Ritratti – Elwen

Bentrovati! Quest’oggi, come vi avevo anticipato alcuni giorni fa, ho il piacere di mostrarvi il primo di una nuova serie di ritratti, opera della bravissima Anna Francesca, dedicati ai personaggi de «Il Ciclo del Marinaio»! Iniziamo con Elwen, la bella mezzelfa di Edhellond…

Aspetto i vostri commenti…presto seguiranno nuovi soggetti!Elwen

Nascita di una stella fredda

Quella che segue è la terza versione del «Racconto del Marinaio e della Mezzelfa», che potrete leggere nella sua versione approfondita nei seguenti articoli: Il nemico del mio nemico…è mio nemico; L’assedio di Edhellond; I dubbi di una scelta difficile: Elwen, Morwin ed Erfea. Come scritto in precedenza, si tratta di una versione diversa dalle altre: sono del tutto assenti, infatti, il linguaggio e i temi epici che solitamente caratterizzano i miei racconti. Si tratta, in effetti, di una rielaborazione in chiave «intimistica» degli eventi e dei pensieri che turbarono Elwen subito dopo la riappacificazione con Erfea. È un racconto – incompleto – che tenta di far luce sul carattere e sulle scelte intreprese dalla bella mezzelfa e sul suo tormentato rapporto con Erfea e Morwin.

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«Le ombre della notte non si erano ancora dileguate quando la mezzelfa si destò dal suo irrequieto sonno. Stupita, battè leggermente le palpebre, mentre la mano, istintivamente, cercava il corpo dell’uomo che, la sera precedente, si era addormentato accanto a lei.

Il letto era freddo. Si poteva indovinare, tuttavia, dalle increspate impronte che i suoi muscoli avevano impresso sulle bianche lenzuola, ove avesse disteso il suo corpo quella notte. La mezzelfa lasciò scorrere la mano, ancora per qualche minuto, sul guanciale accanto al suo, immersa in un profondo silenzio, meditando su quella unica parola che, durante la notte, aveva squarciato il velo oscuro che era calato sui loro visi.

Adesso era del tutto desta; con la naturale grazia tipica della sua stirpe, afferrò una vestaglia in seta bianca che la sera precedente aveva ripiegato con cura lungo lo schienale di uno scranno di ebano nero e si mosse verso una piccola finestra che dava ad oriente.

Fuori, albeggiava lentamente, quasi che Arien non avesse avuto alcuna intenzione di sorgere sul mondo. Era quell’ora in cui tenebra e luce si incontrano, partorendo larve che le menti dei figli di Iluvatar temono o perchè atterriti dalla loro presenza, o perchè bramosi di ottenerle senza alcuna speme.

Ella era una mezzelfa nel fiore degli anni, di una bellezza quale ogni bardo desiderebbe cantare, salvo venire meno all’impegno preso, allorché avesse scorto il suo sembiante ergersi in tutta la sua splendente grazia. Ricordò che sua madre, un tempo, le aveva raccomandato di occultare il suo volto con un lungo velo bianco, per tema che gli occhi degli uomini e degli elfi fossero sconvolti da tale beltà; ella non aveva mai seguito questo saggio ammonimento, avendo avuto, al contrario, cura di esporre il suo viso in pubblico, convinta com’era che la luce potesse solo riscaldare i cuori ed illuminare le menti, senza che questa potesse arrecare alcuna sofferenza ai figli di Iluvatar.

