Il discorso di incitamento di Gil-Galad ai soldati dell’Ultima Alleanza

Care lettrici, cari lettori,
in questo articolo scoprirete quali furono i discorsi che i condottieri dell’Ultima Alleanza pronunciarono per esortare le truppe alla battaglia incipiente. So bene che molti di voi avranno presente il discorso tenuto da Aragorn al Cancello Nero, una scena presente nella versione cinematografica di Jackson, ma assente nel romanzo dove l’erede di Isildur ebbe poco tempo per decidere come schierare le truppe e certamente non ebbe modo di pronunciare quelle parole che sono diventate così celebri da essere riprese in centinaia di meme sui social. Spero che troverete epici anche i discorsi di Gil-Galad & C….a me non resta che augurarvi buona lettura e aspettare i vostri commenti!

«Sospirò a lungo, il figlio di Fingon, infine, avvedendosi che il pericolo sarebbe presto piombato su di loro e non essendoci più alcun tempo per mutare quanto era stato deciso, montò a cavallo e issato il suo nobile vessillo sulla candida lancia, il cui nome era Aiglos, così parlò ai guerrieri che erano intorno a lui e la sua voce fu come il suono dell’olifante allorché squilla nel chiaro mattino:

“Soldati! Compagni d’armi! Fratelli! Se c’è qualcuno fra voi che tema la malizia del Nemico, non esiterò a confessargli che, invero, condividiamo la medesima paura; se c’è qualcuno fra voi che lamenti la nostalgia della propria dimora, ebbene, sappia che non sarò io a dichiararmi insensibile al suadente richiamo che essa sussurra ai nostri cuori; se c’è qualcuno tra voi che osi sfidare colui che impedisce agli Eldar di accarezzare le corde del liuto e dell’arpa anziché la lama della lancia e della spada, io lo chiamerò figlio e mai egli sarà solo, ché, ecco, io gli offrirò la mia Aiglos!
Soldati del regno, vi è qualcuno che desideri la mia arma?”

Possenti si levarono allora le voci dei Quendi ed essi presero a scuotere i giavellotti sugli scudi, si ché l’aree echeggiò dell’orgoglioso furore dei Primogeniti di Iluvatar; allorché esso scemò nelle voci, ma non nei cuori e negli animi, parlò Elendil, sovrano degli uomini:

“I nostri padri, le cui vite mortali furono strappate dai loro forti corpi dalle bieche azioni dell’Oscuro Signore, sorriderebbero, se fossero qui, ché mai come in questa ora il nome degli eredi di Numenor è sì temuto: a voi, progenie di Elenna ancora viva nei nostri cuori, dico di mostrarvi fieri del sangue che scorre nelle vostre vene, si ché nessuna infame voce possa asserire che la gloria della stirpe di Elros Tar-Minyatur, nostro avo, sia scomparsa nei flutti del tempestoso mare!

A voi, uomini del Nord e del Sud che avete offerte le vostre spade alla nostra alleanza, dico che siamo fratelli e congiunti nel sangue, ché invero i nostri avi combatterono assieme e assieme trionfarono: siate dunque fedeli ai vostri capitani e possano le vostre lame vendicare quanti non sono più!”

Simili al fragore di una frana che si abbatte con forza sui miseri alberi a valle, simili al poderoso canto che dalle profondità delle dimore di Ulmo sale alla superficie, così eruppero le grida da battaglia degli Uomini e si narra che esse giungessero fino a Barad-Dur, ove l’Oscuro Signore ne ascoltò i remoti echi e fu invaso da grande paura e odio indicibile; lesto, allora, egli diede ordini al suo Capitano affinché i suoi nemici fossero vinti, ché non gli pareva possibile che una simile armata, adornata di valore e splendore, potesse sostare ai confine della sua terra.

Si levò, infine, la roca e profonda voce di Bòr ed egli esortò le sue schiere con tali parole:

“Figli di Aule, ove sono adesso l’ascia e lo scudo adorno d’acciaio? Ove sono l’usbergo in maglia e il lungo manto rosso? Non sono forse essi posseduti da coloro che ne faranno un sapiente uso, si ché le schiere di Mordor fuggiranno in preda al terrore, non appena esse scorgeranno il vessillo di Khazad-Dum, la maestosa reggia dei nostri padri?

E voi, valorosi guerrieri di Belegost, non siete forse gli eredi di Azaghal il possente, colui che ferì il Grande Padre dei Draghi e ne umiliò l’arrogante spirito? Sia dunque imperituro nei vostri animi il ricordo di tale gesta, ché, ecco, vi si presenta oggi l’occasione di eguagliarne il valore, portando a termine imprese che ancor nessun figlio di Mahal ha compiuto. Siano dunque saldi i cuori e valorosi gli animi, Khazad!”

In coro giunse la risposta dei Naugrim, sicché parve che la terra stessa parlasse in loro vece: “O con gli scudi, o sopra gli scudi!”

Nessun discorso pronunciò in quell’ora oscura e gloriosa Erfea, né egli avrebbe desiderato che vi fosse altra voce a parlare in sua vece che quella dei ricordi; lentamente, allora, accarezzò l’elsa della sua lama e il nobile fodero che ne tutelava il duro filo, rimembrando essere stato quello un dono di Miriel allorché egli aveva fatto ritorno a Numenor dopo il suo primo viaggio diretto alle sponde della Terra di Mezzo, una sera di duecento anni prima, allorché i suoi occhi erano giovani e non ancora colmi della triste saggezza che apprendono i Secondogeniti nel corso della loro esistenza.

Si avvide Elrond di quanto rimembrava nel suo animo Erfea e gli posò la forte mano sulla sua spalla; lieto, allora il viso di Erfea si destò dall’oblio del passato in cui era piombato ed i due presero ad esortare le proprie schiere, facendo leva l’uno sull’orgoglio della propria stirpe, l’altro sull’onore che sarebbe stato attribuito loro, qualora fossero riusciti vittoriosi da tale conflitto; infine, coloro che erano degli Eldar, la cui vista è simile a quella di Manwe, scorsero, ancora lontane nella pianura, minuscole figure approssimarsi e lanciarono grida d’allarme, si ché ognuno potesse schierarsi prima che la pugna piombasse su di loro.

Rapidi e silenziosi, preghiere e canti si levarono rivolti ai reggenti di Varda e ai loro congiunti, e molti idiomi diversi fu possibile ascoltare in quell’ora, il khuzdul accanto al quenya, l’adunaico accanto alle favelle degli uomini del Nord e del Sud, il sindarin accanto ai dialetti silvani di Bosco verde il Grande e di Lorien».

