L’assedio di Minas Ithil (parte II). Un sogno premonitore

Continuo in questo articolo il racconto iniziato in questa sede L’assedio di Minas Ithil (parte I). Il ritorno di Sauron per narrarvi delle vicende che accompagnarono l’inizio della guerra fra Gondor e Sauron scoppiata un secolo dopo la distruzione di Numenor. Questa seconda parte si apre con un sogno premonitore, un topos, ossia un luogo comune nell’epica antica: basti pensare, ad esempio, al sogno di Agamennone, nel quale un dio gli suggerisce – ingannandolo – che il giorno seguente avrebbe colto una grande vittoria sui Troiani. Anche in questo caso la dimensione onirica avrà modo di influenzare le vicende future di Erfea e del popolo di Gondor, salvandolo, forse, dal suo annientamento…

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«Nei giorni seguenti, si susseguirono numerosi consigli di guerra, ai quali parteciparono entrambi gli eredi di Elendil e i maggiori comandanti del regno; notizie giungevano dal Nord ed esse recavano letizia nei cuori degli Esuli, ché il nemico era in rotta ed aveva attraversato nuovamente il fiume Celudin, ritirandosi nelle remote steppe del Rhun: i saggi di Gondor non celavano la loro soddisfazione, ritenendo che il Nemico fosse stato battuto e costretto a fuggire per non far più ritorno alle terre degli Eothraim. Erfea, tuttavia, trascorreva silenti le sue giornate e il suo viso non condivideva la letizia dei consiglieri del sovrano, ma inquieto e pallido, mirava spesso le Ephel Duath, presagendo che il nemico giacesse ancora al di là degli insormontabili monti.

Lesti trascorrevano i giorni e il primo mese del nuovo anno si accingeva a terminare, allorché, una notte, il riposo del figlio di Gilnar venne turbato da una visione quale mai il sovrintendente di Gondor mirava da numerosi anni: a lungo egli si era dibattuto nella quiete della sua dimora, ché grida orribili a udirsi gli erano echeggiate nella mente; infine si era acquietato, come il marinaio che dopo la tempesta perigliosa trova riparo nel porto sicuro, ché il suo spirito si era librato oltre il Mare ed egli era giunto a Feneria, ora sommersa dalle acque. Ivi, una voce a lui cara, gli aveva sussurrato dolci parole nella mente: “Mio signore, è giunta l’ora della pugna! Impugna Sulring di Gondolin, ché colei che serve l’Oscuro Signore ha condotto le armate di Mordor presso la città di Minas Ithil ed essa cadrà, a meno che i tempi non mutino nuovamente e il volere di Eru Iluvatar non sia rivelato ai suoi figli.”

Lesto Erfea si scosse dal sonno inquieto e indossata l’armatura, cinse al suo fianco la nobile lama; recatosi nelle stalle di Osgiliath sellò Elrohir[1], il cui pelame spendeva luminoso finanche nella buia notte del novilunio, e cavalcò diretto verso la città di Isildur: penoso e solitario fu il suo viaggio e grande crebbe nel suo cuore la paura, ché temeva essere vano ogni avvertimento e atto di valore. A lungo cavalcò nella tenebra, spronando il figlio delle terre del nord affinché costui lo conducesse ove il suo animo desiderava recarsi; infine la vide, remota, eppure chiara, ergersi al di sopra dei banchi di nebbia che salivano dall’Anduin: grato fu allora il suo cuore ed egli volse, commosso, il pensiero a colei che gli aveva permesso di evitare una ignominiosa sconfitta. Stupefatte, le guardie del Cancello accorsero allorché egli diede ordine di destare dal suo sonno il sovrano: non dovette tuttavia attendere a lungo il figlio di Gilnar, ché Isildur lo ricevette nella sua dimora.

“Erfea, tarda è l’ora e l’alba è lungi dal giungere. Quale richiesta di mio fratello ti ha spinto ad abbandonare il tuo giaciglio per recarti a Minas Ithil? Una grande paura vedo impressa sul tuo volto, sebbene la notte sembri calma e il vento non abbia condotto alcuna nuova da est.”

