Il Ciclo del Marinaio è anche su Wattpad!

Care lettrici, cari lettori,
sono felice di annunciarvi che da qualche giorno «Il Ciclo del Marinaio» è anche su Wattpad! Ho fatto questa scelta perché mi sono reso conto di un aspetto problematico rappresentato dalla struttura del mio blog: la difficoltà di procedere nella lettura del romanzo in modo progressivo e ordinato (evidente soprattutto per i nuovi lettori). A mia discolpa (almeno parziale) devo confessare che le mie intenzioni, quando aprii il mio blog un paio di anni fa, erano molto diverse da quelle attuali: pensavo di limitarmi a presentare solo alcuni personaggi del Ciclo del Marinaio, senza entrare nei dettagli della storia. Incoraggiato dai vostri apprezzamenti ho deciso poi di proseguire nell’approfondimento dei racconti che costituiscono il mio romanzo…e il resto lo sapete.
Per il momento ho caricato su Wattpad una buona parte del primo racconto, intitolato «Il Racconto del Marinaio e del Messere di Endore» e continuerò ad aggiornare frequentemente la mia pagina.

Per leggere le mie storie vi basterà aprire la seguente pagina web: https://www.wattpad.com/home e inserire le parole «Ciclo del Marinaio» nel motore di ricerca del sito.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti! Questo pomeriggio caricherò sul mio blog, invece, il seguito dell’incontro tra Erfea e Gil-Galad.

La bellissima immagine che vedete in alto è opera di Emanuele Manfredi Gallery e potete ammirarla anche nella sua pagina facebook:  https://www.facebook.com/EmanueleManfrediGallery/photos/a.696568877024130/3429349947079329/?type=3&theater

In realtà, nelle intenzioni dell’Autore, rappresenta una celebre icona animata degli anni Ottanta: She-Ra, la cugina del celebre He-Man. A me, invece, ha subito ricordato la bellissima Ariel, l’Amazzone che combattè al fianco dell’Alleanza nella difesa di Osgiliath…e non vi dico altro, se non ricordate la sua storia (o se volete rileggerla), vi suggerisco di cliccare qui.

Gil-Galad, l’Alto re degli Elfi

Una figura affascinante, della quale, tuttavia, conosciamo molto poco è senza dubbio quella di Gil-Galad, l’Alto Re degli Elfi che ancora vivevano nella Terra di Mezzo ai tempi dei Numenoreani. Questo personaggio, pur avendo contribuito alla sconfitta di Sauron nel duello finale combattuto lungo le pendici del Monte Fato, rimane tuttavia un soggetto di secondaria importanza nelle opere tolkieniane. Nel «Signore degli Anelli» Sam recita un componimento epico che porta il suo nome, ma per il resto non siamo in grado di apprendere molto di questo sovrano, fatta eccezione per le tragiche circostanze in cui trovò la morte (potrete leggere la mia versione del duello finale tra lui e Sauron qui) e per il nome della sua arma, la temibile lancia Aeglos («Punta di neve», un nome molto suggestivo, a mio parere). L’unico racconto (almeno fra quelli tradotti in italiano) nel quale assume una rilevanza maggiore è quello di Aldarion ed Erendis (Racconti Incompiuti): una sua lettera, infatti, trasmessa da Aldarion al padre di questi, il sovrano di Numenor, segnala, per la prima volta nella Storia della Seconda Era, il risveglio del Male nella Terra di Mezzo, che era stato creduto a lungo sconfitto per sempre dopo la caduta di Morgoth, alla fine dell’epoca precedente.

Per questa ragione ho voluto attribuire un maggior spazio a Gil-Galad nei miei racconti: non quanto, forse, ne meriterebbe – lo ammetto, sono più a mio agio nel descrivere gli Uomini rispetto agli Elfi, che considero una creazione squisitamente tolkieniana – ma abbastanza per delineare il ritratto di un sovrano Noldo: gentile, ma al tempo stesso inflessibile. Erfea aveva conosciuto questo personaggio già nel corso della sua giovinezza, allorquando ricevette dalle sue mani la spada Sulring (potrete leggere qui l’episodio citato): la loro amicizia perdurò negli anni, nonostante la distanza geografica che li separava, finché i due non ebbero occasione di parlarsi nuovamente, all’inizio degli eventi che condussero alla Battaglia della Dagorlad dinanzi ai Cancelli Neri di Mordor.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Lenta, l’abile mano di Gil-Galad, Alto sovrano dei Noldor in esilio, vergava esili rune sulla chiara pergamena che si estendeva sotto il suo pensoso sguardo; nessuno era con lui in quella tarda ora del vespro, ché le truppe degli eserciti dell’Alleanza riposavano inquiete sotto un cielo grave di presagi. Remote, le stelle di Varda illuminavano la silenziosa piana che si estendeva dinanzi ai lugubri Cancelli di Mordor, al di là dei quali si ergeva la dimora dell’Oscuro Signore Sauron, Forgiatore degli Anelli e re degli uomini dell’Oriente.

Nessun suono proveniva dalle dimore che gli altri comandanti avevano eretto intorno alla sua, in omaggio alla maestà dell’erede di Fingon; eppure, fra costoro, vi era ancora chi si attardava a prendere riposo e vegliava inquieto. Sorrise Gil-Galad, ché gli era nota l’identità di tale capitano e sebbene i suoi acuti sensi percepissero l’irrequietezza agitarsi nell’animo del condottiero, pure vi era letizia nel suo cuore, ché ben conosceva il coraggio di colui che condivideva molte delle sue pene.

Le argentate Tengwar brillavano sui fogli che giacevano accanto al calice del sovrano, eppure nel suo cuore grave era scesa una minaccia e nessuna luce era in grado di rischiarare la tenebra che dai colli di Mordor si propagava tutt’intorno a loro; lesto, tuttavia, si scosse da tali tetri pensieri, allorché udì le sentinelle poste dinanzi all’ingresso della sua tenda ergersi e rivolgere cortesi parole di benvenuto nella loro primogenita favella.

Un’ombra si fece largo nell’ampia dimora che il sire elfico occupava fin da quando il suo esercito, disceso lungo gli ampi e frastagliati crinali degli Emyn Muil, era giunto dinanzi a Mordor per porre l’assedio alla fortezza del Maia caduto, servo dell’antico nemico dei suoi padri; imponente, la figura dell’inatteso ospite si ergeva innanzi a Gil-Galad, il viso e le membra occultati da una cappa un tempo nobile e ora logorata dalle fatiche e dagli anni ormai trascorsi. In Quenya costui aveva rivolto la parola agli elfi che sostavano all’ingresso, eppure non era un Priminato, ma un uomo della stirpe dei Numenoreani, signori fra gli Uomini ed eredi degli Edain che sostennero la causa degli Eldar nei secoli precedenti la caduta di Morgoth, l’Oscuro Signore del Mondo.

Lieto era in volto il sire dei Noldor, ché vi erano solo quattro mortali il cui ingresso nella sua dimora sarebbe stato salutato con tale entusiasmo dalle severe guardie; tre fra essi erano Elendil ed i suoi eredi, Isildur ed Anarion, sovrani dei regni di Arnor e Gondor: luminosi erano i loro sguardi, sì che essi parevano più simili a coloro che fanno ritorno ad Aman piuttosto che ai mortali cui la Sorte riserva il sonno eterno; eppure, neanche tali campioni tra gli uomini potevano vantare gloria e sapienza, procurate in innumerevoli anni trascorsi nelle gelide steppe e nelle infide corti di regni ormai obliati, come colui che era ora dinanzi al Signore degli Elfi.

“Ayia, Gil-Galad[1] pronunciò il visitatore, dopo essersi inchinato leggermente; infine si sedette e, facendo scivolare via il logoro manto, rivelò la sua identità al figlio di Fingon.

“Mae Govannen Erfea Morluin[2] – gli rispose l’Alto Sovrano dei Noldor – Tarda è l’ora, eppure foriera di sventure quali mai i figli di Iluvatar hanno affrontato. Molti sentieri hai percorso nel corso dei tuoi lunghi anni, sebbene il tuo sembiante non sembra essere affatto mutato; grave è tuttavia il tuo sguardo ed il mio cuore non può fingere di ignorare quanto i tuoi pensieri hanno a lungo celato agli altri uomini”.

“Ignoravo che tali antiche storie non fossero state obliate nel regno di Lindon, sovrano dei Noldor; eppure non sono giunto alla tua dimora in cerca di consiglio, ma per rivelare quanto i miei sensi hanno appreso in queste ore oscure”.

A lungo lo fissò Gil-Galad, infine, con un gesto cortese, ma grave, lo invitò a prendere posto dinanzi a lui; anziano era adesso il figlio di Gilnar, ché ben pochi, finanche tra la sua stirpe, erano mai giunti al terzo secolo di esistenza, eppure il suo corpo non aveva perduto nulla della sua antica possanza e Sulring la Splendente cingeva ancora saldamente il fianco del Numenoreano: numerosi ricordi balenarono nella mente del sovrano ed egli sorrise nuovamente:

“Ben m’avvedo quanto il mio dono ti abbia servito fedelmente nel corso delle tue amare peregrinazioni, Sovrintendente di Gondor; rimembri quanto la mia bocca pronunziò un tempo?”

Lesta fu la risposta di Erfea, ché egli non aveva mai obliato quanto era accaduto molti anni prima, allorché egli era un fanciullo e Numenor la sua patria: “Mi dicesti che il mio sentiero sarebbe stato arduo a tal punto che innumerevoli occasioni si sarebbero presentate perché io lo smarrissi e cadessi nell’oblio della menzogna e dell’inganno; tuttavia, non solo consigli ed ammonimenti mi rivolgesti quel giorno, ché un inestimabile dono mi fu consegnato, affinché le mie fatiche potessero sembrarmi meno gravi e io potessi trovare un sostegno al quale aggrapparmi qualora il fortunale si fosse abbattuto su di me”.

Sorrise lievemente Gil-Galad: “Ricordi bene, figlio di Gilnar; tuttavia – concluse con tono grave – altri doni, ben più grandi del mio hanno permesso al tuo spirito di perdurare sino ad oggi. Possa la grazia dei Valar assistere sempre la tua stirpe!”

Annuì Erfea, infine parlò a sua volta, rivelando il motivo per il quale era giunto a chiedergli udienza: “I nostri esploratori riferiscono che il Nemico ha fortificato l’entrata alla Terra Nera con poderose torri ed imponenti cancelli; all’interno di essi, occultati dalla mole massiccia degli Ephel Duath e degli Ered Lithui, schiere di uomini ed orchi attendono, impazienti di misurarsi con gli eserciti dell’Ovest.”

“Invero, tali notizie non costituiscono per me motivo di sorpresa, ché sarebbe stato troppo azzardato sperare che Sauron avesse sacrificato nel suo assedio a Gondor più Uomini di quanti non ne avesse ancora avuti a disposizione nella difesa del suo regno. Suvvia, Dunadan, non sarai giunto a me solo con tali resoconti, ché essi non possono colmare di smarrimento il tuo cuore, né il mio. Rivelami dunque quali sono i timori che nutri in tale ora oscura”.

Sospirò il Sovrintendente di Gondor, infine, afferrata una mappa delle contrade di Mordor, parlò a Gil-Galad in questi termini:

“Sappi, mio signore, che Sauron non ha obliato nulla di quanto desiderava ottenere; i suoi schiavi sono stati mobilitati ed egli si appresterà a colpire molto presto, per tema che nuove schiere possano unirsi alle nostre, arrecando terrore e panico tra le sue fila; egli, tuttavia, è un essere astuto e saggio, e non consentirà mai ai nostri eserciti di sfidare i suoi servi su campo aperto, confidando, invece, nelle robuste fortificazione del Morannon[3]”.

Rapida, la mano di Erfea si mosse sulla mappa, fino ad indicare gli Emyn Muil: “Sappiamo altresì che il punto debole dei nostri nemici è costituto dalla cavalleria, ché i loro destrieri non sono paragonabili a quelli che servono nelle nostre fila; è necessario, dunque, premere la loro fanteria con i cavalieri dell’Alleanza, se vogliamo sperare in una vittoria, la quale, ahimè, costerà alle libere genti un alto e gravoso tributo di sangue”.

“Le tue preoccupazioni sono le mie, Sovrintendente di Gondor, ma non comprendo per quale motivo tu mi stia indicando i bruni colli che si estendono alla sinistra dell’Anduin; il Nemico non spingerà mai le sue truppe così lontano e non vi è speranza dunque di attrarle in un luogo simile”.

“Quanto affermi corrisponde a verità; tuttavia, non è a tale scopo che ti ho indicato l’ubicazione degli Emyn Muil, ché non è mio intento condurre i nostri nemici in una imboscata, bensì nascondere i nostri cavalieri al riparo dalle possenti rocce frastagliate che ivi si ergono”.

“Curiosa mi pare tale strategia e se non ti conoscessi bene, Erfea figlio di Gilnar, direi che stai vaneggiando: a che pro nascondere le nostre schiere di Lindon e degli uomini del Rhovanion in una località posta a settentrione, quando invece la battaglia si svolgerà molto più a sud?”