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La Battaglia della Dagorlad – Il catalogo delle forze alleate e nemiche

Care lettrici, cari lettori,
siamo ormai giunti alla grande battaglia che decise i destini della Terra di Mezzo al termine della Seconda Era. Sarà una battaglia epica, come la maggior parte di voi se la saranno immaginata, e non mancheranno eroismi e drammi. Prima di lasciare lo spazio al campo di battaglia, vorrei spendere due parole sull’evento storico che ho preso a modello di questo scontro. Non è stato facile pensare a uno scontro che riassumesse al suo interno le caratteristiche di una battaglia simile a quella combattuta fra Sauron e l’Ultima Alleanza. Alla fine ho optato per la Battaglia di Zama (202 a.C.), affidando la parte dei Romani ad Elfi e Uomini e quella dei Cartaginesi a Sauron e ai suoi alleati. In sostanza si trattò di una battaglia di attrito, nella quale il Capitano degli Eserciti di Sauron, per vincere, aveva una sola possibilità: consumare le forze nemiche contrapponendo loro armate via via più forti ed esperte, sino a consumarle, un assalto dopo l’altro. Inutile dire che la parte dell’avanguardia, destinata a facile massacro, sarà costituita dagli Orchi e che ai Numenoreani Neri, pesantemente armati, toccherà il ruolo di retroguardia. Ho progettato una serie di schemi che spero potranno aiutarvi a comprendere lo schieramento delle forze alleate e nemiche e che saranno pubblicati nei prossimi articoli.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

[immagine in evidenza: Jean Jesu Fumeres (fumeresart) su Instagram e artstation].

«Rapida, la notte calò sulle schiere dell’Alleanza e nessun suono osò disturbare il loro sonno, ché poteri quali gli Eldar poche volte avevano mirato e di cui gli Edain non conservavano che un pallido ricordo, erano all’opera; il mattino seguente, destatesi alle prime luci dell’alba, i soldati scorsero nuove milizie accorrere presso lo stendardo delle libere genti; erano costoro le possenti creature della terra, orsi dalle montagne del nord, cavalli selvaggi dalle steppe dell’oriente, minuscole formiche provenienti dagli antri profondi, e altre bestie quali il vasto mondo racchiude in seno.

Meraviglia si dipinse sul volto degli Eldar, degli Edain e dei Naugrim, ché essi miravano raccolte sotto i vessilli dei Capitani dell’Ovest un esercito quale mai avevano scorto nel corso delle loro esistenze e che mai più avrebbero visto; soli, fra quanti esprimevano il loro palese stupore, Cirdan, Gil-Galad ed Elrond sorridevano, ché non avevano obliato quanto era accaduto migliaia di anni prima.

Le cronache di quei giorni ricordano che l’esercito che si schierò dinanzi ai lugubri cancelli neri di Mordor fu inferiore per possanza e per numero solo a quello che abbatté Thangrodim al termine della Prima Era. Invero, veritiere sono tali affermazioni, né vi fu stirpe i cui guerrieri non si trovarono l’uno contro l’altro in quello scontro: solo gli Eldar furono fedeli a Gil-Galad e a lui soltanto, ad eccezione di Celedhring che rinnegò il suo popolo e servì l’Oscuro Signore sino alla sua morte, essendo, tuttavia, troppo vile per affrontare in singolare tenzone le armate dei Noldor.

Le stirpi di Uomini e Nani, invece, scelsero di schierarsi nell’uno e nell’altro esercito, gli uni privilegiando la libertà, gli altri una schiavitù infame ed eterna: gli eredi dei Fedeli di Elenna, militarono nelle schiere di Elendil e dei suoi figli, mentre coloro che erano stati seguaci di Ar-Pharazon il Dorato ed erano sopravissuti alla Caduta, seguirono i voleri di Sauron e servirono sotto i vessilli degli Ulairi; gli Uomini del Nord, ad eccezione delle schiere originarie del regno di Urdar, prestarono giuramento all’Alto Theng del Rhovanion, Aldor Roch-Thalion, ed essi erano numerosi e bene armati dai fabbri di Gondor, cui erano legati da antichi vincoli di fedeltà; gli Orientali si scissero fra coloro che erano nelle file di Herìm, ed erano costoro minori nel numero ma non nel valore, e fra quanti, spinti dal terrore degli Spettri dell’Anello e da seducenti menzogne del Nemico, si schierarono con il Nemico. Poco o punto note sono le vicende delle genti che vissero nelle ampie ed inesplorate contrade che si estendono a sud di Mordor; pure, fu detto che le stirpi su cui gli Ulairi avevano grande influenza militarono sotto gli stendardi di Mordor: fra esse, vi erano i Wolim del continente e dell’isola di Waw, i guerrieri delle tribù provenienti da Hent, i Chey delle lande desertiche che si estendono tra il Khand e la contrada di Ciryatandor, gli Haradrim accorsi da ogni loro feudo del sud, i Variag di Mordor e del Khand, ed altre genti di cui non sopravvive più alcun ricordo ai giorni nostri. In massa esse risposero all’appello del Signore di Mordor e sebbene le loro armi non fossero paragonabili a quelle che forgiavano i popoli liberi, pure esse si dimostrarono non meno letali nel lacerare la carne e trafiggere usberghi di acciaio e di cuoio intessuti, ché i fabbri di Barad-Dur presero a forgiare in quei giorni ormai lontani ogni strumento bellico di cui l’esercito del loro signore avesse abbisognato.

Pochi furono i Nani che presero parte al conflitto, ché alcune stirpi vivevano lontano dagli eventi che accadevano nella Terra di Mezzo nord-occidentale e si curavano poco o punto di quanto parevano ai loro orecchi niente altro che leggende da narrare intorno ai fuochi durante le veglie dell’inverno; pure, fu detto che fra coloro che servirono il Nemico, vi fu una stirpe che era fuggita dall’estremo oriente nei primi anni della Seconda Era, stabilendosi negli Ered Lithui, ove le loro menti ed i loro corpi furono fatti prigionieri dall’oscura malizia di Sauron. Bavor era il signore di tale schiatta ed essi, seppure desiderosi di  partecipare a battaglie campali, ché molto avevano in odio le altre casate, combatterono raramente, essendo intenti alla fabbricazione di strumenti bellici di ogni sorta; fra coloro che schierarono le loro schiere dinanzi ai Cancelli Neri, grande menzione ebbero i Naugrim di Durin IV e dell’antica roccaforte di Belegost, di cui oggi non sopravvivono altro che spoglie rovine; spietati erano i loro volti ed i guerrieri di Mordor sempre temettero i rampolli di Aule, sovente fuggendo in preda al panico allorché avvistavano il vessillo di Khazad-Dum.

Molto si è narrato di quanti, fra i figli di Iluvatar, parteciparono al conflitto che pose termine alla Seconda Era del mondo; pure, finanche le bestie del cielo e della terra si divisero, ciascuna specie secondo la propria volontà. Oscuri sono ormai diventati agli occhi degli uomini le pergamene ove mani sapienti annotarono quanto accadde in quegli anni oscuri, ché molto hanno obliato i Secondogeniti sin da quando Numenor è caduta ed Elendil ed Isildur sono venuti meno, eppure, non tutto è svanito e molto si parla, nelle cronache di quei remoti giorni, delle crudeli creature che servirono i voleri dei Nazgul: serpi dalle fauci velenose, cani e lupi dal morso feroce e pipistrelli dalle cuiose ali. Maggiori furono, tuttavia, le bestie che offrirono la loro vita all’Alleanza ed invero fu solo in questo che il numero di coloro che combatterono la potenza della Terra Nera si mostrò superiore a quello dei loro nemici; delle possenti aquile e degli altri volatili molto è stato detto, eppure esse non furono le uniche creature a seguire i vessilli delle libere genti, ché furono avvistati orsi imponenti e leoni provenienti dalle remote contrade del sud ed altre specie ancora che più le storie ricordano.