Egli, invece, era la tenebra. Era giunto sulla spiaggia di Edhellond sette anni prima, ricoperto di alghe e con la pelle scura incrostata da sale e sabbia. Gli abiti nobili che un tempo indossava erano stati dilaniati dalla furia di Ulmo ed a malapena era riuscito a salvare dai flutti una lama come i Primogeniti erano soliti forgiare nei secoli precedenti il sorgere del primo sole dell’era nella quale avevano avuto in sorte di nascere. Ai pescatori che erano accorsi in suo aiuto, lo straniero aveva narrato di essere giunto a quella contrada in seguito ad un fortunale che si era abbattutto sulla sua nave. Non aveva denaro con sè, nè amici o patria sulla quale vantare i propri domini: tuttavia, gli elfi più anziani, coloro che in tempi antichi si erano recati nell’Ovesturia, ora sommersa dalle acque del tempestoso oceano, per ascoltare i canti che colà si udivano all’ora del vespro, presero a mormorare, dapprima negli oscuri recessi delle proprie dimore, poi nelle pubbliche piazze, che il naufrago portava impressi sul volto i lineamenti degli Uomini del Mare, i Numenoreani. Un marinaio che era stato alla corte di Gil-Galad negli anni precedenti la venuta dello straniero, infine lo riconobbe e lo chiamò con il suo nome: tra l’incredulità e lo stupore generali, tuttavia, l’uomo, pur senza disdegnare i referenti appellativi che gli erano stati rivolti, non volle accettare alcun inchino da parte di coloro che gli erano tutt’intorno; al contrario, quasi avesse avuto disagio nell’abitare presso di loro, aveva accettato con gratitudine l’offerta di occupare una minuscola dimora, prossima all’Oceano, ove, egli diceva, non avrebbe recato fastidio ad alcuno, uomo od elfo che fosse. Trascorsero alcuni giorni prima che l’uomo facesse ritorno alla città di sire Morwin, eppure non si tratteneva a lungo nei suoi bianchi vicoli, ove la luce del sole amoreggiava con la chiara pietra con la quale erano stati edificati torri e minareti, terrazze e bastioni, preferendo di gran lunga oltrepassare i suoi cancelli quando calava l’oscurità: questa attutiva l’eco dei suoi pesanti passi, smorzava la sua profonda voce e, finanche, allontanava il suo ricordo dalle menti e dai cuori di coloro che, per sorte o per libera scelta, discorrevano con lui. Era la Tenebra; e come la sua Signora, non poneva alcuna domanda, eppure ascoltava le parole che, elfi ed uomini, gli rivolgevano, esitanti, nel cuore della notte.

Arrestò, per un istante, il flusso dei ricordi. Avvertì la forte aura dell’uomo nella stanza accanto a quella ove lei si attardava rimembrando episodi del passato. Inspirò profondamente. Egli, dunque, non si era allontanato dalla sua città. Non ancora.

Ne fu rasserenata.

In passato, quando il nome del forestiero giunto dal mare risuonava alle sue orecchie oscuro quanto la tenebra che striscia dalle Montagne Bianche, ella non avrebbe tollerato quanto era accaduto quella mattina. In fondo, era una mezzelfa che aveva scelto il destino dei Primogeniti. La linearità, l’eternità del domani, l’avversione al cambiamento: queste erano le ragioni che l’avevano spinta a rinunciare alla sua mortalità, non altro. Detestava il fragile mondo degli uomini, intento a ricorrere le folli chimere suscitate dagli oscuri poteri che erano sorti a levante, avvizzito entro fragile mura dalle quali, alte, si levavano le grida folli. Questi erano gli uomini, così come ella avrebbe potuto definirli sino a pochi anni fa. Gli uomini sprezzanti di ogni legame; gli uomini vogliosi di accrescere le proprie brame a scapito delle altre creature di Arda; gli uomini, violenti e fedifraghi.

Perchè, dunque, condivideva il suo talamo con un uomo?

Il suo sposo, se fosse stato presente, non l’avrebbe compresa, né sarebbe giunto a giustificare un simile tradimento. Conosceva l’uomo, così come gli altri elfi della sua casata; eppure, non avrebbe smesso di detestarlo, e quanto era accaduto in sua assenza, certo non avrebbe contribuito a riappacificarlo con la stirpe dei Secondogeniti. Non v’era, apparentemente, alcuna ragione che potesse avallare il suo comportamento; in quanto elfa signora della sua città, ella aveva commesso peccato tre volte: dinanzi a se stessa, dinanzi al suo sposo e dinanzi al suo popolo. La sua coscienza, secondo il parere dei dotti fra il suo popolo, era stata ora macchiata da una colpa sì grave per la quale l’esilio sarebbe stata una pena necessaria per riportare l’ordine nella bianca città. Il cerchio, entro il quale i Primogeniti si erano rinchiusi dopo la rinuncia al loro dominio sul mondo, doveva essere ripristinato, pena la distruzione dell’ordine entro il quale le loro leggi avevano valore.