Fosco in volto, Erfea si approssimò al grande braciere che splendeva, simile ad un fiore rosso, nel centro della notte, ché la gelida morsa di Narvinye l’aveva stretto a lungo tra i suoi artigli ed egli ne portava ancora le fresche cicatrici; parole sulle prime non pronunciò, ché erano ancora in lui stupore misto ad angoscia ed egli ignorava con quali parole avrebbe comunicato tale sventura al suo signore; infine, reputando il silenzio un male ben più grave delle paure che gli si agitavano nell’animo, parlò, ché il tempo era tiranno e insensibile alle sventure della prole di Eru Iluvatar.

“Una grande armata, comandata dal Nazgul Adunaphel[2], giunge ora dal passo di Cirith Ungol e tosto la città sarà circondata; questa notte, parole di ammonimento e saggezza hanno destato in me profonda preoccupazione e ora giungo da te perché come erede maggiore del Sovrano, prenda il comando di questa città e del regno: Sire Anarion ignora tali avvertimenti ed Osgiliath riposa, dolcemente cullata dal canto che sale dal Fiume. Minas Ithil, tuttavia, deve essere destata, ché in caso contrario i suoi ignari abitanti si recheranno alle aule di Mandos con le ferite ancora impresse sui volti e sui corpi.”

Solo il silenzio fu udito echeggiare nei vuoti e freddi corridoi della reggia, ché Isildur, profondamente turbato, parola non adoperava; infine, dopo aver a lungo sospirato, parlò a voce bassa: “Quali prove possiedi per sostenere tali parole? Può forse una visione indurci a confondere fantasia con realtà, speme con disperazione, passato con presente? Invero, Erfea, colui che chiamano il Morluin, mai il coraggio degli uomini è venuto meno a causa di simili profezie di sventura, ché esse confondono solo i cuori degli stolti e degli ignavi e mi rifiuto di credere che gli anni trascorsi nel lungo esilio abbiano corroso a tal punto la tua lungimiranza da renderti cieco e sordo dinanzi alla realtà presente”. Nulla rispose il sovrintendente di Gondor, ma sguainata la sua lama dal lucido fodero, la mostrò ad Isildur: “Se tale è il tuo pensiero, figlio di Elendil, non sarò io a dichiararlo mendace, ma la mia lama: essa infatti fu forgiata a Gondolin dai Noldor in esilio e si illumina di luce propria allorché i servi di Morgoth sono prossimi. Se dunque basi i tuoi giudizi solo su quanto i tuoi sensi percepiscono, ebbene non potrai ignorare tale avvertimento”.

Profondamente turbato, il signore di Minas Ithil abbassò l’orgoglioso sguardo a terra e, ispirato da giusta vergogna, parlò: “In nome del legame che ci vincola, ti chiedo di obliare le amare parole che hai udito pronunciare dalla mia favella: era il timore di udire una condanna a lungo temuta a parlare in me; tuttavia, essa è ora svanito, come bruma al mattino e più i nostri cuori dovranno disperare, sebbene è destino che mesi di tormenti debbano attenderci. L’ora del confronto è giunta: possa essere infausta per i servi del Nemico!”

Lesto l’erede di Elendil ordinò che i suoi scudieri fossero destati e si affettassero a rivestirlo, ché una grande collera covava ora nel suo sguardo ed egli aveva già cinto la sua lama; a lungo squillarono le campane, ché il pericolo si approssimava e più poteva essere ignorato: uomini corsero ad armarsi e grida furono udite riecheggiare nelle strade ancora avvolte dalla bruma della notte. I comandanti chiamavano i guerrieri a raccolta e le prime compagnie avevano preso posto dinanzi al Cancello; veloci reparti a cavallo furono spediti ad est e ad ovest, gli uni per comunicare tale minaccia ad Osgiliath, gli altri per scorgere le schiere del nemico. Erfea, tuttavia, non prese parte a tali preparativi, ché nel suo cuore un nuovo presagio era sorto ed egli era titubante a comunicarlo al suo sovrano; tale fu il suo comportamento che non sfuggì a Luiniell, Signora di Minas Ithil, la quale era in verità del suo lignaggio[3]: “Erfea, signore della mia schiatta e sovrintendente di Osgiliath, non vi è luce nei vostri occhi. Cosa temete dunque?”

