di questa decisione, ci sia stata la scelta di non attribuire troppa importanza a esseri che erano stati totalmente corrotti dal Male: una sorta di damnatio memoriae letteraria. Qualcosa che Gandalf, nel secondo film dell’Hobbit, avrebbe riassunto sinteticamente rispondendo in questi termini alla (legittima) domanda di Radagast sull’identità di chi fosse sepolto nelle Alte Colline: «Se un nome l’aveva, è stato dimenticato. Sarebbe stato ricordato solo come uno dei Nove».

In mancanza di certezze da parte dell’Autore, naturalmente ogni teoria è ben accetta. Gli unici elementi affidabili che possiamo ricavare dalla sterminata produzione letteraria del Professore sono i seguenti:

1) I Nazgul compaiono per la prima volta nell’anno 2251 della Seconda Era;

2) Tre di loro erano stati in vita nobili di alto lignaggio di Numenor; tutti loro, comunque, erano stati grandi maghi, sovrani, condottieri che avevano però ceduto alle lusinghe di Sauron;

3) Il secondo tra i Nazgul aveva nome Khamul, l’Ombra dell’Est (chiaro riferimento a un sovrano degli Esterling).

4) Hanno un corpo, ma non è visibile se non in particolari condizioni: Tolkien ci lascia una descrizione molto precisa dell’attacco di Merry al Re Stregone: «la spada l’aveva trafitto alle spalle, squarciando il nero manto e la cotta di maglia, e colpendo il tendine del suo possente ginocchio» (Sda, Il Ritorno del Re, pp. 135-136);

5) Temono gli elfi e le acque profonde.

Tutto il resto sono congetture, più o meno ben sviluppate, come vedremo. Non siamo neppure del tutto certi che fossero solo uomini: la nota poesia che apre il Signore degli Anelli declina sempre al maschile i portatori; e se non sapessimo già che Galadriel aveva un anello elfico, potremmo pensare che tutti loro fossero di sesso maschile (e dunque sbaglieremmo).

Il capitolo «La caccia all’Anello» dei “Racconti incompiuti” presenta un quadro per certi versi inedito dei Nazgul, sottolineando una serie di differenze esistenti fra il Re degli Stregoni e gli altri otto Nazgul. Sauron, in questa versione, è confuso in merito alla decisione da prendere per dare la caccia all’Unico Anello e, alla fine, decide di ricorrere ai Nazgul, non senza alcune perplessità.

«Era stato riluttante a farlo prima di sapere dove esattamente si trovasse l’Anello, e ciò per vari motivi. I Fantasmi erano di gran lunga i più potenti dei suoi servi e i più adatti a una missione del genere, perché completamente schiavi dei loro Nove Anelli, attualmente in possesso di Sauron; erano del tutto incapaci di agire contro la sua volontà, e anche se uno di essi, persino il Re degli Stregoni loro capitano, avesse messo le mani sull’Unico Anello, l’avrebbe riportato al suo Padrone. Ma erano anche svantaggiati finché non cominciasse la guerra aperta (alla quale Sauron non era ancora pronto). Tutti, tranne il Re degli Stregoni,  da soli durante il giorno si perdevano, e tutti, ancora una volta salvo il Re degli Stregoni, temevano l’acqua […] Inoltre, la loro arma principale era il terrore, il quale risultava maggiore quand’erano svestiti e invisibili, e maggiore anche quando fossero tutti assieme» p. 455

Da questa descrizione si ricava l’idea che, nella Terza Era, i Nazgul (come d’altronde il loro Padrone) si fossero indeboliti: non erano in grado di orientarsi durante il giorno (senza la guida del Re Stregone? Oppure di Sauron stesso? In questo punto l’interpretazione del brano è oscura). Inoltre la loro forma invisibile arrecava un terrore senza fine, attenuato quando erano rivestiti di manti e corazze.

Si può ragionevolmente supporre, tuttavia, che questa versione dei Nazgul fosse destinata a essere modificata: i primi incontri fatti da Frodo e dai suoi amici con queste creature avvengono di giorno e spesso (per loro fortuna) si tratta di un solo Spettro dell’Anello. È evidente, dunque, che nell’evoluzione dei Nazgul, Tolkien doveva avere cambiato a un certo punto idea: nel Signore degli Anelli i Nazgul sono in grado di muoversi a loro piacimento; resta però l’ostacolo creato dall’Acqua, che non subisce modifiche rilevanti, come dimostra la decisione del Nazgul di arrestarsi al limitare dell’argine del Brandivino.