Soddisfatto parve Erfea allorché il sovrano degli elfi gli pose una simile domanda ed egli rispose lesto: “La nostra speme risiede nella vanagloria del nemico; se noi contribuiremo ad alimentarla, essa non farà altro che procurarci l’agognata vittoria; quando, infatti, l’Oscuro Signore si renderà conto che solo i fanti difendono i nostri accampamenti, allora invierà contro di noi molte schiere e avremo l’occasione di sterminarle tutte, ché la nostra cavalleria così occultata, avrà facoltà di cogliere alle spalle i fanti di Mordor, chiudendoli in una stretta mortale”.

A lungo rifletté Gil-Galad su tale proposta, infine, scuotendo il capo, pronunciò tali parole: “Invero, mi sembra una tattica audace e pericolosa per le nostre truppe, ché il Nemico potrebbe inviarci contro solo alcune tra le sue schiere scelte, per massacrarci tutti, mentre la cavalleria potrebbe non arrivare in tempo per salvarci; oppure, se Sauron si comportasse come tu dici, i suoi eserciti potrebbero essere in numero tale da vincerci sul campo aperto; in tal caso, l’intera Terra di Mezzo cadrebbe sotto il giogo della Tenebra. Molti rischi sono insiti in simili strategie e non tutti conducono al medesimo obiettivo”.

“Gil-Galad, se anche le nostre schiere fossero dotate di armi d’assedio simili a quelle che la tua gente progettò ed adoperò contro Morgoth durante la Seconda Battaglia del Beleriand, credi che il Morannon cadrebbe? O non ritieni, piuttosto, che sarebbe la fine per i Popoli Liberi? Ogni giorno che trascorre, un numero crescente di contadini e pastori abbandona la lunga falce e il nodoso bordone di faggio per impugnare la spada e la lancia; se l’assedio a Mordor dovesse durare molti anni, credi che vi sarebbe davvero la possibilità di ricevere vettovagliamenti simili a quanti finora le nostre schiere hanno abbisognato? Il Nemico possiede campi e fattorie poste a Sud, più di quante tu ne possa immaginare; seguendo l’antico percorso degli Haradrim, carovane cariche di oro, metalli e vettovaglie giungono a Mordor, ove i loro carichi vengono smistati e destinati alle creature che servono l’Occhio Senza Palpebra.
Se il nostro attacco non sarà fulmineo, saremo destinati a perire non già per la guerra, ma per la fame”.

“Tu mi chiedi molto, figlio di Gilnar – sospirò l’Alto re dei Noldor – eppure, ben m’avvedo che sarebbe follia perseguire oltre questo sterile assedio, ché sono ormai trascorsi numerosi mesi dacché ci impadronimmo di tale contrada e costringemmo le schiere di Sauron a riparare entro le loro mura; come topi li rinchiudemmo in gabbia, eppure, adesso, il cacciatore si è tramutato in preda e questa in implacabile segugio!”

Erfea lo guardò silenziosamente, infine, prima di prendere congedo e ritirarsi nella sua tenda, così salutò il figlio di Fingon: “Ricorda quanto ti dico; le schiere di Sauron colpiranno presto, anche in inverno, se necessario, perché esse sono spronate da una volontà crudele, che punto o poco si cura di coloro che la servono”.

Silente e scuro in volto, Gil-Galad tornò a sedersi sul suo scranno, invano scrutando tra le ombre, ché non vi era luce in grado di rischiarare il suo animo, provato dalle numerose fatiche di quei giorni ormai remoti».

Note

[1] “Salve, Gil-Galad” in Quenya.

[2] “Benvenuto, Erfea Morluin” in Quenya.

[3] Nella Seconda Era, complesso di fortificazioni erette dall’Oscuro Signore a difesa del suo regno e situate fra le propaggini occidentali degli Ered Lithui e quelle settentrionali degli Ephel Duath.

Consigli di Lettura

L’incontro fra Erfea e Gil-galad

L’ultima battaglia della Seconda Era

…Eccoci al bis! 2 anni di blog

Care lettrici, cari lettori,
la scorsa settimana – il 13 marzo per essere precisi – il mio blog ha compiuto due anni. Ho aspettato qualche giorno per parlarvi di questa ricorrenza perché ero in attesa di ricevere aggiornamenti su un progetto portato avanti da due miei amici, Gemma e Livio, che sono anche bravissimi doppiatori. Qualche tempo fa Gemma – che è stata, tra l’altro, la primissima lettrice in assoluto de “Il Ciclo del Marinaio” – mi sottopose un progetto «inaspettato» che – giunto adesso a piena realizzazione – voglio condividere sul mio blog. Non intendo svelarvi altro, per non rovinarvi la sorpresa, se non porvi una domanda: avete mai desiderato ascoltare la voce di Erfea e di Miriel, i due principali protagonisti de “Il Ciclo del Marinaio”? Se la risposta è affermativa, vi suggerisco di guardare (e soprattutto ascoltare) il seguente video su youtube…

Prima di lasciare spazio ai vostri commenti e pareri, non mi resta che ringraziarvi per avermi seguito in questi ultimi 12 mesi: sono soddisfatto dell’andamento del mio blog, perché sono aumentati sia i visitatori che gli apprezzamenti e questo non può che farmi piacere. Un ringraziamento speciale lo devo a Federico Aviano che con la sua fantastica (e forse immeritata, lo confesso) recensione ha contribuito a fare conoscere al pubblico i miei racconti in questi ultimi mesi. Potrete leggerla qui.

Alla prossima, spero che questo primo esperimento vocale vi sia piaciuto!

L’assedio di Minas Ithil (parte VII). La reggenza di Erfea

Care lettrici, cari lettori,
riprendo con questo articolo la narrazione dell’assedio di Gondor da parte delle armate del nazgul Adunaphel. Nel precedente articolo L’Assedio di Minas Ithil (parte VI). Una tragica ritirata avete letto dell’abbandono della Città della Luna da parte dei civili e dei soldati numenoreani, ormai ridotti in condizioni tali da non poter più opporre resistenza ai nemici soverchianti. Questo sarà l’ultimo capitolo di questa serie: a partire da questo momento, infatti, i lettori che vorranno seguire le avventure di Erfea a comando dell’esercito di Gondor, dopo il ferimento e successivo stato di coma raggiunto da Anarion, avranno a disposizione una nuova serie di articoli che riguarderanno gli sviluppi della situazione bellica: i combattimenti, infatti, dopo la caduta di Minas Ithil, si spostarono verso la Città delle Stelle, come era allora chiamata la capitale del Regno di Gondor. Potrete, dunque, continuare la lettura qui: In difesa di Osgiliath (I parte).

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Meneldur, erede di Anarion, ricevette Erfea, allorché costui ebbe terminato il proprio turno da guardia, nella sala del trono ed ebbe con il Sovrintendente un breve colloquio. “La sovranità del regno di Gondor resterà nelle mani dei discendenti di Isildur, a meno che un oscuro flagello non conduca tutti noi verso un’amara morte; tuttavia vorrei che Erfea Morluin assumesse il comando delle armate di Osgiliath e di tutti i nostri bastioni in tale contrada, ché tale sarebbe stato anche il desiderio di mio padre se egli fosse stato cosciente; notevole fama hai acquisito in questi lunghi anni di esilio e fra i soldati della Guardia corre voce che nessuno sia più lesto di te nel manovrare la spada. Possa tu condurci alla vittoria finanche in tale ora oscura”.
Dopo essersi inchinato, Erfea parlò: “Se tale è la volontà dell’erede del re di Arnor e Gondor, ebbene, non sarò io a metterla in discussione. Farò quanto tu chiedi e possa la grazia dei Valar permettere a tuo padre di sopravvivere ai mali di quest’epoca”.
Nessun’altra parola fu pronunciata fra i due né quel giorno, né i giorni seguenti, ché il Sovrintendente presenziava numerosi consigli, intento a programmare la difesa della città di Osgiliath, mentre Meneldur giaceva accanto al capezzale del proprio padre, silente come le statue del Rith Dinen[1] e pallido in volto.
Il giorno seguente l’evacuazione da Minas Ithil, un messaggero giunse alla Città delle Stelle, recando con sé notizie gravi, sebbene ormai prevedibili; una possente flotta, quale non se ne vedeva una simile da numerosi anni, aveva assaltato Pelargir nel Sud; la città era stata sguarnita e la sua popolazione si era rifugiata a Dol Amroth e ad Edhellond.

“Non fu tuttavia il terrore delle vele provenienti da Umbar a colmare il nostro cuore di panico, né l’udire il suono di centinaia di corni echeggiare nella calma aria del mattino – riferì il messaggero – ma la visione di due oscure figure, quali mai la nostra gente aveva scorto dacché la città era stata fondata. Esse si ergevano sulla poppa di una fra le navi più splendide che i miei occhi abbiano mai mirato; lunga quaranta metri, le sue lucide fiancate nere lambivano l’acqua e tuttavia sembravano sfiorarla appena; letale era però il suo equipaggiamento bellico e le sue baliste ripetutamente crivellavano di colpi i nostri bastioni. Feroce fu l’attacco ma non meno disperata la nostra difesa; scagliammo frecce in gran quantità e numerose navi presero fuoco, sicché parve che le acque del fiume stesso bruciassero.
Il nemico, tuttavia, non sembrò tenere in gran conto la nostra minaccia, e continuò l’attacco per quattro giorni e quattro notti, sempre, così parve, con il suo malefico occhio volto a settentrione. Due notti fa, le vedette sulle mura avvistarono una grande nube di fumo levarsi da nord e gli animi di tutti, pur nulla sapendo di quanto avveniva in tal contrade, furono presi da grande terrore e sgomento; le schiere dell’avversario, al contrario, presero ad esultare e la furia del loro attaccò sembrò centuplicata: macchine forgiate nelle loro fucine comparvero sul ponte delle loro navi ed esse erano ignote ai nostri occhi; fin troppo presto, tuttavia, ne apprendemmo lo spaventoso uso che il nemico si apprestava a farne, ché esse scagliarono contro le nostre mura un gran quantità di proiettili di svariate dimensioni, gli uni più piccoli, gli altri più grandi, finché numerose crepe non si aprirono al loro interno e i nemici non si furono impadroniti del cancello e dei bastioni che si ergevano attorno ad esso, sicché la nostra difesa divenne impervia e tutti coloro che non potevano impugnare un’arma furono costretti ad abbandonare la città, le cui fiamme spettrali si riflettevano sulle acque del mare per molte miglia intorno.
Invano sperammo che rinforzi potessero giungere in nostro soccorso da Osgiliath; infine, al sorgere del nuovo sole, la nostra gente si mise in viaggio ed ora dimora nelle grotte che si ergono nei colli a nord; i soldati, tuttavia, non vollero abbandonare le armi e proseguirono nella lotta, ritirandosi in buon ordine nelle cerchie interne della città, ove l’assedio ancora prosegue. Io fui mandato da Herugil, signore di Pelargir, a domandare l’aiuto dei nostri sovrani in un’ora sì buia per la nostra città”.
“Riferisci al tuo signore che non vi è altro conforto per il vostro popolo che la spada, né un destino differente dalla guerra, ché le armate di Mordor sono prossime alla città di Osgiliath; Minas Ithil è caduta quattro giorni fa e molti soldati sono stati uccisi nella sua difesa e durante la ritirata che a essa ha fatto seguito”.
Tali furono lo sgomento e il timore che si dipinsero sul volto del messaggero, che costui abbandonò la sala senza pronunciare parola; Erfea, tuttavia, non lo fermò, ché non vi sarebbe stata parola tale da poter arrestare il corso degli infausti eventi. Lesti, i soldati della Guardia si schierarono sui bastioni e lungo le mura di Osgiliath, mentre solo la voce del vento si udiva in tutta la pianura; forte echeggiava il vento del Sud in quella ora oscura, sicché ogni altro suono venne ridotto al silenzio; e, tuttavia, fu un bene, ché se il suo canto fosse venuto meno, gli uomini avrebbero ascoltato solo il terrore albergare nei loro cuori e lo spavento echeggiare negli oscuri antri della mente.

La grande città di Osgiliath era stata edificata sulle due rive del fiume Anduin ed i suoi alteri palazzi, le sue imponenti torri e le austere terrazze erano difesi da bastioni e fortificazioni che correvano lungo il suo perimetro esterno: non vi erano che due soli accessi per entrare nella città, ed entrambi erano stati collocati da mani sapienti al termine di due imponenti strade, le quali, inerpicandosi lungo i bastioni esterni, conducevano ai cancelli orientale e occidentale; qualunque nemico che avesse voluto raggiungere i massicci portoni in quercia che si ergevano alla sommità dei due percorsi fortificati, avrebbe dovuto esporsi al tiro di numerosi arcieri collocati all’interno di invisibili torri e lungo i camminamenti che ne univano le strutture.

Bella, eppure micidiale, la capitale del regno di Gondor ammaliava il forestiero con la medesima grazia con la quale gli si sarebbe accanito contro, qualora costui avesse voluto farne scempio; nessun mortale avrebbe avuto la follia di prendere d’assalto i suoi poderosi bastioni o le sue imponenti torri.