Ella era cosciente di aver infranto la legge e di aver rinnegato la sua natura di elfa.

Il cerchio era stato infranto con troppa veemenenza perchè qualunque legge, pena o rinuncia potesse ripristinarne l’antica forma. La luce che splendeva nel suo cuore era stata corrotta dalla tenebra che l’uomo aveva recato con sè, provenendo da abissi remoti e senza nome.

No.

Per lungo tempo si era ingannata.

La sua luce, di cui andava così fiera da esporla come vessillo della sua grazia e della sua beltà, non era altro che un pallido riflesso della luminosità che splendeva negli occhi dell’uomo giunto dal mare.

Ripensò a giorni lontani.

Con le arti che le erano congenite l’aveva sedotto, legandolo al suo destino di giovane fanciulla, resa inquieta da una profezia lontana, che risaliva ai primi anni della sua vita, quando ancora la madre risiedeva in città e non aveva oltrepassato il mare. Per i suoi disegni, l’uomo rappresentava null’altro che un tramite verso il più profondo disio che ancora riuscisse ad ancorarla al mondo dei miseri mortali: le vaste distese oceaniche il suo cuore ambiva, non potendole possedere come qualsiasi altra brama la sua anima avesse desiderato soddisfare. Disprezzava l’uomo che aveva costruito il proprio eremo lontano dalla civiltà e dai ricordi che le erano cari: pur essendo null’altro che una minuscola ombra, vagante in compagnia delle sue sorelle generate dalla notte, ella non poteva fare a meno di notare come fosse attratta dalla remota pace che era in lui. Elfi possenti, il cui lignaggio nessuno avrebbe potuto mettere in discussione, le avevano chiesto invano non già la mano – un privilegio al quale ambivano inutilmente da diversi anni – ma finanche il semplice piacere della sua compagnia: ella, tuttavia, aveva sempre disdegnato tali proposte, non perché non fosse insensibile al loro corteggiamento, ma perchè riteneva che avrebbero potuto spezzare il delicato – eppure, quanto forte le era sembrato in quei giorni! – equilibrio sul quale poggiava la propria esistenza. Non desiderava condividere la propria vita con alcuno che non gli paresse degno: ed ella mostrava sarcasmo ogni qual volta la madre, desiderosa di congedarsi da lei salutandola con quell’appellativo che per innumerevoli anni era stato il suo e di tutte le elfe della sua stirpe, la pregava di mutare parere. Non erano che ombre di una virtù ben più grande, le parole che le erano rivolte da signori elfici cortesi nei modi ed eleganti nell’eloquio; eppure, allorché essi avevano in sorte di potere discorrere con lei, frustati facevano ritorno alle loro dimore, non già perchè inefficaci si erano rivelate le parole con le quali si erano presentati davanti al suo uscio, ma perchè senso di inadeguatezza provavano nei loro cuori e ne erano turbati ed atterriti. L’armonia sulla quale si reggevano le loro vite era sul punto di andare in frantumi: ma avrebbero, essi, accettato di rinunciare alle antiche leggi dei loro padri per ottenere quanto non erano in grado di confessare neppure a loro stessi, per tema di scorgere ferite all’interno del proprio cuore? Non lo erano: sicché, dopo qualche tempo, essi smisero di offrire i propri omaggi alla fanciulla impertinente che si burlava, a loro dire, di ogni eloquenza e creanza, e presero ad allontanarsi dalla sua dimora».

Il nemico del mio nemico…è mio nemico

Un vecchio adagio recita: «il nemico del mio nemico è mio amico», ma spesso la realtà si dimostra molto più complessa rispetto ai detti popolari…come impareranno a loro spese Erfea e Morwin, protagonisti della terza ed ultima parte del racconto «Il Marinaio e la Mezzelfa». Vi ricordo che potrete leggere le prime due parti di questo racconto all’interno di questi due articoli: I dubbi di una scelta difficile: Elwen, Morwin ed Erfea e L’assedio di Edhellond

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«Eppure silenzioso era il mondo posto tutto intorno a loro, ché nubi gravide di sventure si addensavano su Edhellond, e il Signore degli stregoni covava vendetta nei tetri meandri di Barad-Dur, furente per la sconfitta subita.