Nella Seconda Era, tuttavia, sappiamo per certo che Sauron aveva un corpo ben visibile, del quale peraltro si serviva per essere più accattivante: è logico ritenere, dunque, che sulla scorta di quanto accadeva al loro Padrone, anche i Nazgul potessero mostrare il proprio corpo agli Uomini? Prima di rispondere a questa domanda, consideriamo il brano del SdA nel quale Frodo viene attaccato a Colle Vento dopo essersi messo l’Anello.

Immediatamente le forme divennero chiarissime, benché tutto il resto rimanesse tenebroso e scuro. Egli riusciva a vedere al di sotto dei manti neri […] Nei loro visi bianchi fiammeggiavano occhi penetranti e spietati; sotto le cappe, portavano un abito lungo e grigio, e sui capelli grigi, un elmo d’argento; le loro mani scarne stringevano spade d’acciaio. SdA, La Compagnia dell’Anello, p. 275

Sembra dunque, che agli occhi di Frodo (e anche di Glorfindel che, come spiegherà Gandalf alcune pagine dopo, aveva potere sia sui Visibili che sugli Invisibili), i Nazgul assumano le sembianze di uomini anziani (capelli grigi, mani scarne ecc.) Probabilmente, l’ultima immagine del loro corpo mortale prima di scivolare nelle Ombre (e ancora non possiamo escludere che ci fossero donne fra di loro. Frodo ne vede solo cinque, degli altri quattro non abbiamo alcun tipo di descrizione, neppure sommaria). Dobbiamo dunque dedurre che questo fosse il loro vero aspetto?

Consideriamo un ultimo fattore: Sauron perde la capacità di assumere forma mortale piacevole a vedersi dopo la caduta di Numenor; e se anche i Nazgul avessero subito in qualche modo gli effetti della limitazione imposta al loro Padrone? Se così fosse, ciò significherebbe che negli anni precedenti avrebbero potuto mostrare anche altri aspetti, proprio come il loro padrone, riformando il loro corpo con la loro forza di volontà (e la magia nera, naturalmente). Impossibile, dite? Eppure, è lo stesso Tolkien a spiegare che la lama dei Tumuli di Merry era riuscita ove altre lame meno potenti avevano fallito, ossia rompere «l’incantesimo che permetteva [al Re Stregone] di rimarginare i propri tendini invisibili con la sola forza del volere» SdA, Il Ritorno del Re, p. 139.

Per questa ragione, nei miei racconti, i Nazgul sono in grado di muoversi sia nel mondo dei mortali, che di mostrarsi nella loro forma immortale per atterrire i loro nemici. Una capacità che, come leggerete, li renderà ancora più pericolosi e spietati.

Suggerimenti di lettura:

Er-Murazor, il Primo dei Nove

Khamul, il Secondo, l’Ombra dell’Oriente.

Dwar di Waw, il Terzo, il Signore dei Cani

Indur, la Morte dell’Alba, il Quarto

Akhorahil, il Re Tempesta, il Quinto

Hoarmurath di Dir, il Re del Ghiaccio, il Sesto.

Adunaphel l’Incantatrice. La Settima

Ren il Folle, l’Ottavo

Uvatha, il Cavaliere, il Nono

Storia di Numenor – III parte

Il ventesimo sovrano di Numenor, Ar-Adunakhor, si differenziò dai suoi precedessori perché fu il primo re che scelse di assumere la corona con un titolo non più in lingua elfica, ma in quella adunaica, la favella originariamente parlata dagli Uomini e dunque considerata più vicina alle istanze “nazionalistiche” sostenute ormai dalla maggior parte dei Numenoreani. Inoltre – fatto ancora più grave – il titolo che assunse significava «Signore dell’Ovest», che sino a quel momento era solito indicare solo uno degli dei (Valar), ossia Manwe. Dopo di lui i Fedeli tornarono per qualche tempo a sollevarsi, tuttavia, sotto il regno di Ar-Gimilzor, ventitreesimo sovrano di Numenor, la situazione volse nuovamente al peggio: secondo Tolkien «fu il massimo avversario dei Fedeli che erano tornati a sollevarsi […] e non permise a nessuno degli Eldar (elfi) di metter piede nel paese e punì quanti li accoglievano» (p. 305). Il suo matrimonio fu infelice, perché sua moglie era del partito dei Fedeli: tale discordia fu in qualche modo ereditata dai due figli che la coppia ebbe: mentre il maggiore era simile alla madre nel carattere, il secondo si ispirava ai desideri del padre. Fortunamente per Numenor, neppure Ar-Gimilzor volle (o poté) cambiare le leggi dello Stato: lo scettro venne dunque assegnato al figlio maggiore, chiamato Tar-Palantir. La legittima successione, tuttavia, non piacque ai Numenoreani ostili ai Fedeli: così scoppiò una guerra civile che vide però la vittoria di Tar-Palantir. Erfea e Miriel, protagonisti del “Ciclo del Marinaio”, nascono proprio durante il regno di Ar-Gimilzor: entrambi Fedeli, devono confrontarsi con il disprezzo degli altri nobili di Numenor e del sovrano stesso, ostili non solo agli Elfi, ma anche a quelli dei Numenoreani che si schieravano dalla loro parte.