Non era però un rozzo abitante dei colli, né un sudicio Orco di caverna che giungeva a sfidarne la potenza, ma una creatura imbevuta di odio e ambizioni pari a quelle che un tempo mossero Morgoth, l’antico nemico, contro la fiorente città di Gondolin; a lungo gli eserciti di Mordor erano stati addestrati all’uopo e ora giungevano per appropriarsi di quanto desideravano conquistare; torri mobili erano spinte innanzi da creature mostruose, più simili a bestie che ad uomini, mentre fitte schiere di Orchi, ne circondavano le mura, facendo risuonare a lungo gli scudi in segno di sfida; eppure, la città non tremò e il sussulto di paura che era germogliato nel cuore degli Uomini tosto disparve, ché Osgiliath era ben fortificata e finanche la potenza delle schiere del Nemico poteva punto o poco contro di essa: frecce erano scagliate dalle feritoie e dai merli, né gli Orchi riuscivano a superare il fossato senza subire gravi perdite, ed essi non avevano recato con loro alcun natante per superarne le gelide e profonde acque.

Accadde dunque che la città resistette a lungo, oltre le aspettative di Adunaphel, la quale ardeva invero di ottenere la sua vendetta sui Dunedain scampati alla Caduta; al termine del quindicesimo giorno dacché l’assedio aveva avuto inizio, i cavalieri della città uscirono per compiere una sortita a cavallo, al fine di incutere terrore nelle schiere di Mordor; allora i servi di Sauron si sparpagliarono come le foglie nell’autunno e la vittoria arrise ai figli di Gondor.
Lieti furono i cuori dei Secondogeniti quella sera e canti si levarono da ogni vicolo della città; solo Erfea non condivideva tale entusiasmo e il suo animo rimaneva impassibile, ché non aveva obliato la potenza delle armate di Sauron, né aveva ignorato che gli Orchi erano stati condotti dinanzi alla mura di Osgiliath non già per raderla al suolo, ma per verificare la resistenza della Guarnigione e della fortificazioni, allo scopo di mostrare al Nemico quali fossero i punti deboli della Città.
È stato detto che i Numenoreani avessero una vista sì acuta da scorgere un bersaglio a molte leghe di distanze; pure, sebbene tale notizia corrispondesse al vero, solo il Sovrintendente individuò nove remote figure a cavallo stagliarsi sui colli che si ergevano ad Oriente, simili a statue silenti eppure remote; parola non avevano sussurrato, eppure Erfea non ebbe dubbi sull’identità che i loro abiti neri occultavano alla vista degli uomini: essi infatti erano gli Ulairi, gli schiavi dell’Anello e nessun’azione bellica era sfuggita ai loro rapaci occhi, ché vi sono altri sensi oltre la vista e l’udito ed invero i Nazgul erano profondi conoscitori delle arti del Nemico ormai obliate. A lungo i nove capitani di Sauron ristettero sul colle, infine, allorché i loro eserciti furono sconfitti, svanirono ad Oriente e più furono visti per lunghi giorni; ultimo a svanire nella bruma della sera che strisciava dai Monti Bianchi, fu colui che in seguito avrebbe condotto possenti e feroci armate contro la città degli uomini del mare; una ferrea corona ne incorniciava il volto e nulla di questo era visibile, ad eccezione degli occhi, la cui malvagità sembrava irradiarsi a tutto il corpo: ignoto era agli uomini dell’epoca il suo sembiante, eppure, se avessero avuto follia a sufficienza per approssimarsi, tremanti, innanzi al suo spaventoso destriero, avrebbero scorto delle rune intarsiate lungo tutto il suo elmo e infine la sua origine sarebbe stata rivelata, ché codesto era l’elmo di Tar-Ciryatan, undicesimo sovrano di Numenor.
Colui che ora si arrogava il diritto di indossarlo, altri non era che il secondogenito di costui: Er-Murazor era il suo nome tra i Numenoreani Neri ed egli era noto anche come il Signore dei Nazgul, capitano delle legioni di Mordor; per qualche istante il suo sguardo si posò su Erfea che lungi l’osservava, infine svanì nella bruma vespertina, recando con sé letali giuramenti di vendetta contro colui che, anni prima, ne aveva impedito la vittoria.

I giorni successivi furono allietati dalle feste e dai canti che accompagnarono la celebrazione della vittoria sugli eserciti di Mordor, resi ancor più dolci dalle notizie che giungevano da Nord e da Sud: infatti, sebbene la città di Pelargir fosse stata incendiata dalla flotta comandata da Akhorahil ed Indur, i soccorsi prestati ai Dunedain dagli elfi di Edhellond avevano condotto alla resa degli avversari, le cui imbarcazioni giacevano ora nel profondo del mare del Belegaer; al guado di Carrock, inoltre, gli eserciti degli Eothraim scampati ai massacri e ai saccheggi perpetuati da Hoarmurath, si erano alleati agli elfi di Lorien e alle altre stirpi di Uomini che abitavano le vaste contrade del nord e avevano messo in fuga le avanguardie del nemico, impedendo ai suoi Orchi di conquistare la contrada dell’Alto Anduin e le terre del Rhovanion occidentale.

Tali erano dunque gli avvenimenti delle ultime settimane, ché i Popoli Liberi sembravano aver impedito il sorgere di una seconda oscurità su Endor; ma la vigilanza degli Uomini venne meno ed essi si gloriavano per quella che credevano essere stata una grande vittoria sulle forze di Mordor; Isildur, tuttavia, era giunto ai lidi del Lindor ed ivi aveva esternato a Gil-Galad, l’alto re dei Noldor in esilio, e a suo padre Elendil, sovrano di Arnor, le inquietudini che nutriva nel suo cuore, ed essi avevano convenuto con lui che era necessario consentire ai capitani delle liberi genti e ai Saggi di incontrarsi per deliberare sulle sorti di Endor, onde assicurarsi che il pericolo di Sauron fosse o meno reale; indi, rapidi messaggeri erano stati inviati in tutti i reami ove erano ancora ascoltate le parole dei Valar e fu stabilito che il concilio si tenesse ad Orthanc, la poderosa e solitaria fortificazione che i Numenoreani avevano edificato negli anni successivi alla Caduta all’estremo sud delle Montagne Nebbiose.

Le storie di quei giorni ricordano che fra coloro che presero parte al concilio, vi fossero Gil-Galad, Galadriel, Celebrian ed Elrond per i Noldor; Oropher[2] e Cirdan per i Sindar; Elendil, Isildur ed Erfea, in qualità di sovrintendente e rappresentante del regno di Gondor, ché era ancora infermo Anarion, per i Dunedain; Aldor Roc-Thalion per gli Eothraim e gli uomini del Nord e Naug Thalion e Groin per i nani di Khazad-Dum; ma poiché di tale avvenimento si narra altrove[3], qui non se ne trova resoconto completo.

A lungo discussero i sovrani e i rappresentanti dei Popoli Liberi, ché l’attacco di Sauron aveva colto di sorpresa ognuno di loro, eccetto Erfea e Gil-Galad, supremo re dei Noldor, né vi era concordia sulla strategia da adottare per contrastare le mire egemoniche del Nemico, ché vi erano ancora ostilità, solo a stento soffocate da uno sterile formalismo, tra i Naugrim ed i Sindar di Oropher[4], ed i Silvani non desideravano riconoscere come comandanti supremi dei loro eserciti gli orgogliosi Noldor; fu in tale frangente che molti dei frutti concepiti da Eru Iluvatar e benedetti dalle lacrime di Yavanna, germogliarono freschi e limpidi, ché gli spiriti dei Dunedain, non rosi da alcun astio o risentimento verso le altre Libere Genti, si applicarono affinché tali contrasti in seno al Concilio fossero superati in nome del buon senso e dell’impellente necessità di condividere una strategia comune prima che il secondo attacco di Sauron piombasse sulle loro contrade.

Al termine di una settimana, dunque, fu approvata e firmata dalle parti contraenti un’Alleanza, il cui scopo primario era arrestare la minaccia di Sauron ai reami dei figli di Eru Iluvatar, e qualora le condizioni lo avessero reso possibile, di umiliare il nero spirito di Sauron, ricacciandolo nelle Tenebra dalla quale giungeva; ciascun popolo, secondo le proprie possibilità e i propri mezzi, avrebbe contribuito alla costituzione e all’armamento di un esercito quale non si vedeva dai tempi della Guerra d’Ira, allorché Morgoth fu abbattuto ed Endor, per alcuni tempi, liberato dalla lordura dei suoi servi.

Confortato da tali notizie, Erfea Morluin fece ritorno ad Osgiliath di gran carriera, ché notizie non gli erano giunte della sua patria ad Orthanc e il suo cuore molto temeva per la sorte di Anarion che ancora giaceva nell’oblio; nulla, tuttavia era accaduto nella città in sua assenza e Meneldur era sempre al capezzale del padre, le cui ferite, sebbene fossero state curate secondo l’arte dei Numenoreani, la cui scienza all’epoca non era ancora svanita dal mondo, pur recavano nei loro labbri un veleno invisibile ai guaritori della città; pallido era il viso del sovrano e a tratti sconvolto da dolorose smorfie che incupivano l’animo e il cuore di coloro che in quei giorni l’assistevano».

Note

[1] Con tale nome si indicava la strada ove erano situate le dimore dei morti a Minas Anor, oggi nota come Minas Tirith.

[2] Si veda l’Appendice F, “Il Consiglio di Orthanc”.

[3] Sovrano degli elfi silvani di Bosco Verde il Grande e padre di Thranduil, condusse la sua gente a  Sud e  perì durante il primo assalto ai Cancelli Neri di Mordor; si veda anche “Il Racconto del marinaio e della grande battaglia”.

[4] Tali rancori erano dovuti al ricordo, mai obliato dalla stirpe di Oropher, dell’assassinio di Thingol, re degli Elfi, da parte degli artigiani nani provenienti dalla cittadella di Nogrod, avvenuto nella Prima Era a causa del possesso del Silmaril: in realtà, nessuno degli assassini era sfuggito al giusto castigo, ché erano stati trucidati da Beren e dagli Ent; pure i Sindar avevano nutrito da quel dì avversione per i Naugrim, sebbene la stirpe di Khazad-Dum fosse stata estranea a tali vicende.

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Care lettrici, cari lettori,
siamo giunti al sesto appuntamento con la storia della guerra mossa da Sauron nei confronti del regno di Gondor alla fine della Seconda Era. Ho scelto come immagine per il mio articolo questa cartina, tratta dall’«Atlante della Terra di Mezzo» di K.W. Fonstad, che illustra le dimensioni del Regno di Gondor nel suo primo secolo di vita, compreso fra l’arrivo delle navi di Isildur e Anarion alla foce del fiume Anduin e l’inizio della guerra contro Sauron. Come potrete osservare, si trattava di un reame molto più piccolo rispetto ai confini che raggiunse nel corso della Terza Era. Ringrazio Federico Aviano, uno dei miei più affezionati lettori, per avermi dato indirettamente l’idea di mostrare questa mappa, scaturita in uno scambio di battute avute a commento del precedente articolo: in quel contesto, infatti, si ragionava sulle origini del regno di Gondor e mi è sembrato opportuno, dunque, rendere il concetto visivamente più chiaro a tutti i miei lettori attraverso questa mappa.

Si avvicina il secondo anniversario del mio blog…non posso giurarlo, ma mi farebbe piacere farvi una piccola sorpresa per quella data, tempo permettendo…stay tuned!

«Altri dettagli furono messi a punto in quella riunione e dopo due ore dacché il sole era tramontato, Isildur, scortato dai suoi cavalieri e dalla sua famiglia si accinse ad abbandonare il Reame del sud: triste fu il suo commiato ed egli si congedò da Erfea con tali parole: “Nell’abbandonare la Città della Luna, rinnovo a Erfea Morluin la fiducia che egli si è meritato in tanti anni di vigilanza; lungo tempo trascorrerà, tuttavia, prima che l’olifante dell’erede di Elendil possa echeggiare in queste terre, e molti altri eventi accadranno fino a quel momento; se il tuo cuore rimarrà saldo nella tempesta che è prossima ad abbattersi sulle nostre opere, allora il tuo animo troverà giusta ricompensa e l’amarezza che provi nel cuore sarà lenita”.

“Mio signore, invero il destino dei Secondogeniti è noto a Mandos soltanto e di rado le sue parole vengono sussurrate alle orecchie degli Uomini; tuttavia, possente è la lungimiranza della tua stirpe e può essere che tu intraveda eventi che devono ancora essere e che la mia anima non scorge, incapace di lacerare il velo che occulta infausti ricordi e che sapientemente ha tessuto in anni di esilio per mascherare il dolore della perdita”.

“Questo ti dico, Erfea figlio di Gilnar: il velo sarà squarciato, ché la morte ti sarà prossima; se tuttavia il tuo cuore saprà essere saldo in tale frangente, questo io non so prevederlo ché l’Oscurità incalza e ottenebrate sono le vie del mio pensiero”.

Nulla rispose il Sovrintendente di Gondor e, inchinatosi lesto, condusse il suo signore al cancello orientale della città, ove una nutrita scorta lo attendeva; infine, dopo aver levato un’ultima volta la mano in segno di saluto, si recò nelle case di Guarigione, offrendo i suoi servigi a coloro che ne abbisognavano, ché egli era un uomo pietoso e di rado la stanchezza prendeva il sopravvento sulle sue membra, sicché attese al suo lavoro per l’intera durata della notte; parola non fu però pronunciata ed il suo viso era fosco e pallido, simile ad un bianco fiore notturno che la bruma occulta agli sguardi dei viaggiatori erranti del deserto.

