L’assedio di Minas Ithil (Parte IV). Due fratelli.

Proseguo in questo articolo la narrazione dell’assedio di Minas Ithil da parte delle armate del nazgul Adunaphel. Nell’ultima parte abbiamo lasciato Erfea di vedetta nel passaggio di Cirith Ungol affinché potesse scorgere le avanguardie dell’esercito di Mordor. Ritornato alla città di Minas Ithil, il Sovrintendente di Gondor deve ora misurarsi con le reazioni dei due fratelli, Isildur e Anarion. Nel brano che segue, perciò, avrete modo di approfondire la conoscenza dei figli di Elendil…buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Infine l’armata di Mordor giunse alla porta orientale di Minas Ithil che il sole ancora tingeva i colli degli Ephel Duath e l’oscurità non era calata; risero gli Uomini allora nello scorgere la moltitudine dei servi di Mordor ed alcuni fra loro presero a farsi beffe di loro apertamente: “Nessun servo di Sauron ha calcato il suolo della nostra città ed essa ride delle minuscole figure che muggiscono in una barbara lingua; vengano pure, gli eserciti dell’Oscuro Signore, ché non uno troverà scampo alla giusta morte, e il ricordo della loro disfatta echeggerà fino a Barad-Dur”. Voci simili furono udite in tutta la città, riempiendo di gioia il cuore di Isildur, ché costui non mostrava tema dell’armata di Adunaphel, né avrebbe mai ceduto la sua dimora al Nemico; di diverso parere era tuttavia suo fratello Anarion, il quale così gli si rivolse: “Una grande paura ha invaso il mio animo, ché esso teme per la sorte di Minas Ithil: fa evacuare la città, ché il Nazgul non risparmierà né uomo né donna, qualora essi dovessero cadere preda dei suoi laidi artigli.”

Irata fu la risposta di Isildur, che si espresse in tali termini: “Noi siamo i figli di Elendil e i signori di Gondor. Nostro padre ci affidò il reame del Sud affinché vigilassimo sulle sue genti e sulle sue terre e mai, fino ad ora, il nostro giuramento è venuto meno, ché esse sono sfuggite alla violenza dei servi dell’Avversario. Vorresti dunque venire meno al tuo dovere, abbandonandole alla mercé degli Orchi? Come un contadino che temendo per la sua vita, permetta che il suo campo sia bruciato da rozzi briganti, così tu condanneresti Minas Ithil a una triste sorte? Sarebbe invero una grave infamia!”

“Non è atto infame temere il lungo braccio del Nemico! Fratello, vi sono altre contrade, altri popoli che attendono impazienti di offrire i propri servigi a Sauron e codesto è solo uno dei suoi numerosi eserciti che egli spinge ad ovest; il Rhovanion è ormai in rovina, risparmia alla tua città una sorte simile! Ordina invece che la popolazione sia condotta ad Osgiliath, le cui possenti mura fermeranno la carica dei nostri nemici. Non desidero che la nostra gente sia condotta in una trappola ed ivi debba morirvi prigioniera delle sue medesime debolezze.”

Rise allora Isildur, e sguainata la sua lama, diede ordine di issare sul pinnacolo della torre più alta il vessillo di Elendil, in modo che l’esercito di Mordor potesse scorgerlo e provarne terrore; infine, voltatosi verso il fratello, adoperò simili parole: “Non è forse vero che i Valar risparmiarono i Fedeli ché essi avversavano il dominio di Ar-Pharazon e del suo oscuro mentore? Non è forse vero che le braccia di Ulmo hanno permesso ai nostri vascelli di recarci nella Terra di Mezzo ove fondammo i reami in esilio? Perché dunque noi dovremmo temere colui che già una volta è caduto sotto la loro possente ira? Il nostro destino è di innalzarci al di sopra delle debolezze che in passato hanno condannato la nostra stirpe: grandi atti di valore saranno compiuti questa notte e la sete di vittoria del nemico sarà placata dal sangue che i suoi eserciti verseranno.”

Lesto balzò sulla terrazza più alta e di lì si rivolse al suo popolo: “Soldati di Gondor! Per molti secoli la nostra stirpe ha compiuto tali atti di valore contro Sauron e i suoi servi che le sue schiere tremano al solo sentire il nome dei Numenoreani! Uomini poco lungimiranti hanno permesso che l’Oscuro Signore perdurasse e sfuggisse alla nostra giusta vendetta, eppure, mirate, l’ora della rivalsa è prossima! Grande sarà la nostra vittoria ed essa inaugurerà la nuova Primavera di Arda, ché Endor sarà stata liberata dalla lordura dei servi di Morgoth. Uniamoci dunque nell’ora del bisogno e possa il sacro fuoco che infiamma i nostri animi brillare nella Tenebra incombente!”

Possenti si levarono grida di giubilo e l’aria fu percorsa dagli squilli di numerose trombe d’oro e argento: i capitani condussero le loro truppe sugli spalti delle mura, attendendo impavidi che l’oscura marea piombasse su di loro. Erfea, tuttavia, parola non levò, ché condivideva il pensiero di Anarion, né aveva obliato la nequizia di Sauron, laonde per cui ordinò ai suoi soldati di assicurarsi che nessun nemico si impadronisse del cancello che conduceva a Osgiliath e alle contrade occidentali di Gondor.

Frecce furono incoccate e torce accese, ché l’oscurità aveva ora coperto del suo manto le cime dei monti e fredda era scesa la notte; silenzio regnava sugli spalti, tale che solo l’eco dei secchi ordini dei capitani di Mordor giungeva loro, né alcuna delle schiere di Adunaphel osava avvicinarsi alle mura ed esse erano immobili; molte ore trascorsero dunque nella veglia, nulla temendo gli Uomini di Gondor, ché  nessun colpo era stato levato e saldi erano i loro animi; quella notte i Signori dei Dunedain tennero un consiglio per decidere sul da farsi. Alcuni, e fra questi erano Isildur e i suoi figli maggiori desideravano attaccare il nemico con la cavalleria, affinché esso fuggisse lontano; Erfea, tuttavia, respinse con forza tale proposta ché temeva le picche del nemico e non credeva possibile manovrare in uno spazio sì ridotto come quello che si estendeva tra la città e i monti.

Tesa era divenuta l’aria e minacciose si levarono voci contrastanti; nulla però fu possibile decidere, ché lesta si diffuse la notizia che le schiere dell’Avversario muovevano contro la città: tale, infatti, era stata la perfidia di Adunaphel da attendere che un prematuro entusiasmo riempisse di folle gioia il cuore dei Dunedain prima di scatenare il suo feroce attacco alle mura; scale vennero innalzate e su di esse centinaia di Orchi presero posto, scuotendo le corte lance e le scimitarre dalla fosca lama. I Warg[1] correvano lungo tutto il perimetro della cinta muraria e i loro orribili richiami echeggiarono durante tutta la durata dell’assedio, mentre Adunaphel, ritta sul suo nero destriero, osservava lieta quanto accadeva, ché ora i suoi eserciti erano spiegati e la vittoria sarebbe giunta lesta; veloci, alcuni cavalcalupi correvano da una schiera all’altra per trasmettere gli ordini dei capitani di Mordor e l’aria era satura dei loro gutturali versi: pure, Minas Ithil non cedeva.

Arcieri erano stati collocati in gran numero lungo i parapetti e di lì bersagliavano il nemico con i loro temibili archi d’acciaio; Orchi ed altre creature della Tenebra crollavano dalle scale, mentre le luminose lame dei soldati di Gondor trucidavano quanti riuscivano ad aggrapparsi ai merli dei bastioni: Isildur conduceva la difesa del cancello orientale, mentre i suoi figli avevano ciascuno preso il comando di una cerchia di mura.

Rapide trascorsero le ore della notte, né l’alba sembrava portare speranza nel cuore degli Uomini, ché la furia degli Orchi anziché scemare, sembrava crescere di intensità: altre schiere, di cui nessuno aveva prima sospettato l’esistenza, erano giunte sul luogo della battaglia e respingevano i soldati di Gondor all’interno della città, rendendo loro impossibile qualsivoglia sortita».

Note

[1] I warg erano i discendenti di quelle creature nate dall’incrocio fra i demoni servi di Sauron e i lupi della Terra di Mezzo; feroci d’aspetto, erano noti per la loro insaziabile fame e per la loro abilità nel comprendere il Linguaggio Nero.

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In questa terza sezione del racconto de “Il Marinaio e il Re Stregone”, Erfea, reso inquieto da un sogno premonitore, decide di verificare se un’armata partita da Mordor si stia effettivamente dirigendo verso la città di Minas Ithil. Il paladino di Numenor scoprirà che i suoi peggiori timori erano fondati quando comprenderà chi cavalca alla testa delle truppe nemiche…un suo antico, affascinante, nemico.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Un’ora era trascorsa dacché il sole si era levato e ancora nessun messaggero giungeva a Isildur; rapido allora crebbe nell’animo dei soldati il timore che essi fossero stati traditi e che la loro ultima ora stesse giungendo sulle ali del nauseabondo vento dell’oriente: eppure essi non ne facevano parola a nessuno e ognuno serbava nel suo cuore lo sgomento di tale attesa, quasi provando vergogna nello spezzare con la propria voce roca il silenzio che altri aveva creato per loro. Lunga e penosa fu l’attesa, tuttavia anch’essa giunse a termine, ché i primi cavalieri giunsero da Osgiliath e Minas Anor, conducendo con loro messaggi che furono uditi da pochi e intesi ancor da meno, ché essi furono condotti a corte e solo il primogenito di Elendil e il sovrintendente furono presenti allorché le notizie che costoro recavano furono divulgate; scuri erano invero i loro volti ed essi non fecero parola con alcuno di quanto avevano appreso, ma si recarono lesti ad oriente, ché le vedette inviate durante la notte non avevano fatto ancora ritorno e dubbio e timori si impadronivano dei cuori degli uomini.
Elrohir cavalcava innanzi a tutti e splendido il suo pelame fulvo brillava sotto la luce di Anor, eppure non vi era letizia nello sguardo del suo cavaliere ché la cenere di Mordor ne copriva il capo e foschi erano i suoi pensieri; cento cavalieri erano con lui ed essi seguivano una traccia incerta e oscura: eppure, sebbene ognuno temesse un grave male nel proprio cuore, nulla di quanto avrebbero visto in seguito era stato mai concepito da mente mortale. Alcuni dicevano che fantasmi senza volto ululavano sopra corpi straziati e furono colti da grande orrore; altri, nonostante pietà e lacrime soffocassero i loro occhi, pure scorsero i segni di una disperata resistenza condotta dagli esploratori, senza tuttavia che rimanesse traccia visibile dei loro aggressori: a lungo, inibiti dal terrore e dalla grande sofferenza, cercarono tra i volti deturpati, gli uni intenti ad arrestare i singulti, gli altri ricolmi di smarrimento e profonda pena.
Un vento gelido spazzava la gola montuosa in cui essi avevano trovato rifugio e l’eco della sua oscura risata sembrava deridere il loro dolore; infine Erfea si mosse e scorse una runa profondamente incisa nella viva roccia, le cui linee risaltavano nette sulla sua superficie, quasi che il suo incisore avesse voluto dimostrare quanta forza avesse nel braccio.
“Non è un’incisione eseguita dalla rozza mano di un orco, ché essi non conoscono le Tengwar[1], né Sauron permette che il suo nome venga pronunciato o scritto, ed essi adoperano l’effigie del Rosso Occhio su elmi e scudi; inoltre – proseguì chinandosi – codesta non è una esse ma una a”.
Rifletté a lungo, infine chinatosi sulla roccia, né sfiorò ripetutamente la lucida superficie, mormorando alcune parole che gli uomini hanno ormai obliato; tosto tuttavia, il suo viso mutò espressione ed egli risalì a cavallo, invitando i suoi uomini a precederlo in Città, affinché rivelassero che il nemico era prossimo a giungere; quanto a lui, sarebbe rimasto in codesto luogo, finché l’invasore non fosse giunto.

“Cavalcate rapidi, figli di Gondor, ché il pericolo è prossimo né codesta sarà l’unica sventura che i popoli liberi di Endor dovranno fronteggiare, ché le armate di Mordor tosto dilagheranno impetuose”. Rapidi, i cavalieri si mossero e l’eco della loro corsa disperata riecheggiò lungo l’antico cammino roccioso, chiamato Cirith Ungol nella lingua degli Eldar: un crudele demone, ostile ai figli di Iluvatar, l’aveva eletta come sue dimora e sovente la sua progenie, viscida e immonda si aggirava cauta e affamata in tali recessi rocciosi, né essa mostrava di tenere in alcun conto la maestà dei re degli uomini, ché era la prole di Shelob, ultima figlia di Ungoliant la grande, colei che, nella sua ingordigia, aveva fatto scempio dei Due Alberi.
Codesti esseri, simili a ragni, infestavano tali contrade, divorando gli incauti viandanti solitari che osavano percorrerne gli ardui sentieri; essi tuttavia esitavano nell’attaccare il Dunadan, ché, sebbene fosse anziano e solo, temevano la lama che costui portava al suo fianco, sicché attesero invano e infine, esausti e delusi, fecero ritorno alle loro tane.

Monotono parve scorrere a Erfea il tempo, ed egli non udiva né scorgeva alcunché, ad eccezione di rocce erratiche e di miseri cespugli battuti dal vento; restio era il suo animo a percorrere il sentiero di casa, sebbene grave sul suo capo fosse calata la stanchezza: infine si mosse, ché un nuovo timore parve invadere ogni cosa e l’aria ne fu satura. Tremò la terra e gli anfratti montuosi parvero replicare più volte l’agonia di migliaia di passi calpestarne la dura superficie: allora egli guardò in basso e il suo animo fu invaso da stupore e meraviglia, ché mai, finanche nei suoi incubi più aberranti, aveva mai immaginato che un simile orrore potesse destarsi da Mordor: schiere infinite egli scorse marciare lungo la strada che conduceva a Minas Ithil; picche, le cui sommità, adornate da spregevoli effigie, parevano puntare dirette verso il cielo, illuminavano con sinistri bagliori l’oscuro vespro; scudi imponenti reggevano coloro il cui volto era ora occultato da manti intessuti di tenebra e menzogne, ché l’Oscuro Signore mobilitava tutti i suoi eserciti e codesto era solo uno fra i molti che combattevano nel suo immondo nome. Infine, ritta sul suo nero cavallo, il sovrintendente scorse una figura procedere lentamente, quasi incurante di quale destino avrebbe incontrato nel campo di battaglia che le sue truppe si accingevano a bagnare con il proprio sangue e quello dei nemici; bella era, eppure temibile, ché il suo sembiante non era altro che un’illusione creata dalla nefanda arte di Sauron per confondere le menti di coloro che gli si opponevano. Nessuna luce della torce si rifletteva sulla sua corvina capigliatura ed ella pareva assorta in silenziosa meditazione; eppure, una cupa malizia brillava nei suoi chiari occhi e all’anulare, occultato al bieco sguardo dei suoi servitori, ella cingeva un anello forgiato in una contrada ormai distrutta dal suo oscuro padrone, ché Adunaphel l’Incantatrice era il suo nome, settima tra i Nazgul, gli immortali schiavi dell’Oscuro Signore. Una fredda rabbia celava il suo nero animo ed ella cavalcava diritta verso la vittoria; pur tuttavia, non scorse Erfea o se lo vide, minuscola figura persa tra le rocce lo ignorò, ché altro era il suo compito in quell’ora oscura ed egli sarebbe dovuto soccombere dinanzi alla potenza del suo signore.

Il Dunadan, però, la vide e rapido gli balenò nella mente il ricordo di un duello combattuto anni prima tra lui e la malefica dama di Numenor nella città di Umbar; allora fuggì e raggiunse la bianca città degli uomini, dando fiato al suo olifante affinché tutti potessero udirlo e prepararsi alla difesa delle mura: leste, allora, centinaia di trombe argentee riecheggiarono nella vasta gola montuosa mentre la sera fu riempita di speme, ché gli uomini si rincuorarono ed essi presero a sussurrare antiche cantiche apprese dai Noldor in esilio».

Note

[1] Le Tengwar erano state elaborate dagli elfi Noldor prima ancora del loro esilio nella Terra di Mezzo e sebbene non venissero più adoperate nella loro forma originaria, pure Feanor ne aveva approntato una variante ed essa si era diffusa presso Elfi, Uomini e Nani.