Imponente era invero l’armata dei seguaci dei Valar, inferiore solo a quella che aveva raso al suolo Angband e luminosi i vessilli intessuti d’oro e d’argento; eppure, nonostante le numerose genti che avevano giurato ad Orthanc, esigua era la schiera dell’Occidente se paragonata a quella di Mordor. Oltre a coloro che erano della progenie di Iluvatar, infatti, vi erano le creature nate dal folle volere di Morgoth e che, nei segreti recessi della Terra Nera, avevano ripreso a moltiplicarsi: Orchi dallo sguardo bieco e ripugnanti Troll ne costituivano le terribili avanguardie; pure, ignote ai comandanti dell’Alleanza, vi erano altre creature, escogitate dalla perfidia e dalla malizia di Sauron, che attendevano trepidanti l’ora dello scontro, esseri la cui perfidia la luce del sole rifiutava di mostrare agli incauti occhi delle libere genti, tanta era la malvagità e l’orrore che covava nei loro sguardi.

Cosa temessero, ciascuno nel profondo del proprio animo, i signori degli Eldar, degli Edain e dei Naugrim è cosa assai ardua da dire; poche parole furono infatti pronunciate durante il cammino che essi percorsero per raggiungere le contrade di Mordor, sia per tema di attirare l’attenzione dei servi del Nemico, sia perché l’aree era divenuta grave e le gole riarse ed offese. A lungo marciarono i fanti dell’Alleanza, infine si avvidero che il percorso che essi avevano sin lì seguito si apriva in un esteso spiazzo, battuto dai gelidi venti del Nord e da quelli secchi dell’Est; non fu tuttavia la natura selvaggia ed inospitale di tali luoghi ad attrarre l’attenzione di quanti erano ivi giunti, bensì le imponenti fortificazioni che si estendevano dinanzi ai loro attoniti sguardi: lugubri, le nere torri e i foschi minareti si ergevano sulla sommità dei crinali montuosi degli Ephel Duath e degli Ered Lithui. I guerrieri dell’Alleanza si fermarono ed i loro sguardi furono ricolmi di inquietudine e di timore, né erano infondati i loro sospetti, ché esalazioni velenose si levavano simili ad esili spirali contorte dall’agonia di quelle contrade martoriate, sicché parve loro che oscuri fantasmi si agitassero dinanzi ai bianchi vessilli».

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Care lettrici, cari lettori,
l’esercito dell’Alleanza è ormai pronto a sfidare le truppe di Sauron dinanzi ai Cancelli Neri di Mordor. Prima di affrontare il Nemico, tuttavia, esse saranno raggiunte da una serie di inaspettati Alleati, che contribueranno a rafforzare le loro file. Nel Silmarillion, scrivendo a proposito della composizione dell’Alleanza, Tolkien sostiene un’idea «potenzialmente» di grande respiro narrativo, ma che si presta – come vedremo – a molteplici interpretazioni. «Tutte le creature viventi quel giorno presero partito, e in entrambi gli schieramenti ve n’erano d’ogni genere, sia quadrupedi che pennuti, l’unica eccezione essendo costituita dagli Elfi, i soli che non si fossero divisi» (p. 370). Cosa significano queste parole? L’espressione «tutte le creature» deve essere intesa in senso assoluto o relativo? Nel primo caso – il più affascinante, forse, dal punto di vista speculativo, ma, allo stesso tempo, il più tremendo da gestire nei panni di chi si accinge a scrivere di questa battaglia – avrebbero potuto essere presenti Draghi, Balrog, e perché no? perfino gli Hobbit. Nel secondo caso, l’autore avrebbe inteso una presenza di creature note a chi scriveva il Silmarillion, ossia i Noldor, escludendo pertanto una serie di specie viventi all’epoca ancora non note (per esempio gli Hobbit). La questione è complessa, e non è escluso che presto possa dedicare un articolo a questo enigma, nel quale esporrò le mie suggestioni e ipotesi. Per il momento, dopo lunga e sofferta valutazione, mi sono orientato verso una posizione intermedia, nella quale, naturalmente, non potevano mancare le creature parlanti più antiche della Terra di Mezzo: gli Ent, i Pastori degli Alberi, e i loro rappresentanti più anziani, tra i quali spicca Barbalbero.

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L’immagine in alto è di Ted Nasmith: «Barbalbero e l’Entconsulta»

«Secche, giungevano alle orecchie dei soldati le parole dei loro capitani ed essi erano ansiosi di muovere guerra alle truppe di Mordor, né v’era bisogno di parole per spronare i loro gesti, ché molti avevano ancora impresse nella mente i cadaveri, mutilati ed abbandonati nella piana di Osgiliath, mentre altri, pur non avendo assistito a quanto mente mortale e immortale è impossibilitata dall’obliare, avevano ascoltato i raccapriccianti racconti di coloro che erano sopravvissuti e avevano partecipato del dolore che aveva colto i propri compagni d’arme.

Lance furono issate, spade sguainate e faretre empite di dardi acuminati; allorché le armate dell’Alleanza furono schierate, Gil-Galad si voltò e nel suo cuore si impresse, a ricordo imperituro di quel giorno, la maestà dei figli di Iluvatar; allora, il suo cuore fu empito dalla gioia ed egli, sguainata la lama dal fodero impreziosito da eleganti intarsi in mithril, cantò nella lingua dei padri: melodiose, eppure virili, erano le parole che egli pronunziava e perfino chi non comprendeva il Quenya, rimase affascinato, sicché presto l’animo di ciascuno fu saldo e la mente libera dalla paura dei servi di Mordor.

Era il tramonto allorché le schiere dell’Alleanza presero a marciare dirette a Mordor e nessun nemico osò contrastarne la marcia, ché gli esploratori di Thranduil bene conoscevano quelle contrade ed essi evitarono le distese acquitrinose ove i guerrieri dei Silvani avevano trovato triste morte. Rapide, le schiere dell’Alleanza si mossero lungo l’antica strada, realizzata dai servi di colui che si apprestavano a combattere; stupiti, esse miravano una gran quantità di bestie del cielo e della terra unirsi a loro, e, sebbene si interrogassero l’un l’altro, pure non riuscivano a comprendere per quale ragione accadesse un simile fenomeno.

Possenti aquile, le cui maestose ali empivano il cielo, erano sopra i figli di Iluvatar, né esse erano gli unici volatili, ché tosto si accompagnarono a costoro candidi cigni, il cui piumaggio splendeva sotto la rossa luce del freddo tramonto. Lieti in volto, gli Eldar presero a mormorare che costoro erano i congiunti di Elwing e il loro spirito fu rallegrato dalla loro comparsa; non meno gioiosi, tuttavia, erano i Secondogeniti, ché innumerevoli gabbiani dal canto malinconico erano comparsi all’orizzonte e sovente essi si posavano sugli elmi dei soldati di Gondor, sicché questi parevano davvero essere decorati dalle ali di tali uccelli.