Giunse infine il mattino e con esso le prime cattive novelle: esploratori, inerpicatesi lungo il pendio degli Ephel Duath, avevano scorto immensi accampamenti estendersi nella piana di Gorgoroth e, atterriti da tale visione, erano corsi lesti a Minas Ithil; Orchi ed altre creature erranti delle Tenebre erano ancora dispersi, eppure ogni cosa lasciava prevedere che presto si sarebbe scatenato un nuovo assedio alla Città della Luna.

Alla terza ora dopo il sorgere del sole, soldati giunsero da Osgiliath e da Minas Anor, recando i vessilli dei figli di Elendil: Anarion affidò a costoro, secondo quanto era stato stabilito il giorno precedente, la custodia delle donne e dei bambini di Minas Ithil: “Siate lesti, ché non è nei nostri mezzi sfidare la potenza delle schiere di Sauron in campo aperto, né i suoi eserciti tarderanno a giungere, ché il loro obiettivo è ancora lungi dal concretizzarsi”.

Un’ immensa processione di profughi si avviò allora mesta sotto un pallido sole e poche erano le parole pronunciate, ché ognuno custodiva nel proprio cuore le paure che in quell’ora buia spiravano da Oriente: per tre giorni colonne silenziose di donne avvolte in ampi manti e di bimbi aggrappati ai grembi delle loro madri percorsero l’ampia strada che conduceva a Osgiliath e ancora nessuna lancia si scagliava contro di loro, né si udivano le gracchianti voci degli Orchi, ché l’Oscuro Signore radunava tutti i suoi eserciti ed essi viaggiavano lungo percorsi sconosciuti alla gente di Gondor: come gli avvoltoi seguono i lupi allorché costoro cacciano il cervo, così decine di migliaia di cavalieri dall’Harad, fanti dal Khand e da Nuriag[1], carri dalle contrade poste intorno al Rhun, cani da combattimento dalle remote giungle di Dwar accorrevano a Mordor, comandati da crudeli Principi attratti dal sentore di un immane massacro.

Orchi si agitavano nelle Montagne Nebbiose e nell’estremo Nord, obbedendo al volere dell’Anello, desiderosi di impossessarsi di un bottino di sangue; eppure Sauron non era soddisfatto di un tale dispiegamento di forze, ché altre creature, eredi delle aberranti oscenità che la mente di Melkor aveva partorito, attendevano un suo comando ed esse erano astute ed infide come il loro antico signore.

Ben poco di tali movimenti era noto a Gondor e gli Uomini di Minas Ithil attendevano, silenti e immobili, che la tempesta si abbattesse su di loro; alcuni, i più fiduciosi, contavano le leghe che separavano Isildur da Cirdan e discutevano di quanti giorni sarebbero stati necessari a Gil-Galad per radunare le sue schiere; altri, più scettici, sussurravano che nessuna nave aveva osato sfidare la collera di Ulmo in tale stagione e temevano che le loro speranze giacessero ormai nel fondale del Belagaer.

Nessuno comprese quali pensieri nutrisse nel suo cuore Erfea Morluin in quei giorni terribili e sovente la Guardia scorgeva il suo elmo alato brillare accanto ai vessilli dei Re; ultimo ad abbandonare i suoi soldati allorché la tenebra calava i suoi strali su di loro e primo a destarsi all’alba, non disdegnava partecipare alla ronda; grande amore i fanti provarono per il Sovrintendente ed egli accorreva ovunque la sua mente acuta e il suo forte braccio fossero necessari: silente era però il suo volto e nessuna luce brillava nei suoi grigi occhi. Nei brevi istanti in cui nessun pericolo minacciava la Città della Luna, Erfea giaceva in un sonno angoscioso, ove i timori e i rimorsi si mescolavano; a volte, lo si udiva cantare a bassa voce antiche cantiche di Edhellond e di Numenor: affascinati lo ascoltavano allora gli Uomini, ché in essi rinasceva la speranza e per alcuni momenti pareva loro di obliare le pene che avevano di recente sofferto.

Infine giunse il giorno che essi avevano a lungo temuto, ché l’aria fu scossa da centinaia di urla selvagge e gli Orchi calarono nuovamente su Minas Ithil; codesti, tuttavia, erano in numero maggiore rispetto all’ultimo assalto ed erano astuti e crudeli. Sovente, gli uomini della Guardia, udivano l’oscena voce di Adunaphel incitare le sue truppe verso la vittoria ed essi provavano nel profondo dei loro cuori grande timore; non una spada fu tuttavia abbandonata da mano codarda, né una lancia spezzata nell’ora della pugna, ché invero i Dunedain erano una nobile stirpe e la luce degli Eldar di Tol-Eressea era ancora nei loro occhi, sicché i nemici ne erano sgomenti.

Per sette giorni la pugna regnò feroce sulla Città della Luna crescente, né gli Orchi sembravano aver placato la loro sete di sangue; infine, troppo lesto per il cuore di chi difendeva le amate dimore della sua gente e troppo tardi per colui che ambiva atroce vendetta, giunse l’ora in cui le difese di Minas Ithil sembrarono non potersi più opporre al potere dell’Oscuro Signore: allora Erfea cercò il suo signore Anarion e lo trovò mentre incoraggiava i suoi soldati nei pressi di un’alta torre.

Grave era lo sguardo del Sovrintendente, e il Signore di Gondor apprese lesto i motivi di tale angoscia: “Mio re, il cancello è prossimo a cadere nelle mani del Nemico: dobbiamo scegliere se difendere una fortezza, sapendo che non vedremo altre albe sorgere, oppure ritirarci ad Osgiliath e ivi continuare a difendere il nostro popolo”.

Anarion, tuttavia, non poté rispondere a tale richiesta, ché in quel momento un Orco, il quale aveva atteso nell’ombra di una nicchia, balzò fuori e menò un gran fendente al capo dell’erede minore di Elendil; l’elmo alato forgiato a Numenor attutì l’impatto, tuttavia egli cadde disteso in terra. Troppo tardi Erfea trucidò l’ignobile creatura di Mordor, ché altre della sua schiatta si avventarono sul corpo del sovrano, avendo intenzione di portarne in dono le spoglie al loro Oscuro Signore: atroce allora divampò la lotta tra il Sovrintendente e gli Orchi, né egli poteva sperare nei rinforzi, ché i soldati di Minas Ithil ancora superstiti erano impegnati a fronteggiare altre schiere dell’Avversario.

Fu in tale frangente che si manifestò la lungimiranza dei Valar, ché le aquile di Ar-Thoron calarono sulle laide creature di Sauron, lacerandone le membra e cavandone gli occhi; forte allora gridò Erfea e il suo olifante squillò fiero, sicché gli Orchi fuggirono in preda al panico, abbandonando il corpo esamine di Anarion.

“Se anche mi fosse concesso il tempo di Aman, non vi sarebbero parole sufficienti per esprimere la mia gratitudine, ché non solo la mia vita, ma anche quella del figlio di Elendil avete salvato da morte certa”.

“Non ti dissi forse che ci saremmo rivisti quando la morte ti sarebbe stata prossima, Erfea Morluin? – rispose Ar-Thoron, inchinandosi a sua volta, seguito dai suoi vassalli del Nord – Non meravigliarti dunque, ché la lungimiranza dei messaggeri di Manwe è superiore a quella degli uomini, fossero anch’essi i prodi Numenoreani”.

“Sagge sono le tue parole, Signore delle Aquile, e grato è l’aiuto che in questa ora buia le tue schiere offrono ai Popoli Liberi di Endor; numerose sono state tuttavia le nostre perdite e la città è ormai indifendibile”.

“Il vento del Nord mi ha narrato della dipartita di Isildur da Minas Ithil e ora mi avvedo che Anarion è gravemente ferito: in qualità di Sovrintendente di Gondor e in assenza del legittimo sovrano toccherà a te condurre i soldati della Città della Luna a Osgiliath. Sei saggio a sufficienza, Erfea, per non disperare, tuttavia, sappi che altri poteri sono all’opera in questa ora buia e che altri pericoli dovrai fronteggiare in questi giorni, ché, tienilo sempre a mente, codesto è solo uno degli eserciti di Mordor e il Capitano Nero attende ancora nell’Ombra”.

Mentre così discorrevano Erfea e Ar-Thoron, alcuni soldati della guardia reale si erano approssimati al corpo del sovrano e osservarono sgomenti quanto era accaduto; Erfea tuttavia incoraggiò i loro stanchi animi e li esortò ad abbandonare la città appena fosse giunto il mattino, nell’attesa difendendo strenuamente il ponte che conduceva alla Città delle Stelle, finché l’ultimo uomo non avesse abbandonato Minas Ithil.

Tali erano i progetti del Sovrintendente di Gondor ed essi avrebbero avuto buon esito se improvvisa non fosse calata una tenebra sì fitta che neppure le aquile di Manwe riuscirono a scorgere alcunché; stridule allora si levarono dall’oscurità le fredde voci dei Nazgul e gli eserciti di Mordor si lanciarono alla carica, trucidando chiunque si opponesse alla loro rapida avanzata; i fanti gondoriani furono costretti ad indietreggiare in modo disordinato, taluni privilegiando la difesa delle loro case e di quante esse racchiudevano, altri ritirandosi, secondo gli ordini di Erfea, ad occidente.

Nelle prime ore del meriggio, radunati intorno a sé quanti più fanti e cavalieri possibili, Erfea ordinò alla guarnigione di Minas Ithil di ripiegare a Osgiliath e inviò le aquile di Manwe nei forti dei Dunedain nell’Ithilien, pregando loro di riferire ai comandanti di condurre le proprie truppe alla capitale, senza attendere, chiusi nelle proprie mura, l’impeto degli eserciti di Mordor: entro sera, le avanguardie dell’esercito di Minas Ithil giunsero ad Osgiliath, mentre la retroguardia copriva la ritirata: nulla pareva turbare tali manovre di ripiegamento e già duemila soldati della guardia avevano fatto il loro ingresso in città, allorché Adunaphel, resasi conto dei movimenti del nemico, inviò un messaggio a Dwar di War[2], il terzo in possanza fra i Nazgul, affinché costui inviasse i suoi feroci cani da combattimento a sostegno delle sue armate che inseguivano i superstiti di Minas Ithil.

Erano, i mastini di Dwar, le bestie più feroci di Endor, ad eccezione dei grandi vermi di Morgoth e la loro crudeltà era pari all’intelligenza che essi dimostravano di possedere allorché davano la caccia alla preda; lesti balzarono dalle loro tane, allorché ricevettero l’ordine di trucidare i superstiti dell’esercito di Gondor, e in breve tempo furono sopra i fanti e gli arcieri di Minas Ithil. Sulle prime gli Uomini risero, ché non credevano possibile che simili animali potessero lacerare le cotte di maglia forgiate secondo l’antica tradizione numenoreana; tosto, però, il riso si tramutò in orrore e infine in dolore, ché i denti dei segugi di Dwar squarciavano qualunque parte del corpo non fosse protetta dall’armatura e la loro precisione nel colpire era pari solo alla ferocia con cui il morso era inferto alle sfortunate vittime: la ritirata si tramutò così in fuga disordinata, né i capitani erano in grado di riorganizzare le file delle proprie schiere, ché il panico si era impadronito dei Dunedain ed essi pensavano solo a mettersi in salvo, abbandonando la piana che si estendeva tra l’Ithilien e Osgiliath.

Invero tale catastrofe fu ancor più grave di quanto apparve inizialmente, ché, se i soldati anziché indietreggiare confusamente, avessero recuperato lo schieramento iniziale, i mastini di Dwar sarebbero stati crivellati dalle mortali frecce numenoreane e i loro danni sarebbero stati limitati; tuttavia, il panico ebbe la meglio sul coraggio, e numerose lacrime versarono nei giorni seguenti le donne di Gondor.

Erfea, sopravvissuto a tale attacco furioso, condusse alla carica i cavalieri superstiti di Minas Ithil, un centinaio in tutto, contro le immonde schiere di Dwar, disperdendole e impedendo loro di straziare i cadaveri dei gondoriani caduti; al termine della notte, pochi soldati erano ancora in grado di brandire un’arma, ché molti erano i feriti e ancor più i morti: tristi parole si levarono quella notte, frammiste a pianti ed imprecazioni contro le schiere di Mordor».

Note

[1] Contrada posta a sud di Mordor e abitata da stirpi di uomini Haradrim, servi di Sauron e guerrieri implacabili.

[2] Capitano dell’armata dei Cancelli Neri e Signore dei Cani. Per una biografia su questo Nazgul si veda il seguente articolo: Dwar di Waw, il Terzo, il Signore dei Cani.

Leggi anche:

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La geopolitica di Numenor: le casate reali dell’Isola dell’Ovest.

Quando scrissi Il Ciclo del Marinaio, avrei voluto inserirvi un’appendice contenente una serie di appunti – scritti in tempi diversi, ma coerenti almeno sotto il punto di vista contenutistico – che avrebbero descritto la geopolitica numenoreana all’epoca di Erfea. Non riuscendo, per varie ragioni, a completare questa appendice, ho deciso di riprendere in questa sede almeno una parte di quel materiale inedito per aiutare le mie lettrici e lettori a orientarsi all’interno di un capitolo sconosciuto, ma affascinante, della storia numenoreana. Per un approfondimento, consiglio la lettura della storia di Aldarion ed Erendis, scritta da Tolkien e contenuta nel volume Racconti Incompiuti: alcuni elementi affrontati in questo articolo e nei prossimi che pubblicherò inerenti questo tema, infatti, provengono proprio dagli scarni accenni presentati in quelle pagine in merito al funzionamento del governo numenoreano.