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Ritratti – Adunaphel l’Incantatrice

In attesa di recuperare il testo della tragedia su Miriel e Ar-Pharazon (maledetti traslochi, ahimè!) aggiorno la sezione del mio blog dedicata alle «Illustrazioni» per mostrarvi una bellissima e seducente Adunaphel l’Incantatrice, così come è stata disegnata dalla bravissima Anna Francesca.
Spero che possa piacervi, aspetto i vostri commenti!

adunaphel

«Per nulla seccata o intimorita dagli sguardi, ora lascivi, ora invidiosi che le venivano rivolti, la donna, con femminile grazia, si acconciò la chioma, leggermente scomposta a causa del lungo viaggio che aveva dovuto compiere per giungere fino a codesto luogo, e tutti ebbero modo di scorgere la sua affusolata mano carezzare dolcemente il capo; terminato che ebbe questo compito, ella rivolse i suoi azzurri occhi, sì splendenti che nessuno ne aveva mai visto un paio simili, al suo affascinato pubblico ed essi le furono soggiogati». Tratto dal «Racconto dell’Ombra e della Spada»

L’Infame Giuramento_IX Parte e ultima (Il trionfo di Pharazon)

Cari lettrici e lettori, siamo ormai giunti all’ultima parte del «Racconto dell’Infame Giuramento e del Marinaio». Il finale si annuncia amaro e triste, né, come spiegavo nel precedente articolo, avrebbe potuto essere diverso.
Per comodità di chi leggerà questo epilogo, riassumo brevemente le vicende fin qui intercorse.

Palantir, ormai anziano e reso sconfortato da un popolo che non mostra, nel suo insieme, segni di ravvedimento dalla sua scelta di allontanarsi dagli Elfi e dai Valar, decide di abdicare al trono di Numenor, lasciando la corona e lo scettro alla sua unica figlia, la bellissima principessa Miriel, e chiedendo ad Erfea, uno dei principi numenoreani a lui fedeli, di aiutarla nella sua missione governativa. Pharazon, cugino della nuova sovrana, sostenuto da un numeroso gruppo di principi e capitani, si ribella alla scelta di Palantir e decide di intraprendere una guerra civile per prendersi il trono. Consapevole che la sua forza militare e le sue ricchezze da sole non saranno sufficienti per impadronirsi dello scettro di Numenor, Pharazon si rivolge ad alcuni potenti alleati della Terra di Mezzo, Er-Murazor, Adunaphel e Akhorail, senza sospettare che in realtà essi, sotto le loro spoglie mortali, sono gli Spettri dell’Anello, i Nazgul, che agiscono per conto di Sauron, intenzionato a distruggere Numenor. Nelle grotte dell’isola, in un luogo deputato al culto di antiche divinità senza nome, ha luogo una drammatica riunione del partito sostenitore di Pharazon che si conclude con la sconfitta e la morte dei capi della fazione più moderata di questo schieramento e la scelta di sostenere Pharazon nell’ascesa al trono di Numenor. Le linee programmatiche sono quindi fissate: Miriel e i Paladini, tra i quali Amandil, suo figlio Elendil e il nipote Isildur, Erfea e Brethil, non dovranno essere toccati, per evitare la reazione del popolo. Pharazon, dunque, dovrà muoversi su un duplice piano: vincere la guerra civile, ma senza uccidere i capi della fazione avversa. Tra i Numenoreani seguaci di Pharazon si segnala un giovane ammiraglio, Eargon, figlio del tesoriere Morlok, che diventa l’amante di Adunaphel, sperando con il suo aiuto in una rapida ascesa nella sua carriera politica e militare. Una volta scoppiata la Guerra Civile, i Paladini di Numenor, impegnati a contrastare le armate di Pharazon nella Terra di Mezzo, scoprono di essere stati traditi dalla loro regina, che li invita ad abbandonare le armi e a riappacificarsi con il loro nemico; dopo aver votato per continuare la guerra agli ordini di Amandil, essi fanno ritorno a Numenor, dove sono invitati a prendere parte a una riunione del Senato che si rivelerà determinante per il futuro dell’Isola del Dono. Nel corso di un drammatico consesso, si scopre che Miriel era stata tenuta in ostaggio dai numenoreani fedeli a Eargon: questi, tramite un sotterfugio, scatena un Colpo di Stato, trovandosi ben presto faccia a faccia con Erfea, ferito da una freccia, con il quale inizia un feroce duello…

Non so quale potrà essere la vostra reazione dinanzi alle righe che vi apprestate a leggere. Può essere che vi piacciano, vi sconfortino o, più semplicemente, non incontrino il vostro gusto. Ci sta, fa parte del «gioco» che si instaura, inevitabilmente, tra autore e lettore. Mi permetto, ad ogni modo, di suggerirvi una chiave di lettura per approcciarvi all’epilogo di questo racconto: il fattore temporale. Nella vita reale così come in quella cartacea, i personaggi devono sempre fare i conti con il tempo dato loro a disposizione. Nella maggior parte dei casi si tratta di un tempo breve, che costringe i personaggi a fare i conti con la propria mortalità, nel tentativo di riuscire a soddisfare i propri obiettivi nel minor tempo possibile. In altri casi (e questo accade principalmente nei racconti fantasy), i personaggi possono disporre di un tempo maggiore e, in alcuni casi, anche di una salute e di una giovinezza che perdurano più a lungo di quanto non accada nel mondo reale. Ragion per cui tenete conto del fattore temporale nel leggere questo epilogo…

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Non so dire quanto tempo trascorse; infine, a causa della spossatezza che la ferita procurava alle mie carni, Eargon riuscì, con un abile colpo a disarmarmi; allora la rabbia si impadronì della sua mente ed egli perse totalmente ogni barlume di ragione, gridando oscure parole, incomprensibili ai più; alta levò la lama e funesto sarebbe stato il mio destino se Tar-Miriel, pallida nel volto, ma ferma nella sua volontà, non gli si fosse parata dinanzi, pronunciando parole di sfida:
“Tocca quest’Uomo e la tua lama dovrà macchiarsi di un doppio crimine!”; sì bella appariva la sovrana di Numenor, nonostante la ferita sul capo ottenebrasse la calda luce dei suoi capelli, che finanche il Numenoreano Nero arrestò la sua lama, colto dal dubbio e dal rimorso; allora, impugnata Sulring – la quale, fortunatemente, giaceva non lungi da me – vibrai con disperazione un unico colpo verso l’alto, mentre con l’arto ferito spingevo Tar-Miriel lontano dal Numenoreano Nero. Eargon arretrò, stupefatto, e si toccò il petto ferito; allora mirò la grande carneficina che era in corso nella sala in basso e il suo sguardo espresse sconforto misto a pentimento.
Levatomi, mi approssimai allora alla sua figura che giaceva non lungi dalla balaustra; egli, respirando a fatica, ché la morte era prossima a sottrargli il soffio vitale, rantolò tali parole: “Hai combattuto valorosamente, figlio di Gilnar; sebbene sia l’artefice delle mia morte, non nutro verso di te alcun sentimento di rancore. A lungo ho errato e forse mai alcuna parola o gesto potrà cancellare le colpe di cui si è macchiato il mio onore; lascia, tuttavia, che io ti sveli chi è l’artefice di questo inganno, ché, se io fui l’esecutore, egli ne fu lo spietato artefice”. Prossimo era a rivelarmi il nome del mandante di quella vile strage, quando il suo volto mutò espressione e fu preda dell’angoscia; con orrore, mi avvidi allora che anche gli altri Numenoreani erano impauriti e molti striscivano via, occultandosi dietro i massicci scranni in quercia: una piccola schiera aveva fatto il suo ingresso nella sala e alla loro testa erano quattro guerrieri imponenti.
Colui che marciava innanzi ai suoi commilitoni era Pharazon, la cui armatura sontuosa recava impressi numerosi ornamenti; non fu però il suo sembiante a riempire di terrore l’animo di tutti, ché erano con lui tre guerrieri il cui volto era occultato da ampie cappe nere; ovunque essi volgessero il capo, i Numenoreani posavano le armi e non osavano rivolgere loro alcuna parola. Giunti che furono dinanzi allo scalone che conduceva alla terrazza ove ero, uno fra essi avanzò e fui finalmente conscio della sua identità, ché egli era uno degli Ulairi, gli immortali schiavi dell’Oscuro Signore; il Nazgul levò in alto il suo lungo braccio pronunciando parole che non mi arrischierò a pronunziare in questi giorni sì tristi e parve ai miei attoniti occhi che i labbri della ferita di Eargon si aprissero sempre più; costui, allora, non potendo tollerare oltre modo un sì grande dolore, raccolte le ultime forze che ancora gli restavano, si scagliò contro il suo aguzzino, pronunciando un’unica parola: “Adunaphel!” Il Nazgul, tuttavia, fu più svelto e la sua lama tranciò il misero corpo del Numenoreano, con una forza tale che i suoi resti si sparsero per tutta la sala. Infine, fu il silenzio a regnare sovrano.

I compagni di Erfea, che avevano ascoltato tutto senza proferire parola alcuna, rabbrividirono allorché udirono della orrenda morte del figlio di Morlok; infine Elrond parlò: “Credi che il Numenoreano avesse così voluto fornirti il nome che era sul punto di rivelarti prima che gli Ulairi facessero il loro ingresso nella sala? E se tale fosse il tuo parere, ritieni che egli conoscesse quali informazioni possedessi sui Nazgul?”
Lenta echeggiò la voce del principe di Elenna, che in tali termini si espresse: “Non vi è risposta certa alle tue domande, Signore dei Noldor; forse, in qualche modo che io ignoro, Eargon era giunto a conoscenza del mio viaggio sino alla fortezza degli Ulairi nell’estremo Harad e sapeva che avrei dunque compreso un nome che risuonava oscuro ai più; o forse, egli voleva solo imprecare contro colei che l’aveva privato di quanto un Uomo non dovrebbe mai perdere”.
Tacque un attimo, indi riprese a parlare: “Allorché il Nazgul ebbe rinfoderato la sua lama, e si fu allontanato dallo scalone, io ne discesi a fatica gli alti gradini, aiutato in questo da Tar-Miriel che si ergeva accanto a me. Triste fu lo spettacolo che si stendeva sotto i nostri occhi: decine di corpi giacevano riversi sul pavimento o chini sugli scranni presso i quali inutilmente avevano tentato di trovare la salvezza; una aria greve sembrava esalare dal basso e i nostri sguardi erano penosi. La schiera di Pharazon, giunta per sedare la ribellione, si era ormai ritirata, lasciando solo alcune guardie nella sala; esse ci rivolsero deferenti inchini, esortandoci a riunirci con quanti ancora dei Fedeli sopravvivevano: mio padre e mia madre, seppure feriti e spossati, erano con i Signori della Casa di Andunie, anch’essi salvi. Brethil comparve alle mie spalle ed io mi avvidi che era incolume; tuttavia, prima che potessi parlargli, apparve Pharazon ed egli chinò il suo capo, rivolgendomi queste parole: “Mi duole, principe dello Hyarrostor, vedervi sì provato da una simile disgrazia; forse ora comprenderete quanto le mie parole fossero nel giusto, allorché esortai il Consiglio dello Scettro a cedere il comando ad un Uomo di maggior ingegno e prudenza dotato”.
“Avete condotto in questo luogo, un tempo sacro, gli schiavi immortali dell’Oscuro Signore! La follia si è impadronita della vostra mente!” Con rabbia aveva pronunziato tali parole, ma la mia voce era ormai ridotta ad un rantolo confuso; Pharazon non mostrò di averla udita, oppure, se intese le mie parole, pure le ignorò: fummo condotti via, ché il cugino della sovrana addusse quale scusa per allontanarci esservi ancora presenti implacabili nemici. Tar-Miriel, tuttavia, fu trattenuta ed io non potetti far nulla, ché molto sangue avevo perso e dei Fedeli erano pochi quelli ancora in grado di impugnare un’arma.

Lacrime di rimorso scivolarono allora via dalle gote di Erfea, e il suo tono si incrinò, tuttavia egli proseguì nella narrazione: “Nei giorni successivi, le ferite che ci erano state inferte furono sapientemente guarite dagli Erboristi della nostra dimora; eppure, la vita pareva aver abbandonato i corpi di mio padre e mia madre ed essi, sebbene riacquistassero coscienza, pure si spensero lentamente e, alla fine dell’anno, io rimasi l’unico Signore dello Hyarrostar e fui anche l’ultimo a onorare un simile titolo.
Nei mesi successivi, Pharazon intensificò il suo potere a corte e condannò a morte gli ultimi sostenitori di Eargon che ancora gli resistevano; infine, una calda sera di luglio, egli inviò messaggeri presso tutti i nobili del Regno, invitandoli a prendere parte ad un evento quale mai prima i loro occhi avevano mirato.
Giunti che fummo ad Armenelos, ci avvedemmo quanto fossero rimasti in pochi ad innalzare gli antichi vessilli di Numenor, ché la maggioranza dei soldati recava le insegne nere e dorate di Pharazon; allorché egli si avvide che i suoi ospiti avevano preso posto, si levò dal suo scranno e due oscure figure avanzarono ai suoi fianchi; infine, giunto dinanzi alla balaustra che si affacciava sul grande piazzale che occupavamo, levò il braccio destro e chiese la parola.
“Numenoreani! Gli eventi di recente accaduti mi hanno dimostrato che solo un Uomo dotato di possente volontà e sorretto da amici valorosi ed equi, può condurre i nostri destini verso un avvenire glorioso; non crediate, tuttavia, che questo sia un incarico al quale mi approssimo inconsapevole: alcuni anni fa, come molti fra voi ricorderanno – e qui il suo sguardo cadde ironico su di noi – certuni sostennero che la regina Tar-Miriel avrebbe agito saggiamente, sconfiggendo i nostri nemici; eppure, una serie di ribellioni sono state provocate, le une causate dalla sua incompetenza nella difficile arte di governare, le altre da ingenui comandanti privi di ogni lungimiranza e prudenza.
Non vi sembra, dunque, che tale corso infausto degli eventi molte sofferenze abbia arrecato al nostro popolo? Mirate, o Numenoreani, le tristi sembianze di coloro che subirono le orribili cicatrici della guerra e le sventure della miseria! Mirate le oscure carceri ove furono racchiusi pericolosi ladri e biechi assassini, le cui azioni l’imbelle sovrana non seppe frenare! Mirate i lussuriosi postriboli, ove giace, oziando, la nostra gioventù! Mirate tutto questo, o Numenoreani, e domandate ai vostri animi chi è il responsabile del degrado che fino ad oggi ha imperato sulla nostra isola!”
“Tar-Miriel, Tar-Miriel!” prese ad urlare la folla, accompagnando il suo nome con osceni epiteti che non riferirò qui dinanzi a voi; allora, Pharazon levò nuovamente il braccio e chiese la parola:
“Se io fossi, Amici, un Uomo quale questi tempi oscuri hanno generato, tosto avrei chiesto la testa della sovrana ed essa sarebbe stata esposta qui, innanzi a voi; tuttavia, poiché la mia stirpe affonda le sue origini nella notte dei tempi, ecco che vengo a voi come salvatore della patria e della sua sventurata regina; dal momento che il risanamento dell’isola passerà attraverso quello dei suoi abitanti, ecco che io prendo, dinanzi a voi tutti, Tar-Miriel come mia sposa ed ella regnerà al mio fianco”.
Un grande mormorio di stupore si levò dal popolo; ma esso fu presto sommerso da frenetici applausi che si levarono da ogni dove; una quarta figura comparve allora sul palco reale ed ella era colei che un tempo avevo amato. Invano tentai di scorgere meglio il sembiante della figlia di Tar-Palantir, ché mi parve il cielo essere oscurato da una fuligginosa caligine; ratto, allora, mi voltai e scorsi Brethil che singhiozzava, versando amare lacrime accanto a me; fu solo allora che, stupito, mi accorsi anche io di piangere: molto morì in me in quel momento.
A lungo piansi, né ero il solo; distante pochi passi da me, il volto contorto da una smorfia di rabbia, era anche Isildur; tuttavia, se le sue lacrime erano dettate dall’impotenza e dall’ardore giovanile represso e tosto sarebbero state sostituite dal cieco desiderio di vendetta, le mie avevano un sapore più amaro, ché sancivano il definitivo addio agli anni della mia verde Primavera.
Infine, la figura più alta posta accanto al sovrano, calò la sua cappa ed io la riconobbi: Er-Murazon, il Signore dei Nazgul, era giunto a Numenor per celebrare la vittoria del suo padrone. L’oscuro servo di Mordor levò in alto la corona forgiata per l’occasione, ché mai prima di allora vi era stato un sovrano che avesse posto sul proprio capo un simile cimelio, e la collocò su quello di Pharazon, pronunciando simile parole: “Egli sarà sovrano con il nome di Ar-Pharazon il Dorato e la sua sposa sarà nota come Ar-Zimraphel. Lunga vita ai sovrani di Elenna!”