Se maestosi erano i voli degli araldi di Manwe e di Varda nel vasto cielo, non meno nobili erano tuttavia i pastori di Yavanna e l’aree era colmo dei loro profondi e rauchi richiami; stupefatti i figli di Iluvatar miravano gli Ent, gli antichi custodi degli alberi, fare seguito ai loro vessilli, sicché parve che un’immensa foresta fosse intenta a marciare; infine, allorché la sera calò e i soldati furono intenti ad edificare i ricoveri per la notte, tre fra i Pastori degli Alberi[1] si approssimarono all’accampamento, chiedendo di poter discorrere con i Capitani dell’Alleanza: anziane erano le loro membra, ma ancora vigorose, e lucidi gli imperscrutabili occhi; a lungo attesero in silenzio, infine uno fra loro avanzò e parlò con voce lenta e profonda.

“Hum, salute a voi, giovani rampolli del seme di Iluvatar! Alcuni fra voi – e così dicendo, si inchinò leggermente a Gil-Galad ed Elrond – hanno scorto in passato i miei passi nelle contrade oggi devastate dalla crudeltà dei servi di Sauron e udito l’eco delle nostre tristi canzoni allorché l’oggetto del nostro disio scomparve e più non fece ritorno alle antiche dimore; tuttavia, sebbene i nostri cuori ancora sanguinino per il ricordo di tali vicende, pure non sono giunto dinanzi a voi per ricordare il passato, ma per preservare il futuro delle contrade che amiamo”.

Lesti, i signori delle libere genti si inchinarono e Gil-Galad prese la parola: “Grati sono i nostri animi, o possente fra gli Onodrim, per quanto tu e la tua gente avete compiuto per la salvezza dei liberi popoli; non vi è alcuna parola, in nessuna lingua, per esprimere adeguatamente la riconoscenza per quanto i vostri possenti corpi hanno condotto a termine; senza la vostra azione, infatti, le genti di Gondor non avrebbero avuto alcuna dimora nella quale rifugiarsi durante il rigido inverno e l’afosa estate”.

Divertito parve l’Ent ed i suoi compagni risero cortesemente: “Hum, suvvia, re dei Noldor! Non è per ricevere gentili ringraziamenti da parte tua che abbandonammo i boschi a nord, bensì per sostenere la causa dei reggenti di Arda e di colui che è sopra essi; quanto a ciò che accadde nel fresco Ithilien, sappi che non costò al mio popolo alcuna fatica, ché gli orchi erano terrorizzati dalla nostra presenza, sebbene la stessa cosa possa dirsi riguardo ad alcuni delle vostre stirpi!”

Rise ancora e la sua letizia fu come un fremito del vento di primavera tra i suoi fronzuti rami; infine si arrestò e prese nuovamente a parlare, questa volta con tono curioso: “Gli uccelli del cielo hanno sussurrato alle mie orecchie che quivi sarebbe un capitano fra gli uomini, quali i miei occhi mirarono anni or sono; dov’è dunque Erfea, figlio di Gilnar, che voi chiamate Morluin?”

Messaggeri furono inviati alla ricerca del Sovrintendente di Gondor, ché nessuno sapeva dove egli fosse in quell’ora: non fu necessario, tuttavia, attendere a lungo, ché un cavaliere si approssimò alle massicce figure degli Onodrim e, sceso dal suo destriero, si inchinò dinanzi a loro:

“Ben m’avvedo di essere in ritardo, Signore fra i Pastori degli alberi, tuttavia non ti domando perdono, ché altri servigi hanno reso le mie braccia mentre tu discorrevi con i principi delle libere genti, e la pugna è prossima ad iniziarsi”.

Divertito l’osservò l’Ent, infine, chinato graziosamente il possente capo, lo salutò a sua volta: “Non desidero le tue scuse, ché rapida fugge via la tua esistenza, Numenoreano e molte sono le azioni che desideri ancora compiere nella Terra di Mezzo. Lieto sono nel discorrere con te, Erfea Morluin, ché lunghi anni trascorsero dal nostro ultimo incontro e, sebbene il peso degli inverni gravi sulle tue spalle ancora forti, sappi tuttavia che prossimo è il momento in cui riporrai il fardello e il dolore fuggirà via dalle tue membra”.

“Pure, Fangorn, tale ora è ancora distante, né vi è meraviglia nei miei occhi per quanto le tue parole hanno rivelato, ché si dice che il tempo scorra diversamente per i mortali e per quanti calcano queste contrade da epoche remote e che nessuno fra noi Secondogeniti ricorda”.

Sospirò l’Ent e le foglie che ne adornavano il capo furono scosse da una leggera brezza: “Invero, sagge sono le tue parole, ché troppo spesso oblio quanto appresi su coloro la cui sorte non è vincolata al destino di Arda; tuttavia, poiché altre faccende richiedono la mia presenza, vi porgo i miei saluti, rimembrando a ciascuno dei presenti quanto incomprensibili siano i voleri del fato, sicché non convenga affannarsi alla ricerca della comprensione di un sapere quale è pericoloso per i figli di Iluvatar ottenere”.

Rapidi si mossero gli Ent, sparendo nella bruma della notte; incredulo in volto, così parlò allora Aldor: “Pastori degli alberi! Mai avrei creduto che nel corso della mia esistenza avrei mirato le creature di Yavanna, le cui vicende sono note al mio popolo solo attraverso antichi poemi cantati nelle fredde notti di inverno. Benedetti siano questi giorni, ché, se molto è stato perduto e nuovi lutti subiranno le libere genti del mondo, pure è di grande conforto sapere che gli dei non hanno obliato i figli di Iluvatar che dimorano nelle vaste contrade di Endor”.

Rispose Glorfindel: “Rallegrati, dunque, figlio del Nord, ché oggi hai assistito ad un prodigio quale mai gli Eldar hanno scorto sin da che il Beleriand fu sommerso dai flutti del Grande Mare: gli Onodrim, i Pastori degli Alberi, sono infatti giunti in tali remote contrade per contrastare le schiere del Maia caduto e dei suoi servi”.

Annuì l’Eothraim, né egli era l’unico ad aver scorto quelle creature per la prima volta: “Molto si parla nelle leggende del mio popolo dei Pastori degli alberi, sebbene le vicende in cui siano implicati non costituiscano motivo d’orgoglio per la stirpe di Nogrod. – interloquì Groin, figlio di Bòr – Quali altre meraviglie scorgeranno dunque i miei occhi in questi giorni ricolmi di terrore ed incanto?”

Lungimiranti furono allora le parole che Cirdan pronunciò: “Il mattino recherà seco eventi quali i miei occhi, che pure sono molto anziani, non miravano dal giorno in cui Morgoth fu abbattuto ed Endor liberata dalla sua malvagia influenza, seppure per breve tempo”».