Lenta fu allora la risposta di Erfea ed egli parlò a voce bassa, quasi temendo che orecchie indiscrete fossero occultate dalle ombre della notte: “Invero, mia signora, la presenza di un solo Nazgul potrebbero costituire minaccia sì grave da provocare tale turbamento nel mio sguardo e nella mia voce, né sarò io in grado di smentire tale affermazione; tuttavia, altri Poteri sono pronti a destarsi in tale ora oscura ed essi io temo, ché non solo Sauron servì l’Antico Nemico ed altri spiriti, ignoti alle genti libere, vagano ancora per le ampie distese desertiche della Terra di Mezzo, taluni sotto forme che gli sprovveduti troverebbero belle, altri ammantati di terrore e ombra: ricordi e presagi si agitano nel mio animo, né il fuoco della tua dimora potrebbe riscaldare il mio cuore in tale fredda ora”.

“Suvvia, Dunadan! Finanche in tale frangente, la speme non è scomparsa dal cuore degli uomini! Molte leghe i tuoi passi hanno coperto, da Osgiliath a Mordor, da Numenor all’Harad e sovente il pericolo è stato l’unico compagno durante le sofferte peregrinazioni che il tuo spirito ha dovuto affrontare; eppure, non fu forse Erfea Morluin colui che affermò esservi pericoli maggiori nella propria dimora che nelle Terre Selvagge?”

Sorrise il figlio di Gilnar, destando in Luiniell meraviglia e stupore, ché di rado il sovrintendente esprimeva in modo sì palese la sua letizia e vi erano pochi o punti motivi in quei giorni per nutrire nel proprio animo un simile sentimento; destatosi dal suo scranno, le prese allora la mano e baciatala, sorrise nuovamente: “Invero quanto affermi corrisponde a verità, che  in numerose occasioni la Morte mi è stata prossima e sempre nella mia casa”. Fece per andar via, eppure si voltò nuovamente e parlò ancora una volta: “Non credere che io abbia smarrito ogni speranza; sappi tuttavia che altrove risiede il tuo destino e che mai più farai ritorno a Minas Ithil, a meno che il Fato non muti nuovamente e ad altri sia data in sorta una grave responsabilità”. Lesto si inchinò Erfea e altre parole non trovò per salutare la sua Signora; costei, tuttavia, gli rimembrò quanto la casa di Amandil fosse grata al sovrintendente di Osgiliath, ché numerosi servigi le aveva procurato in quegli anni, fin da quando Numenor era caduta: silente, lo sguardo perso nel ricordo di eventi passati, Erfea la stette ad ascoltare, infine sospirò: “Non credere che tali eventi abbia obliato, ché io conosco essere veritiera ogni tua affermazione e tale sarebbe anche il parere di Amandil, se egli fosse qui; temo, tuttavia, che ad altri toccherà in sorte narrare tali vicende, ché molti fra coloro che ne furono protagonisti riposano ora nella calda coltre della sabbia dell’Oceano; dolce è il ricordo per chi ancora non ha obliato ed esso ha il sapore del nettare colto all’alba, tuttavia non lenisce le cicatrici di coloro che rimembrano Numenor e la sua gloria e non terrorizzerà il turpe animo dei nostri nemici.”

Lesto allora Erfea si inchinò a Luiniell e sguainata Sulring, la tenne nella destra, ché il suo baluginare potesse rischiarare le Tenebre che adesso occultavano la Città della Luna: lente trascorsero le ore della notte per chi vegliava, rapide per chi cercava riposo nella sua coltre fredda ed umida; vapori ed esalazioni si levarono da oriente, sì che il sole ne fu oltraggiato e più la sua luce illuminò gli stendardi di Gondor ed essi parvero morire nella fredda alba. Rapide, lacrime della notte scivolavano lungo i pendii delle mura e l’eco della loro malinconica melodia colmava di sgomento i cuori degli uomini ed essi non parlavano, ma tacevano, ascoltando, rapiti, i brevi singulti di qualche infante il cui sonno era stato turbato dallo stridere di armi e dall’ululare dei lupi.