Tar-Palantir fu il penultimo sovrano del regno: cercò di convincere i suoi connazionali a pentirsi, ma la maggior parte scelse il partito del re capeggiato da suo fratello Gimilkhad; alla sua morte, il nuovo leader dei “Nazionalisti” fu suo figlio Ar-Pharazon: questi sposò Miriel contro la sua volontà e, convinto che non esistesse al mondo nessuna forza militare in grado di opporsi a quella di Numenor, decise di umiliare Sauron. Alla vista dell’imponente armata numenoreana, Sauron ritenne più utile ai suoi piani sottomettersi al sovrano che tentare una resistenza; catturato, fu portato come prigioniero a Numenor, ove, però, con il trascorrere degli anni, instillò nei cuori dei Numenoreani il terrore della morte, arrivando a far credere loro che l’unico dio degno di essere onorato fosse il suo antico maestro Morgoth. A questo scopo i Numenoreani iniziarono a praticare sacrifici umani, volgendosi all’adozione del Male: da allora, coloro che non erano Fedeli, furono chiamati Numenoreani Neri, perché praticavano le arti oscure.

Ma neppure questo bastava a soddisfare la sete di vendetta di Sauron: avvertendo che Ar-Pharazon, ormai in età avanzata, cominciava a essere preoccupato per la sua morte ormai imminente, decise di “rivelargli” una colossale menzogna, alla quale, tuttavia, il re credette senza porla in discussione. Secondo Sauron, l’immortalità non era connessa alla “genetica umana” (diremmo noi oggi), bensì alla possibilità di risiedere o meno nelle Terre abitate dagli elfi e dagli dei. Ar-Pharazon, allora, diede ordini affinché la sua flotta potesse invadere le terre degli immortali.

Anche l’ultimo divieto era ormai caduto.

Una grande flotta partì allora verso Valinor e i guerrieri Numenoreani sbarcarono sulle sue coste. Allora gli dei rinunciarono per alcuni istanti al controllo del mondo e lo rimisero nelle mani del loro creatore, Eru-Iluvatar: questi punì l’arroganza dei Numenoreani seppellendo Ar-Pharazon e i suoi guerrieri nelle Caverne dell’Oblio, da dove, secondo la leggenda, si sarebbero risvegliati solo in occasione della Fine del Mondo.

Numenor, invece, fu totalmente distrutta dall’ira di Eru-Iluvatar: si salvarono solo i Fedeli, guidati da Elendil, e i Numenoreani Neri che abitavano nelle colonie della Terra di Mezzo: tutti gli altri perirono. Lo stesso Sauron – che pure era consapevole della reazione durissima che ci sarebbe stata – fu schiantato da un fulmine e precipitato sul fondo dell’Oceano: potè tornare a Mordor dove riprese la sua forma e forza solo grazie all’Unico Anello in suo possesso. In seguito alla caduta di Numenor, tuttavia, Sauron non fu più in grado di assumere forma piacevole a vedersi e da quel giorno in poi il suo aspetto fu terribile.

Termina così la storia di Numenor: spero di essere riuscito nel mio intento, quello cioè di delineare una cornice chiara alla quale fare riferimento per collocare gli eventi dei racconti ambientati nella Seconda Era.

Storia di Numenor – II parte

La situazione iniziò a cambiare durante gli anni del governo di Tar-Minastir, undicesimo sovrano di Numenor: egli, secondo Tolkien, amava gli elfi, ma li invidiava. Fu Tar-Minastir a soccorrere gli Eldar durante la prima guerra contro Sauron e a sgominare la sua armata nell’anno 1700, salvando così la Terra di Mezzo dal dominio dell’Oscuro Signore e assicurandosi, tuttavia, odio eterno da parte di Sauron, che giurò di vendicarsi sui Numenoreani. Suo figlio Tar-Ciryatan iniziò la costruzione di una grande flotta per opprimere le popolazioni delle Terra di Mezzo: laddove i Numenoreani si erano comportati da consiglieri e amici, divennero spietati conquistatori e razziatori. L’influenza di Numenor, nei secoli successivi, si accrebbe sino ad abbracciare tutte le coste non solo della Terra di Mezzo (chiamata in elfico Endore), ma anche degli altri continenti che costituivano il mondo di Tolkien e dei quali, tuttavia, poco si parla nei suoi scritti: Le Terre Oscure (Morenore) e le Terre dell’Aurora (Romenore). La cartina sopra illustrata, in realtà, presenta un grosso errore: si riferisce in realtà all’influenza di Numenor nella Seconda Era, e non nella Terza, come erroneamente riportato.