Note

[1] Erano, costoro, i più anziani fra gli Onodrim: Fangorn, Finglas e Fladrif erano i loro nomi nella lingua degli elfi grigi e Barbalbero, Ciuffofoglio e Scorzapelle nelle favelle degli uomini del nord.

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Gil-Galad, l’Alto re degli Elfi

Gil-Galad, l’Alto re degli Elfi

Una figura affascinante, della quale, tuttavia, conosciamo molto poco è senza dubbio quella di Gil-Galad, l’Alto Re degli Elfi che ancora vivevano nella Terra di Mezzo ai tempi dei Numenoreani. Questo personaggio, pur avendo contribuito alla sconfitta di Sauron nel duello finale combattuto lungo le pendici del Monte Fato, rimane tuttavia un soggetto di secondaria importanza nelle opere tolkieniane. Nel «Signore degli Anelli» Sam recita un componimento epico che porta il suo nome, ma per il resto non siamo in grado di apprendere molto di questo sovrano, fatta eccezione per le tragiche circostanze in cui trovò la morte (potrete leggere la mia versione del duello finale tra lui e Sauron qui) e per il nome della sua arma, la temibile lancia Aeglos («Punta di neve», un nome molto suggestivo, a mio parere). L’unico racconto (almeno fra quelli tradotti in italiano) nel quale assume una rilevanza maggiore è quello di Aldarion ed Erendis (Racconti Incompiuti): una sua lettera, infatti, trasmessa da Aldarion al padre di questi, il sovrano di Numenor, segnala, per la prima volta nella Storia della Seconda Era, il risveglio del Male nella Terra di Mezzo, che era stato creduto a lungo sconfitto per sempre dopo la caduta di Morgoth, alla fine dell’epoca precedente.

Per questa ragione ho voluto attribuire un maggior spazio a Gil-Galad nei miei racconti: non quanto, forse, ne meriterebbe – lo ammetto, sono più a mio agio nel descrivere gli Uomini rispetto agli Elfi, che considero una creazione squisitamente tolkieniana – ma abbastanza per delineare il ritratto di un sovrano Noldo: gentile, ma al tempo stesso inflessibile. Erfea aveva conosciuto questo personaggio già nel corso della sua giovinezza, allorquando ricevette dalle sue mani la spada Sulring (potrete leggere qui l’episodio citato): la loro amicizia perdurò negli anni, nonostante la distanza geografica che li separava, finché i due non ebbero occasione di parlarsi nuovamente, all’inizio degli eventi che condussero alla Battaglia della Dagorlad dinanzi ai Cancelli Neri di Mordor.

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Lenta, l’abile mano di Gil-Galad, Alto sovrano dei Noldor in esilio, vergava esili rune sulla chiara pergamena che si estendeva sotto il suo pensoso sguardo; nessuno era con lui in quella tarda ora del vespro, ché le truppe degli eserciti dell’Alleanza riposavano inquiete sotto un cielo grave di presagi. Remote, le stelle di Varda illuminavano la silenziosa piana che si estendeva dinanzi ai lugubri Cancelli di Mordor, al di là dei quali si ergeva la dimora dell’Oscuro Signore Sauron, Forgiatore degli Anelli e re degli uomini dell’Oriente.

Nessun suono proveniva dalle dimore che gli altri comandanti avevano eretto intorno alla sua, in omaggio alla maestà dell’erede di Fingon; eppure, fra costoro, vi era ancora chi si attardava a prendere riposo e vegliava inquieto. Sorrise Gil-Galad, ché gli era nota l’identità di tale capitano e sebbene i suoi acuti sensi percepissero l’irrequietezza agitarsi nell’animo del condottiero, pure vi era letizia nel suo cuore, ché ben conosceva il coraggio di colui che condivideva molte delle sue pene.

Le argentate Tengwar brillavano sui fogli che giacevano accanto al calice del sovrano, eppure nel suo cuore grave era scesa una minaccia e nessuna luce era in grado di rischiarare la tenebra che dai colli di Mordor si propagava tutt’intorno a loro; lesto, tuttavia, si scosse da tali tetri pensieri, allorché udì le sentinelle poste dinanzi all’ingresso della sua tenda ergersi e rivolgere cortesi parole di benvenuto nella loro primogenita favella.

Un’ombra si fece largo nell’ampia dimora che il sire elfico occupava fin da quando il suo esercito, disceso lungo gli ampi e frastagliati crinali degli Emyn Muil, era giunto dinanzi a Mordor per porre l’assedio alla fortezza del Maia caduto, servo dell’antico nemico dei suoi padri; imponente, la figura dell’inatteso ospite si ergeva innanzi a Gil-Galad, il viso e le membra occultati da una cappa un tempo nobile e ora logorata dalle fatiche e dagli anni ormai trascorsi. In Quenya costui aveva rivolto la parola agli elfi che sostavano all’ingresso, eppure non era un Priminato, ma un uomo della stirpe dei Numenoreani, signori fra gli Uomini ed eredi degli Edain che sostennero la causa degli Eldar nei secoli precedenti la caduta di Morgoth, l’Oscuro Signore del Mondo.

Lieto era in volto il sire dei Noldor, ché vi erano solo quattro mortali il cui ingresso nella sua dimora sarebbe stato salutato con tale entusiasmo dalle severe guardie; tre fra essi erano Elendil ed i suoi eredi, Isildur ed Anarion, sovrani dei regni di Arnor e Gondor: luminosi erano i loro sguardi, sì che essi parevano più simili a coloro che fanno ritorno ad Aman piuttosto che ai mortali cui la Sorte riserva il sonno eterno; eppure, neanche tali campioni tra gli uomini potevano vantare gloria e sapienza, procurate in innumerevoli anni trascorsi nelle gelide steppe e nelle infide corti di regni ormai obliati, come colui che era ora dinanzi al Signore degli Elfi.

“Ayia, Gil-Galad[1] pronunciò il visitatore, dopo essersi inchinato leggermente; infine si sedette e, facendo scivolare via il logoro manto, rivelò la sua identità al figlio di Fingon.

“Mae Govannen Erfea Morluin[2] – gli rispose l’Alto Sovrano dei Noldor – Tarda è l’ora, eppure foriera di sventure quali mai i figli di Iluvatar hanno affrontato. Molti sentieri hai percorso nel corso dei tuoi lunghi anni, sebbene il tuo sembiante non sembra essere affatto mutato; grave è tuttavia il tuo sguardo ed il mio cuore non può fingere di ignorare quanto i tuoi pensieri hanno a lungo celato agli altri uomini”.

“Ignoravo che tali antiche storie non fossero state obliate nel regno di Lindon, sovrano dei Noldor; eppure non sono giunto alla tua dimora in cerca di consiglio, ma per rivelare quanto i miei sensi hanno appreso in queste ore oscure”.

A lungo lo fissò Gil-Galad, infine, con un gesto cortese, ma grave, lo invitò a prendere posto dinanzi a lui; anziano era adesso il figlio di Gilnar, ché ben pochi, finanche tra la sua stirpe, erano mai giunti al terzo secolo di esistenza, eppure il suo corpo non aveva perduto nulla della sua antica possanza e Sulring la Splendente cingeva ancora saldamente il fianco del Numenoreano: numerosi ricordi balenarono nella mente del sovrano ed egli sorrise nuovamente:

“Ben m’avvedo quanto il mio dono ti abbia servito fedelmente nel corso delle tue amare peregrinazioni, Sovrintendente di Gondor; rimembri quanto la mia bocca pronunziò un tempo?”