Note

[1] “Cavallo della stella”: tale animale, donato dagli Eothraim ad Erfea, sebbene non avesse ricevuto la facoltà di parlare le favelle dei figli di Iluvatar, era tuttavia in grado di comprendere le lingue degli uomini e degli elfi, ché era discendente del possente destriero che Orome, il cacciatore dei Valar, aveva condotto con sé durante i suoi viaggi nella Terra di Mezzo nelle Ere che precedettero il sorgere del sole e della luna.

[2] Settimo fra i Nazgul, nota anche come l’Incantatrice.

[3] Le storie di quell’epoca non menzionano affatto quale fosse il legame di parentela tra Erfea e Luiniell; secondo alcuni storici di Gondor, ella era nipote del Principe dell’Hyarrostar per parte paterna, ma i pareri sono discordi e questa è solo una ipotesi.

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L’assedio di Minas Ithil (parte I). Il ritorno di Sauron

Illustrazione – L’eroismo di Miriel

Care lettrici, cari lettori,
quest’oggi voglio presentarvi una nuova bellissima illustrazione di Anna Francesca, che rappresenta uno dei momenti forse più drammatici dei racconti de «Il Ciclo del Marinaio»: Erfea, battuto in duello da Eargon – uno dei capi della fazione di Numenoreani Neri che vuole prendere il potere sull’isola del Dono – e ormai prossimo ad essere ucciso, viene salvato dal coraggio di Miriel, che si frappone tra lui e il suo carnefice.
Per coloro che volessero leggere (o rileggere) integralmente la scena, suggerisco di cliccare su questo link: L’Infame Giuramento_VIII Parte (Il colpo di Stato di Eargon)

Per tutti gli altri, lascio qui una descrizione sintetica a corredo di questa bellissima illustrazione.

«Non so dire quanto tempo trascorse; infine, a causa della spossatezza che la ferita procurava alle mie carni, Eargon riuscì, con un abile colpo a disarmarmi; allora la rabbia si impadronì della sua mente ed egli perse totalmente ogni barlume di ragione, gridando oscure parole, incomprensibili ai più; alta levò la lama e funesto sarebbe stato il mio destino se Tar-Miriel, pallida nel volto, ma ferma nella sua volontà, non gli si fosse parata dinanzi, pronunciando parole di sfida:
“Tocca quest’Uomo e la tua lama dovrà macchiarsi di un doppio crimine!”; sì bella appariva la sovrana di Numenor, nonostante la ferita sul capo ottenebrasse la calda luce dei suoi capelli, che finanche il Numenoreano Nero arrestò la sua lama, colto dal dubbio e dal rimorso».

Eargon_Erfea_Miriel

L’assedio di Minas Ithil (parte I). Il ritorno di Sauron

Care lettrici, cari lettori, in questo articolo riprendo la narrazione dei racconti del Ciclo del Marinaio, che negli ultimi mesi sono stati un po’ tralasciati per fare spazio ad altri progetti figurativi. La serie di articoli che mi accingo a scrivere nelle prossime settimane riguarderà i primi eventi bellici che interessarono Gondor e Mordor circa un secolo dopo la Caduta di Numenor.
Non vi nasconderò che questi eventi costituirono per me una vera e propria sfida: dovetti superare il classico «blocco dello scrittore» per andare avanti nella trattazione della vita di Erfea, perché non riuscivo a capire come riprendere i fili della vita di un Uomo distrutto spiritualmente dalla morte di Miriel, la principessa numenoreana della quale era innamorato e dalla scomparsa di Elwen, la mezzelfa di Edhellond, della quale si erano perse le tracce. Impiegai qualche tempo per ritrovare il filo della matassa e decisi così da ripartire da un nuovo ruolo per Erfea, quello di Sovrintendente del nuovo regno di Arnor e Gondor – perché, ricordiamolo, fintantoché fu vivo Elendil, queste regioni erano considerate parte di un unico organismo statale – che ha in qualche modo ritrovato la forza di andare avanti perché preoccupato dal ritorno di Sauron.
Su questo argomento vorrei qui spendere qualche parola: per quanto possa sembrare strano, Numenoreani ed Elfi – salvo qualche rara eccezione, come vedremo – erano convinti che l’unico vantaggio derivato dalla distruzione di Numenore fosse stata quella del suo peggiore nemico, l’Oscuro Signore di Mordor. Gli eventi, tuttavia, presero una piega diversa: il corpo di Sauron era stato effettivamente distrutto durante la Caduta ed egli era ritornato sulle ali di un vento malvagio alla Terra di Mezzo, laddove, grazie ai poteri dell’Unico, aveva recuperato la sua forma fisica, seppure orribile a vedersi. Certo, aveva perso la capacità di assumere un aspetto bello a vedersi (Tolkien utilizza il termine «storpiato», riferendosi alla sua condizione dopo la Caduta), tuttavia, a dispetto delle speranze di tutti, era sopravvissuto. Ed era ansioso di ottenere vendetta sui suoi nemici: i Duneadain sopravvissuti alla Caduta e gli Elfi di Gil-Galad…