In primo luogo è necessaria una premessa. Al principio della sua storia, il regno di Numenor fu una monarchia assoluta all’interno della quale, tuttavia, il governo del sovrano era mitigato dall’azione di un Consiglio dello Scettro composto dai membri più importanti delle famiglie nobili di Numenor. Non conosciamo molto di queste stirpi: a parte, infatti, quella di Andunie – che discendeva in linea diretta dal primogenito di Elros Tar Minyatur, primo re di Numenor – delle altre sappiamo davvero poco. Per fronteggiare questa mancanza di dati, ho deciso di dare vita a una serie di linee principesche che discendevano dagli altri figli di Elros Tar-Minyatur, secondo questo ordine che vi presento in basso:

1) Casata reale. Vardamir Nolimon, primogenito di Elros, dette vita alla stirpe dei sovrani di Numenor. Dopo alcune generazioni, tuttavia, questa linea regale si scisse in due famiglie principesche: una, che aveva la sua progenetrice nella principessa Silmarien, primogenita del quarto re di Numenor (vi suggerisco, a questo proposito, di leggere questo bellissimo articolo scritto da Lettrice: https://soloperdirelamia.wordpress.com/2019/08/29/silmarien-e-miriel-regine-che-hanno-perso-il-trono/), che fondò la casata di Andunie (vedi sotto) e l’altra che proseguì sino all’ultima coppia di sovrani, Ar-Pharazon il Dorato e sua moglie (nonché cugina di prima grado) Ar-Zimpharel (o Miriel, se preferite, come me, il suo nome elfico). Il simbolo di questa casata era lo stendardo numenoreano, lo stesso che potete notare nei miei commenti e al centro della pagina di apertura di questo blog. Una linea cadetta della casata reale portò a due funesti frutti: il primo dei Nazgul, Er-Murazor, era il secondogenito di un sovrano numenoreano; suo cugino era il terzo nazgul di origine numenoreana, Akhorahil. Se siete interessati alle biografie di questi Nazgul, vi consiglio la lettura di questi articoli: Er-Murazor, il Primo dei Nove e Akhorahil, il Re Tempesta, il Quinto.

2) Casata di Tindomiel. Seconda figlia di Elros, dette vita alla stirpe dei principi di Forostar. Costoro divennero, in seguito, tra i principali sostenitori della fazione nazionalista di Numenor, ostile agli Elfi e ai Valar. Adunaphel l’Incantatrice, la Settima fra i Nazgul, discendeva da questa famiglia principesca (per saperne di più, vi suggerisco la lettura di questo articolo: Adunaphel l’Incantatrice. La Settima). Tale linea, a sua volta, si scisse alla metà della Seconda Era, dando vita alla casata dei principi dello Hyarnustar (vedi sotto), anche questa fervente sostenitrice dei Numenoreani nazionalisti. Khorazid e Antenora, che presero parte al complotto organizzato da Ar-Pharazon per prendere lo scettro, furono gli ultimi rappresentanti noti di questa casata. Il simbolo di questa casata era una luna calante argentata su sfondo blu; questo stendardo, modificato in parte, fu adottato da Adunaphel come suo vessillo da guerra, sostituendo il colore blu con quello rosso.

3) Casata di Manwendil. Terzo figlio di Elros, fu il capostipite della stirpe dei principi di Orrostar. Anche questa linea, come la precedente, in seguito divenne accesa sostenitrice degli «Uomini del Re», come erano chiamati i Numenoreani nazionalisti. Azaran, principe dell’Orrostar, fu uno dei nobili che presero parte al complotto promosso da Ar-Pharazon per rovesciare Miriel; egli era considerato eccezionalmente ricco dai suoi contemporanei, tuttavia il suo oro non lo aiutò a scampare alla morte, avvenuta per effetto dell’incendio della sua dimora, appiccato, sembra, ad opera dei servi del nazgul Akhorahil. Il simbolo di questa casata rappresentava un’ala di gabbiano su sfondo giallo.

4) Casata di Atanalcar. Quarto e ultimo figlio di Elros, fu il principe della regione di Numenor nota con il nome di Hyarrostar. Dopo di lui vi furono 24 principi, fra i quali i più famosi furono il grande ammiraglio Cyriatur, che salvò la Terra di Mezzo dall’annientamento durante la prima guerra condotta dai Numenoreani contro Sauron, combattuta nell’anno 1700 della Seconda Era e, naturalmente, Erfea, che fu anche l’ultimo principe di Hyarrostar. Cyriatur ebbe due figli: il maggiore continuò il lignaggio della stirpe paterna, mentre il più giovane ricevette dal sovrano il feudo su un’altra regione di Numenor, dando vita alla stirpe dei principi di Mittalmar (vedi sotto). Il simbolo di questa casata era una rosa bianca impressa su uno scudo araldico per metà nero e per metà azzurro.

5) Casata di Andunie: fondata da Silmarien e da suo marito, Elatan di Andunie, questa stirpe principesca reale governò il feudo di Andunie, la regione più occidentale di Numenor, all’interno della quale la maggior parte della popolazione restò legata all’amicizia con gli Elfi – che spesso approdavano su quelle spiagge – e con i Valar. Attraverso i secoli, dalla casata di Andunie emersero Uomini e Donne di grande valore e statura morale: basti pensare a Elendil e ai suoi figli, Isildur e Anarion; o ancora, per restare alle vicende de Il ciclo del Marinaio, a Nimrilien, moglie di Gilnar e perciò madre di Erfea. Da Isildur, attraverso molte generazioni, si giunge infine ad Aragorn e agli eventi raccontati ne Il Signore degli Anelli. Il simbolo di questa casata, prima dell’inabissamento di Numenor, era un delfino bianco su sfondo argentato, contornato da sette stelle e sette palantiri; successivamente assunse i più noti colori neri e argentati, ponendo al centro del proprio vessillo l’Albero Bianco.

6) Casata di Mittalmar: fondata dal secondogenito del grande ammiraglio Ciryatur nel XVIII secolo della Seconda Era, questa casata ricevette in feudo dal sovrano una delle regioni centrali e più popolose di Numenor, il Mittalmar. La scelta di attribuire un feudo così importante a una linea cadetta, se pure di origine regale, non deve sorprendere: il sovrano aveva contratto un grande debito nei confronti di Cyritur, perché costui aveva trionfato sulle armate di Sauron, che era ormai giunto sul punto di conquistare tutta la Terra di Mezzo, salvo poche ridotte. I principi di Mittalmar, tuttavia, non furono mai compresi nel «Consiglio dello Scettro», proprio perché la loro linea non era considerata di primaria importanza. Negli ultimi secoli della Seconda Era questa casata si indebolì progressivamente; gli ultimi eredi furono tre principi ambiziosi e di belle speranze: Arthol (coetaneo di Erfea); Gilmor, sua sorella, nata dieci anni più tardi del fratello e, infine, il loro cugino più anziano Brethil, anch’egli molto amico del principe dello Hyarrostar. Oberati dai debiti e prossimi ormai al tracollo finanziario, i due fratelli organizzarono una congiura per uccidere l’erede al trono di Numenor, la giovane Miriel, e prendere così il potere in modo violento. A questo tentato Colpo di Stato non furono estranei neppure i Nazgul di origine numenoreana. Ad ogni modo, grazie alle rivelazioni di Erfea, che aveva scoperto causalmente il complotto, Arthol e Gilmor furono puniti con la pena capitale, mentre Brethil, che si rivelò estraneo alla congiura, fu risparmiato. Da quel momento in poi, tuttavia, memore della parte che la casata dei principi di Mittalmar aveva avuto nel tramare contro la sua persona, Miriel diffidò profondamente di Brethil, osteggiandolo apertamente ogni qual volta le era possibile, giungendo, alla fine del suo breve regno, a privare il principe di ogni carica. Brethil morì poco dopo l’ascesa al trono di Ar-Pharazon e con la sua scomparsa la casata di Mittalmar cessò di esistere. Il simbolo di questa casata era la spada di Cirytur impressa su uno sfondo verde.

7) Casata dello Hyarnustar: fondata da un membro cadetto della casata di Tindomiel, questa casata ottenne un grande feudo corrispondente alla parte sud-occidentale di Numenor, chiamato con il nome di Hyarnustar. Questa casata fu sempre in competizione con quella di Andunie per il possesso del porto di Eldalonde, che si trovava a metà tra i due feudi; ben presto la rivalità commerciale si tramutò in una contrapposizione politica, che vide i principi dello Hyarnustar militare nel partito nazionalista numenoreano. L’ultimo principe noto di questa casata fu Dokhor, un avido e rozzo guerriero che prese parte al complotto ordito da Ar-Pharazon per rovesciare Miriel. Il simbolo di questa casata era un calice d’oro su sfondo nero.

In questa mappa, tratta da L’Atlante della Terra di Mezzo di Karen W. Fonstad, ho inserito i nomi delle casate e i loro orientamenti politici. Non sono un grafico, però mi auguro che le associazioni geopolitiche risultino abbastanza chiare.

Mappa di Numenor

In questo schema, invece, proverò a ricostruire i legami di parentela delle principali famiglie nobiliari dell’Isola dell’Ovest.

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Come si evince dallo schema in alto, Erfea e Miriel erano dunque imparentati, seppure alla lontana. Questa parentela rende ancora più incerta la soluzione dell’enigma relativo alla profezia di Manea la Veggente, che ne Il racconto del Marinaio e della Principessa, mise in guardia i genitori della bella principessa numenoreana in merito al triste destino che avrebbe conosciuto qualora avesse stretto vincolo matrimoniale con un Uomo del suo sangue. Naturalmente, si può immaginare che la Veggente alludesse ad Ar-Pharazon, che era cugino di primo grado della donna, ed era dunque più vicino a lei, dal punto di vista «genetico», di quanto non lo fosse Erfea (e questo era anche il parere di Tar-Palantir, padre di Miriel, come avrete modo di scoprire nel racconto al quale mi sto dedicando in questi ultimi tempi); ciò nonostante, permane, come è d’uopo in tutte le profezie, una certa ambiguità di fondo che rende la questione ancora più affascinante e pone una domanda destinata a restare insoluta: cosa sarebbe accaduto se Miriel ed Erfea si fossero sposati? La profezia di Manea avrebbe colpito anche loro? Nessuno lo saprà mai.

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Miriel

Post-scriptum su Miriel

Erfea, o degli eroici imperfetti

L’assedio di Minas Ithil (Parte V). Una resistenza impossibile

Care lettrici, cari lettori, in questo articolo proseguo la narrazione degli eventi che condussero le armate di Sauron a conquistare la parte orientale del Regno di Gondor, inclusa la città di Minas Ithil, dove Isildur aveva il suo trono. Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Per dodici giorni la Città della Luna subì un terribile assedio, eppure i suoi difensori non accennavano a deporre le armi, ché molto temevano gli Orchi gli esuli di Numenor e fuggivano terrorizzati allorché scorgevano Sulring brillare nelle tenebre; pure, molti valorosi combattenti erano caduti, vittima della nequizia di Sauron e fra costoro vi erano capitani di grande valore; infine, durante la notte del dodicesimo giorno dell’assedio, grave ed improvvisa sorse una nuova minaccia ad oriente ed essa atterrì i cuori dei Dunedain: un’imponente macchina avanzò, alta cento piedi e lunga il doppio, trainata da massicci Troll e si fermò a meno di una lega dal cancello.

“Quale nuovo artificio del nemico è codesta arma? – gridò Erfea rivolto ad Anarion che combatteva al suo fianco – Non ho mai veduto nulla di simile, eppure il mio cuore teme, ché mai ho obliato le fucine di Amon-Lanc[1] ed esse sono ben poca cosa se paragonate alle immense forge di Barad-Dur, ove i fuochi ardano da mane a sera e infiniti sono gli schiavi ivi torturati dal possente calore che questi generano.”

Non si erano ancora spenti gli ultimi echi di tali parole, che altre scale furono issate e su di esse salirono Orchi imponenti, la cui immonda pelle era ricoperta da grandi cotte di maglia; non erano però costoro ad ottenebrare le menti di coloro che difendevano le mura, ché, nel medesimo istante, si udì un gran sordido brontolio e la terra parve tremare sotto i loro piedi, mentre un’intensa luce brillava ad oriente. Parecchi Uomini e Orchi caddero dalle mura, sfracellandosi al suolo, mentre alte urla di gioia si levavano dall’accampamento di Adunaphel. Inquieto divenne allora il viso di Erfea ed egli si precipitò innanzi al cancello, ove a lungo rimase immobile, quasi che la sua mente si rifiutasse di credere a quanto l’oscura arte del nemico aveva realizzato: un imponente fusto di acciaio, montato su decine di ruote, si ergeva innanzi a lui e molti Uomini gli si accalcavano intorno, gli uni sfregando il nero metallo, gli altri versando al suo interno barili di polvere nera. Nessun racconto ha mai tramandato il nome di codesta poderosa macchina d’assedio ed essa fu utilizzata solo durante l’assedio di Minas Ithil: non vi era però dubbio che provenisse dalle oscure fucine di Barad-Dur, ché rune malefiche ne adornavano la superficie ed esse erano scritte secondo il modo di Mordor. Stupito, il Sovrintendente osservava silente tale artefatto, chiedendosi in quale modo avrebbe potuto arrestare la sua temibile forza distruttiva, allorché, per la seconda volta, una luce brillò, forte e terribile ad oriente, e il Cancello tremò nuovamente, come se migliaia di magli si fossero abbattuti sulle sue porte di ferro. La terra levò un gemito e alcune costruzioni nei pressi della prima cinta muraria caddero al suolo, conducendo nella loro agonia gli sfortunati abitanti.