Quando notizie figlie di gravi sventure giunsero infine alla città degli Elfi, il cuore di Erfea tremò, ché gli parve inutile attendere la marea nera chiuso nella sua roccaforte. Numerosi pensieri allora elaborò la sua lungimirante mente, e sovente ne faceva parola con Elwen, ché teneva il suo parere in gran conto, stimolandolo di gran lunga superiore a quello di molti capitani della sua stirpe; allorchè giunse il momento di partire, egli si congedò con parole affettuose dalla sua amata: “Mia signora, il fato mi chiama ad altre imprese e vedo già il mio sentiero attraversare ardue difficoltà e orrori indescrivibili. Tuttavia, fin quando il mio compito non sarà terminato e la Primavera non spargerà benedette le sue lacrime sui nostri vittoriosi visi, mi attenderai tu dinanzi al cancello?”

“Soffierà il terrore e ruggirà lo spavento, eppure il mio cuore resterà qui, saldo come quello dei gabbiani durante le traversate invernali: sicuro sarà il giorno fin quando la tua lama splenderà tra le remote tenebre”.

“E allora festosa sarà la scura notte, fin quando chiare le stelle si specchieranno nei tuoi grigi occhi”. Tale fu il loro ultimo saluto, ed Elwen a lungo lo pianse, ché sebbene fosse una fiera fanciulla, pure il suo cuore non resse a tale dolore e silenziosa si recò nella sua stanza, e tale rimase per molti giorni a venire. Naturalmente, questo comportamento attirò l’attenzione di Morwin, non appena questi fu di ritorno a Edhellond, avendo egli combattuto eserciti di Sauron in remote terre[1]. A stento il capitano riconobbe la sua sposa, ché solo in seguito fu informato della visita di Erfea; tuttavia, essendo egli signore tra gli Eldar, nutrì il sospetto che in qualche modo Elwen fosse stata oltraggiata.

Infine, stanco di quel silenzio, e informatosi su quanto era realmente accaduto il sire di Edhellond si recò nella bianca dimora di Elwen: “Mia signora, davvero ingrata sarebbe la dama che non nutrisse sentimenti di riconoscenza verso colui che le ha salvato la vita nell’ora della morte. Tuttavia, tale è il corso del mondo, che facilmente i sentimenti mutano forma e sostanza, confondendo finanche le menti più argute”. Lesta fu la risposta di Elwen: “Non capisco cosa tu voglia dire, Morwin di Edhellond, ma senza dubbio la fortuna dimostra di possedere grande vigore se continua ad assisterti. Tuttavia io credo che altre siano le accuse celate dal tuo formalismo, ché non vi è dubbio o incertezza, quando una dama è presa da passione”. Stupore comparve allora sul viso di Morwin: “Non comprendo il segreto valore delle parole che sgorgano dal tuo animo, tuttavia vedo bene quanto Erfea Morluin sia il responsabile di tale repentino cambiamento d’umore; ebbene una parola sola non aggiungerò, finche tale sarà il tuo comportamento nei miei confronti”. Elwen non rispose, ché lungi il suo pensiero vagava, all’Occidente tempestoso[2] dove infine Erfea l’avrebbe condotta, non appena la sua missione fosse stata portata a buon termine.

Invero difficile era il cammino che il condottiero di Numenor si accingeva a percorrere, essendo giunto alla grande fortezza di Umbar, capitale delle colonie Numenoreane poste sulle coste di Endor: degli Uomini del Re era la fortezza e da tempo ai Fedeli ne era negato l’accesso. Tuttavia, Erfea riuscì ad entrarvi, a costo di grandi fatiche, ché egli era uomo dotato di grande forza e di possenti arti magiche, apprese durante la sua giovinezza. A lungo allora esplorò la possente guarnigione, scoprendo numerosi gli inganni di Sauron, che in quella città aveva da tempo calato la sua cupa mano. Infine, ad Erfea parve di scorgere, remota eppure chiara, la figura di un uomo o di un elfo che sembrava avvicinarsi sempre più; grande fu allora il suo stupore, ché era Morwin per cui nutriva profonda avversione.