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«Centodieci anni erano trascorsi dalla caduta di Ar-Pharazon e dall’inabissamento di Numenor nei profondi flutti del Belagaer, allorché una nuova minaccia sorse per tutto l’Occidente ed essa mieté numerose vite, implacabile come il crudele vento del Nord che soffia gelido nei mesi di Hrive[1]. Gemiti e lamenti si levarono tosto nelle contrade di Endor, ché molti temevano l’oscura terra che si estendeva oltre gli Ephel Duath, le Montagne dell’Ombra: ivi, nella Terra Oscura, dimorava Sauron l’Aborrito, Signore degli Anelli e corruttore del cuore dei Secondogeniti.
A lungo i Saggi avevano creduto che il suo spirito giacesse ove il sembiante di costui era stato umiliato, allorché egli era stato scagliato nell’Abisso, ed erano soliti predicare che finanche il Maia corrotto avesse trovato la morte in tale sciagura. “No – tali erano le parole che costoro avevano ispirato in Elendil l’Alto, sovrano di Gondor e Arnor – nessuno sarebbe potuto sopravvivere all’ira di Eru Iluvatar ed ora il trono dell’Oscuro Signore giace negli abissi profondi, corroso dalla salsedine e dalla furia di Ulmo”; tuttavia non tutti fra i consiglieri del re erano dello stesso partito, ché ve n’era uno, il cui pensiero discordava da costoro e temeva la nequizia di Sauron. Erfea era il suo nome, ultimo signore di Minas Laure ora sommersa dai flutti, colui che chiamavano il Morluin perché in gioventù aveva abbattuto un drago di tal nome: bello era il suo portamento e nobile ogni suo atto, ché Manwe e Varda vegliavano su di lui ed egli era caro a Tulkas, il Paladino dei Valar; mai Erfea aveva dismesso la sorveglianza degli Ephel Duath, ché temeva nel suo cuore la minaccia di Mordor e sapeva che l’Ombra dei Nazgul non era scomparsa dalla Terra.
Silenti erano i giorni, né voce alcuna giungeva da oriente, tuttavia Erfea vagava inquieto, abbandonando sovente Osgiliath, di cui pure era stato nominato sovrintendente, per esplorare contrade selvagge ed ignote ai più; infine una notte di Narvinye[2], un messaggero a cavallo chiamò a gran voce i Signori di Gondor al cancello orientale di Osgiliath: tosto egli venne ricevuto e nuova inquietudine crebbe nel cuore di Erfea, ché l’ora era tarda e gravida di sventure. Lesto lo straniero si inchinò dinanzi ad Anarion, infine prese la parola: “Graziosissimo signore degli uomini, il mio nome è Aldor Roc-Thalion, signore degli Eotrahim, e giungo da voi latore, mio malgrado, di morte e distruzione, ché l’Ombra si è destata a levante ed ora leva la sua mano corruttrice fino alle terre della mia gente, nel Rhovanion”.
Grave scese il silenzio dopo che furono udite tali parole, ché il sovrano si avvide che nella sala le paure del suo sovrintendente si erano tramutate in realtà; infine egli invitò il suo ospite a disquisire sui motivi che l’avevano spinto così lontano dalla sua dimora, desideroso di apprendere cosa fosse accaduto e il messaggero, sebbene portasse in volto impressi i segni di una recente fatica, non fu parco di parole: “Due settimane sono trascorse dacché l’Ombra è scesa su di noi, disonorando le terre dei nostri padri e inaridendo la nostra letizia! Eravamo nei nostri accampamenti posti sulla riva occidentale del Celudin[3], allorché le vedette di guardia ci riferirono di aver scorto un’immensa moltitudine di carri marciare a poco meno di tre miglia da noi; lesti i nostri Thaeng[4] ordinarono che fosse allestita una spedizione per verificare quali intenzioni avessero tali uomini.