Lesta fu la risposta di Erfea, ché egli non aveva mai obliato quanto era accaduto molti anni prima, allorché egli era un fanciullo e Numenor la sua patria: “Mi dicesti che il mio sentiero sarebbe stato arduo a tal punto che innumerevoli occasioni si sarebbero presentate perché io lo smarrissi e cadessi nell’oblio della menzogna e dell’inganno; tuttavia, non solo consigli ed ammonimenti mi rivolgesti quel giorno, ché un inestimabile dono mi fu consegnato, affinché le mie fatiche potessero sembrarmi meno gravi e io potessi trovare un sostegno al quale aggrapparmi qualora il fortunale si fosse abbattuto su di me”.

Sorrise lievemente Gil-Galad: “Ricordi bene, figlio di Gilnar; tuttavia – concluse con tono grave – altri doni, ben più grandi del mio hanno permesso al tuo spirito di perdurare sino ad oggi. Possa la grazia dei Valar assistere sempre la tua stirpe!”

Annuì Erfea, infine parlò a sua volta, rivelando il motivo per il quale era giunto a chiedergli udienza: “I nostri esploratori riferiscono che il Nemico ha fortificato l’entrata alla Terra Nera con poderose torri ed imponenti cancelli; all’interno di essi, occultati dalla mole massiccia degli Ephel Duath e degli Ered Lithui, schiere di uomini ed orchi attendono, impazienti di misurarsi con gli eserciti dell’Ovest.”

“Invero, tali notizie non costituiscono per me motivo di sorpresa, ché sarebbe stato troppo azzardato sperare che Sauron avesse sacrificato nel suo assedio a Gondor più Uomini di quanti non ne avesse ancora avuti a disposizione nella difesa del suo regno. Suvvia, Dunadan, non sarai giunto a me solo con tali resoconti, ché essi non possono colmare di smarrimento il tuo cuore, né il mio. Rivelami dunque quali sono i timori che nutri in tale ora oscura”.

Sospirò il Sovrintendente di Gondor, infine, afferrata una mappa delle contrade di Mordor, parlò a Gil-Galad in questi termini:

“Sappi, mio signore, che Sauron non ha obliato nulla di quanto desiderava ottenere; i suoi schiavi sono stati mobilitati ed egli si appresterà a colpire molto presto, per tema che nuove schiere possano unirsi alle nostre, arrecando terrore e panico tra le sue fila; egli, tuttavia, è un essere astuto e saggio, e non consentirà mai ai nostri eserciti di sfidare i suoi servi su campo aperto, confidando, invece, nelle robuste fortificazione del Morannon[3]”.

Rapida, la mano di Erfea si mosse sulla mappa, fino ad indicare gli Emyn Muil: “Sappiamo altresì che il punto debole dei nostri nemici è costituto dalla cavalleria, ché i loro destrieri non sono paragonabili a quelli che servono nelle nostre fila; è necessario, dunque, premere la loro fanteria con i cavalieri dell’Alleanza, se vogliamo sperare in una vittoria, la quale, ahimè, costerà alle libere genti un alto e gravoso tributo di sangue”.

“Le tue preoccupazioni sono le mie, Sovrintendente di Gondor, ma non comprendo per quale motivo tu mi stia indicando i bruni colli che si estendono alla sinistra dell’Anduin; il Nemico non spingerà mai le sue truppe così lontano e non vi è speranza dunque di attrarle in un luogo simile”.

“Quanto affermi corrisponde a verità; tuttavia, non è a tale scopo che ti ho indicato l’ubicazione degli Emyn Muil, ché non è mio intento condurre i nostri nemici in una imboscata, bensì nascondere i nostri cavalieri al riparo dalle possenti rocce frastagliate che ivi si ergono”.

“Curiosa mi pare tale strategia e se non ti conoscessi bene, Erfea figlio di Gilnar, direi che stai vaneggiando: a che pro nascondere le nostre schiere di Lindon e degli uomini del Rhovanion in una località posta a settentrione, quando invece la battaglia si svolgerà molto più a sud?”

Soddisfatto parve Erfea allorché il sovrano degli elfi gli pose una simile domanda ed egli rispose lesto: “La nostra speme risiede nella vanagloria del nemico; se noi contribuiremo ad alimentarla, essa non farà altro che procurarci l’agognata vittoria; quando, infatti, l’Oscuro Signore si renderà conto che solo i fanti difendono i nostri accampamenti, allora invierà contro di noi molte schiere e avremo l’occasione di sterminarle tutte, ché la nostra cavalleria così occultata, avrà facoltà di cogliere alle spalle i fanti di Mordor, chiudendoli in una stretta mortale”.

A lungo rifletté Gil-Galad su tale proposta, infine, scuotendo il capo, pronunciò tali parole: “Invero, mi sembra una tattica audace e pericolosa per le nostre truppe, ché il Nemico potrebbe inviarci contro solo alcune tra le sue schiere scelte, per massacrarci tutti, mentre la cavalleria potrebbe non arrivare in tempo per salvarci; oppure, se Sauron si comportasse come tu dici, i suoi eserciti potrebbero essere in numero tale da vincerci sul campo aperto; in tal caso, l’intera Terra di Mezzo cadrebbe sotto il giogo della Tenebra. Molti rischi sono insiti in simili strategie e non tutti conducono al medesimo obiettivo”.

“Gil-Galad, se anche le nostre schiere fossero dotate di armi d’assedio simili a quelle che la tua gente progettò ed adoperò contro Morgoth durante la Seconda Battaglia del Beleriand, credi che il Morannon cadrebbe? O non ritieni, piuttosto, che sarebbe la fine per i Popoli Liberi? Ogni giorno che trascorre, un numero crescente di contadini e pastori abbandona la lunga falce e il nodoso bordone di faggio per impugnare la spada e la lancia; se l’assedio a Mordor dovesse durare molti anni, credi che vi sarebbe davvero la possibilità di ricevere vettovagliamenti simili a quanti finora le nostre schiere hanno abbisognato? Il Nemico possiede campi e fattorie poste a Sud, più di quante tu ne possa immaginare; seguendo l’antico percorso degli Haradrim, carovane cariche di oro, metalli e vettovaglie giungono a Mordor, ove i loro carichi vengono smistati e destinati alle creature che servono l’Occhio Senza Palpebra.
Se il nostro attacco non sarà fulmineo, saremo destinati a perire non già per la guerra, ma per la fame”.

“Tu mi chiedi molto, figlio di Gilnar – sospirò l’Alto re dei Noldor – eppure, ben m’avvedo che sarebbe follia perseguire oltre questo sterile assedio, ché sono ormai trascorsi numerosi mesi dacché ci impadronimmo di tale contrada e costringemmo le schiere di Sauron a riparare entro le loro mura; come topi li rinchiudemmo in gabbia, eppure, adesso, il cacciatore si è tramutato in preda e questa in implacabile segugio!”