A lungo essi si osservarono, poi il sire di Edhellond prese la parola: “Sorpreso sono nel vedere la tua bianca rosa in tali contrade, abitate solo dalla paura e dal terrore; tuttavia questa non è arte del subdolo nemico, ché davanti a me ho Erfea Morluin, l’indecoroso amante della mia sposa”.

“Dure parole le mie orecchie ascoltano – gli rispose Erfea – ché esse sono l’eco di ben altri pensieri, più neri e foschi di quelli di che una volta concepivi. Invero difficile è conquistare l’amore di una fanciulla con l’odio e con la vendetta, signore di Edhellond”.

Furente divenne allora Morwin, il quale per tutta reazione estrasse la sua lunga lama dal nero fodero: “Arrogante e infida è la tua favella; non sei degno di Elwen, esule assassino. Troppo a lungo ho arrestato la mia mano, tuttavia giunto è finalmente il momento della vendetta”.

Iniziando stava dunque il duello e gli animi dei due guerrieri, resi forti da anni di dure battaglie, già iniziavano a bruciare come le betulle nella calda estate, quando ad un tratto, cogliendo impreparati i due duellanti, lesta come il corvo nella nebbia serale, così giunse Adunaphel, potente fra i Nazgul, e il fato, che dapprima intendeva separare i due capitani, li riunì in una disperata lotta per la vita.

Adunaphel, tuttavia, si faceva beffa dei suoi nemici, ché era certa della vittoria; tali erano i suoi poteri, infatti, che ben pochi avrebbero avuto il coraggio di affrontarla in duello. Si narrava che fosse stata la più abile spadaccina di tutti i tempi e che avesse ricevuto un’educazione militare molto rigida, simile a quella di molti capitani; cresciuta come un guerriero, dunque, Adunaphel aveva poi appreso le arti magiche della guerra, subendo il fascino perverso della negromanzia esercitata da Sauron in persona, il quale le aveva affidato uno degli anelli degli uomini, promettendole l’immortalità, se avesse accettato di consegnarli l’anima. Possente era la forza di Adunaphel il Nazgul, e mai ella era dovuta intervenire di persona per sedare un duello in corso nella sua città; ché Umbar, sebbene fosse formalmente un dominio del re, e come tale governato da un suo funzionario, in realtà era feudo di Sauron, teatro di spaventose magie. Ivi Adunaphel aveva stabilito il suo dominio, celando il proprio potere e la propria natura sotto mentite spoglie, ché era esperta nel mutare forma; una fanciulla, curiosa e vivace, ma pur sempre innocua, appariva agli occhi dei profani, ché ben di rado gli uomini indovinavano quale fosse la sua vera essenza, incapaci com’erano di sostenere il potere della sua mente corrotta. Da tempo, ormai, il Nazgul sia aggirava tra le corti della sua città, presenza inquieta e tuttavia ben più pericolosa di quanto la sua apparente natura non lasciasse intendere: quali oscuri pensieri concepisse, mai nessuno mortale riuscì a comprendere, operando ella come serva di Sauron e non già come sua avversaria; tutto quanto Adunaphel faceva, intrigo o magia, era ispirato dalla volontà di Sauron, a cui aveva ceduto la propria libertà. Mortale era il suo sguardo e gli uomini lungimiranti lo evitavano accuratamente; sovente i suoi stessi servi, gente infida e scaltra, non osavano guardarla in viso, tanto era il terrore che accompagnava ogni sua manifestazione. Sauron, da parte sua, era invero soddisfatto di una tale servitrice, che gli pareva l’unica in grado di lacerare l’animo degli uomini, laddove essi risultavano più deboli; molti segreti, in tal modo, la sua mente avvizzita fu in grado di apprendere, e grande fu la sua preoccupazione quando capì che il suo mortale nemico, Erfea, si apprestava ad entrare nel suo dominio.