Molte ore trascorremmo nell’attesa gelida che ognuno portava nel suo cuore, invano lenita dai grandi bracieri che splendevano nella notte: al sorgere del sole, un uomo tornò all’accampamento; lesti i miei signori gli andarono incontro, ma la sorpresa che essi provarono in tale frangente non fu inferiore all’orrore che ne incupì i volti. La vita aveva infatti abbandonato il corpo mutilato del cavaliere e la sua testa era stata orrendamente sfigurata con il marchio della Lancia Nera in campo giallo: la rabbia si impadronì dei nostri animi, allorché scorgemmo tale marchio, perché esso era opera dei Logath[5] e degli Asdragh[6], antichi nemici del nostro popolo; eppure esso non era il solo infame marchio che deturpava il volto dell’uomo. Vi era infatti un simbolo quale nessuno fra noi aveva scorto fino a quel momento: un occhio rosso circondato da lingue di ghiaccio. A lungo ponderammo su quale significato potesse avere per noi tale disegno: giunse il mattino ed esso non portò consiglio, bensì la morte; udimmo infatti un lungo stridio e i nostri cuori furono avvolti dalla gelida morsa della paura, ché nessun animale della steppa e nessun uccello del cielo emette versi simili, impregnati di oscurità. Rapido giunse allora in risposta il suono di molti olifanti e vedemmo piombare sui nostri accampamenti migliaia di carri; lesti i nostri guerrieri corsero ad armarsi, eppure ogni resistenza fu vana, ché la confusione regnava nelle nostre menti e il terrore pareva dilagare ovunque: io fui uno degli ultimi ad abbandonare i nostri campi prima di rifugiarci ad est, ove il mio popolo ancora si oppone all’invasore”. S’interruppe per un attimo, infine parlò nuovamente, ma una profonda angoscia era scesa sul suo volto e le sue parole parvero echeggiare da antri oscuri: “Fu allora che lo vidi: innanzi a me vi era un essere simile in apparenza ad un uomo, eppure differente! Un re sembrava essere, ché una corona forgiata nell’acciaio ne adornava il capo, mentre un mantello regale gli scendeva lungo le spalle; tuttavia le luci delle capanne in fiamme non illuminavano alcun viso ed egli sembrava farsi beffa delle frecce che i nostri arcieri inutilmente scagliavano contro di lui: una grande tenebra lo accompagnava e la sua stessa gente fuggiva dinnanzi al suo cospetto. Mai i cavalieri Eothraim avevano veduto una potenza simile all’opera: buia fu la notte, eppure il giorno non recò sollievo nei nostri cuori, ché le armate del nemico incalzavano la nostra ritirata, impedendoci ogni fuga verso sud; numerosi Orchi si erano aggiunti agli Asdragh e agli altri popoli dell’Est ed essi conducevano un grande stendardo innanzi a loro, adornato da un marchio simile a quello che aveva deturpato le spoglie dell’esploratore.
Molte leghe percorse il mio popolo e alfine giunse nei pressi di un lago, nelle cui acque cristalline si specchiava una roccia imponente: qui l’avanguardia del nemico fu costretta ad arretrare ed essi si ritirarono verso Sud, ove riorganizzarono le loro file e si spartirono il bottino accumulato nei giorni precedenti. Io fui inviato presso le genti di Gondor, perché corre voce qui viva un possente capitano, il cui nome è noto presso il mio popolo: Erfea Morluin è chiamato e grato sarebbe il mio cuore se le fatiche del mio viaggio fossero alleviate dalla sua presenza in tale consesso”.