Erfea lo guardò silenziosamente, infine, prima di prendere congedo e ritirarsi nella sua tenda, così salutò il figlio di Fingon: “Ricorda quanto ti dico; le schiere di Sauron colpiranno presto, anche in inverno, se necessario, perché esse sono spronate da una volontà crudele, che punto o poco si cura di coloro che la servono”.

Silente e scuro in volto, Gil-Galad tornò a sedersi sul suo scranno, invano scrutando tra le ombre, ché non vi era luce in grado di rischiarare il suo animo, provato dalle numerose fatiche di quei giorni ormai remoti».

Note

[1] “Salve, Gil-Galad” in Quenya.

[2] “Benvenuto, Erfea Morluin” in Quenya.

[3] Nella Seconda Era, complesso di fortificazioni erette dall’Oscuro Signore a difesa del suo regno e situate fra le propaggini occidentali degli Ered Lithui e quelle settentrionali degli Ephel Duath.

Consigli di Lettura

L’incontro fra Erfea e Gil-galad

L’ultima battaglia della Seconda Era

Ritorno a Numenor

Continuo in questo articolo la narrazione delle avventure che Erfea visse nella Terra di Mezzo durante la sua giovinezza, fino al suo ritorno a Numenor per essere insignito del titolo di cavaliere.