Non appena ella ebbe comunicato tale notizia al suo padrone, ricevette l’ordine di rimanere guardinga, nell’attesa che il Signore dei Nazgul giungesse ad Umbar, portando con sé tutti gli altri Ulairi. La dama Numenoreana, tuttavia, aveva preferito attendere Erfea nella propria roccaforte, lasciandogli l’illusione di avere libero accesso ai più oscuri segreti della città, allo scopo di tendergli una trappola che mai il capitano di Numenor, per potente che fosse, avrebbe potuto evitare.

Spie di Mordor avevano altresì avvertito il Settimo dei Nazgul dell’immanente arrivo di Morwin alla città di Umbar, e grande era stata la gioia di Adunaphel, quando questa missiva le era stata comunicata: “Tale è il loro ardire, che senza dubbio essi oseranno addentrarsi nei meandri di Umbar, sicuri che Sauron sia ancora distante, e che nessuno controlli il loro operato. Grande dunque sarà la sorpresa e lo sgomento, quando la verità sarà loro manifesta!” Tali erano i pensieri di Adunaphel, e tale era anche il volere di Sauron che ogni sua azione ispirava. Tuttavia, deludendo le aspettative dell’Oscuro Signore, né Erfea, né Morwin le si prostrarono tremanti; al contrario la resistenza che entrambi opposero al Nazgul e ai suoi servi fu tale che alla conclusione dello scontro risultarono vincitori, sconfiggendo le speranze di Mordor.

Tre volte Adunaphel chiamò sé gli schiavi di Sauron, orchi e altre abominevoli creature della notte; e per tre volte Erfea e Morwin scagliarono oltre i cancelli del nulla le orde delle tenebre. Infine, stanca di quel combattimento, Adunaphel in persona accettò di sfidare la possanza e la forza dei due capitani, e in primo momento le sembrò di aver scelto il momento opportuno; tale era, infatti, la stanchezza dei due capitani, che il perfido servo dell’Anello fu vicino ad ottenere una vittoria che per l’elfo e per l’uomo avrebbe significato la morte certa. Tuttavia, proprio quando le speranze dei due capitani sembravano non trovare riscontro nella realtà, e l’ora della sconfitta si avvicinava sempre più, allora possente si levò il vento dell’Ovest: esso riscaldò l’aria tutto intorno, messaggero del glorioso sole, che si apprestava a prendere possesso del mondo. Grande fu l’ira della sgomenta Adunaphel, la quale non seppe opporre resistenza a un tale potere, fuggendo al di là dei brumosi monti, fin quando la sua corsa rovinosa non l’ebbe condotta a Barad-Dur, dove Anor mai sarebbe giunto a sfidarla.

Tale fu dunque la conclusione di uno scontro inaspettato, e sebbene sia Morwin che Erfea fossero risultati vincitori, liberando per qualche tempo la città di Umbar dalla lordura dei servi di Sauron, tuttavia Adunaphel sopravvisse, ombra schiava dell’oscurità, fin quando il suo padrone non venne privato dell’anello, molti secoli al di là a venire, ed ella scomparve, scagliata al di fuori dei cancelli del mondo.

Esauritesi le ostilità e sopraggiunta una pesante stanchezza, i due duellanti, Erfea Morluin di Numenor e sire Morwin di Edhellond, presero a fissarsi negli occhi, ciascuno appoggiandosi alla propria spada: “Invero è strano il nostro destino, se io, da sempre acerrimo avversario della vostra stirpe, ora sono in debito con un suo capitano! Vi è dunque qualcosa che comprendere non si possa, remota all’orizzonte e pur sempre vigile? Eppure, tale è la sapienza e la conoscenza di noi Noldor, che tale entità presto si sarebbe rivelata in tutta la sua forza. Qual è dunque la verità?”

Lenta fu la risposta di Erfea, che in tali termini si espresse: “Non confondere scienza con conoscenza, erudizione con sapienza! A te, capitano degli Eldar, posso rivelare solo questo: ben poco ci è dato di conoscere sulla nostra sorte, che attende i nostri spiriti quando la morte ci strappa al dolce tepore della vita. Tuttavia, io non credo che i nostri destini si siano incrociati in questo frangente per un puro caso. Vi è forse un potere che muove le nostre azioni, secondo un suo disegno ben preciso, del quale io, pur conoscendo in parte i contenuti, ignoro però le forme. Certo, differente dal nostro è il credo degli Eldar, essendo la loro sorte intrecciata con quella dell’intero creato”.