Lesto come un incendio in estate, il panico dilagò in città e molti soldati indietreggiarono, chiedendosi cosa fosse accaduto: Isildur e Anarion erano infatti dispersi, né vi era tempo sufficiente per indagare sulla loro sorte, ché molti Orchi si radunavano innanzi al cancello e questo non avrebbe retto ancora a lungo; in tale ora buia, la speme tuttavia non disparve ché Elendur, primogenito di Isildur e Uomo di grande valore, prese il comando dei soldati superstiti e riuscì a condurne molti al riparo della seconda cerchia di mura, senza che la sua retroguardia subisse dure perdite: trinceratisi alle spalle dell’imponente muraglia, Elendur si premurò affinché i feriti fossero condotti nella Case di Guarigione e con orrore si rese conto che meno di tremila soldati di Gondor erano con lui in tale frangente; rabbia mista a dolore allora si destò nel suo cuore, ché nessuno era in grado di affermare ove fossero i sovrani di Gondor. Aratan e Cyrion erano tuttavia con l’erede di Isildur, ché erano i suoi fratelli minori ed essi ne amavano la fermezza del carattere e la sua lungimiranza, ed erano temprati dal medesimo fuoco della battaglia; torvi però erano i loro sguardi in quell’ora oscura ed essi parlavano poco finanche con i loro capitani, i quali, impazienti, attendevano ordini.

Tale era stata la manovra di Elendur, che gli Orchi non si dettero pensiero di inseguire i superstiti all’interno della seconda cerchia di mura, ma si accanirono contro il cancello; lenta, sorse un’alba vermiglia ma essa non recò sollievo nel cuore degli uomini, ché pochi erano ancora desti e molti giacevano nei loro miseri ricoveri, nelle piazze, ovunque vi fosse uno spazio sgombro dalle macerie e dai detriti delle mura che crollavano attorno a loro; infine la Guardia levò un grido di stupore e meraviglia, sicché molti soldati si destarono e corsero ad armarsi, temendo che gli Orchi fossero penetrati nella Città: grande fu dunque la loro sorpresa e gioia allorché essi scorsero i figli di Elendil e il Sovrintendente salire lungo le scale interne della seconda cinta di mura; trombe allora echeggiarono nelle aule diroccate e nelle piazze affollate ed Elendur strinse commosso suo padre, mentre costui elogiava il coraggio dei suoi eredi. Nessuno, tuttavia, fu allora in grado di apprendere quale compito avessero portato a termine i tre Uomini, ché essi non ne fecero parola con alcuno, eccetto i figli di Isildur; solo in seguito fu detto che essi avevano impedito che la poderosa arma di Adunaphel potesse far echeggiare nuovamente il suo odio nei confronti di Gondor ed essa giacque distrutta nella pianura, simile all’immonda carcassa di una bestia mostruosa vissuta nelle lande selvagge di Angband, e gli Orchi di Mordor l’evitavano, sicché per qualche ora più gli archi furono tesi e le spade sguainate.

Lesto allora si tenne un consiglio di guerra e la situazione parve subito grave a quanti lo presenziarono. Prima fra tutte si levò la chiara voce di Erfea: “La difesa della città è ormai divenuta impossibile, a meno che non giungano rinforzi da altre contrade. La popolazione di Minas Ithil deve essere fatta evacuare adesso, né è possibile aspettare altro tempo: dobbiamo scegliere se preservare l’onore o le vite di migliaia di donne e bambini.”

Silenti, i capitani di Gondor rifletterono a lungo su quale strada percorrere, ché entrambe le scelte avrebbero potuto condurre ad un triste destino, ché, se gli Orchi fossero stati in numero tale da impedire un ripiegamento del loro popolo ad Osgiliath, essi sarebbe andati incontro ad una carneficina; infine, scuro e irato in volto, Isildur parlò: “A che pro dovremmo fuggire innanzi al nemico? Non sarebbe soluzione più saggia far sì che le truppe di stanza ad Osgiliath e a Minas Anor accorrano in nostro aiuto, piuttosto che presentarci dinanzi ai loro attoniti occhi sconfitti? Un cancello è caduto nelle mani del Nemico, eppure la città resiste ancora! Se il parere dei miei capitani sarà favorevole a tale proposta, invierò dei rapidi messaggeri ad Aldor Roc-Thalion, l’Alto Theng dei popoli del Rhovanion, antichi alleati della nostra gente affinché egli possa condurre le sue schiere in nostro soccorso.”

Elendur sostenne lesto la proposta del padre: “Nessun Orco può vantare di aver mai catturato una città difesa da uomini valorosi quali noi siamo. Perché dovremmo abbandonare le nostre dimore, che edificammo al prezzo di molti sacrifici e di duro lavoro? Se tale è il nostro destino, che il mondo degli Eldar e degli Edain debba perire nella Tenebra, ebbene possano essere l’elmo e la cotta di maglia i nostri orgogliosi sudari!”

Molte voci contrastanti si levarono, le une sostenendo che la proposta di Erfea fosse ragionevole, le altre affermando che il coraggio del sovrano doveva essere premiato dalla fedeltà incondizionata del suo popolo; ancor prima che si giungesse ad una soluzione, tuttavia, lesto fece il suo ingresso un messaggero, il cui viso era provato dall’enorme tensione che si agitava nel suo animo. Stupiti e costernati lo osservarono Isildur e Anarion, ché sembrava evidente che costui recasse con sé novelle foriere di sventura: infine il messaggero parlò e invero le sue parole furono orribili ad udirsi in quell’ora oscura.

“Signori di Gondor, la sventura è caduta sui nostri popoli! Hoarmurath di Dìr, il cui nome sia cento e cento volte maledetto, ha incendiato i campi e gli accampamenti del mio popolo; lunga è stata la pugna, ma al calar della notte le sue schiere hanno infine trionfato, impadronendosi di un ricco bottino in armi e viveri. Inutile è stato contro la potenza del Signore della Terra Nera il coraggio delle schiere dei popoli liberi ed essi ora sono dovuti arretrare, abbandonando l’intero Rhovanion nelle mani dell’infame spettro.”

Silenzio regnò per un lunghissimo istante, infine le voci dei presenti si levarono nel medesimo istante, quasi che una misteriosa volontà avesse ordinato loro di parlare all’unisono: il panico si impadronì di quanti avevano prima sostenuto tale assedio essere la stolta opera di un servo di Mordor e non già del suo Oscuro Signore; alcuni, con la mente sconvolta da tali notizie infauste, gridarono che finanche Osgiliath avrebbe dovuto essere abbandonata, ché l’intera sponda orientale dell’Anduin era ormai indifendibile, mentre altri corsero ad affacciarsi alle finestre a nord, temendo che le schiere di Hoarmurath fossero prossime a reclamare nuovo bottino.

Erfea, tuttavia, soffiò nel suo olifante ed ecco che i cuori degli Uomini si calmarono e il silenzio scese nuovamente fra loro: “Non perdete la speme, uomini di Gondor! Non è forse stato detto che il tempo è tiranno sia con coloro che servono la causa dei Valar sia con coloro che la contrastano? Ebbene, ancor prima che le nostre schiere si scontrino con quelle dell’Avversario, sappiate che entrambi gli schieramenti dovranno vincere la propria battaglia contro il Tempo, che, inevitabilmente, corre verso Occidente.

Questo io ti chiedo di rivelarci, messaggero di Aldor Roc-Thalion: quanti giorni sono passati dacché è crollata l’ultima resistenza nel Rhovanion?”

“Mio signore, trenta lune si sono levate da quel triste giorno: il mio popolo è ora fuggito ad Occidente e dimora nei pressi del Guado del Carrock[2], a molte leghe a nord dalle città degli uomini del Mare.”

Erfea rifletté per un attimo, infine parlò: “Sauron ha dato infine dimostrazione di voler schierare le sue forze in tempi diversi, ché vuole saggiare il morso degli eserciti dell’Ovest prima di scatenare il suo più pericoloso servo; non tutti voi, credo, si rendono conto dell’incredibile fortuna che la Sorte ha riservato ai figli di Eru Iluvatar, perfino in tali sventure.”

Anarion, dopo aver ponderato in silenzio quella che a molti pareva una frase senza alcun senso, ne intese il significato e il suo cuore fu pieno di gioia, ché comprese non essere ancora perduta la guerra.

“Erfea Morluin, sagge e veritiere sono le tue parole, ché il Signore dei Nazgul non è ancora giunto nelle nostre terre; tale è dunque il corso degli eventi che sarà possibile salvare il maggior numero di vite prima che giunga il Capitano degli eserciti di Mordor. Sappiate, tuttavia, che è stata concessa solo tale occasione per evitare che la catastrofe si abbatta su di noi; celere deve essere la nostra azione, ché essa non dovrà insospettire il nemico.”

Isildur rifletté a lungo sulle parole che il fratello aveva pronunciato, infine parlò a sua volta: “Se ho ben compreso il pensiero del Sovrintendente, altre schiere dell’Avversario potrebbero giungere nei prossimi giorni e non è nelle nostre attuali possibilità fermare una tale potenza; è necessario dunque che uno fra noi prenda la via che conduce al mare e di lì al reame di Arnor, affinché Elendil possa essere avvisato del pericolo che corrono le libere genti di Endor e possa soccorrerci con le sue schiere. Tale è la mia volontà, in questa ora oscura, ché prendo su di me la responsabilità di assicurare il buon esito di una missione sì importante per le sorti del nostro popolo.”

Aratan, secondogenito del sovrano, espresse allora il suo pensiero: “Nobile padre, non sarebbe meno rischioso comunicare con il nostro sovrano tramite il palantir di Osgiliath, piuttosto che sfidare la collera di Ulmo?”

“Giovane principe, sebbene l’Oscuro Signore di Mordor non abbia simili strumenti, sarebbe tuttavia capace di interferire con la sua tirannica volontà, qualora uno fra noi, finanche il Signore di Gondor, osasse fare uso del Palantir; forse Sauron si limiterebbe ad osservare, ma se anche egli non pronunciasse parola, tuttavia i nostri piani sarebbero messi a nudo ed egli infine trionferebbe. Ecco dunque il mio consiglio: una piccola spedizione dovrà abbandonare Minas Ithil prima che il sole sorga, ché la luna non sarà visibile questa notte e gli Orchi vagano ancora qua e là, resi inoffensivi dalla paura; essa tuttavia sarà presto occultata dalle promesse di saccheggio e il cuore mi dice che tale giorno non tarderà a giungere. Un vascello sarà allestito ad Osgiliath ed esso condurrà ai porti di Cirdan la speme del popolo di Gondor.”»

Note

[1] Si veda “Il racconto del Marinaio e del Nanosterro”.

[2] Il Guado del Carrock era situato nella contrada dell’Alto Anduin, a nord dei Campi Iridati.

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Proseguo in questo articolo la narrazione dell’assedio di Minas Ithil da parte delle armate del nazgul Adunaphel. Nell’ultima parte abbiamo lasciato Erfea di vedetta nel passaggio di Cirith Ungol affinché potesse scorgere le avanguardie dell’esercito di Mordor. Ritornato alla città di Minas Ithil, il Sovrintendente di Gondor deve ora misurarsi con le reazioni dei due fratelli, Isildur e Anarion. Nel brano che segue, perciò, avrete modo di approfondire la conoscenza dei figli di Elendil…buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Infine l’armata di Mordor giunse alla porta orientale di Minas Ithil che il sole ancora tingeva i colli degli Ephel Duath e l’oscurità non era calata; risero gli Uomini allora nello scorgere la moltitudine dei servi di Mordor ed alcuni fra loro presero a farsi beffe di loro apertamente: “Nessun servo di Sauron ha calcato il suolo della nostra città ed essa ride delle minuscole figure che muggiscono in una barbara lingua; vengano pure, gli eserciti dell’Oscuro Signore, ché non uno troverà scampo alla giusta morte, e il ricordo della loro disfatta echeggerà fino a Barad-Dur”. Voci simili furono udite in tutta la città, riempiendo di gioia il cuore di Isildur, ché costui non mostrava tema dell’armata di Adunaphel, né avrebbe mai ceduto la sua dimora al Nemico; di diverso parere era tuttavia suo fratello Anarion, il quale così gli si rivolse: “Una grande paura ha invaso il mio animo, ché esso teme per la sorte di Minas Ithil: fa evacuare la città, ché il Nazgul non risparmierà né uomo né donna, qualora essi dovessero cadere preda dei suoi laidi artigli.”