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«Lesti trascorsero i mesi, e gli anni, né alcuna notizia giungeva da occidente; pure, sebbene nel suo cuore Erfëa fosse lieto e nulla gli fosse venuto meno, egli avvertì crescere nel suo animo una profonda nostalgia della sua gente e della sua dimora. Esitava, tuttavia, ad abbandonare il regno del Lindon, ché egli era convinto di non aver mostrato ai suoi ospiti sufficiente gratitudine per quanto aveva ricevuto ed avrebbe voluto compiere per il suo anfitrione gesta valorose.
Yavië[1] era giunto e ancora nessun’occasione per mostrare il suo valore gli si presentava, allorché Gil-Gilad gli parlò: “Giovane figlio di Gilnar, il tuo animo è insoddisfatto, perché inebriato dai racconti che ha udito in queste sale. Ambisci ottenere la gloria imperitura che i bardi riservano a quanti compiuto grandi gesta; pure, non aver fretta di voler dimostrare il tuo valore, ché questi sono ancora giorni di pace e se essi verranno meno, il tuo spirito sarà lesto a dolersi”.
“Mio signore, poiché tu mi hai esposto il tuo pensiero, lascia che io possa essere sincero con te: ho appreso quanto desideravo conoscere ed ho duellato con maestri d’arme quali non ci sono nella mia patria; pure, sebbene io ti sia profondamente grato per quanto hai permesso che io imparassi, il mio animo è invero insoddisfatto, ché esso brama la gloria dei miei avi”.
Un’ombra apparve allora sul volto di Gil-Galad ed egli sospirò a lungo; infine, avvedendosi che l’erede di Gilnar era impaziente di misurare la sua abilità, così gli parlò, tentando di dissuaderlo:
“Erfëa, se anche tu potessi affrontare in singolar tenzone Sauron, l’Oscuro Sire di Mordor in persona, credi che il tuo animo recupererebbe quella pace che invano cerchi? Non è in tal modo che si ottiene la vera gloria, ché essa risiede nella nostra capacità di servire la potenza di Ilúvatar. In tempi di pace, Uomini ed Elfi dovrebbero godere della vita così come era prefigurata prima che Melkor intonasse un canto nuovo e diverso, orribile ad udirsi”.
L’ira avvampò nel cuore del Númenóreano ed egli a stento la dominò: “Mio sire, se Morgoth ha reso irrequieti i cuori degli Uomini, non è ignorando le sue azioni che potremo conoscere pace e letizia! Concedimi, dunque, di stanare le sue creature che ancora dimorano nel vasto mondo, affinché io sia degno delle potenze di Arda”.
Secca fu la replica di Gil-Galad: “Non ho alcun potere su di te, Erfëa, figlio di Gilnar, e se ti ho aperto il cuore è per evitare che tu cadessi vittima delle tue stesse debolezze. Va’ pure, se lo desideri, non sarò io a contrastarti: possano i tuoi passi non tradirti”.
Erfëa si inchinò dinanzi al sovrano, e lasciò la sua dimora, sebbene il suo cuore fosse dubbioso ed egli temesse le parole che il Sovrano dei Noldor aveva pronunciato; pure, non avrebbe rinunciato a portare a termine la sua missione, per paura che la sua codardia risultasse maggiore della sua vergogna. [continuare la lettura del racconto con l’articolo Il Messere di Endore]
[…] Erfëa non rispose e, voltatosi, si incamminò ove ricordava di aver subito l’assalto del servo di Morgoth; trovata l’immonda bestia, si appropriò della sua nera pelle. Dopo alcuni giorni di cammino giunse finalmente alla dimora di Gil-Galad. Lieti furono i Priminati allorché lo scorsero; timoroso in volto, il principe di Númenor si inchinò dinanzi al sovrano degli Eldar e gli donò quanto la sua caccia aveva procurato. Sorrise, allora, Gil-Galad, ché il cuore del suo ospite aveva allontanato l’ombra che ne incupiva l’animo, mostrandosi pentito.
A lungo il figlio di Gilnar parlò dinanzi al suo sovrano di quanto i suoi occhi avevano scorto nelle remote selve che si estendevano nelle contrade al di là delle montagne. Nel suo sguardo vi erano ancora meraviglia e stupore, ché mai avrebbe obliato l’anziano e gaio Messere della foresta e la sua graziosa dama del fiume. Al termine del racconto, Gil-Galad si levò dal suo scranno ed estratta una pesante chiave dalla sua veste, si diresse verso un antico forziere che giaceva in fondo alla sala: apertolo, ne estrasse una lama quale gli uomini di Númenor più non ricordavano, essendo le loro menti molto più rapide ad obliare di quanto non lo siano quelle dei Primogeniti. Stupito, Erfëa la osservò con fanciullesca curiosità: non gli sembrava possibile che una simile lama fosse stata forgiata, finanche dai fabbri dei Noldor, i quali avevano appreso l’arte da Fëanor il Grande, l’artefice dei Silmaril[2] e delle Palantíri.
Un’elegante elsa stringeva nel suo forte pugno l’Alto Sovrano dei Noldor ed essa era arricchita da delicati intarsi in ithildin[3], i quali rappresentavano le sette porte che un tempo custodivano Gondolin la Segreta dalla malizia dell’Oscuro Nemico. Il forte pomo in acciaio era attraversato da sottili fili di mithril: pareva risplendere di luce propria allorché un raggio di sole o di luna si posava sulla sua chiara superficie. Quale arte fosse stata in grado di concepire una simile meraviglia, Erfëa non avrebbe saputo dire: perfino le orgogliose lame dei suoi padri gli parevano poca cosa, se paragonata all’arma che Gil-Galad impugnava.
La guardia, solitamente realizzata in bronzo, era invece fabbricata in acciaio cavo, risultando leggera nell’impugnarla. La lama, la cui luminosità, perfino in una giornata soleggiata, era tale da abbagliare coloro che l’avessero mirata troppo a lungo, si estendeva per cinquanta pollici: sulla sua lucida superficie, rune di grande potere rilucevano splendenti.
Sorrise il Sovrano dei Noldor: “Sappi, Dúnadan, che questa lama fu forgiata da Curufin, figlio di Fëanor, celebre fabbro, agli albori della Prima Era, quando il mondo era giovane e gli Edain ancora dormivano. Donata al sovrano di Gondolin[3] Turgon la spada servì i Signori della sua casata, finché non essi non perirono durante la sua caduta. Idril, figlia del re, la trasse in salvo dal disastro e la condusse con sé allorché fuggì da Gondolin; attraverso gli anni giunse agli eredi di Eärendil e giacque a lungo nei forzieri di Imladris la Nascosta, che un giorno, forse, visiterai tu stesso. Elrond mi ha chiesto di consegnarla nelle tue mani, come dono degli Elfi a colui che si accinge a divenire cavaliere di Númenor. Io la rimetto al fianco di Erfëa, figlio di Gilnar e principe di Númenor, con profonda commozione: possa essere per te un valido sostegno, come il nodoso bastone lo è per il viandante”.
Grande fu la gioia che si dipinse allora sul volto di Erfëa, ché non credeva possibile che un simile dono fosse destinato ad un mortale: “Mio grazioso signore, se l’artefice della lama stessa reclamasse quanto la sua arte ha forgiato, pure mi mostrerei riluttante nel concedergliela, ché essa sembra non già la creazione di uno dei Figli di Ilúvatar, quanto quella del Signore dei Fabbri, Aulë il Vala. Per tale motivo, il mio braccio è troppo debole per impugnare una simile lama; pure, se tale è la volontà del Sovrano degli Eldar, io la accetterò, ché possa essere mia fedele compagna negli anni a venire”. Con prudenza, il Dúnadan accettò la spada eppure, nelle sue esitanti mani, essa parve prendere vita. Erfëa non avvertì più alcun timore, e gli sembrò che la lama fosse fiera del suo padrone. Raggiante in volto, il principe di Númenor la lanciò in aria e ripresala al volo, lesse ad alta voce le rune che vi erano impresse, chiamandola con il nome che l’artefice aveva scelto per lei:
“Sulring di Gondolin, avversaria dell’Oscuro Nemico del Mondo e dei suoi immondi servi”. Inspirò profondamente: “Possa la sua lama incutere terrore agli eserciti di Sauron, il crudele signore di Mordor”.
Congedatosi dal sovrano dei Noldor e da quanti erano nella sua corte, Erfëa si accinse a fare ritorno alla terra natia: erano ormai trascorsi sedici anni dalla sua dipartita e molto era cresciuta nel suo cuore la nostalgia per coloro che aveva abbandonato allorché, ancora giovinetto, si era imbarcato alla volta della Terra di Mezzo. Nel viaggio di ritorno lo seguì Arthol: grande amicizia era stata stretta fra i due principi ed essi, sovente, aprivano l’un l’altro i reconditi segreti che i loro cuori custodivano.
Al termine di una lunga traversata, il marinaio di vedetta sulla coffa, annunciò essere prossime le spiagge di Rómenna, il porto orientale di Númenor. Alte grida di giubilo si levarono dall’equipaggio: lesti, i marinai si accinsero ad ammainare le vele, ché il vento era caduto ed essi avrebbero dovuto proseguire a remi, né questo parve lavoro troppo grave a chi era imbarcato; la vicinanza della propria dimora, infatti, aveva accresciuto in tutti la forza e le notti insonni parevano un ricordo del passato.
Spronata da una simile forza, la nave giunse dunque al porto di Elenna, ove fu accolta da una folle festante. Da alcuni giorni, infatti, si era sparsa la voce che avrebbero fatto ritorno alla terra natia i giovani principi. Ritto sulla fiancata della nave, Erfëa scorse Gilnar e Nimrilien attenderlo e il suo cuore fu colmo di gioia; sbarcato sul pontile, il giovane principe dell’Hyarrostar fu accolto dal suo popolo ed essi lo mirarono stupiti, ché Erfëa era divenuto invero un uomo quale pochi fra loro erano, ed alto e bello a vedersi era il suo sembiante. Parve a molti, abbigliato come era nelle vesti che gli Eldar della Terra di Mezzo gli avevano donato, che Erfëa fosse divenuto simile ai Primogeniti.
Lungo il tragitto che lo condusse a Minas Laurë, sua città natale, molte domande gli posero i suoi genitori, pregandolo di soddisfare la loro curiosità; eppure, ora che il figlio di Gilnar aveva mirato i volti cari, nel suo cuore era delusione ed essa trapelò nel suo volto. Questa non sfuggì, tuttavia, a Nimrilien ed ella così gli parlò:
“Nobile figlio, devi essere davvero molto stanco, dal momento che la tua lingua è muta e non presti attenzione alle domande che ti sono poste. Il tuo spirito è affranto ed il tuo sguardo spento”.
Silente e scuro in volto, così Erfëa le rispose: “Veneranda madre, ogni tua parola corrisponde a verità; io però non intendo rivelare quale sia l’origine del mio male, per paura che il mio dolore possa sembrarmi maggiore, se fosse rivelato qui innanzi a voi”.
Scuro in volto divenne allora Gilnar: egli non gli pose più alcuna domanda, né alcun suono si levò dalla sua bocca, ché oscure gli parevano le parole del figlio ed egli non ne comprendeva il significato.
Nei giorni successivi, crebbe l’inquietudine nel cuore di Erfëa ed egli prese a vagabondare da solo, sicché a molti parve che non avrebbe potuto scegliere nome migliore. Si recava sovente nei giardini di Armenelos, ove, qualunque fosse l’intento che lo conducesse in tale luogo, pure non sembrava appagato. L’umore di Erfëa mutò solo quando si sparse la voce che Numendil avrebbe invitato tutti i pari del Regno nella sua dimora: egli manifestò allora grande impazienza, sebbene nessuno riuscisse a comprenderne il motivo».

Note

[1] L’Autunno.

[2] Le “pietre veggenti” affidate, secondo la tradizione, dagli Eldar ai Númenóreani; si veda anche “Il Racconto del Marinaio e delle Palantíri”.

[3] Una lega metallica composta da alluminio e mithril, riflettente i raggi della Luna.

[4] Gondolin, dimora del re elfico Turgon, fu costruita nei recessi di una remota valle occultata dai monti del Dorthonion, nel Beleriand settentrionale. Per secoli la sua ubicazione fu nota solo a pochi tra gli Eldar: tuttavia, al termine della Prima Era, Maeglin, il traditore, desideroso di vendicarsi di Idril, principessa di tale città e da lui a lungo amata invano, rivelò tale segreto all’orecchio di Morgoth che ordinò alle sue armate di raderla al suolo.