“Sagge sono le tue parole, principe dei Numenoreani. Tuttavia, non credere che Morwin abbia dimenticato il suo antico rancore, ché una grave colpa è posta sulle tue spalle e lieto mai sarà il tuo destino”. Erfea però, non lasciò trapelare nessuna emozione, e impassibile in volto, si accinse a rispondergli: “È probabile che io debba penare ancora a lungo; tuttavia, sebbene non desideri un simile avvenire, tale è il destino di colui che liberamente decide di assumersi determinate responsabilità. Potrai fuggire, Morwin, eppure esse ti inseguiranno ovunque tu diriga i tuoi passi, mai paghe di rimembrarti il tuo dovere, ché da un patto ferreo, ma libero, esse traggono linfa vitale”.

“Ben dici, Erfea; e meglio sarebbe se tu apportassi a guisa di esempio, il vincolo stretto tra me ed Elwen. Mai potrai spezzare i suoi anelli, più forti del tempo e dello spazio, ché essi si ergono di là del flusso e dell’essenza, simili a monoliti scolpiti da ciclopiche mani, ormai obliate nelle leggende e nei canti”.

Erfea rise dinanzi a tali parole: “Non vi è alcun vincolo tra te e lei, ché non Elwen lo pronunziò, ma l’eco di ancestrali paure, gelide e soffocanti, come gli antri di caverne nei luoghi profondi della terra. Timori e freddi inganni hanno soffocato quanto ella avrebbe davvero voluto, ed ecco! La primavera giunge finalmente vittoriosa e con essa le nostre ferite sono lavate con profumata acqua di fonte. Più grande di te è il nostro giuramento, Morwin; a nulla servirà la tua ira funesta, ché dovessi morire oggi stesso, ecco che anch’ella si allontanerebbe dalle sponde mortali, e mai più tu la vedresti, ed essa porterebbe con sé il mio , e non già il tuo ricordo”.

Parole non aggiunse Erfea e niente trovò da ribattere Morwin, ché la verità finalmente gli era stata rivelata, e più avrebbe potuto ignorarla, fingendo che il suo volere sarebbe stato sufficiente a ricondurre a sé Elwen.

Mai, da quando egli aveva ottenuto il potere su Edhellond, una sì grande sconfitta gli era stata impartita da un mortale; e mai notizia fu per lui più amara, quando, ritornato alla sua città natale, apprese con tristezza che Elwen era fuggita, portando con sé le ultime vestigia della luce di Arda.

Più le storie narrano di Morwin, il sire e il fabbro della bianca città degli Eldar, esperto nel trattare i metalli e i servi di Sauron, secondo il caso, e sebbene i bardi ignorino la sua fine, tuttavia, secondo alcuni della sua famiglia, anch’egli avrebbe abbandonato la città, errando a lungo per il vasto mondo senza una meta, memore soltanto del proprio nome e di quello della sua antica sposa , fin quando, stanco di quel vagabondare senza scopo, egli avrebbe deciso di unirsi all’esercito dell’Ultima Alleanza. Nella battaglia della Dagorlad[3] Dwar di Waw trucidò il sire di Edhellond, mentre costui difendeva una colonna di elfi silvani sorpresi dall’attacco dei Mumakil: in tal modo glorioso Morwin concluse la propria esistenza, silente custode della propria fama e della propria amarezza.

Di Elwen, non v’è più traccia certa nelle storie della Terra di Mezzo; certuni affermano che visse per qualche tempo a nord, nella regione del lago di Vesproscuro, governando con sapienza gli uomini e gli elfi di quella remota regione insieme ad Erfea; taluni, invece, dicono che Elwen non sia mai giunta ad Edhellond, dove il Dunadan l’attendeva impaziente, e che sia stata uccisa lungo la strada, allontanandosi così per sempre dalla Terra di Mezzo, soddisfacendo in tal modo il suo fanciullesco desiderio e portando nel proprio petto il ricordo dell’amato Erfea, ultimo dei grandi capitani dell’Ovesturia ad aver traversato indenne un’epoca cosi turbolenta.