Il popolo accolse il nuovo re con gran tripudio ed infinite esclamazioni di giubilo; quanto a me, avevo preferito abbandonare quel triste luogo per fare ritorno alla mia contrada, tosto imitato dagli altri Signori dei Fedeli: giunto dinanzi alla città di Minas Laure, invitai presso la mia dimora Brethil ed egli accettò con gioia e gratitudine, ché le sue genti erano state completamente annientate ed egli era l’ultimo della sua casata.
Alcuni mesi dopo Ar-Pharazon inviò i suoi araldi presso i Signori dei Dunedain, chiedendo loro di sottomettersi alla sua maestà: nessuno fra noi firmò la sua richiesta e grande invero fu la sua ira, sicché fece giuramento sul padre che avrebbe condotto alla rovina coloro che gli si erano ribellati; dei trentatré Signori che erano sopravvissuti alla guerra e che non erano ancora fuggiti alle colonie della Terra di Mezzo, ben ventidue furono accusati di alto tradimento e condannati al patibolo; sette subirono la pena dell’esilio e quattro furono privati di qualunque carica avessero posseduto fino a quel momento; quanto a Brethil, accolse il dono di Iluvatar prima che fosse emanato il decreto di colpevolezza nei suoi confronti ed egli fu sepolto accanto ai corpi dei miei avi.

Lungo era stato il racconto di Erfea ed era ormai giunta l’alba quando la sua voce si spense fra il frinire delle prime cicale; profondamente commossi, i compagni allora gli si inchinarono ed egli condusse i loro passi ad una radura poco distante dal luogo ove avevano udito il resoconto di quei lontani anni: al suo interno, accanto a una gaia fonte, era posta una grande roccia, che mani abili avevano scolpito simile ad una pergamena aperta. Vi erano dei nomi incisi sulla sua superficie ed i compagni vi lessero, fra gli altri, quello di Erfea Morluin, di Amandil, di Elendil e dei suoi due figli, Isildur e Anarion.
Ancora oggi tale pietra è visibile ad Orthanc e si narra che neppure le corrotte arti di Saruman il Bianco, le oscene grinfie degli Orchi o ancora la furia dell’Isen allorché la valle fu allagata, riuscirono a spezzarla o ad insudiciarla: grandi onori le tributò Re Elessar allorché la scorse e ne decifrò le iscrizioni, ché essa era ivi posta a testimonianza imperitura del coraggio e della lealtà dei Numenoreani Fedeli al loro popolo e agli antichi vincoli di alleanza con le altre liberi genti».

Fine del racconto.

L’Infame Giuramento_VIII Parte (Il colpo di Stato di Eargon)

Scrivere sulle orme di un grande autore del genere epico e fantastico come lo è stato J.R.R. Tolkien non è semplice. Non si tratta solo di una questione di stile, o di conoscenza delle lingue della Terra di Mezzo o, ancora, della Storia dei popoli che l’abitarono. La difficoltà più grande da superare è costituita dal rispetto che al suo legendarium chiunque dovrebbe portare; indubbiamente possono esservi passaggi o scelte che non condividiamo (quanti di noi avrebbero voluto che Thorin o Theoden non morissero? E che dire della sorte di Frodo, incapace di riacquistare la pace al termine delle sue sventure, che pure avevano salvato la Terra di Mezzo?), ma ritengo sia giusto accettarli così come sono stati descritti dal loro autore. Non lo sostengo solo per una questione di rispetto: si tratta, invece, di una questione di coerenza, più facile da distruggere di quanto superficiamente si possa credere. Ogni evento, se trasformato, può produrre una serie di conseguenze che rischiano di mettere a repentaglio tutta la materia tolkieniana, alla quale l’autore – non bisogna mai dimenticarlo – ho dedicato tutta la sua esistenza.
Questa lunga premessa mi serve per introdurvi alla conclusione de «Il Racconto del Marinaio e dell’Infame Giuramento», nella quale, come avrà intuito chi ha letto le parti precedenti, il destino di Erfea, Miriel e dello stesso Pharazon, naturalmente, conoscerà una svolta drammatica.
Non si può nascondere che non ci sarà un lieto fine. Avrei voluto, certamente, che Miriel non cedesse alle lusinghe e alle minacce di suo cugino Pharazon; tuttavia, così facendo, avrei cambiato l’intero corso della Storia e non era questa la mia intenzione.
Che l’ascesa di Pharazon abbia inizio, dunque…non prima, tuttavia, che avvenga un vero e proprio colpo di scena…

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Giunti che fummo innanzi ai cancelli del palazzo reale, il Maggiordomo del Palazzo venne da noi, ordinando di deporre le armi che recavamo seco: “Signori dello Hyarrostar, nessuno meglio di voi dovrebbe conoscere le leggi di questa contrada; certamente, rimembrerete che mai alcun Senatore o Membro del Consiglio dello Scettro abbia fatto il suo ingresso alla sala del trono adorno di simili cimeli!”
Fredda fu la mia risposta: “Né, tuttavia, si era mai visto che un membro della famiglia reale osasse usurpare il trono al legittimo sovrano; se grande è la nostra colpa, piccola essa sembrerà dinanzi a simili crimini. Perché dunque non rivolgesti le medesime ammonizioni ai Neri, che osarono fare il loro ingresso in questo palazzo, sprezzanti di qualunque autorità?”
Il Maggiordomo, allora, chinò il capo e più non parlò, ché grande era in lui la vergogna; i pesanti battenti furono aperti e facemmo il nostro ingresso nella Sala Circolare, ove si tenevano le riunioni del Senato e del Consiglio dello Scettro nei rigidi mesi invernali: due ordini di scranni correvano lungo tutto il muro, aprendosi solo dinanzi all’ingresso. Al centro, vi era un alto trono in marmo, posto su di un’ampia predella che si levava dal basso verso gli scranni della seconda fila; sappiate, amici, che codesti erano i posti assegnati a coloro che appartenevano alla fazione sostenitrice del Sovrano; grande perciò fu la nostra inquietudine, allorché l’Araldo del Sovrano diede disposizione affinché occupassimo la prima fila di scranni.
Nessuna parola fu pronunciata, né inchino mostrato; silenti e scuri in volto, prendemmo posto accanto ai nostri congiunti; ivi eran anche Amandil, Elendil ed Isildur, seguiti da Brethil l’Orbo: allorché si avvide che i Principi dello Hyarrostar erano con lui, Elendil prese a sussurrare al mio orecchio parole intrise di timori e rancori: “Erfea, questa è una trappola! Mai avremmo dovuto seguire i consigli di chi, per ingenuità o per follia, esortò i nostri voleri a prendere una decisione che arrecherà infinite disgrazie alla fazione dei Fedeli!” Isildur, tuttavia, mostrando infinito sprezzo del pericolo, accarezzò cupo l’elsa della sua nobile lama e parlò: “Fosse anche come tu dici, padre, pure vi sono qui campioni che i seguaci di Pharazon si pentiranno di aver convocato dinanzi a loro!”

Il primo oratore, dopo aver atteso che il brusio dei presenti fosse scemato, si inchinò dinanzi ai senatori e ai principi del Consiglio dello Scettro, dichiarando che la seduta era aperta; fu allora che mi accorsi quanto ciascun Uomo presente in quella sala, sia che egli sostenesse la causa di Numenor, sia che ambisse esercitare il potere su di essa, nutriva nel suo cuore le medesime paure ed ambizioni; non vi era nessuno, infatti, che non mostrasse apertamente le proprie armi. Alcuni senatori giunsero a pronunciare i propri discorsi impugnando con la sinistra le preziose pergamene sulle quali erano trascritti e posando la destra sull’elsa della lama che recavano seco.
Infine, allorché gli oratori appartenenti agli ordini più bassi ebbero terminato di parlare, un minuscolo uscio sulla sinistra fu aperto e Tar-Miriel fece il suo ingresso nella sala.

Erfea tacque per qualche attimo, rimembrando lo sconforto che l’aveva preso allorché i suoi occhi l’avevano veduta dopo lungo tempo; infine, proseguì la sua narrazione e la sua voce mutò, divenendo remota agli orecchi dei Signori dei PopoliLiberi:
“Ridotta a poco più di un pallido fantasma anelante alla vita, la figlia di Tar-Palantir sedette sul trono marmoreo al centro della sala; così esile era divenuta, che i massicci monili dorati, mai indossati prima di quel momento, parevano ceppi ai quali era ancorata, anziché tesori di inestimabile valore; gelido ed impassibile fu il mio animo in quell’ora, eppure non potetti distogliere lo sguardo dal suo sembiante ed ella fu consapevole della mia presenza; allora uno spento sorriso le illuminò il volto e in esso erano visibili tutti gli anni della nostra giovinezza, quando non ancora il nome di Pharazon era stato udito a Numenor e si ascoltavano canti lieti echeggiare in quelle medesime volte ove adesso regnava il Terrore.
La regina ascoltò con estrema attenzione le richieste dei suoi sudditi ed essi parevano indifferenti a quanto era accaduto di recente; si discusse della cattiva stagione del grano e del farro, e si stabilì un calmiere per i generi di prima necessità; tuttavia, non una voce si levò dagli scranni ove sedevano i membri del partito dei Fedeli, avvedendosi che codesta era solo una farsa; eppure, le sventure più gravi dovevano ancora giungere.

A metà mattinata, prima che le campane suonassero la quarta ora dopo il sorgere del sole, Eargon, che parimenti si era astenuto dall’intervenire sino a quel momento, chiese udienza presso la sovrana, domandandole che un suo capitano potesse far ritorno dall’esilio ove era stato confinato alcuni anni prima; nonostante il diniego che Tar-Miriel oppose a tale richiesta, egli insistette e si approssimò al trono; giunto dinanzi alla sovrana, continuando a scongiurarla di mutare parere, ecco che afferrò l’argentato scettro e lo inclinò verso il basso: come ci avvedemmo in seguito, quello era il segnale della rivolta.
Con una forza che sorprese tutti, Tar-Miriel afferrò l’Uomo, mentre la sua voce si levava alta nella sala, pronunciando queste parole in Quenya: “Dannatissimo Eargon, cosa fai?” Quello, allora, per tutta risposta, sguainò la sua lama e, rivolto ai Neri che erano sovra di lui, così parlò in Adunaico: “Fratelli, aiutatemi!”
Un gran numero di arcieri apparve allora sugli spalti interni e presero a colpire i senatori della nostra fazione; ancor prima che essi, però, facessero il loro ingresso nella sala, Isildur comprese quanto era in procinto di accadere: con un urlo, egli impugnò la spada e balzò in avanti, consapevole che i Neri avrebbero impiegato alcuni istanti per discendere dagli scranni superiori, appesantiti com’erano dalle armature che indossavano; giunto che fu dinanzi al figlio di Morlok, tentò di trucidarlo con un colpo ben assestato. Eargon, tuttavia, essendo più esperto ed accorto, scansò abilmente il fendente del suo avversario e lo abbatté con lo scettro che aveva sottratto alla regina, colpendo allo stesso tempo il capo di Tar-Miriel con l’elsa della spada; tutt’intorno, intanto, le spade mulinavano e le frecce fischiavano. La Sala Circolare, che mai aveva conosciuto la follia degli Uomini, divenne teatro di una grande carneficina; io combattevo al fianco di mio padre Gilnar e molti dei Neri giacevano caduti ai nostri piedi; infine, mi avvidi che Eargon si apprestava a trascinare il corpo esamine della sovrana in alto, lì ove occhi indiscreti non avrebbero potuto scorgere le nefandezze che il suo animo oscuro avrebbe desiderato soddisfare con la sua prigioniera: con un balzo imperioso, gli fui accanto, sbarrandogli la strada. Una freccia fischiò nell’aria, conficcandosi nella mia spalla destra; ferita non letale, ma profonda, sicché fu con immenso dolore che mi apprestai a duellare con il figlio di Morlok; egli sorrise compiaciuto allorché si avvide della mia ferita e levò in alto l’elsa della sua spada, i cui rubini rischiarati dalla tremula luce delle torce, parvero illuminare la lama di una sinistra aura rossastra; Sulring rispose allora con il suo azzurro baluginare ed il duello ebbe inizio».

L’Infame Giuramento_IV Parte (La storia di Morlok l’Occultatore)

Bentrovati! Proseguo la narrazione de «Il Racconto dell’Infame Giuramento», presentando una nuova figura, alla quale fin ora ho rivolto solo qualche cenno nel corso della trattazione: Morlok, una sorta di Ministro delle Finanze di Numenor, padre dell’ammiraglio Eargon, che avete avuto modo di conoscere leggendo «Il Racconto dell’Ombra e della Spada». In questa parte del racconto mi soffermerò su un aspetto che, di solito, nei racconti epici o fantasy viene trascurato, ossia il risvolto economico di queste vicende: intraprendere una guerra, una rivolta e, più in generale, tenere il governo di uno Stato potente come Numenor, infatti, richiedeva una certa disponibilità di denaro liquido: questa è la ragione per cui uomini apparentemente insignificanti come Morlok, in realtà, possono rivelarsi ancora più determinanti di un Paladino…