Irata fu la risposta di Isildur, che si espresse in tali termini: “Noi siamo i figli di Elendil e i signori di Gondor. Nostro padre ci affidò il reame del Sud affinché vigilassimo sulle sue genti e sulle sue terre e mai, fino ad ora, il nostro giuramento è venuto meno, ché esse sono sfuggite alla violenza dei servi dell’Avversario. Vorresti dunque venire meno al tuo dovere, abbandonandole alla mercé degli Orchi? Come un contadino che temendo per la sua vita, permetta che il suo campo sia bruciato da rozzi briganti, così tu condanneresti Minas Ithil a una triste sorte? Sarebbe invero una grave infamia!”

“Non è atto infame temere il lungo braccio del Nemico! Fratello, vi sono altre contrade, altri popoli che attendono impazienti di offrire i propri servigi a Sauron e codesto è solo uno dei suoi numerosi eserciti che egli spinge ad ovest; il Rhovanion è ormai in rovina, risparmia alla tua città una sorte simile! Ordina invece che la popolazione sia condotta ad Osgiliath, le cui possenti mura fermeranno la carica dei nostri nemici. Non desidero che la nostra gente sia condotta in una trappola ed ivi debba morirvi prigioniera delle sue medesime debolezze.”

Rise allora Isildur, e sguainata la sua lama, diede ordine di issare sul pinnacolo della torre più alta il vessillo di Elendil, in modo che l’esercito di Mordor potesse scorgerlo e provarne terrore; infine, voltatosi verso il fratello, adoperò simili parole: “Non è forse vero che i Valar risparmiarono i Fedeli ché essi avversavano il dominio di Ar-Pharazon e del suo oscuro mentore? Non è forse vero che le braccia di Ulmo hanno permesso ai nostri vascelli di recarci nella Terra di Mezzo ove fondammo i reami in esilio? Perché dunque noi dovremmo temere colui che già una volta è caduto sotto la loro possente ira? Il nostro destino è di innalzarci al di sopra delle debolezze che in passato hanno condannato la nostra stirpe: grandi atti di valore saranno compiuti questa notte e la sete di vittoria del nemico sarà placata dal sangue che i suoi eserciti verseranno.”

Lesto balzò sulla terrazza più alta e di lì si rivolse al suo popolo: “Soldati di Gondor! Per molti secoli la nostra stirpe ha compiuto tali atti di valore contro Sauron e i suoi servi che le sue schiere tremano al solo sentire il nome dei Numenoreani! Uomini poco lungimiranti hanno permesso che l’Oscuro Signore perdurasse e sfuggisse alla nostra giusta vendetta, eppure, mirate, l’ora della rivalsa è prossima! Grande sarà la nostra vittoria ed essa inaugurerà la nuova Primavera di Arda, ché Endor sarà stata liberata dalla lordura dei servi di Morgoth. Uniamoci dunque nell’ora del bisogno e possa il sacro fuoco che infiamma i nostri animi brillare nella Tenebra incombente!”

Possenti si levarono grida di giubilo e l’aria fu percorsa dagli squilli di numerose trombe d’oro e argento: i capitani condussero le loro truppe sugli spalti delle mura, attendendo impavidi che l’oscura marea piombasse su di loro. Erfea, tuttavia, parola non levò, ché condivideva il pensiero di Anarion, né aveva obliato la nequizia di Sauron, laonde per cui ordinò ai suoi soldati di assicurarsi che nessun nemico si impadronisse del cancello che conduceva a Osgiliath e alle contrade occidentali di Gondor.

Frecce furono incoccate e torce accese, ché l’oscurità aveva ora coperto del suo manto le cime dei monti e fredda era scesa la notte; silenzio regnava sugli spalti, tale che solo l’eco dei secchi ordini dei capitani di Mordor giungeva loro, né alcuna delle schiere di Adunaphel osava avvicinarsi alle mura ed esse erano immobili; molte ore trascorsero dunque nella veglia, nulla temendo gli Uomini di Gondor, ché  nessun colpo era stato levato e saldi erano i loro animi; quella notte i Signori dei Dunedain tennero un consiglio per decidere sul da farsi. Alcuni, e fra questi erano Isildur e i suoi figli maggiori desideravano attaccare il nemico con la cavalleria, affinché esso fuggisse lontano; Erfea, tuttavia, respinse con forza tale proposta ché temeva le picche del nemico e non credeva possibile manovrare in uno spazio sì ridotto come quello che si estendeva tra la città e i monti.

Tesa era divenuta l’aria e minacciose si levarono voci contrastanti; nulla però fu possibile decidere, ché lesta si diffuse la notizia che le schiere dell’Avversario muovevano contro la città: tale, infatti, era stata la perfidia di Adunaphel da attendere che un prematuro entusiasmo riempisse di folle gioia il cuore dei Dunedain prima di scatenare il suo feroce attacco alle mura; scale vennero innalzate e su di esse centinaia di Orchi presero posto, scuotendo le corte lance e le scimitarre dalla fosca lama. I Warg[1] correvano lungo tutto il perimetro della cinta muraria e i loro orribili richiami echeggiarono durante tutta la durata dell’assedio, mentre Adunaphel, ritta sul suo nero destriero, osservava lieta quanto accadeva, ché ora i suoi eserciti erano spiegati e la vittoria sarebbe giunta lesta; veloci, alcuni cavalcalupi correvano da una schiera all’altra per trasmettere gli ordini dei capitani di Mordor e l’aria era satura dei loro gutturali versi: pure, Minas Ithil non cedeva.

Arcieri erano stati collocati in gran numero lungo i parapetti e di lì bersagliavano il nemico con i loro temibili archi d’acciaio; Orchi ed altre creature della Tenebra crollavano dalle scale, mentre le luminose lame dei soldati di Gondor trucidavano quanti riuscivano ad aggrapparsi ai merli dei bastioni: Isildur conduceva la difesa del cancello orientale, mentre i suoi figli avevano ciascuno preso il comando di una cerchia di mura.

Rapide trascorsero le ore della notte, né l’alba sembrava portare speranza nel cuore degli Uomini, ché la furia degli Orchi anziché scemare, sembrava crescere di intensità: altre schiere, di cui nessuno aveva prima sospettato l’esistenza, erano giunte sul luogo della battaglia e respingevano i soldati di Gondor all’interno della città, rendendo loro impossibile qualsivoglia sortita».

Note

[1] I warg erano i discendenti di quelle creature nate dall’incrocio fra i demoni servi di Sauron e i lupi della Terra di Mezzo; feroci d’aspetto, erano noti per la loro insaziabile fame e per la loro abilità nel comprendere il Linguaggio Nero.

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In questa terza sezione del racconto de “Il Marinaio e il Re Stregone”, Erfea, reso inquieto da un sogno premonitore, decide di verificare se un’armata partita da Mordor si stia effettivamente dirigendo verso la città di Minas Ithil. Il paladino di Numenor scoprirà che i suoi peggiori timori erano fondati quando comprenderà chi cavalca alla testa delle truppe nemiche…un suo antico, affascinante, nemico.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Un’ora era trascorsa dacché il sole si era levato e ancora nessun messaggero giungeva a Isildur; rapido allora crebbe nell’animo dei soldati il timore che essi fossero stati traditi e che la loro ultima ora stesse giungendo sulle ali del nauseabondo vento dell’oriente: eppure essi non ne facevano parola a nessuno e ognuno serbava nel suo cuore lo sgomento di tale attesa, quasi provando vergogna nello spezzare con la propria voce roca il silenzio che altri aveva creato per loro. Lunga e penosa fu l’attesa, tuttavia anch’essa giunse a termine, ché i primi cavalieri giunsero da Osgiliath e Minas Anor, conducendo con loro messaggi che furono uditi da pochi e intesi ancor da meno, ché essi furono condotti a corte e solo il primogenito di Elendil e il sovrintendente furono presenti allorché le notizie che costoro recavano furono divulgate; scuri erano invero i loro volti ed essi non fecero parola con alcuno di quanto avevano appreso, ma si recarono lesti ad oriente, ché le vedette inviate durante la notte non avevano fatto ancora ritorno e dubbio e timori si impadronivano dei cuori degli uomini.
Elrohir cavalcava innanzi a tutti e splendido il suo pelame fulvo brillava sotto la luce di Anor, eppure non vi era letizia nello sguardo del suo cavaliere ché la cenere di Mordor ne copriva il capo e foschi erano i suoi pensieri; cento cavalieri erano con lui ed essi seguivano una traccia incerta e oscura: eppure, sebbene ognuno temesse un grave male nel proprio cuore, nulla di quanto avrebbero visto in seguito era stato mai concepito da mente mortale. Alcuni dicevano che fantasmi senza volto ululavano sopra corpi straziati e furono colti da grande orrore; altri, nonostante pietà e lacrime soffocassero i loro occhi, pure scorsero i segni di una disperata resistenza condotta dagli esploratori, senza tuttavia che rimanesse traccia visibile dei loro aggressori: a lungo, inibiti dal terrore e dalla grande sofferenza, cercarono tra i volti deturpati, gli uni intenti ad arrestare i singulti, gli altri ricolmi di smarrimento e profonda pena.
Un vento gelido spazzava la gola montuosa in cui essi avevano trovato rifugio e l’eco della sua oscura risata sembrava deridere il loro dolore; infine Erfea si mosse e scorse una runa profondamente incisa nella viva roccia, le cui linee risaltavano nette sulla sua superficie, quasi che il suo incisore avesse voluto dimostrare quanta forza avesse nel braccio.
“Non è un’incisione eseguita dalla rozza mano di un orco, ché essi non conoscono le Tengwar[1], né Sauron permette che il suo nome venga pronunciato o scritto, ed essi adoperano l’effigie del Rosso Occhio su elmi e scudi; inoltre – proseguì chinandosi – codesta non è una esse ma una a”.
Rifletté a lungo, infine chinatosi sulla roccia, né sfiorò ripetutamente la lucida superficie, mormorando alcune parole che gli uomini hanno ormai obliato; tosto tuttavia, il suo viso mutò espressione ed egli risalì a cavallo, invitando i suoi uomini a precederlo in Città, affinché rivelassero che il nemico era prossimo a giungere; quanto a lui, sarebbe rimasto in codesto luogo, finché l’invasore non fosse giunto.

“Cavalcate rapidi, figli di Gondor, ché il pericolo è prossimo né codesta sarà l’unica sventura che i popoli liberi di Endor dovranno fronteggiare, ché le armate di Mordor tosto dilagheranno impetuose”. Rapidi, i cavalieri si mossero e l’eco della loro corsa disperata riecheggiò lungo l’antico cammino roccioso, chiamato Cirith Ungol nella lingua degli Eldar: un crudele demone, ostile ai figli di Iluvatar, l’aveva eletta come sue dimora e sovente la sua progenie, viscida e immonda si aggirava cauta e affamata in tali recessi rocciosi, né essa mostrava di tenere in alcun conto la maestà dei re degli uomini, ché era la prole di Shelob, ultima figlia di Ungoliant la grande, colei che, nella sua ingordigia, aveva fatto scempio dei Due Alberi.
Codesti esseri, simili a ragni, infestavano tali contrade, divorando gli incauti viandanti solitari che osavano percorrerne gli ardui sentieri; essi tuttavia esitavano nell’attaccare il Dunadan, ché, sebbene fosse anziano e solo, temevano la lama che costui portava al suo fianco, sicché attesero invano e infine, esausti e delusi, fecero ritorno alle loro tane.

Monotono parve scorrere a Erfea il tempo, ed egli non udiva né scorgeva alcunché, ad eccezione di rocce erratiche e di miseri cespugli battuti dal vento; restio era il suo animo a percorrere il sentiero di casa, sebbene grave sul suo capo fosse calata la stanchezza: infine si mosse, ché un nuovo timore parve invadere ogni cosa e l’aria ne fu satura. Tremò la terra e gli anfratti montuosi parvero replicare più volte l’agonia di migliaia di passi calpestarne la dura superficie: allora egli guardò in basso e il suo animo fu invaso da stupore e meraviglia, ché mai, finanche nei suoi incubi più aberranti, aveva mai immaginato che un simile orrore potesse destarsi da Mordor: schiere infinite egli scorse marciare lungo la strada che conduceva a Minas Ithil; picche, le cui sommità, adornate da spregevoli effigie, parevano puntare dirette verso il cielo, illuminavano con sinistri bagliori l’oscuro vespro; scudi imponenti reggevano coloro il cui volto era ora occultato da manti intessuti di tenebra e menzogne, ché l’Oscuro Signore mobilitava tutti i suoi eserciti e codesto era solo uno fra i molti che combattevano nel suo immondo nome. Infine, ritta sul suo nero cavallo, il sovrintendente scorse una figura procedere lentamente, quasi incurante di quale destino avrebbe incontrato nel campo di battaglia che le sue truppe si accingevano a bagnare con il proprio sangue e quello dei nemici; bella era, eppure temibile, ché il suo sembiante non era altro che un’illusione creata dalla nefanda arte di Sauron per confondere le menti di coloro che gli si opponevano. Nessuna luce della torce si rifletteva sulla sua corvina capigliatura ed ella pareva assorta in silenziosa meditazione; eppure, una cupa malizia brillava nei suoi chiari occhi e all’anulare, occultato al bieco sguardo dei suoi servitori, ella cingeva un anello forgiato in una contrada ormai distrutta dal suo oscuro padrone, ché Adunaphel l’Incantatrice era il suo nome, settima tra i Nazgul, gli immortali schiavi dell’Oscuro Signore. Una fredda rabbia celava il suo nero animo ed ella cavalcava diritta verso la vittoria; pur tuttavia, non scorse Erfea o se lo vide, minuscola figura persa tra le rocce lo ignorò, ché altro era il suo compito in quell’ora oscura ed egli sarebbe dovuto soccombere dinanzi alla potenza del suo signore.