Note

[1] Nell’anno 3277 S. E., le armate di Dwar avevano compiuto scorrerie nel Calhenardon, minacciando Lorien: timorosa di un massiccio attacco al suo reame, Galadriel aveva chiesto ed ottenuto l’appoggio delle schiere di Edhellond, per mezzo delle quali il nemico era stato respinto.

[2] Si ignora a quale contrada facessero allusione tali parole; è verosimile, tuttavia, che Elwen si fosse riferita al Lindon, la regione più occidentale di Endor, ove vivevano in quei giorni molti della sua stirpe.

[3] Si veda anche Oropher o del cattivo Fato degli Elfi

Elwen la Mezzelfa

Per cavalleria, dopo Miriel, passo a presentare l’altro personaggio femminile del Ciclo del Marinaio, Elwen la Mezzelfa, figlia di una Noldo di Edhellond, una piccola città elfica situata nel Gondor meridionale, e di un uomo numenoreano, del quale però non conosciamo il nome. Si tratta di un personaggio opposto e complementare rispetto a Miriel: laddove la principessa di Numenor è una donna dolce, riflessiva, ma anche immatura rispetto al ruolo che il Fato le ha riservato, Elwen, invece, è orgogliosa, decisa a reclamare ciò che ritiene, a torto o a ragione, suo, passionale, irrequieta come il Mare cui anela e che nel suo cuore sa essere il suo vero amore. L’unico attributo che potrebbe unirle è quello di una profonda irrequietezza, per la mezzelfa legata alla sua difficile condizione di non sentirsi appartenere nè agli Uomini nè agli Elfi, per la numenoreana, invece, dettata dal presentimento triste della fine della sua Isola e della sua gente in modo tragico. Il destino di Elwen era stato preannunciato implicitamente dalla madre al momento della sua nascita:

«Sacra a Elbereth sarà questa nostra figlia – fece notare la madre rivolta a quanti le stavano vicino – ma un’ombra le aduggia il capo, ché tuttavia la sua parte mortale ne risentirà quando il momento della scelta verrà, inevitabile e terribile» (Ciclo del Marinaio, p. 129).

La difficile scelta fra due amori diversi, uno più somigliante al suo carattere, il sire elfico Morwin di Edhellond, l’altro diverso, Erfea di Numenor, ma capace di risvegliare in lei una fanciullesca curiosità, ben rivela il suo animo ancora “adolescente” rispetto a quello di Miriel, costretta a crescere più in fretta, non solo per una diversa natura biologica (l’una umana, l’altra solo in parte), ma anche per le incombenze di governo che premevano sul suo capo.

«Mai in Elwen si estinse il desiderio del bianco mare, nemmeno quando i tempi mutarono […]. Tuttavia, in un primo momento, tale desiderio fu soffocato dal suo cuore, ché non riteneva fosse giunto il momento di allontanarsi dalle città di Endor, e molte erano le bellezze che ancora non conosceva; inoltre ambiva alla potenza degli avi di sua madre, sembrandole la massima vetta del potere. Tali erano dunque i suoi pensieri quando in quelle contrade il nome di Erfea Morluin iniziò a diffondersi, facendo germogliare nel suo animo una fanciullesca curiosità. Non era gli forse un Uomo del mare proveniente dalle gloriose città di Elenna? Grande invero era la sua curiosità, ma ancora più profondo in lei era radicato il desiderio della gloria, e un mortale, seppur Numenoreano, ben poca cosa le pareva rispetto ai visi gravi e saggi degli Eldar di Edhellond» (Ciclo del Marinaio, p. 130).

A differenza di Miriel, Elwen è un personaggio che non esiste in alcun racconto di Tolkien: ispirata a Arwen, della quale, tuttavia, capovolge integralmente il destino ultimo, rappresenta la difficile condizione di un individuo che fallisce nel percorso personale di vita piuttosto che in quello pubblico. A pensarci bene, sia che Miriel che Elwen sono due personaggi fallimentari, sia pure in modo molto diverso: il fallimento della loro esistenza conduce dolore e sofferenza a quanti sono loro vicini e tuttavia lascia come ultimo retaggio la possibilità di tramutare il dolore in consapevolezza, in maturazione.

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