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«Coloro che erano con lui si levarono allora dai propri scranni e si apprestarono a raggiungere il desco; non era però con loro Erfea, ché egli rimase nella radura, contemplando le stelle di Varda sbocciare, come fiori argentati nella notte, ad occidente; allorché i suoi compagni furono di ritorno, lo trovarono che pareva addormentato: pure, così non era ed egli, al contrario, era immerso in profonda meditazione. Uditi i passi di coloro che gli si facevano incontro, il figlio di Gilnar si levò dal suo scranno e invitò i compagni a disporsi accanto a lui; con loro era adesso Glorfindel, ché molto ambiva conoscere eventi di cui gli erano giunti solo pallidi echi.
Erfea attese che il silenzio regnasse fra loro, infine levò nuovamente la sua voce ed essi lo stettero ad ascoltare.
“Vi fu, in seno al Consiglio dello Scettro, molta confusione in seguito alla mia proposta e non poche furono le voci di coloro che discussero al suo interno; alcuni erano per obbligare Tar-Miriel a rinunciare al trono e a nominare un nuovo sovrano fra loro che non avesse tema di arrestare Pharazon, stante l’accusa di alto tradimento; altri, e fra questi vi era anche Amandil, esortavano i presenti affinché ogni decisione fosse rimandata all’indomani della successiva seduta del Consiglio dello Scettro, che si sarebbe tenuta alcune settimane più tardi; comune a tutti, però, era la volontà di proseguire la guerra contro Pharazon: inviammo, allora, messaggeri ai nostri alleati, pregandoli di inviarci rinforzi prima che le armate del governatore ribelle piombassero su di noi, ma la nostra speme andò quasi del tutto delusa, ché alcuni araldi, infatti, furono trucidati dal Nemico prima di giungere a destinazione, mentre altri si smarrirono nelle selve e nelle paludi di Endor.
Di quei pochi che pervennero ai reami dei popoli liberi, avemmo notizie dopo una lunga attesa, ché le strade erano occupate dalle armate dei Neri e dalle loro spie; tuttavia, allorché essi furono di ritorno, confermarono le nostre peggiori paure, ché asserirono non sarebbero giunti aiuti da Khazad-Dum, mentre gli Uomini del Rhovanion avevano edificato i loro accampamenti al di là del mare di Rhun ed erano per noi irrangiugibili: solo gli Elfi risposero al nostro appello ed inviarono viveri ed armi.
Reso perplesso ed inquieto da tali notizie, compresi poco o punto le ragioni che avevano spinto i signori di Khazad-Dum a venire meno alla nostra alleanza, tanto più che erano state scorte spie di Pharazon aggirarsi lungo i tortuosi sentieri che conducevano alla rocca dei figli di Aule; grande fu la paura che mi colse, perché temetti che presto sarebbe stata instaurata un’alleanza fra i Naugrim ed i Numenoreani Neri; tuttavia, come vi spiegherà Naug-Thalion, i miei timori non trovarono conferma.
“A quell’epoca – interloquì il principe del popolo dei Naugrim – vi erano discordie anche all’interno del nostro Consiglio Supremo, ché alcuni premevano affinché i Fedeli di Elenna fossero sostenuti, mentre altri, infidi e pavidi, ritenevano sarebbe stato più saggio per il nostro reame se nessuna alleanza fosse stata stretta con quelle genti, temendo che le ricchezze di Khazad-Dum sarebbero state concupite dai Dunedain e che la gloria del nostro popolo sarebbe stata oltraggiata se avesse preso parte alle guerre fra i Numenoreani.
Per lungo tempo, quanti erano della mia schiatta riuscirono a contrastare la perniciosa influenza che consiglieri pavidi detenevano all’interno della corte, finché essa non trionfò e il sovrano non prestò ascolto alle subdole parole dell’opposta fazione; alcuni fra noi, allora, presero a inviare aiuti ai paladini di Elenna clandestinamente, contravvenendo agli ordini del re.
Ahimé, mai Durin IV avrebbe dovuto ascoltare tali infidi consiglieri, ché essi agivano spinti dalle medesime debolezze che attanagliavano sovente i cuori dei Naugrim, timorosi come erano di perdere i tesori che il nostro popolo aveva accumulato nel corso di lunghi secoli; fu fatto divieto a ciascuno dei principi del regno di soccorrere entrambi i contendenti e se questo fu, indubbiamente, di grande impedimento e danno per i capitani di Erfea, tuttavia provocò le medesime conseguenze anche per i loro nemici ed essi, ancora per qualche tempo, furono respinti”.
“Allorché mi giunsero tali notizie – riprese a parlare Erfea – sebbene non provassi nel cuore letizia alcuna, pure mi avvidi che finanche i miei avversari non avrebbero potuto godere di alcun aiuto; resistemmo, dunque, ancora per qualche mese, finché un nuovo evento, ancor più grave di quanti ho finora narrato innanzi a voi, colpì il mio partito e segnò le sorti di Numenor”.
“Se le tue parole non mi ingannano, Erfea Morluin, devo dunque dedurre che ancora non era stata presa una decisione in seno al Consiglio dello Scettro che privilegiasse la lealtà alla Corona o al popolo Numenoreano” osservò Glorfindel, campione fra gli Elfi.
“In verità, figlio di Gondolin, la decisione, nel cuore di ciascuno di noi, era stata già presa; tuttavia, poiché i Numenoreani di Pharazon risalivano da Sud rapidamente, pure si era detto che, fino al giorno in cui la pace non avesse trionfato nelle contrade abituate dai Dunedain, essa sarebbe stata taciuta”.
Erfea s’interruppe per qualche istante, indì proseguì: “All’epoca, tuttavia, non ci avvedemmmo della nostra ingenuità e in questo errammo a lungo, ché ignoravamo quali alleati sostenessero Pharazon nella sua lotta per impugnare lo scettro di Elenna; poche o punte certezze vi erano, sebbene io credessi che fra essi si occultasse almeno uno degli immortali servi dell’Oscuro Signore; questi, tuttavia, erano abili nell’occultarsi e si tenevano lontani dalla mia lama, sicché io scoprii le loro identità quando era ormai troppo tardi.
Scarsi erano, come vi ho testé narrato, i fondi di cui disponevamo per proseguire nella lotta contro i Numenoreani Neri, sicché in quei giorni la nostra unica fonte era costituita dal Tesoro Reale di Numenor, di cui era stato nominato Sovrintendente Morlok, il cui lignaggio era affine al mio, condividendo i medesimi padri; inusuale era stata la scelta della sovrana, ché mai, nella millenaria storia della nostra isola, un simile incarico era stato affidato alla sua stirpe, essendo stato, un tale compito, da sempre prerogativa dei principi del Mittalmar; pure, Tar-Miriel non aveva fiducia alcuna dell’unico superstite di tale casato, Brethil l’Orbo, così chiamato perché aveva perduto un occhio durante una delle battaglie contro gli Uomini del Re, dal momento che egli era cugino di Arthol il Rinnegato, condannato a morte per altro tradimento molti anni prima.
Non mi soffermerò ulteriorarmente su queste vicende, ché esse non riguardano tale narrazione; mi è sufficiente dire che Brethil, al contrario del corrotto cugino, era invece uno spirito lungimirante e privo di malizia, sicché egli, pur non alzando lamento alcuno durante le sessioni del Consiglio dello Scettro, pure soffriva per la sua mancata nomina a Sovrintendente del Tesoro, ché la riteneva, e a ragione, umiliante e priva di ragione alcuna: inutilmente tentai di persuadere Tar-Miriel affinché ella si ravvedesse sulla sua scelta e compisse atto di umiltà e giustizia, restituendo a Brethil la carica che apparteneva alla sua casata fin dai tempi di Elros Tar-Minyatur.
Poco o punto era stato possibile apprendere da Morlok, ché era riluttante nel parlare e conduceva vita solitaria; l’Occultatore presero a chiamarlo, ché si diceva fosse in grado di nascondere qualunque suo pensiero ai Saggi del Regno e finanche alle aquile di Manwe; non so quanta verità vi fosse in una simile diceria, ché lo sguardo di uno solo fra gli araldi del Signore dei Valar è arduo da sostenere ed essi leggono molto delle nostre intenzioni; ad ogni modo, egli si mostrò abile nella gestione delle finanze dello Stato ed il popolo benediceva sovente il suo nome, allorché lo scorgeva aggirarsi nei vicoli di Armenelos.
Per lunghi anni, dunque, Morlok ottenne l’amicizia dei membri del Consiglio dello Scettro e della Regina, la quale, tosto, prese a benevolere la sua casata, onorandola con ricchi doni, di cui il Sovrintendente, tuttavia, non amava fare sfoggio. Morlok prese moglie in tarda età, finanche secondo il metro dei Numenoreani, e la sua consorte aveva nome Linwen, una dama cara a Tar-Miriel come fosse una sorella; tale unione rafforzò il legame tra Morlok e la Regina di Numenor ed ella prese a confidarsi con lui, mostrandogli tesori quali mai occhi mortali che non fossero appartenuti alla stirpe dei sovrani avevano ammirato; un figlio allietò la dimora del Sovrintendente ed il suo nome era Eargon. Allorché furono trascorsi dieci anni, l’erede di Morlok si imbarcò su di una nave e nel volgere di un trentennio divenne un esperto capitano, sicché fu promosso Vice-Ammiraglio del Regno; quando questa notizia si diffuse a Numenor, non pochi ebbero a sussurrare che Eargon sarebbe presto divenuto un condottiero la cui fama avrebbe oscurato quella di qualunque altro paladino di Elenna; essi, tuttavia, non si avvidero che il giovane comandante era divenuto seguace di Pharazon ed ambiva ottenere conoscenze arcane, quali mai gli Uomini della sua stirpe avevano domandato e che sarebbe stato saggio non concupire mai; egli fu dunque corrotto e sedotto da Adunaphel e ne divenne lo schiavo preferito, nonché quello di gran lunga più potente”.
“In nome di Bema – proruppe allora la voce colma di orrore di Aldor Roc-Thalion – cosa accadde dunque a quel giovane, allorché la sua volontà fu annientata ed egli cadde vittima dell’Ombra? Non è ancora trascorso un giorno dacché ho udito la tua spaventosa storia sul maniero dei Nazgul e il mio cuore trema al pensiero di quale infausto destino possa aver conosiuto un siffatto Uomo!”
“Invero, il suo fu un destino di morte, ché egli aveva appreso le Arti Oscure ed era divenuto un capitano di mare quale pochi potevano vantare di eguagliare, né gli erano sconosciuti i segreti del Regno che il padre, per sua e nostra sventura, aveva osato narrargli, non sospettando alcunché. Eargon, allora, divenne una formidabile spia al servizio di Pharazon; eppure, le disgrazie maggiori dovevano ancora accadere».

Numenor: Game of Thrones (parte V ed ultima). La giustizia di Pharazon

Care lettrici, cari lettori, bentrovati. Concludo in questo articolo la narrazione del racconto «L’Ombra e la Spada», approfondendo la personalità di Pharazon, il pretendente al trono di Numenor. Fino a questo punto del racconto, infatti, la sua figura è apparsa in secondo piano, oscurata non solo da quella dei Nazgul, ma anche dagli altri numenoreani ribelli più anziani. Mi è sembrato importante, dunque, cogliere un aspetto importante del suo carattere, ossia la sua intrinseca crudeltà; cresciuto senza alcuna regola e, per converso, alimentato da una gelosia crescente verso la cugina Miriel, Pharazon era diventato un giovane sadico e spietato; non abbastanza lungimirante, tuttavia, per evitare di finire schiacciato da esseri molto più crudeli e furbi di lui. In questo articolo, inoltre, giungono a maturazione anche i piani finali dei Nazgul e dei loro complici per impadronirsi del potere…e si vedrà che, alle volte, anche una piccola svista, un errore a prima vista trascurabile, può rivelarsi determinante per decretare il fallimento del migliore progetto…

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

P.S. Presto avrete l’occasione di ammirare nuove illustrazioni!

Nell’immagine in alto potete ammirare la città di Armenelos, capitale del regno di Numenor.

«Akhôrahil ed Adûnaphel, l’uno alla destra, l’altra alla sinistra del loro oscuro Capitano, presero a mormorare un basso canto, le cui parole evocavano nelle menti degli sprovveduti mortali che avessero udito i loro echi, nient’altro che follia e panico; Er-Murazôr, al contrario, concentrò ogni sua attenzione sull’anziano Khôrazid, ché questi, oramai, non era più di alcuna utilità al suo Padrone e, senza pronunciare parola alcuna, evocò con un rapido gesto della sua sottile mano, dalle profonde tenebre che il canto dei suoi sottoposti avevano ispessito, una creatura quale gli uomini non dovrebbero mai scorgere, finanche nei loro più angoscianti incubi, allorché ogni ragione sembra essersi smarrita e l’eco di ancestrali paure sembra concretizzarsi dinanzi ai loro occhi. Il demone avanzò e invisibile agli occhi dei Numenoreani, balzò ratto sull’Ammiraglio, e per un solo istante, gli si rivelò nella sua terrificante forma, svelandogli il suo vero nome; Khôrazid si portò entrambe le mani al collo e stramazzò al suolo, mentre un’espressione di terrore indicibile a narrarsi gli si dipingeva sul volto sfigurato. Fra coloro che erano in quella sala, solo Pharazôn e i Nazgûl conoscevano quanto realmente si era verificato e a lungo tacquero su questo; gli altri, al contrario, videro un’inspiegabile follia impossessarsi di Ântenora e spingerla a trucidare con inusitata violenza il suo coniuge: inorriditi, essi gridarono angosciati e domandarono a gran voce che fosse fatta giustizia: Pharazôn, allora, chiamò a sé le sue guardie, delle quali nessuno sino a quel momento aveva sospettato l’esistenza, e diede loro ordini affinché la donna fosse catturata. I soldati eseguirono con spietatezza il compito che era stato loro assegnato, infine si voltarono al loro principe e chiesero con quale pena fosse colpita la Numenoreana: Pharazôn, allora, quasi obbedendo ad un ordine che altri aveva sussurrato al suo orecchio molti anni prima, afferrò brutalmente la donna per i capelli, nonostante quella gemesse e si proclamasse innocente, e domandò a gran voce: “Quale verdetto volete che io pronunci dinanzi a questo crimine? Rispondete, o Numenoreani!” Essi, in tutta risposta, levarono a gran voce un solo grido: “La punizione che gli Antenati erano soliti pronunciare in casi come questi!” Il cugino della regina, allora, afferrò la lama che il capitano delle sue guardie gli porgeva e con un rapido colpo decollò la vittima, lasciando cadere a terra subito dopo le sue tristi spoglie. Esultarono i principi allorché la condanna fu eseguita dinanzi ai loro occhi ed essi presero a sorridere ferocemente, ché, ora lo comprendevano bene, un simile fato avrebbe colpito tutti i loro nemici, i quali, ancora ignari di quanto sarebbe da lì a breve accaduto, riposavano nelle loro avite dimore: inebriati dal sangue versato in quella oscura sala, avrebbero a lungo perseverato nelle loro espressioni di feroce gioia, se non avessero udito una gelida voce risuonare alta fra quante commentavano i fatti di recente accaduti: “Principi di Numenor, rallegratevi, ché una solida guida avete scelto sulla strada per il potere ed essa non vi tradirà mai; esultate, ma siate più cauti nelle esternazioni della vostra gioia, almeno sino a quando tutti i vostri nemici non saranno stati abbattuti ed il Nuovo Ordine non regni sovrano su queste contrade. Credete, infatti, che sia semplice sconfiggere i Paladini? Alcuni, non ne dubito, saranno uomini di infima qualità e di scarso coraggio; non è, tuttavia, da simili nemici che dovreste guardarvi le spalle, ma da coloro i quali, chiusi nelle loro ricche dimore, tramano ancora e sempre contro il vostro successo”.

Ëargon, il quale era fra tutti il più inebriato per quanto accaduto, rispose sprezzante, per nulla temendo la reazione del Signore degli eserciti di Mordor: “Brethil è anziano, e non è troppo lontano il giorno in cui spirerà; quanto ad Amandil, credo che Khûriel abbia espresso l’opinione di tutti noi, ché sarà sufficiente evitare di minacciare palesemente la regina, pur di ottenere il suo tacito assenso alla nostra impresa. In verità, dunque, l’unico Paladino verso il quale dovremo adoperare la forza delle armi sarà Ërfea ed egli, sebbene sia sufficientemente abile nell’adoperare la spada, è pur sempre un mortale e nulla potrà contro le nostre gloriose armate”.

“Non sottovalutare la stirpe dei principi dell’Hyarrostar – tale fu la gelida risposta che Er-Murazôr pronunziò – ché essi sono Paladini di un valore superiore a quello che le tue sciocche parole hanno con imprudenza assegnato loro. Gilnar, sebbene sia giunto al termine dei suoi giorni, è un veterano sopravvissuto a molte battaglie ed il suo nome è ancora riverito tra gli eserciti di Numenor; quanto ad Ërfea, oserò dire, in questa ora incerta per i fati di molti fra voi, che è destinato a superare in possanza il padre, Brethil e finanche Amandil, che pure è il più esperto fra i Paladini dell’Accademia e detiene il titolo di Maestro Supremo: tuttavia, l’ora della gloria per il giovane principe numenoreano non è ancora giunta ed egli è un guerriero poco esperto, se paragonato ad alcuni dei suoi avversari – e qui parve a tutti che il consigliere di Pharazôn alludesse a sé stesso e ai suoi compagni – sicché non dovremmo preoccuparcene oltre misura”.

“Tuttavia – parlò irato Ëargon, il quale non tollerava che alcuno osasse contraddirlo – egli resta pur sempre l’amante di Miriel; non credi che tenterà di scendere a patti con i suoi antichi nemici, allorché avrà sentore che la sopravvivenza della regina sia in pericolo?”

“Non hai compreso i nostri piani, dunque? – lo rimproverò il Re degli Stregoni, palesemente irritato dai dubbi che le parole del giovane ammiraglio tradivano – La sovrana non dovrà essere minacciata in alcun modo, sicché ella non debba ritenere di ricorrere alla protezione dei suoi Paladini; quanto ad Ërfea – e qui il suo sguardo cadde minaccioso su quanti erano intorno alla sua ombra – dovrà essere tratto in catene per essere condotto ove non sarà più in grado di nuocere, né dovremmo preoccuparci che possa arrecare in alcun modo danno al nuovo sovrano” concluse, volgendo un cortese cenno del capo a Pharazôn, il quale, per tutta risposta e con grande sorpresa dei presenti, si levò dallo scranno e gli si inchinò profondamente.

Khûriel, la quale, in verità, aveva intuito cosa celassero le parole pronunciate da Er-Murazôr, annuì: “Figlio di Morlok, davvero conosci poco del nemico verso il quale nutri, per invidia o per paura non saprei dire, un odio sì profondo: egli, infatti, non rinuncerà a sacrificare la sua vita per la salvezza dello Stato e dei suoi compagni, ma non accetterà che i suoi sentimenti lo inducano a mostrar maggior clemenza verso quanti attenteranno nei confronti dell’Ordine e del Popolo; non esiterebbe, qualora il corso degli evento dovesse porlo dinanzi a questa scelta – senza alcun dubbio per lui molto gravosa – a condannare la stessa Tar-Miriel all’esilio, se ella dovesse mostrarsi troppo tollerante verso i suoi nemici. In verità, miei cari camerati – aggiunse la donna dopo aver riflettuto – Ërfea è un uomo quale pochi fra i suoi compagni o i suoi avversari possono ammettere di conoscere bene e il fine ultimo di molte sue azioni è destinato a rimanere celato per molto tempo ancora: oso credere, infatti, che finanche la stessa Tar-Miriel non abbia compreso il suo cuore e sia innamorata di un’ombra, quale il figlio di Gilnar non è, né mai sarà”.

“Simili elucubrazioni sfuggono alla mia lungimiranza – commentò pensoso il Re degli Stregoni – tuttavia il fato di Ërfea si compirà al di là di questa isola ed egli, a prescindere dall’esito della lotta che tosto avrà inizio, avrà l’animo infranto dal dolore della perdita o della sconfitta: qualora, infatti, dovesse ottenere il successo sulle nostre armate, pure dovrebbe punire la regina per non aver sostenuto i suoi Paladini e l’ingresso al suo dolce talamo gli sarebbe per sempre negato. Persa la battaglia, invece, il Terzo Ammiraglio di Numenor dovrà, ad ogni modo, conoscere l’onta della sconfitta, alla quale, inevitabile, si aggiungerà il disprezzo di colei che un tempo aveva amato sì profondamente, ché, dica pure Khûriel quanto il suo cuore avverte, pure il sentimento che lo lega alla bionda fanciulla è veritiero e profondo”. Così parlò il Re Stregone e nessuno osò contraddirlo; egli, tuttavia, non espresse a voce alta i suoi reconditi pensieri, ché, in verità, aveva compreso quanto la stessa figlia di Tar-Palantir, contrariamente alle parole pronunciate con veemenza da Khûriel,  contraccambiasse con forza il sentimento che lo legava al principe e se, talvolta, accadeva che esitasse nel mostrarlo apertamente, ciò avveniva solo per timore di dover ottenere una risposta che l’avrebbe intristita e condotta verso un grande dolore, incapace come era di leggere nelle reali intenzioni di Ërfea.