Il Dunadan, però, la vide e rapido gli balenò nella mente il ricordo di un duello combattuto anni prima tra lui e la malefica dama di Numenor nella città di Umbar; allora fuggì e raggiunse la bianca città degli uomini, dando fiato al suo olifante affinché tutti potessero udirlo e prepararsi alla difesa delle mura: leste, allora, centinaia di trombe argentee riecheggiarono nella vasta gola montuosa mentre la sera fu riempita di speme, ché gli uomini si rincuorarono ed essi presero a sussurrare antiche cantiche apprese dai Noldor in esilio».

Note

[1] Le Tengwar erano state elaborate dagli elfi Noldor prima ancora del loro esilio nella Terra di Mezzo e sebbene non venissero più adoperate nella loro forma originaria, pure Feanor ne aveva approntato una variante ed essa si era diffusa presso Elfi, Uomini e Nani.

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«Nei giorni seguenti, si susseguirono numerosi consigli di guerra, ai quali parteciparono entrambi gli eredi di Elendil e i maggiori comandanti del regno; notizie giungevano dal Nord ed esse recavano letizia nei cuori degli Esuli, ché il nemico era in rotta ed aveva attraversato nuovamente il fiume Celudin, ritirandosi nelle remote steppe del Rhun: i saggi di Gondor non celavano la loro soddisfazione, ritenendo che il Nemico fosse stato battuto e costretto a fuggire per non far più ritorno alle terre degli Eothraim. Erfea, tuttavia, trascorreva silenti le sue giornate e il suo viso non condivideva la letizia dei consiglieri del sovrano, ma inquieto e pallido, mirava spesso le Ephel Duath, presagendo che il nemico giacesse ancora al di là degli insormontabili monti.

Lesti trascorrevano i giorni e il primo mese del nuovo anno si accingeva a terminare, allorché, una notte, il riposo del figlio di Gilnar venne turbato da una visione quale mai il sovrintendente di Gondor mirava da numerosi anni: a lungo egli si era dibattuto nella quiete della sua dimora, ché grida orribili a udirsi gli erano echeggiate nella mente; infine si era acquietato, come il marinaio che dopo la tempesta perigliosa trova riparo nel porto sicuro, ché il suo spirito si era librato oltre il Mare ed egli era giunto a Feneria, ora sommersa dalle acque. Ivi, una voce a lui cara, gli aveva sussurrato dolci parole nella mente: “Mio signore, è giunta l’ora della pugna! Impugna Sulring di Gondolin, ché colei che serve l’Oscuro Signore ha condotto le armate di Mordor presso la città di Minas Ithil ed essa cadrà, a meno che i tempi non mutino nuovamente e il volere di Eru Iluvatar non sia rivelato ai suoi figli.”

Lesto Erfea si scosse dal sonno inquieto e indossata l’armatura, cinse al suo fianco la nobile lama; recatosi nelle stalle di Osgiliath sellò Elrohir[1], il cui pelame spendeva luminoso finanche nella buia notte del novilunio, e cavalcò diretto verso la città di Isildur: penoso e solitario fu il suo viaggio e grande crebbe nel suo cuore la paura, ché temeva essere vano ogni avvertimento e atto di valore. A lungo cavalcò nella tenebra, spronando il figlio delle terre del nord affinché costui lo conducesse ove il suo animo desiderava recarsi; infine la vide, remota, eppure chiara, ergersi al di sopra dei banchi di nebbia che salivano dall’Anduin: grato fu allora il suo cuore ed egli volse, commosso, il pensiero a colei che gli aveva permesso di evitare una ignominiosa sconfitta. Stupefatte, le guardie del Cancello accorsero allorché egli diede ordine di destare dal suo sonno il sovrano: non dovette tuttavia attendere a lungo il figlio di Gilnar, ché Isildur lo ricevette nella sua dimora.

“Erfea, tarda è l’ora e l’alba è lungi dal giungere. Quale richiesta di mio fratello ti ha spinto ad abbandonare il tuo giaciglio per recarti a Minas Ithil? Una grande paura vedo impressa sul tuo volto, sebbene la notte sembri calma e il vento non abbia condotto alcuna nuova da est.”

Fosco in volto, Erfea si approssimò al grande braciere che splendeva, simile ad un fiore rosso, nel centro della notte, ché la gelida morsa di Narvinye l’aveva stretto a lungo tra i suoi artigli ed egli ne portava ancora le fresche cicatrici; parole sulle prime non pronunciò, ché erano ancora in lui stupore misto ad angoscia ed egli ignorava con quali parole avrebbe comunicato tale sventura al suo signore; infine, reputando il silenzio un male ben più grave delle paure che gli si agitavano nell’animo, parlò, ché il tempo era tiranno e insensibile alle sventure della prole di Eru Iluvatar.

“Una grande armata, comandata dal Nazgul Adunaphel[2], giunge ora dal passo di Cirith Ungol e tosto la città sarà circondata; questa notte, parole di ammonimento e saggezza hanno destato in me profonda preoccupazione e ora giungo da te perché come erede maggiore del Sovrano, prenda il comando di questa città e del regno: Sire Anarion ignora tali avvertimenti ed Osgiliath riposa, dolcemente cullata dal canto che sale dal Fiume. Minas Ithil, tuttavia, deve essere destata, ché in caso contrario i suoi ignari abitanti si recheranno alle aule di Mandos con le ferite ancora impresse sui volti e sui corpi.”

Solo il silenzio fu udito echeggiare nei vuoti e freddi corridoi della reggia, ché Isildur, profondamente turbato, parola non adoperava; infine, dopo aver a lungo sospirato, parlò a voce bassa: “Quali prove possiedi per sostenere tali parole? Può forse una visione indurci a confondere fantasia con realtà, speme con disperazione, passato con presente? Invero, Erfea, colui che chiamano il Morluin, mai il coraggio degli uomini è venuto meno a causa di simili profezie di sventura, ché esse confondono solo i cuori degli stolti e degli ignavi e mi rifiuto di credere che gli anni trascorsi nel lungo esilio abbiano corroso a tal punto la tua lungimiranza da renderti cieco e sordo dinanzi alla realtà presente”. Nulla rispose il sovrintendente di Gondor, ma sguainata la sua lama dal lucido fodero, la mostrò ad Isildur: “Se tale è il tuo pensiero, figlio di Elendil, non sarò io a dichiararlo mendace, ma la mia lama: essa infatti fu forgiata a Gondolin dai Noldor in esilio e si illumina di luce propria allorché i servi di Morgoth sono prossimi. Se dunque basi i tuoi giudizi solo su quanto i tuoi sensi percepiscono, ebbene non potrai ignorare tale avvertimento”.

Profondamente turbato, il signore di Minas Ithil abbassò l’orgoglioso sguardo a terra e, ispirato da giusta vergogna, parlò: “In nome del legame che ci vincola, ti chiedo di obliare le amare parole che hai udito pronunciare dalla mia favella: era il timore di udire una condanna a lungo temuta a parlare in me; tuttavia, essa è ora svanito, come bruma al mattino e più i nostri cuori dovranno disperare, sebbene è destino che mesi di tormenti debbano attenderci. L’ora del confronto è giunta: possa essere infausta per i servi del Nemico!”

Lesto l’erede di Elendil ordinò che i suoi scudieri fossero destati e si affettassero a rivestirlo, ché una grande collera covava ora nel suo sguardo ed egli aveva già cinto la sua lama; a lungo squillarono le campane, ché il pericolo si approssimava e più poteva essere ignorato: uomini corsero ad armarsi e grida furono udite riecheggiare nelle strade ancora avvolte dalla bruma della notte. I comandanti chiamavano i guerrieri a raccolta e le prime compagnie avevano preso posto dinanzi al Cancello; veloci reparti a cavallo furono spediti ad est e ad ovest, gli uni per comunicare tale minaccia ad Osgiliath, gli altri per scorgere le schiere del nemico. Erfea, tuttavia, non prese parte a tali preparativi, ché nel suo cuore un nuovo presagio era sorto ed egli era titubante a comunicarlo al suo sovrano; tale fu il suo comportamento che non sfuggì a Luiniell, Signora di Minas Ithil, la quale era in verità del suo lignaggio[3]: “Erfea, signore della mia schiatta e sovrintendente di Osgiliath, non vi è luce nei vostri occhi. Cosa temete dunque?”

Lenta fu allora la risposta di Erfea ed egli parlò a voce bassa, quasi temendo che orecchie indiscrete fossero occultate dalle ombre della notte: “Invero, mia signora, la presenza di un solo Nazgul potrebbero costituire minaccia sì grave da provocare tale turbamento nel mio sguardo e nella mia voce, né sarò io in grado di smentire tale affermazione; tuttavia, altri Poteri sono pronti a destarsi in tale ora oscura ed essi io temo, ché non solo Sauron servì l’Antico Nemico ed altri spiriti, ignoti alle genti libere, vagano ancora per le ampie distese desertiche della Terra di Mezzo, taluni sotto forme che gli sprovveduti troverebbero belle, altri ammantati di terrore e ombra: ricordi e presagi si agitano nel mio animo, né il fuoco della tua dimora potrebbe riscaldare il mio cuore in tale fredda ora”.

“Suvvia, Dunadan! Finanche in tale frangente, la speme non è scomparsa dal cuore degli uomini! Molte leghe i tuoi passi hanno coperto, da Osgiliath a Mordor, da Numenor all’Harad e sovente il pericolo è stato l’unico compagno durante le sofferte peregrinazioni che il tuo spirito ha dovuto affrontare; eppure, non fu forse Erfea Morluin colui che affermò esservi pericoli maggiori nella propria dimora che nelle Terre Selvagge?”

Sorrise il figlio di Gilnar, destando in Luiniell meraviglia e stupore, ché di rado il sovrintendente esprimeva in modo sì palese la sua letizia e vi erano pochi o punti motivi in quei giorni per nutrire nel proprio animo un simile sentimento; destatosi dal suo scranno, le prese allora la mano e baciatala, sorrise nuovamente: “Invero quanto affermi corrisponde a verità, che  in numerose occasioni la Morte mi è stata prossima e sempre nella mia casa”. Fece per andar via, eppure si voltò nuovamente e parlò ancora una volta: “Non credere che io abbia smarrito ogni speranza; sappi tuttavia che altrove risiede il tuo destino e che mai più farai ritorno a Minas Ithil, a meno che il Fato non muti nuovamente e ad altri sia data in sorta una grave responsabilità”. Lesto si inchinò Erfea e altre parole non trovò per salutare la sua Signora; costei, tuttavia, gli rimembrò quanto la casa di Amandil fosse grata al sovrintendente di Osgiliath, ché numerosi servigi le aveva procurato in quegli anni, fin da quando Numenor era caduta: silente, lo sguardo perso nel ricordo di eventi passati, Erfea la stette ad ascoltare, infine sospirò: “Non credere che tali eventi abbia obliato, ché io conosco essere veritiera ogni tua affermazione e tale sarebbe anche il parere di Amandil, se egli fosse qui; temo, tuttavia, che ad altri toccherà in sorte narrare tali vicende, ché molti fra coloro che ne furono protagonisti riposano ora nella calda coltre della sabbia dell’Oceano; dolce è il ricordo per chi ancora non ha obliato ed esso ha il sapore del nettare colto all’alba, tuttavia non lenisce le cicatrici di coloro che rimembrano Numenor e la sua gloria e non terrorizzerà il turpe animo dei nostri nemici.”

Lesto allora Erfea si inchinò a Luiniell e sguainata Sulring, la tenne nella destra, ché il suo baluginare potesse rischiarare le Tenebre che adesso occultavano la Città della Luna: lente trascorsero le ore della notte per chi vegliava, rapide per chi cercava riposo nella sua coltre fredda ed umida; vapori ed esalazioni si levarono da oriente, sì che il sole ne fu oltraggiato e più la sua luce illuminò gli stendardi di Gondor ed essi parvero morire nella fredda alba. Rapide, lacrime della notte scivolavano lungo i pendii delle mura e l’eco della loro malinconica melodia colmava di sgomento i cuori degli uomini ed essi non parlavano, ma tacevano, ascoltando, rapiti, i brevi singulti di qualche infante il cui sonno era stato turbato dallo stridere di armi e dall’ululare dei lupi.

Note

[1] “Cavallo della stella”: tale animale, donato dagli Eothraim ad Erfea, sebbene non avesse ricevuto la facoltà di parlare le favelle dei figli di Iluvatar, era tuttavia in grado di comprendere le lingue degli uomini e degli elfi, ché era discendente del possente destriero che Orome, il cacciatore dei Valar, aveva condotto con sé durante i suoi viaggi nella Terra di Mezzo nelle Ere che precedettero il sorgere del sole e della luna.

[2] Settimo fra i Nazgul, nota anche come l’Incantatrice.

[3] Le storie di quell’epoca non menzionano affatto quale fosse il legame di parentela tra Erfea e Luiniell; secondo alcuni storici di Gondor, ella era nipote del Principe dell’Hyarrostar per parte paterna, ma i pareri sono discordi e questa è solo una ipotesi.

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