Durante il regno di suo figlio Tar-Atanamir, si verificò un importante cambiamento: come scrive Tolkien nei “Racconti incompiuti”, infatti, «durante il tempo suo, l’Ombra piombò su Numenor; e il Re e coloro che ne facevano propria la sua visione delle cose, parlavano apertamente contro il bando dei Valar, e i loro cuori erano ostili a questi e agli Eldar; ma non dismisero la saggezza, continuarono a temere i Signori dell’Ovest e non li sfidarano» Risale, dunque, a questa epoca la suddisione fra i Fedeli e gli Uomini del Re, che sarebbero poi divenuti noti come Numenoreani Neri. Per questa ragione ho immaginato che Er-Murazor, il primo dei Nazgul, fosse un fratello di Tar-Atanamir, perché il suo regno rappresentò una svolta negativa nella storia di Numenor: e chi, meglio di un principe numenoreano corrotto dal Male, avrebbe potuto simboleggiare meglio questo tragico cambiamento?

Il peggio, tuttavia, doveva ancora venire…

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Storia di Numenor: un’introduzione – I parte

Dopo aver aperto questo blog mi sono reso conto che volevo evitare che trasmettesse solo cognizioni approfondite sulla Seconda Era; in altre parole, mi preme far sì che i temi qui trattati possano interessare anche quelli che hanno dell’universo tolkieniano solo una conoscenza parziale, magari dovuta alla visione delle trilogie cinematografiche del Signore degli Anelli o dell’Hobbit o alla lettura delle opere omonime.

Inizierò dunque dal principio: i Numenoreani, gli abitanti della grande isola di Numenor, chiamati anche Dunedain, sono gli antenati di Aragorn e della sua gente. Nella trilogia cinematografica del Signore degli Anelli se ne parla brevemente all’inizio, quando vengono mostrate le immagini della battaglia della Dagorlad e la sconfitta di Sauron. Molti degli uomini che strinsero alleanza con gli Elfi erano numenoreani e, in particolare, lo erano Elendil e suo figlio Isildur.

Chiarito questo aspetto, in questo articolo cercherò di spiegare perché Elendil e la sua gente si trovarono coinvolti nella grande guerra contro Sauron.

I Numenoreani erano uomini ai quali i Valar, cioè gli dei, avevano concesso una vita più lunga del normale (circa tre volte quella di un uomo della Terra di Mezzo, ossia 210-240 anni), una capacità di invecchiamento più lenta e una maggiore forza e bellezza. Erano stati, in un certo senso, resi più simili agli Elfi. Perché questo dono, si chiederanno alcuni?

Non si era trattava di una scelta causale, nè di un capriccio: i Valar, al contrario, avevano deciso di premiare quegli uomini e quelle donne che avevano combattuto durante la Prima Era contro Morgoth, il “maestro” di Sauron e che al termine del conflitto erano stati duramente provati.

Per queste persone i Valar innalzarono una grande isola dalle profondità del mare – Numenor – e la resero più bella di tutte le Terre degli uomini: gli Eldar (cioè gli Elfi) accorrevano frequentemente da Valinor (la residenza degli elfi e degli dei) per recare con loro doni e i frutti della scienza di Valinor che presto avrebbero reso i Numenoreani signori degli uomini.

Ai Numenoreani, tuttavia, era stato imposto un divieto: non dovevano mai veleggiare verso Ovest, ossia in direzione di Valinor. All’origine di questo divieto si deve immaginare che la vista delle Terre ove avevano dimora gli immortali Elfi e i Valar avrebbe potuto scatenere l’invidia dei Numenoreani, i quali, invece, restavano pur sempre mortali. Va anche detto, tuttavia, che l’immortalità legava gli Elfi alle sorti del Mondo materiale, mentre gli Uomini, la cui anima dopo la morte finiva in un luogo ignoto a tutti, si liberavano dalla materia ed erano liberi. Per questa ragione, per oltre 1600 anni, i Numenoreani guardarono alla morte come un “dono”, anziché una punizione. Essi, in qualche modo, sapevano quando la loro ora era prossima e si addormentavano in un lungo sonno che li conduceva al decesso.

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