Adûnaphel, la quale aveva prestato molta attenzione alle parole pronunciate dal suo Capitano, allora interloquì e la sua voce si levò alta: “Nessuno di noi oserà levare la mano contro il Morluin ed egli sarà ignorato almeno finché non avremo vinto la guerra: che la morte ed il disonore si abbattano su quanti ignoreranno l’avvertimento dei consiglieri di Pharazôn.”

Ëargon, il quale era in verità propenso ad ignorare quanto il Re degli Spettri aveva ordinato, a malincuore mutò parere, allorché si avvide che la principessa al suo fianco lo sosteneva e si convinse ad abbandonare, almeno per i primi tempi, ogni disio di vendetta sul Morluin, verso il quale, come Khûriel aveva compreso, egli nutriva un sentimento misto di invidia ed ammirazione; quanto al giuramento stretto nelle mani del suo nuovo signore, il giovane ammiraglio lo considerava nient’altro che una vacua formula, la quale l’avrebbe tutelato da ogni vendetta dei suoi guerrieri, almeno finché fosse rimasto in vita. L’orgoglio si accrebbe nel cuore di Ëargon e nella sua mente scorsero, vivide, le immagini di un futuro non troppo lontano, nel quale egli avrebbe impugnato lo scettro di Numenor ed Adûnaphel sarebbe stata regina al suo fianco, mentre Tar-Miriel la schiava con la quale trastullarsi a suo piacimento; nessuno, fra questi desideri, era però sconosciuto ai Nazgûl e diffidenza nacque nel loro cuore nei confronti dei figlio di Morlok, ché si avvidero quanto la sua ambizione fosse smisurata; non ignorarono, tuttavia, che egli avrebbe potuto svolgere un ruolo di primaria importanza, figurando dinanzi agli occhi dei Paladini come il nemico più pericoloso da combattere: se fosse caduto in battaglia, la sua perdita non sarebbe stata considerata irreparabile; se, al contrario, fosse sopravvissuto, la stessa Adûnaphel si sarebbe incaricata di ucciderlo, dopo che i suoi sensi avessero goduto della sua giovinezza e del suo ardore. Er-Murazôr, il quale aveva compreso quali malvagi pensieri nutrisse il nero spirito della Spadaccina, sorrise e assentì leggermente con il capo, mentre colei che era stata presentata come la Principessa delle Terre dell’Aurora, si inchinava con femminile grazia, avendo intuito la sua volontà, la quale, in verità, derivava da quella di Sauron in persona.

Akhôrahil, lieto che fosse stato finalmente raggiunto un accordo, parlò: “Non è sufficiente, o camerati, che abbiate prestato giuramento al nostro signore, ché i nostri nemici non saranno sconfitti solo dalla nostra ritrovata unità di intenti: è necessario, dunque, che si trovi un pretesto per scatenare un conflitto che vedrà i loro destini incontrare un fato di morte: se i vostri pareri saranno favorevoli, mi appellerò alla vostra saggezza e lungimiranza perché un solco, ancor più profondo di quanti fino ad oggi il destino ha voluto che esistessero fra la regina ed il suo amante, separi definitivamente i due giovani.”

I Numenoreani, molti dei quali nutrivano un forte rancore nei confronti del principe dell’Hyarrostar, lanciarono grida di giubilo allorché il Quinto fra i Nazgûl si ebbe rivolto loro e domandarono a gran voce quale fosse il suo piano: “O sommo fra i principi del fato, rivelaci dunque quali sono i tuoi intenti!”

“Camerati, non vi è volontà che non possa essere piegata, non vi è spirito che non possa essere dominato, non vi è mente che non possa conoscere il giogo della schiavitù, se di essa è noto il nome segreto: nessuno fra noi conosce, tuttavia, quale sia quello del Morluin ed egli si è dimostrato negli anni invero prudente ed accorto nel pronunciarlo ad alta voce”.

“Credi che quanto hai testé affermato costituisca per noi motivo di sorpresa? – interloquì sprezzante Azâran, il quale, sino a quel momento, non aveva preso parte ad alcuna discussione – Erfëa è un paladino: vuoi forse che si comporti diversamente da quanto il codice del suo Ordine dispone? Un paladino è solito non rivelare ad alcuno il proprio nome, a meno che questi non abbia contratto con quello un giuramento che l’obblighi al silenzio su tale rivelazione: solitamente, solo il consorte viene a conoscenza del reale nome del paladino suo sposo; non potremmo mai, perciò, ottenere questa informazione, né adoperando la forza, né l’astuzia, ché Erfëa non è vincolato a nessuno e questo dovresti saperlo bene”.

Akhôrahil rivolse un ironico inchino all’anziano principe, infine pronunciò parole sarcastiche: “Ti ringrazio per l’approfondita lezione sull’Ordine dei Paladini; se la tua presenza fosse venuta a mancare quest’oggi, dubito che altri avrebbero saputo parlare con tanta arguzia ed erudizione. Non capisci? – mentre pronunciava tali parole, il suo tono si indurì – il figlio di Gilnar è legato alla regina ed essi si frequentavano ancor prima che questi abbandonasse il nome paterno: ella conoscerà, dunque, il suo vero nome[1]”.

Molti signori annuirono e presero a congratularsi con il Nazgul per la sua astuzia; inaspettatamente, tuttavia, e per buona sorte di Erfëa e di Tar-Miriel, la glaciale voce di Er-Murazor si levò fra lo stupore ed il terrore dei presenti: “Quanto affermi, Akhôrahil, sarebbe stato vero qualora il nostro principe si fosse dimostrato uomo colmo di quei sentimenti che gli abitanti di queste contrade coltivano con grande passione e che sono soliti essere espressi nelle ballate e nelle romanze suonate durante le feste di primavera; tuttavia, il Morluin non è incline a queste emozioni e considera la salvezza del regno un bene più grande di quello che un’emozione rubata tra il tramonto e l’alba potrebbe procurargli. Lo spirito del Paladino della casa degli Hyarrostar è freddo e razionale ed egli mai si sarà arrischiato a rivelare il proprio nome ad una donna: non è capace di simili confessioni”. Le convinzioni dell’uditorio vacillarono e furono sostituite da dubbi ed inquietudini: solo, ché egli altri erano troppo atterriti per parlare, il Quinto fra i Nazgûl osò esprimere il suo dissenso: “Eppure, concorderai su questo, il figlio di Gilnar ama teneramente la sua regina ed ella era un tempo la sua più fedele confidente”.

“Questo lo credi tu – gli rispose il Capitano Nero – I miei sensi scorgono sì un sentimento amoroso dibattersi nel petto di Erfëa, eppure esso è così nascosto che dubito profondamente possa spingerlo a sussurrare all’orecchio della sua amata una parola così imprudente da pronunciare”.

Azâran, avvedutosi che il suo pensiero era simile a quello del Capitano Nero, si pronunciò in favore di questi, né egli aveva alcuna simpatia per Akhôrahil, del quale, come altri, diffidava profondamente: “Perfino nell’esprimere i propri sentimenti il Morluin dimostra profonda conoscenza del Codice: in esso, infatti, è scritto che il Cuore parla attraverso la voce del Silenzio; se egli si fosse invaghito di una Paladino, ecco che quella, forse, avrebbe saputo comprendere il suo silenzio; eppure, non fu forse Miriel stessa, allorché era ancora re suo padre, ad abbandonare l’Accademia per dedicarsi all’incarico che sapeva esserle presto destinato?”

“È vero – concordò Khûriel – sembra che Miriel non tollerasse il duro addestramento al quale era stata sottoposta e che la sua fuga dall’Accademia avesse infuriato profondamente Ërfea”.

“Ho conosciuto un’altra versione del medesimo evento – interloquì Ëargon – secondo la quale fu lo stesso Ërfea a rifiutarsi di prendere come sua allieva colei che sarebbe stata un domani regina, perché i sentimenti che provava per lei gli impedivano di attenere ai suoi doveri.”

“Sia come sia – lo interruppe con forza il Capitano Nero – la regina di Numenor non conosce il reale nome del nostro più pericoloso avversario e se provassimo a sottoporla a tortura per ottenere dalla sua bocca informazioni che mai potrebbe darci, non otterremmo altro che un rifiuto ed un pericoloso irrigidimento delle sue posizioni nei nostri confronti.”

Akhôrahil, scaltro eppure timoroso nei confronti dell’autorità del suo Signore, chinò il capo in segno di resa e sospirò: “Cosa proponi, dunque?”

“È necessario, ancor prima di contrarre battaglia contro i nostri nemici, che uno di noi sieda al Consiglio dello Scettro, ché in tal modo ci sarà più semplice influenzare la debole mente della regina ed allontanarla dai suoi Paladini”.

Ëargon, il quale aveva un animo sì ambizioso da non temere alcuna conseguenza delle sue azioni, finanche delle più crudeli ed infami, si fece avanti e propose la propria candidatura ad un tale ruolo: dichiaratisi che furono gli altri principi a favore di tale soluzione, Er-Murazôr, il quale, in verità, auspicava che il figlio di Morlok si offrisse per un simile incarico, si rallegrò e gli affidò un compito tanto abietto quanto periglioso: “Giovane Ammiraglio, il tuo animo è forte e nutre grande bramosia di potere; solo, fra coloro che hanno autorità nel Consiglio dello Scettro, tuo padre potrebbe ostacolare ogni tuo progresso, avendo a tema che il tuo giudizio possa essere troppo immaturo rispetto a quello degli altri consiglieri: per tale ragione, liberati della sua influenza perniciosa e reclama a te quanto il Fato ha decretato che fosse tuo diritto ottenere”.

Sulle prime, Ëargon dubitò, non perché provasse alcun sentimento di pietà nei confronti dell’anziano padre, essendo la sua mente ed il suo cuore già corrotti, ma a causa della difficoltà che tale missione comportava: egli, infatti, si avvedeva di essere nient’altro che una semplice pedina nelle mani di forze ben più grandi di lui, eppure, fu tanto arrogante quanto sciocco da credere che le stesse potenze che oggi lo obbligavano a percorrere un sentiero periglioso, un domani egli potesse ambire a dominare. L’ammiraglio prestò allora giuramento nelle mani di Adûnaphel e si avvide che esse erano calde al tatto e profumate all’olfatto, sicché forte crebbe nel suo spirito la lussuria e l’ambizione di farla sua; questa, alla quale non erano sfuggite le reali intenzioni del figlio di Morlok, si decise ad assecondare ogni suo disio, finché Pharazôn non fosse stato proclamato Sovrano di Numenor ed i piani del suo Padrone non fossero stati realizzati.

I Principi di Elenna, allorché si avvidero che ogni cosa era compiuta, si inginocchiarono ancora una volta ai piedi del futuro re e lo acclamarono per tre volte; infine, ad un suo cenno, abbandonarono l’oscura sala e si dispersero come foglie nella gelida nebbia dell’alba,  custodendo ciascuno nel proprio cuore il ricordo di quanto era accaduto quella notte colma di terrore e di meraviglia e della quale, in verità, non recarono che una pallida reminiscenza, che divenne sempre più sbiadita man mano che il sole reclamava il suo dominio: le notti future, tuttavia, afflissero i loro spiriti con incubi di ogni sorta ed essi non ebbero più alcun riposo sin quando il loro fato non si fu compiuto ed esso, se le storie che si narrano dinanzi al fuoco sono vere[2], fu invero terribile ed atroce, ché furono divorati dall’oscuro potere che avevano contribuito, per arroganza e per vanagloria, ad accrescere».

Fine

Note

[1] Cfr.  «Il racconto della Rosa e dell’Arpa».

[2] Segue una nota, scritta da Erfëa, a proposito del destino ultimo dei principi che avevano preso parte al consesso degli Uomini del Re: Azâran perì nell’incendio che consumò la sua dimora e che alcuni affermano essere stato appiccato dai servi di Akhôrahil, essendo questi desideroso di appropriarsi delle sue ricchezze; Ëargon fu trucidato da Adûnaphel (si veda anche il racconto de «Il marinaio e l’infame giuramento»); Khûriel, infine, morì a causa di un misterioso morbo che contrasse allorché, resasi conto che era ormai nel novero dei nemici del nuovo sovrano, fuggì nel regno dei Chey e trovò ospitalità presso il signore di quella contrada, il quale era in realtà Ren il Folle, Ottavo tra i Nazgûl. Sulla sorte di Pharazôn, al contrario, non vi sono notizie certe: secondo i Saggi fra i Noldor, egli, intrappolato dalla volontà di Iluvatar nelle Caverne dell’Oblio, attende ancora l’ultima alba, giunta la quale prenderà parte alla battaglia finale contro Morgoth ed i suoi servi; secondo i Fedeli, invece, il suo corpo, distrutto dall’ira dei Valar, non sarebbe mai stato più ritrovato.
È noto, tuttavia, che all’indomani della Caduta, sulla spiaggia dinanzi alle mura di Pelargir, fu rinvenuto un cimelio la cui presenza lasciò stupefatti tutti gli Uomini che lo esaminarono: era, infatti, la corona di Ar-Pharazôn ed essa risultava integra, non avendo perduto alcunché del suo splendore; i Fedeli la raccolsero e la condussero ad Osgiliath, ove, in quei giorni, si trattenevano Elendil l’Alto ed i suoi figli. I consiglieri del figlio di Amandil, allora, pregarono il sovrano di distruggere il cimelio, ancorché fosse di mirabile fattura e piacevole a vedersi, ché esso era stato forgiato a Mordor e recava seco incisi incantesimi esiziali per i seguaci dei Valar: Elendil, scagliata con forza la corona nelle fornaci della città, decretò che nessuno, pena la morte, avrebbe dovuto impossessarsi dell’oro ormai informe e delle gemme ancora splendenti: egli stesso, accompagnato da Erfëa, si recò poi sul promontorio del Belfalas, lì ove, secoli dopo, sarebbe sorta la città di Dol-Amroth, e restituì l’oro maledetto al mare dal quale era giunto, mentre le gemme, che provenivano dal tesoro di Miriel, su suggerimento del Sovrintendente dei Reami in esilio, furono incastonate nei diademi che, da allora, indossarono le donne della famiglia reale nelle occasioni solenni.

Numenor: Game of Thrones (parte IV): Un sovrano per domarli tutti.

Care lettrici e cari lettori, bentrovati. Dopo essermi dedicato alla stesura del Dizionario dei personaggi de «Il Ciclo del Marinaio» del quale consiglio la lettura per chiarire dubbi o semplicemente rinfrescare la memoria sui protagonisti che agiscono in questo articolo, ritorno alla narrazione del «Racconto dell’Ombra e della Spada». In questo brano verranno alla luce le divisioni esistenti fra i Fedeli, delle quali sapranno approfittare Pharazon e i Nazgul suoi consiglieri per costringere gli altri Numenoreani ribelli a sostenere la sua candidatura al trono. A proposito dei Fantasmi dell’Anello, mi piace sottolineare come in questa parte del racconto abbiano un ruolo fondamentale, soprattutto a livello oratorio: credo che questa sia una profonda differenza rispetto alle opere di Tolkien, nelle quali, invece, i Nazgul proferiscono poche parole, legate essenzialmente alla caccia dell’Anello e del suo portatore…per non parlare, poi, del celebre dialogo Re Stregone vs Eowyn, ormai reso oggetto (anche) di numerose parodie sul Web.

P.S. L’immagine che ho scelto come illustrazione principale per questo articolo, in effetti, non è ispirata alle vicende numenoreane, ma a quelle raccontate ne «La Caduta di Gondolin». Con un po’ di fantasia, tuttavia, non è impossibile immaginare che la figura corrispondente ad Idril sia Miriel, e che quella riferita a Maeglin sia invece Pharazon. Per quanto non abbia mai fatto cenno (almeno fino ad ora) ai trascorsi esistenti tra i due cugini, non è forse suggestivo immaginare che Miriel sospettasse fin dall’inizio delle oscure ambizioni di Pharazon? (osservate lo sguardo che Idril, la dama dalla bionda capigliatura, rivolge a Maeglin per rispondere a questa domanda). Buona lettura, aspetto come sempre i vostri commenti!

«Malumore e timori serpeggiavano ancora fra i Numenoreani, sicché Akhôrahil così ammansì i loro animi: “Amici, camerati di vecchia data, perché consumare nel nostro sangue la vendetta che noi tutti vogliamo ottenere su altri? Non sarò certo io a decantare le lodi di colei che così ferocemente ha tranciato i fili dell’esistenza di Dôkhôr, eppure, se le mie parole rivestono ancora importanza fra voi, dirò che ha agito secondo giustizia, né questo deve sembrarvi in contraddizione con quanto poc’anzi ho riferito, ché sovente essa si mescola alla ferocia, né, in tempi bui come questi, ove stolti governanti ed infidi ministri desiderano abolire diritti che i nostri antenati si procurarono versando il loro sangue in epiche imprese, è possibile agire in modo diverso. Io scorgo nei vostri occhi la medesima voglia di vendetta che si agita nel mio petto e che vorrei condividere con voi tutti: vendetta contro Tar-Miriel, vendetta contro Ërfea e Brethil, vendetta contro tutti coloro che tramano alle nostre spalle, fingendo di offrirci la loro amicizia in cambio del nostro silenzio. Il principe Dôkhôr è morto, e questa circostanza – spiacevole, indubbiamente – ci offre, tuttavia, la seguente scelta: obliamo tutti gli antichi rancori di cui la vittima – per ambizione personale o per poca lungimiranza non saprei dire – era portavoce e uniamoci al fine di salvaguardare le nostre esistenze. Ricordatelo, o Numenoreani – concluse poi, ritirandosi lentamente verso lo scranno di Pharazôn – i nostri nemici non sono in questa sala, ma dimorano oggi nelle vetuste aule della reggia di Armenelos”.

I Numenoreani allora si acquietarono e si sedettero nuovamente: Khûriel, che fra le Signore di Andor era quella più anziana e temuta, si levò allora dal suo scranno – unica fra tutti a non averlo abbandonato quando i suoi camerati erano stati presi dal terrore e dal panico – e così parlò: “Sei saggio e risoluto, mio signore; entrambi, lo sappiamo bene, condividendo la conoscenza delle arcane scienze che sono prerogativa di ben pochi iniziati, siamo giunti alla medesima conclusione, né è possibile attendere ancora, ché se così agissimo, ci comporteremmo invero stoltamente”.

Akhôrahil trasalì allorché udì le parole pronunciate così avventatamente dalla donna: ella osava paragonarsi ad uno degli immortali capitani di Sauron! Tanta audacia non poteva essere lasciata impunita! Egli formulò allora rapido nella propria avvizzita mente le parole che avrebbero costretto la Numenoreana a strisciare sul lurido suolo della caverna, simile ad un cieco verme che si agiti, inerme, nell’oscurità: furente, levò la mano, eppure, chiare e distinte gli giunsero altre parole, pronunciate per un diverso fine, ma che ebbero il potere di arrestare la sua ira. “Mia signora – aveva domandato Ëargon, incuriosito dalla sua affermazione precedente – qual è il tuo consiglio in questa ora buia per il tuo popolo?”

Khûriel tossì leggermente – aveva ormai superato il duecentottantesimo anno di vita ed il suo corpo iniziava lentamente, ma costantemente, ad indebolirsi, sebbene fosse ancora lucida di mente – e così rispose: “Giovane Ammiraglio, sei stato risoluto allorché hai affrontato Dôkhôr senza mostrare esitazione alcuna, ché se la Principessa delle Terre Orientali non fosse intervenuta al tuo fianco – e qui si inchinò leggermente dinanzi ad Adûnpahel, la quale, condividendo l’opinione del Quinto Nazgul sul destino che avrebbe voluto riservare alla donna, fu costretta, suo malgrado, a mostrare per il momento la medesima cortesia, in attesa che il Re degli Stregoni, che ora era nuovamente immerso in profonda meditazione, mostrasse quale fosse la sua opinione al riguardo – non avrei avuto alcuna tema a prendere il suo posto, né sarei stata tanto clemente così come lo è stata lei, ché l’avrei ucciso seduto stante ed egli non avrebbe potuto oppormi alcuna resistenza, ché, osservatemi, io non sono disarmata”. Rapida, Khûriel levò allora in alto uno spadino che aveva occultato nelle pieghe del suo scialle nero, sicché finanche coloro tra i Numenoreani avevano manifestato ilarità dinanzi alla sua dichiarazione, furono costretti a ricredersi e più non risero. Soddisfatta dall’aver visto negli occhi dei suoi camerati la paura, la donna proseguì ed ella si rivolse a tutti loro: “Se non fosse stato per lady Adûnaphel, tutti voi saresti morti due volte: la prima volta, a causa del cieco terrore che si era impadronito delle vostre membra e che avrebbe prostrato ogni volontà di resistenza; la seconda, per i colpi che vi sareste inferti l’un l’altro senza più discernere l’amico dal nemico, il saggio dallo sciocco. Stolti! – rimproverò loro con quanta forza aveva in corpo – conoscete così poco dei vostri avversari da non capire quanto essi siano deboli e divisi al loro interno? Credete forse che nell’Accademia dei Paladini, ove essi risiedono meditando e duellando ogni dì, perseguano tutti un medesimo scopo? No, camerati, vi sono gravi motivi per ritenere che vi siano fratture al loro interno, delle quali potremmo approfittare se agiremo tempestivamente e con forza”.

Udendo quelle parole, l’ira di Akhôrahil decadde ed egli considerò sotto una nuova luce la donna: sino a quel momento, infatti, aveva finto di essere a conoscenza di informazioni utili a distruggere il nemico senza, tuttavia, avere la minima cognizione di esse, ché suo scopo non era divulgare, ma istigare gli animi dei Numenoreani affinché rivoltassero il governo di Tar-Miriel. Nessuna parola, tuttavia, fu mormorata a proposito di quello che era il vero obiettivo del Re Tempesta: avere la testa di Ërfea Morluin, l’unico ad aver profanato la fortezza dei Nazgûl situata nel profondo delle sabbie dell’Harad, sottraendo loro documenti di importanza vitale, ed egli era molto cauto nel pronunciare il suo nome, per tema che i Numenoreani intuissero le sue ambizioni e comprendessero quanto sarebbe stato meglio celare il più lungo possibile. Per molte leghe tutt’intorno, infatti, erano note le gesta del figlio di Gilnar e, nelle lunghe veglie serali, alcuni soldati erano soliti mormorare che questi fosse venuto a conoscenza di arcani segreti appresi nel lontano Oriente, fra i quali erano compresi la facoltà di domare la mente dei suoi nemici e di arrestare il corso del tempo. Akhôrahil, naturalmente, sapeva che era tutto falso, né gradiva che sul suo acerrimo nemico circolassero voci che avrebbero contribuito a rendere la sua figura ancora più potente a corte: quanto al suo Signore, egli non rivelava alcunché dei suoi pensieri agli altri Nazgûl, a meno che Sauron non avesse espresso parere contrario, e questo perché, come tutti coloro che un tempo erano stati Paladini, Er-Murazôr riteneva poco degno confidarsi con altri che non fossero la propria mente ed il proprio congiunto[1]. Non avendo preso moglie neppure negli anni in cui era stato solo il secondo figlio del re di Numenor, il Capitano Nero custodiva ogni cosa gelosamente e quanto all’indovinare in quale direzione si orientasse il suo pensiero, solo l’Oscuro Sire in persona aveva forza sufficiente a scoprirlo.

Khôrazid, credendo di aver trovato un’alleata nell’anziana donna, così l’apostrofò: “Deh, parla dunque! Cosa ti spinge a credere che i Fedeli siano divisi quanto lo siamo noi?” e qui la sua bassa voce si alterò in modo orribile ad udirsi, affinché tutti potessero cogliere l’intrinseca ironia sottesa a quelle parole.

Khûriel non fu parca di spiegazioni: “Sappiate, o camerati, che fra i nostri nemici, solo Amandil gode di una popolarità tale fra il popolo da poterlo spingere, un giorno, a ribellarsi all’autorità della regina, se volesse impadronirsi del trono o favorire l’ascesa di un suo compagno; tuttavia, mai egli avrà in mente un tale desiderio, essendo la sua stirpe la più prossima fra quelle che servono Tar-Miriel ed i legami di sangue con lei troppo profondi per poter essere spezzati senza aver tema di attirare su di sé la vendetta dei Valar, cui Amandil, come tutta la sua gente, è molto devoto”.

Ëargon allora interloquì: “Eppure, non posso fare a meno di ritenere Ërfea l’ostacolo più imponente che ci separa dalla vittoria. Forse che io erro prestando fede a ciò che il mio cuore mi suggerisce?”

Khûriel replicò: “Non sbagli, figlio di Morlok; tuttavia, è stato detto che l’errore coesiste spesso con la verità ed un giovane Paladino di Numenor dovrebbe conoscere questo precetto, che è uno dei più importanti fra i Precetti dell’Ordine”.

Pharazôn, il quale era sorpreso da una simile dichiarazione, non avendo mai militato fra i Paladini, dei quali il padre aveva avuto una pessima considerazione, così interrogò la donna: “Sai questo? Come è possibile?”

Trascorse molto tempo prima che la donna rispondesse, infine, quando la maggior parte dei camerati si era convinta che si fosse ormai tramutata in una roccia grigia per effetto di un perverso incantesimo, parlò e la sua voce parve, per qualche istante, provenire dagli algidi abissi al di là del tempo: “Sono stata una Paladino, molti anni fa, quando i vostri nemici erano giovani”; infine si scosse, e parve che il suo spirito fosse ritornato nel loro mondo provenendo da universi senza nome: “I Paladini sono invisi al popolo e tardivo si è rivelata l’apertura dei cancelli dell’Accademia anche a quanti non sono di sangue reale”.

“Eppure – interloquì perplesso Pharazôn – Amandil stesso è un Paladino ed il suo nome è onorato da tutti”.

“Sì, lo è – rispose la donna – ma solo perché il popolo vede in lui l’erede primigenio di Elros Tar-Minyatur[2] ed egli è stato abile a porsi al di sopra delle due fazioni in diverse occasioni, sembrando l’uomo più indicato per porre fine alla guerra civile che ormai da troppi secoli persevera nella nostra isola. I miei informatori riferiscono che Amandil è un moderato e non intende entrare nella lotta tra partiti, ambendo solo al bene del suo popolo; ciò significa, non di meno, che dovremmo considerarlo sin d’ora un nostro nemico, perché egli si opporrà con violenza alla nostra marcia su Armenelos e difenderà la cugina con ogni mezzo.”

“Sono stato un fraterno amico di Amandil, allorché avevamo entrambi un minor numero di primavere sulle spalle, prima che la condanna di mio padre all’esilio ci allontanasse e conosco la sua umiltà e la sua determinazione; ammetto, invece, di conoscere poco Ërfea, sebbene pochi anni ci separino ed egli sia uno dei miei nemici più acerrimi, anche per questioni che in questa sala non menzionerò[3] – ammise Pharazôn – “tuttavia, non condivido il medesimo parere di Khûriel e ritengo che il figlio di Gilnar rimanga pur sempre l’avversario più temibile fra quanti si frappongono fra noi ed il trono”.

“Non nego la tua ultima affermazione – replicò la donna – eppure, sai meglio di me che a difendere un reame la spada di un solo Paladino, per quanto micidiale, non è sufficiente.”

“Ritieni dunque – le domandò, inquieto, Ëargon – che nessuno fra i Paladini accorrerebbe in difesa del Morluin se noi dovessimo minacciare la vita della sovrana?”

Khôrazid, che sino a quel momento aveva meditato in silenzio su quanto ascoltava, espresse il suo dissenso ad una soluzione che portasse alla morte di Tar-Miriel e questo perché, come ammise egli stesso – “per molti anni, quando era un’infante, ero solito tenerla sul mio grembo, come fosse stata una delle mie figlie, ed ora il mio cuore, al solo pensiero che la luce dei suoi biondi capelli possa essere soffocata dal rosso sangue, trema ed è preso da grande sgomento”.

Akhôrahil, che era sul punto di scagliare una pesante invettiva contro l’anziano principe, allorché scorse serpeggiare un grande disagio tra quanti erano della fazione moderata, mutò parere e si limitò a rispondergli con ironia mista a sarcasmo: “È nel fato degli uomini incontrare quando meno se l’attendano la morte ed abbandonare questo mondo; se la tua gente, tuttavia, inorridisce dinanzi a tale realtà, non è affar mio o di quanti mi sostengono; in fondo – ammise, mentre una nuova malvagia idea gli sorgeva nella mente – non è necessario che la regina muoia”.

Il volto di Khûriel si illuminò allorché si rese conto che, finalmente, il consigliere di Pharazôn era giunto alle sue medesime conclusioni: “Non lo è, infatti; anzi, se così agissimo, non faremmo altro che infliggerci da soli una pesante sconfitta. Non dobbiamo in alcun modo condannare a morte la sovrana, o altrimenti scateneremmo nel popolo una feroce reazione dinanzi alla quale nessun muraglione, bastione o torre potrebbe esserci d’aiuto. Tar-Miriel sarà parte integrante del Nuovo Ordine, quando questo sarà costituito”.

“Sono d’accordo con quanto affermi – interloquì allora Ëargon – tuttavia ancora non hai dato risposta alla mia domanda: nessun Paladino interverrà in aiuto del Morluin, se, anziché rivolgere le nostre armate contro la sovrana, dovessimo rivolgerle contro i Fedeli, aprendo una nuova fase della guerra civile che ormai perdura da diversi secoli? Quale sarà, inoltre, il parere di Tar-Miriel, allorché il suo generale più valido – e, diciamolo pure, il suo amante – sarà attaccato?”

“I quesiti che poni sono strettamente intrecciati, figlio di Morlok, ed ad essi verrà data risposta. Ërfea sarà sostenuto dalla sua gente ed essi, per quanto possano essere valorosi, sono pur sempre in numero minore rispetto alle genti delle altre contrade, né gli mancherà l’appoggio di Brethil ed egli, in verità, può contare su un sostegno ancor più esiguo da parte del suo popolo: le mie fonti, infatti, riferiscono che quasi tutti i cittadini del Mittalmar abbiano abbandonato le loro ancestrali dimore, trasferendosi nella grande città di Armenelos, ove sono stati tosto sedotti dai nostri agenti, rinfoltendo, in questo modo, le nostre fila di guerrieri. Per quanto concerne la tua seconda domanda, posso adesso rivelare che mai la regina ha trovato in Brethil un fedele compagno, prediligendo piuttosto i servigi che il duca Morlok, tuo padre, non ha risparmiato di offrirgli”.

“È vero che mio padre ha sempre tenuto in grande stima la sovrana – ammise pensieroso Ëargon – e questa sua preferenza ha costituito sovente motivo di contrasto tra le mie e le sue opinioni a tal riguardo; tuttavia, credevo che, spinta dall’affetto per il suo amante ritrovato, ella sarebbe stata più indulgente nei confronti di Brethil, il più anziano tra i suoi Grandi Ammiragli”.

Khûriel replicò: “Giovane comandante, non ti nascondo che nei giorni scorsi anche io ho nutrito il tuo medesimo dubbio, tuttavia, infine, le mie perplessità sono svanite allorché ho riflettuto su di un episodio avvenuto molti anni fa, quando tu non eri ancora nato, e che coinvolse un cugino di Brethil, Arthol il Superbo”.

Il figlio di Morlok annuì: “Se è il medesimo Arthol di cui mi hanno narrato i miei precettori, allora non dirò che la sua vicenda mi sia sconosciuta; cosa avrebbe a che fare, tuttavia, questa antica storia con quanto deve ancora essere?”

La donna sogghignò: “Arthol, Brethil ed Ërfea erano un tempo molto legati, costituendo un terzetto inseparabile, sicché Brethil, sebbene fosse in età maggiore rispetto agli altri due ragazzi, pure era ad essi molto legato. Come alcuni tra noi ricorderanno – e qui il suo sguardo si diresse su Akhôrahil – Brethil accompagnò suo cugino all’investitura di Cavaliere del Regno e per molto tempo ebbe per lui parole degne di ammirazione: ogni legame di amicizia e di rispetto, tuttavia, fu reciso allorché Arthol e sua sorella Gilmor furono coinvolti nell’oscuro complotto per eliminare Tar-Palantir e sua figlia, ché Brethil ed Ërfea, il quale, pure, era stato di Gilmor l’amante, denunciarono i loro sospetti a Gilnar e forse allo stesso Tar-Palantir, ché costui sembrava essere stato messo a conoscenza di quanto era accaduto ancor prima che il caso fosse dibattuto pubblicamente nell’assemblea del Senato, ed essi provvidero affinché i congiuranti fossero arrestati e giudicati. Tar-Miriel, nonostante l’indubbio legame che continua a legarla al Morluin, non ha mai dimenticato la parentela che intercorreva fra Arthol e Brethil, diffidando da quel giorno in poi di questo ultimo, né il Comandante dell’Esercito sembra abbia perdonato alla regina e a suo padre di non aver mai voluto accertare le responsabilità di coloro che, a sua detta, pur avendo preso parte al complotto, erano ancora liberi. Brethil non si fermò alle minacce, ma si diresse al Palazzo Reale, ove mostrò alla corte stupefatta un elenco dei probabili mandanti del complotto, senza però che la sua proposta fosse seriamente valutata, a causa della mancanza di prove; quanto a Brethil stesso, interrogato più volte da Amandil a proposito, non volle mai rivelare dove avesse appreso quei nomi, per tema che codesti uomini potessero essere messi sull’avviso e fuggissero da Numenor”.

Ëargon interloquì: “Non ero a conoscenza di questi avvenimenti ed è un bene per tutti noi che la tua presenza in questo consesso non sia venuta a mancare oggi; se a quanto dici si aggiunge l’invidia crescente fra Brethil e mio padre, per la sua nomina a Tesoriere del Regno, allora si intuisce che la frattura fra i principi fedeli alla corona è in realtà molto più grave di quanto non si possa credere a prima vista”. Khûriel, che era giunta al termine della sua narrazione, sorrise al giovane ammiraglio e fece ritorno al suo scranno, in attesa che altri prendessero la parola.

Pharazôn, che aveva ascoltato ogni singola parola pronunciata dalle anziane labbra della donna, prese a riflettere sui nuovi elementi che aveva testé appreso; egli, infatti, se da un lato aveva da sempre mirato a colpire i paladini più che la regina stessa, ignorava molte delle lacerazioni delle quali aveva discusso Khûriel, e credeva che queste, laddove fossero state presenti, si sarebbero ricucite per far fronte alla minaccia che i suoi uomini avrebbero portato allo Stato. Infine, dopo aver così ponderato, parlò ed espresse i suoi pensieri: “Supponiamo, per un solo istante, che Ërfea sia abbattuto, la sua gente condotta in catena per il divertimento dei miei guerrieri e Minas Laure ridotta ad un cumulo di macerie; supponiamo, altresì, che gli altri Paladini non accorrano in suo aiuto e che decidano di non immischiarsi in questioni che ritengano non essere di loro interesse; supponiamo, infine, che ogni nostra speranza si realizzi e che la Regina si mostri indulgente nei nostri confronti e disposta ad offrirci la sua collaborazione: a cosa condurrebbe tutto ciò? Al nostro successo, forse? No, ché questo sarà possibile solo quando uno tra noi – e qui il suo sguardo cadde malizioso su ognuno dei principi presenti – reclamerà ed otterrà per sé la corona di Numenor; tuttavia, se prima non facciamo chiarezza su questo punto, nessun fato sarà tanto benigno da permetterci di trionfare”.

Turbati, i Principi dei Numenoreani scrutarono nelle tenebre che circondavano gli alti scranni neri sui quali sedevano e presero a meditare sulla proposta, implicita e tuttavia fin troppo palese, che Pharazôn proponeva loro: accettare il suo dominio e sostenerlo nella lotta contro i Paladini; dapprima esitanti, essi infine furono spinti a pronunciare giuramenti ed a presentare i loro vessilli ai piedi del cugino della sovrano, ché il desiderio di trucidare Ërfea, Brethil ed i loro compagni si era accresciuto nei loro cuori ed essi non avevano più alcun timore di prestare obbedienza ad alcuno, purché si fosse mostrato in grado di ottenere la vittoria sui Fedeli. Smaniosi ed esultanti, i Principi supersiti, fra i quali Ëargon e Khûriel erano in prima fila, presero ad intonare canti bellici in onore del loro futuro re e non si avvidero, colti com’erano da questa improvvisa euforia, che i tre Nazgûl, riunitisi alle spalle del trono di Pharazôn, avevano preso a scambiarsi sguardi che esprimevano una palese soddisfazione, ché il primo obiettivo del loro Signore si era realizzato ed ora la sua vendetta su quanti l’avevano in passato sconfitto, sebbene fosse ancora lungi dal concretizzarsi, sarebbe divenuta realtà».

Note

[1] Secondo il Codice dell’Ordine, dieci erano le indicazioni che i Paladini dovevano sempre tenere a mente: 1) Non coltivare pensieri perversi; 2) la Via consiste nell’addestramento; 3) coltivare parecchie Arti diverse; 4) cercare di conoscere le vie e le modalità relative a qualsiasi mestiere o attività; 5) saper discernere il successo dal fallimento nelle questioni mondane; 6) esercitare l’intuizione e la capacità di giudizio in ogni attività; 7) saper percepire le cose che non si vedono; 8) prestare attenzione perfino alle cose marginali; 9) non fare cose inutili; 10) tenere segreta la mente ed ogni suo pensiero a quanti non sono a conoscenza del proprio nome. È evidente, per altro, che Er-Murazôr aveva obliato alcune indicazioni del Codice, prestando giuramento solo a quelle che riteneva utili per raggiungere i suoi scopi.

[2] Dopo l’editto prolungato da Tar-Aldarion, anche alle donne fu permesso di salire al trono di Numenor; Silmariel, perciò, ava di Amandil e primogenita del sangue reale, avrebbe anch’ella ottenuto la corona se fosse vissuta in tempi successivi, né questo particolare, nell’epoche turbolente che seguirono la scissione dei Numenoreani, fu dimenticato dai Fedeli, sebbene Amandil in persona avesse tentato sino all’ultimo di rifiutare la maestà delle genti occidentali.

[3] Qui segue una nota frettolosamente riportata sul margine sinistro del manoscritto da Ërfea e che Ëruo volle includere nella revisione finale del testo: “In verità, è evidente che il Re (Ar-Pharazôn) ambiva ottenere la mano di Tar-Miriel non solo perché il matrimonio fra i due avrebbe aperto la sua strada verso il trono, ma anche perché era attratto dalla regina e desiderava ottenerla per soddisfare le sue brame; non è improbabile, infine, che egli abbia voluto in questo modo rendermi profondamente infelice ed ottenere così vendetta sul mio rifiuto di sostenerlo nella sua lotta per ottenere lo scettro”.

Numenor: Game of Thrones (I)

Bentrovati! Per il titolo di questo articolo, come avranno notato i lettori dei romanzi «Cronache del ghiaccio e del fuoco» scritti da George Martin, mi sono ispirato alla celebre serie televisiva «Il Trono di Spade» (Game of Thrones). Nessuna paura! Non ho intenzione di mescolare elementi delle opere tolkieniane con quelli del celebre scrittore statunitense. Si tratta solo di un simpatico omaggio a una famosa serie TV, che mi è di grande utilità, però, per introdurre due racconti postumi (scritti, cioè, dopo aver terminato la prima stesura del «Ciclo del Marinaio») nei quali ho provato ad approfondire un aspetto della storia numenoreana, relativo alla guerra civile combattuta a Numenor nell’anno 3255 della Seconda Era, che avevo toccato solo marginalmente nel «Racconto del Marinaio e della Principessa».
Il conflitto vide schierati da un lato i Numenoreani fedeli al culto dei Valar e di Eru e dall’altro i sostenitori delle pretese avanzate da Pharazon – cugino di Tar-Miriel, legittima regina – al trono. Molti di voi sanno già come si concluse questa guerra civile; gli altri potranno scoprirlo leggendo questi due racconti. In fondo, le macchinazioni avanzate dagli uni e dagli altri per assicurarsi la vittoria dettero origine, a tutti gli effetti, a una sorta di «giochi diplomatici», nei quali complotti e tradimenti erano all’ordine del giorno.
In particolare, il racconto «L’Ombra e la Spada» che vi apprestate a leggere a partire da questo articolo presenta una singolare caratteristica: a differenza di tutti gli altri, che erano invece basati su ricordi ed esperienze vissute direttamente da Erfea o comunque facilmente recuperabili da una cerchia di persone che con il paladino di Numenor avevano relazioni, questo racconto è (almeno fino a questo momento) l’unico scritto da personaggi che con Erfea non avevano relazioni dirette, se così si può dire…dal momento che, come vi accingerete a leggere, i protagonisti di questo e dei prossimi articoli saranno proprio i capi della fazione avversa a Tar-Miriel, fra i quali un grande ruolo sarà attribuito ai tre principi numenoreani che furono corrotti da Sauron e furono tra i più potenti fra i Nazgul: Er-Murazor, Akhorahil ed Adunaphel.

Per questa ragione, trovo importante trascrivere, prima ancora di presentarvi l’incipit del racconto, una nota che spiega come questo documento finì nelle mani di Erfea.

«Questo scritto pervenne ad Erfëa tramite un’ambasciata che giunse a Gondor allorché erano trascorsi pochi mesi dalla Caduta: colui che gli consegnò il manoscritto, accompagnò tale dono con una lettera nella quale spiegava di essere stato per molti anni schiavo di Pharazôn e di essere fuggito da Numenorë allorché il suo Signore, venuto a conoscenza che questi aveva trascritto resoconti di vicende che non desiderava altri conoscessero, ordinò di ucciderlo e di bruciarne la dimora. Sulle prime, il principe di Minas Laurë esitò a prestare fede a tale scritto, ché molto diffidava dei Numenoreani Neri e dei loro inganni; in seguito, rimembrò che fra coloro che erano stati del seguito dell’ultimo sovrano di Andor, vi era un uomo il quale era solito essere condotto in catene dinanzi al suo trono per il bieco divertimento del re e della corte intera, ché era muto e nulla poteva ribattere alle risate crudeli che il governatore dell’isola riversava sul suo capo e comprese il suo errore. Sceso dallo scranno, il Sovrintendente di Gondor domandò perdono all’uomo per non averlo riconosciuto fin dal principio e ordinò che fosse ospitato fino alla fine dei suoi giorni presso una ricca dimora che gli fu assegnata come risarcimento per le torture che aveva subito durante gli anni ormai distanti della sua giovinezza: grato per il dono del principe, l’uomo, il cui nome era Khanor, visse ad Osgiliath per due anni ed infine spirò».

Prima di lasciarvi alla lettura dell’articolo, infine, voglio fare un’ulteriore premessa: questo racconto e quello che segue, intitolato «Il racconto dell’infame giuramento» presentano un tono più cupo e drammatico rispetto a quelli che avete letto fino ad oggi. In parte, questa scelta è stata motivata dalla necessità di assecondare un linguaggio più consono ai protagonisti principali di questi racconti, che militano nel campo «avverso», per così dire; in secondo luogo, soprattutto nel primo racconto, ci sono evidenti influssi derivati dalla lettura dei romanzi di H.P. Lovecraft, soprattutto a livello di ambientazione. Credo ne sia uscito un quadro abbastanza diverso dal solito – si potrebbe dire, con una battuta, che questi sono i racconti forse «meno tolkieniani» che io abbia mai scritto – ma lascio a voi il compito, spero piacevole, di giudicare se sia o meno riuscito nel mio intento.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«In quei giorni[1], Pharazôn, nipote di Tar-Palantir, sovrano di Numenor nei giorni del suo triste declino, tenne un consiglio fra quanti erano del suo partito, ché egli, sebbene si fosse atteso la proclamazione di sua cugina a sovrana di Numenor, pure non smetteva di detestarla, temendo che i Fedeli avrebbero preservato negli anni del suo regno la gloria che sì recentemente avevano conquistato: incapace di trattenere ulteriormente la sua ira ed il suo timore, convocò coloro che erano stati i camerati di suo padre e che erano sopravvissuti alla prigionia o alla morte in battaglia. Sulle prime, gli Uomini del Re espressero un palese disagio nell’ottemperare la richiesta del figlio di Gimilkhâd e questo accadeva perché erano sopravvissuti in pochi e temevano di terminare tristemente i propri brevi giorni; infine, poiché essi erano ansiosi di ottenere vendetta su Tar-Miriel e i suoi Paladini, acconsentirono ad incontrare Pharazôn nella cave abbandonate di Dûr-Zhirûk[2], poste all’estremità meridionale della penisola di Andustar: tale contrada godeva di cattiva fama, ché i pastori non permettevano che i loro armenti pascolassero nei suoi recessi nebbiosi e grigi, né i pescatori osavano condurre le loro fragili imbarcazioni nei pressi delle sue imponenti scogliere di nero basalto, il cui silenzio era rotto solo dall’incessante fragore provocato dalla rabbia del Grande Oceano. Pochi fra i sapienti Numenoreani erano a conoscenza di quali oscuri pertugi si aprissero all’interno di tali recessi e non facevano volentieri parola di quanto avevano scoperto ad altri che non fossero i Cundo dell’Accademia, per timore che la follia ed il terrore si impadronissero delle menti di coloro che impunemente fossero venuti a conoscenza di esseri che si diceva fossero vissuti in quegli oscuri antri prima ancora che l’Isola del Dono fosse sollevata dalle acque: a quanti affermavano che solo i Valar avevano avuto parte alla creazione di Numenor, costoro replicavano che finanche Melkor era stato nel loro Novero e che dunque, per quanto la sua oscura essenza fosse stata scagliata nello spazio atemporale che si estendeva al di là del Tempo, pure il suo malefico influsso aveva contributo, in parte, alla sollevazione di Elenna dal fondale dell’Oceano, plasmando la roccia di Dûr-Zirûk secondo la sua perversa volontà. Per molti secoli, i Numenoreani avevano evitato le contrade oscure che si estendevano al di là delle desolate piane dell’Andustar; infine, coloro che erano tra gli Uomini del Re noti per la loro malvagità e crudeltà, avevano edificato in questi luoghi oscuri altari a divinità senza nome, il cui culto era sopravvissuto negli anni fino a giungere ai giorni di Pharazôn; questi, sebbene fosse poco o punto propenso a credere ai racconti che circolavano su Dûr-Zirûk, pure aveva esplorato quegli spaventosi anfratti e si era convinto che l’orrore primigenio che emanavano gli affreschi immondi che ne coprivano i soffitti avrebbe influenzato le menti dei suoi camerati, esortandoli a compiere la scelta che avrebbe ritenuto più consona ai propri interessi. Riluttanti, i Signori degli Uomini del Re accettarono il suo invito, non prima di aver giurato che non avrebbero rivelato a nessun altro figlio di Iluvatar quanto avrebbero scorto o udito in quelle immonde sale sotterranee: accadde dunque che durante un novilunio, quando massimo cresceva nel cuore dei Fedeli il timore e l’avversione per le contrade il cui nome risuonava alle loro orecchie maledetto ed infido da ascoltarsi, essi si radunassero a Dûr-Zhirûk, abbigliati nelle loro regali vesti; per primo, giunse Khorazîd, Principe dell’Andustar, e numeroso era il suo seguito di schiavi, concubine e mercenari; dopo che egli ebbe abbandonato la sua lettiga d’oro e si fu calato nelle voragini della terra, altri Signori della schiatta ribelle di Elros Tar-Minyatur lo seguirono. Dôkhôr, Principe del Fornastar, fuggito anni prima nella Terra di Mezzo perché accusato di aver perpetuato immani stragi nelle province che Ar-Gimilzor gli aveva attribuito, era fra coloro che presero parte al consesso; Azâran, Principe dell’Ondustar, il più anziano fra i camerati del padre del giovane Pharazôn, era stato fra i primi ad accorrere allorché l’erede del suo signore era giunto alla sua antica dimora per condurgli di persona la missiva sulla quale era trascritto l’invito al Consiglio del Partito degli oppositori alla Regina; finanche Akhôrahil, che pure era scomparso da Numenor allorché Erfëa aveva scoperto la sua reale identità celata nei deserti infuocati del remoto Harad, aveva fatto ritorno ad Andor e, sebbene avesse mutato il suo sembiante, pure furono in molti coloro che crederono di riconoscere nel suo volto l’antico membro del Consiglio dello Scettro di Ar-Gimilzor. Principi e dame – ché, seppure in numero inferiore, esse erano presenti al consesso e si dimostrarono non meno risolute e spietate di quanto non lo fossero i loro consorti – furono condotti da esperte guide per segreti pertugi fino alle radici dell’Isola, ove i loro sguardi, che pure erano avvezzi alle peggiori nefandezze che i Secondogeniti avessero escogitato nel corso di lunghi secoli, furono atterriti e disgustati, sicché non furono pochi coloro che si coprirono il capo a causa del terrore che affreschi obliati da molti anni suscitavano in loro; finanche Dôkhôr, che pure era il signore di quella contrada, non aveva mai fatto visita a quegli orrendi sepolcri prima di quel momento ed il suo viso era ora pallido e smorto, come se un gran male l’avesse colto: unico fra tutti i presenti a non darsi pena per quanto accadeva era Akhôrahil, ché egli era fra i servi maggiori di Sauron e, sebbene conoscesse poco o punto i segreti nomi delle divinità ivi venerate per mezzo di orrendi sacrifici, le cui tracce erano ancora visibili sugli altari consunti dal tempo, pure si avvedeva che servivano il medesimo scopo del suo Padrone e di ciò si compiaceva».

Note

[1] Vi è qui un’allusione agli ultimi giorni del regno di Tar-Palantir: secondo alcuni commentatori, potrebbe riferirsi al terzo mese dell’anno 3255 della Seconda Era, ché la designazione di Miriel a sovrana di Numenor fu comunicata ai ministri del regno solo all’inizio della primavera, e tra questi gli unici ad averla appresa prima di tutti gli altri erano stati Amandil ed Erfëa.

[2] Dûr-Zhirûk, la Roccia del Demone nell’Adunaico, antica favella degli Uomini dell’Occidente.

P.S. In questi giorni ha raggiunto e superato la quota di 1000 commenti…sono molto soddisfatto di questo piccolo traguardo, ringrazio ciascuno di poi per aver contributo a realizzarlo! Puntiamo a…duemila!

Il nemico del mio nemico…è mio nemico

Un vecchio adagio recita: «il nemico del mio nemico è mio amico», ma spesso la realtà si dimostra molto più complessa rispetto ai detti popolari…come impareranno a loro spese Erfea e Morwin, protagonisti della terza ed ultima parte del racconto «Il Marinaio e la Mezzelfa». Vi ricordo che potrete leggere le prime due parti di questo racconto all’interno di questi due articoli: I dubbi di una scelta difficile: Elwen, Morwin ed Erfea e L’assedio di Edhellond

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Eppure silenzioso era il mondo posto tutto intorno a loro, ché nubi gravide di sventure si addensavano su Edhellond, e il Signore degli stregoni covava vendetta nei tetri meandri di Barad-Dur, furente per la sconfitta subita.

Quando notizie figlie di gravi sventure giunsero infine alla città degli Elfi, il cuore di Erfea tremò, ché gli parve inutile attendere la marea nera chiuso nella sua roccaforte. Numerosi pensieri allora elaborò la sua lungimirante mente, e sovente ne faceva parola con Elwen, ché teneva il suo parere in gran conto, stimolandolo di gran lunga superiore a quello di molti capitani della sua stirpe; allorchè giunse il momento di partire, egli si congedò con parole affettuose dalla sua amata: “Mia signora, il fato mi chiama ad altre imprese e vedo già il mio sentiero attraversare ardue difficoltà e orrori indescrivibili. Tuttavia, fin quando il mio compito non sarà terminato e la Primavera non spargerà benedette le sue lacrime sui nostri vittoriosi visi, mi attenderai tu dinanzi al cancello?”

“Soffierà il terrore e ruggirà lo spavento, eppure il mio cuore resterà qui, saldo come quello dei gabbiani durante le traversate invernali: sicuro sarà il giorno fin quando la tua lama splenderà tra le remote tenebre”.

“E allora festosa sarà la scura notte, fin quando chiare le stelle si specchieranno nei tuoi grigi occhi”. Tale fu il loro ultimo saluto, ed Elwen a lungo lo pianse, ché sebbene fosse una fiera fanciulla, pure il suo cuore non resse a tale dolore e silenziosa si recò nella sua stanza, e tale rimase per molti giorni a venire. Naturalmente, questo comportamento attirò l’attenzione di Morwin, non appena questi fu di ritorno a Edhellond, avendo egli combattuto eserciti di Sauron in remote terre[1]. A stento il capitano riconobbe la sua sposa, ché solo in seguito fu informato della visita di Erfea; tuttavia, essendo egli signore tra gli Eldar, nutrì il sospetto che in qualche modo Elwen fosse stata oltraggiata.

Infine, stanco di quel silenzio, e informatosi su quanto era realmente accaduto il sire di Edhellond si recò nella bianca dimora di Elwen: “Mia signora, davvero ingrata sarebbe la dama che non nutrisse sentimenti di riconoscenza verso colui che le ha salvato la vita nell’ora della morte. Tuttavia, tale è il corso del mondo, che facilmente i sentimenti mutano forma e sostanza, confondendo finanche le menti più argute”. Lesta fu la risposta di Elwen: “Non capisco cosa tu voglia dire, Morwin di Edhellond, ma senza dubbio la fortuna dimostra di possedere grande vigore se continua ad assisterti. Tuttavia io credo che altre siano le accuse celate dal tuo formalismo, ché non vi è dubbio o incertezza, quando una dama è presa da passione”. Stupore comparve allora sul viso di Morwin: “Non comprendo il segreto valore delle parole che sgorgano dal tuo animo, tuttavia vedo bene quanto Erfea Morluin sia il responsabile di tale repentino cambiamento d’umore; ebbene una parola sola non aggiungerò, finche tale sarà il tuo comportamento nei miei confronti”. Elwen non rispose, ché lungi il suo pensiero vagava, all’Occidente tempestoso[2] dove infine Erfea l’avrebbe condotta, non appena la sua missione fosse stata portata a buon termine.

Invero difficile era il cammino che il condottiero di Numenor si accingeva a percorrere, essendo giunto alla grande fortezza di Umbar, capitale delle colonie Numenoreane poste sulle coste di Endor: degli Uomini del Re era la fortezza e da tempo ai Fedeli ne era negato l’accesso. Tuttavia, Erfea riuscì ad entrarvi, a costo di grandi fatiche, ché egli era uomo dotato di grande forza e di possenti arti magiche, apprese durante la sua giovinezza. A lungo allora esplorò la possente guarnigione, scoprendo numerosi gli inganni di Sauron, che in quella città aveva da tempo calato la sua cupa mano. Infine, ad Erfea parve di scorgere, remota eppure chiara, la figura di un uomo o di un elfo che sembrava avvicinarsi sempre più; grande fu allora il suo stupore, ché era Morwin per cui nutriva profonda avversione.

A lungo essi si osservarono, poi il sire di Edhellond prese la parola: “Sorpreso sono nel vedere la tua bianca rosa in tali contrade, abitate solo dalla paura e dal terrore; tuttavia questa non è arte del subdolo nemico, ché davanti a me ho Erfea Morluin, l’indecoroso amante della mia sposa”.

“Dure parole le mie orecchie ascoltano – gli rispose Erfea – ché esse sono l’eco di ben altri pensieri, più neri e foschi di quelli di che una volta concepivi. Invero difficile è conquistare l’amore di una fanciulla con l’odio e con la vendetta, signore di Edhellond”.

Furente divenne allora Morwin, il quale per tutta reazione estrasse la sua lunga lama dal nero fodero: “Arrogante e infida è la tua favella; non sei degno di Elwen, esule assassino. Troppo a lungo ho arrestato la mia mano, tuttavia giunto è finalmente il momento della vendetta”.

Iniziando stava dunque il duello e gli animi dei due guerrieri, resi forti da anni di dure battaglie, già iniziavano a bruciare come le betulle nella calda estate, quando ad un tratto, cogliendo impreparati i due duellanti, lesta come il corvo nella nebbia serale, così giunse Adunaphel, potente fra i Nazgul, e il fato, che dapprima intendeva separare i due capitani, li riunì in una disperata lotta per la vita.

Adunaphel, tuttavia, si faceva beffa dei suoi nemici, ché era certa della vittoria; tali erano i suoi poteri, infatti, che ben pochi avrebbero avuto il coraggio di affrontarla in duello. Si narrava che fosse stata la più abile spadaccina di tutti i tempi e che avesse ricevuto un’educazione militare molto rigida, simile a quella di molti capitani; cresciuta come un guerriero, dunque, Adunaphel aveva poi appreso le arti magiche della guerra, subendo il fascino perverso della negromanzia esercitata da Sauron in persona, il quale le aveva affidato uno degli anelli degli uomini, promettendole l’immortalità, se avesse accettato di consegnarli l’anima. Possente era la forza di Adunaphel il Nazgul, e mai ella era dovuta intervenire di persona per sedare un duello in corso nella sua città; ché Umbar, sebbene fosse formalmente un dominio del re, e come tale governato da un suo funzionario, in realtà era feudo di Sauron, teatro di spaventose magie. Ivi Adunaphel aveva stabilito il suo dominio, celando il proprio potere e la propria natura sotto mentite spoglie, ché era esperta nel mutare forma; una fanciulla, curiosa e vivace, ma pur sempre innocua, appariva agli occhi dei profani, ché ben di rado gli uomini indovinavano quale fosse la sua vera essenza, incapaci com’erano di sostenere il potere della sua mente corrotta. Da tempo, ormai, il Nazgul sia aggirava tra le corti della sua città, presenza inquieta e tuttavia ben più pericolosa di quanto la sua apparente natura non lasciasse intendere: quali oscuri pensieri concepisse, mai nessuno mortale riuscì a comprendere, operando ella come serva di Sauron e non già come sua avversaria; tutto quanto Adunaphel faceva, intrigo o magia, era ispirato dalla volontà di Sauron, a cui aveva ceduto la propria libertà. Mortale era il suo sguardo e gli uomini lungimiranti lo evitavano accuratamente; sovente i suoi stessi servi, gente infida e scaltra, non osavano guardarla in viso, tanto era il terrore che accompagnava ogni sua manifestazione. Sauron, da parte sua, era invero soddisfatto di una tale servitrice, che gli pareva l’unica in grado di lacerare l’animo degli uomini, laddove essi risultavano più deboli; molti segreti, in tal modo, la sua mente avvizzita fu in grado di apprendere, e grande fu la sua preoccupazione quando capì che il suo mortale nemico, Erfea, si apprestava ad entrare nel suo dominio.

Non appena ella ebbe comunicato tale notizia al suo padrone, ricevette l’ordine di rimanere guardinga, nell’attesa che il Signore dei Nazgul giungesse ad Umbar, portando con sé tutti gli altri Ulairi. La dama Numenoreana, tuttavia, aveva preferito attendere Erfea nella propria roccaforte, lasciandogli l’illusione di avere libero accesso ai più oscuri segreti della città, allo scopo di tendergli una trappola che mai il capitano di Numenor, per potente che fosse, avrebbe potuto evitare.

Spie di Mordor avevano altresì avvertito il Settimo dei Nazgul dell’immanente arrivo di Morwin alla città di Umbar, e grande era stata la gioia di Adunaphel, quando questa missiva le era stata comunicata: “Tale è il loro ardire, che senza dubbio essi oseranno addentrarsi nei meandri di Umbar, sicuri che Sauron sia ancora distante, e che nessuno controlli il loro operato. Grande dunque sarà la sorpresa e lo sgomento, quando la verità sarà loro manifesta!” Tali erano i pensieri di Adunaphel, e tale era anche il volere di Sauron che ogni sua azione ispirava. Tuttavia, deludendo le aspettative dell’Oscuro Signore, né Erfea, né Morwin le si prostrarono tremanti; al contrario la resistenza che entrambi opposero al Nazgul e ai suoi servi fu tale che alla conclusione dello scontro risultarono vincitori, sconfiggendo le speranze di Mordor.

Tre volte Adunaphel chiamò sé gli schiavi di Sauron, orchi e altre abominevoli creature della notte; e per tre volte Erfea e Morwin scagliarono oltre i cancelli del nulla le orde delle tenebre. Infine, stanca di quel combattimento, Adunaphel in persona accettò di sfidare la possanza e la forza dei due capitani, e in primo momento le sembrò di aver scelto il momento opportuno; tale era, infatti, la stanchezza dei due capitani, che il perfido servo dell’Anello fu vicino ad ottenere una vittoria che per l’elfo e per l’uomo avrebbe significato la morte certa. Tuttavia, proprio quando le speranze dei due capitani sembravano non trovare riscontro nella realtà, e l’ora della sconfitta si avvicinava sempre più, allora possente si levò il vento dell’Ovest: esso riscaldò l’aria tutto intorno, messaggero del glorioso sole, che si apprestava a prendere possesso del mondo. Grande fu l’ira della sgomenta Adunaphel, la quale non seppe opporre resistenza a un tale potere, fuggendo al di là dei brumosi monti, fin quando la sua corsa rovinosa non l’ebbe condotta a Barad-Dur, dove Anor mai sarebbe giunto a sfidarla.

Tale fu dunque la conclusione di uno scontro inaspettato, e sebbene sia Morwin che Erfea fossero risultati vincitori, liberando per qualche tempo la città di Umbar dalla lordura dei servi di Sauron, tuttavia Adunaphel sopravvisse, ombra schiava dell’oscurità, fin quando il suo padrone non venne privato dell’anello, molti secoli al di là a venire, ed ella scomparve, scagliata al di fuori dei cancelli del mondo.

Esauritesi le ostilità e sopraggiunta una pesante stanchezza, i due duellanti, Erfea Morluin di Numenor e sire Morwin di Edhellond, presero a fissarsi negli occhi, ciascuno appoggiandosi alla propria spada: “Invero è strano il nostro destino, se io, da sempre acerrimo avversario della vostra stirpe, ora sono in debito con un suo capitano! Vi è dunque qualcosa che comprendere non si possa, remota all’orizzonte e pur sempre vigile? Eppure, tale è la sapienza e la conoscenza di noi Noldor, che tale entità presto si sarebbe rivelata in tutta la sua forza. Qual è dunque la verità?”

Lenta fu la risposta di Erfea, che in tali termini si espresse: “Non confondere scienza con conoscenza, erudizione con sapienza! A te, capitano degli Eldar, posso rivelare solo questo: ben poco ci è dato di conoscere sulla nostra sorte, che attende i nostri spiriti quando la morte ci strappa al dolce tepore della vita. Tuttavia, io non credo che i nostri destini si siano incrociati in questo frangente per un puro caso. Vi è forse un potere che muove le nostre azioni, secondo un suo disegno ben preciso, del quale io, pur conoscendo in parte i contenuti, ignoro però le forme. Certo, differente dal nostro è il credo degli Eldar, essendo la loro sorte intrecciata con quella dell’intero creato”.

“Sagge sono le tue parole, principe dei Numenoreani. Tuttavia, non credere che Morwin abbia dimenticato il suo antico rancore, ché una grave colpa è posta sulle tue spalle e lieto mai sarà il tuo destino”. Erfea però, non lasciò trapelare nessuna emozione, e impassibile in volto, si accinse a rispondergli: “È probabile che io debba penare ancora a lungo; tuttavia, sebbene non desideri un simile avvenire, tale è il destino di colui che liberamente decide di assumersi determinate responsabilità. Potrai fuggire, Morwin, eppure esse ti inseguiranno ovunque tu diriga i tuoi passi, mai paghe di rimembrarti il tuo dovere, ché da un patto ferreo, ma libero, esse traggono linfa vitale”.

“Ben dici, Erfea; e meglio sarebbe se tu apportassi a guisa di esempio, il vincolo stretto tra me ed Elwen. Mai potrai spezzare i suoi anelli, più forti del tempo e dello spazio, ché essi si ergono di là del flusso e dell’essenza, simili a monoliti scolpiti da ciclopiche mani, ormai obliate nelle leggende e nei canti”.

Erfea rise dinanzi a tali parole: “Non vi è alcun vincolo tra te e lei, ché non Elwen lo pronunziò, ma l’eco di ancestrali paure, gelide e soffocanti, come gli antri di caverne nei luoghi profondi della terra. Timori e freddi inganni hanno soffocato quanto ella avrebbe davvero voluto, ed ecco! La primavera giunge finalmente vittoriosa e con essa le nostre ferite sono lavate con profumata acqua di fonte. Più grande di te è il nostro giuramento, Morwin; a nulla servirà la tua ira funesta, ché dovessi morire oggi stesso, ecco che anch’ella si allontanerebbe dalle sponde mortali, e mai più tu la vedresti, ed essa porterebbe con sé il mio , e non già il tuo ricordo”.

Parole non aggiunse Erfea e niente trovò da ribattere Morwin, ché la verità finalmente gli era stata rivelata, e più avrebbe potuto ignorarla, fingendo che il suo volere sarebbe stato sufficiente a ricondurre a sé Elwen.

Mai, da quando egli aveva ottenuto il potere su Edhellond, una sì grande sconfitta gli era stata impartita da un mortale; e mai notizia fu per lui più amara, quando, ritornato alla sua città natale, apprese con tristezza che Elwen era fuggita, portando con sé le ultime vestigia della luce di Arda.

Più le storie narrano di Morwin, il sire e il fabbro della bianca città degli Eldar, esperto nel trattare i metalli e i servi di Sauron, secondo il caso, e sebbene i bardi ignorino la sua fine, tuttavia, secondo alcuni della sua famiglia, anch’egli avrebbe abbandonato la città, errando a lungo per il vasto mondo senza una meta, memore soltanto del proprio nome e di quello della sua antica sposa , fin quando, stanco di quel vagabondare senza scopo, egli avrebbe deciso di unirsi all’esercito dell’Ultima Alleanza. Nella battaglia della Dagorlad[3] Dwar di Waw trucidò il sire di Edhellond, mentre costui difendeva una colonna di elfi silvani sorpresi dall’attacco dei Mumakil: in tal modo glorioso Morwin concluse la propria esistenza, silente custode della propria fama e della propria amarezza.

Di Elwen, non v’è più traccia certa nelle storie della Terra di Mezzo; certuni affermano che visse per qualche tempo a nord, nella regione del lago di Vesproscuro, governando con sapienza gli uomini e gli elfi di quella remota regione insieme ad Erfea; taluni, invece, dicono che Elwen non sia mai giunta ad Edhellond, dove il Dunadan l’attendeva impaziente, e che sia stata uccisa lungo la strada, allontanandosi così per sempre dalla Terra di Mezzo, soddisfacendo in tal modo il suo fanciullesco desiderio e portando nel proprio petto il ricordo dell’amato Erfea, ultimo dei grandi capitani dell’Ovesturia ad aver traversato indenne un’epoca cosi turbolenta.

Note

[1] Nell’anno 3277 S. E., le armate di Dwar avevano compiuto scorrerie nel Calhenardon, minacciando Lorien: timorosa di un massiccio attacco al suo reame, Galadriel aveva chiesto ed ottenuto l’appoggio delle schiere di Edhellond, per mezzo delle quali il nemico era stato respinto.

[2] Si ignora a quale contrada facessero allusione tali parole; è verosimile, tuttavia, che Elwen si fosse riferita al Lindon, la regione più occidentale di Endor, ove vivevano in quei giorni molti della sua stirpe.

[3] Si veda anche Oropher o del cattivo Fato degli Elfi