“La tua cerca è giunta al termine, cavaliere del Rhovanion! Io sono Erfea Morluin, figlio di Gilnar di Numenor, sovrintendente di Gondor e a te dico di non crucciarti, ché nessuna delle armi forgiate nelle vostre fucine è in grado di ferire Hoarmurath di Dìr[7], sesto in possanza fra coloro che servirono in vita l’Oscuro Signore di Mordor ed ora perseverano nella schiavitù che contrassero con costui allorché accettarono, bramosi dell’immortalità, gli Anelli del Potere degli uomini”. Indi Erfea si levò dallo scranno e i suoi capelli, ancora neri, sebbene egli fosse ormai anziano, furono illuminati dalle luci della sala: “Codesto atto infame d’aggressione è un monito per tutti i popoli liberi di Endor. Sauron, l’Oscuro Signore di Mordor è tornato e reclama il suo dominio perduto”. Gravi divennero i visi dei presenti, tuttavia solo Anarion espresse apertamente il suo parere: “Se quanto tu affermi corrisponde al vero, Erfea Morluin, perché il signore di Mordor esita ancora nell’attaccare i nostri possedimenti? Forte è l’odio che egli nutre per noi, ché se davvero il suo nero spirito è tornato sulle ali di un vento malefico, ebbene, le sue spie gli avranno riferito che non tutte le genti di Numenor perirono nella Caduta e che i Fedeli perdurarono alla sciagura che colpì tempo addietro l’Isola del Dono”. Perplessi e inquieti, i consiglieri del sovrano osservarono Erfea e nei loro occhi palesava il dubbio; lesto tuttavia il sovrintendente rispose: “Mio signore, Sauron non è uno sciocco; gli Eothraim sono stati per le sue armate niente altro che una prova per verificare il loro stato di preparazione e l’efficienza dei propri comandanti; tuttavia, non tarderà a lungo l’attacco al nostro regno, ché forte è nell’animo dell’Oscuro Sire il desiderio di vendetta ed egli non ha obliato né il vostro nome, né quello della vostra stirpe”.
Anarion sospirò, infine, levatosi anch’egli dal proprio scranno, si approssimò al suo comandante: “Cosa vuoi che faccia? – gli sussurrò a voce bassa, ché grande era scesa nel suo cuore la paura ed egli nutriva fiducia nel giudizio di Erfea – non vi sono uomini a sufficienza per sorvegliare l’intero confine di Mordor e il pericolo potrebbe giungere dai regni a meridione dell’Anduin come da quelli posti sulla sua riva orientale”. Tetro in volto, così Erfea rispose al suo sovrano: “Mio sire, convoca Isildur a Osgiliath, perché pesante grava sul mio cuore una minaccia”.
Silenzioso stette Anarion per qualche istante, infine congedò l’ambasciatore degli Eothraim con queste parole: “Le storie tramandateci dai nostri padri narrano che la gente di Haladin non proseguì il suo viaggio verso Occidente, ma che preferì stabilirsi nei territori che il vostro popolo ha difeso sì strenuamente; siamo dunque fratelli e il nostro aiuto non verrà meno in questa ora del bisogno. Invieremo un corpo di cavalleria a Nord: temo tuttavia che altrove risieda una minaccia ancor più grave e che le difese di Gondor non possano essere private di troppi uomini”.
Grato chinò il capo l’ambasciatore, infine parlò: “Sia fatta la volontà dei Signori della Terra del Sud; possano i rinforzi non tardare a lungo, ché la mano del Nemico si protende su contrade sulle quali mai era calata la Tenebra”».

Note

[1] “Inverno” nella favella degli elfi Noldor

[2] “Gennaio” nella favella degli Elfi Noldor

[3] Questo fiume scorre a ponente dei Colli Ferrosi e sfocia nel mare interno di Rhun

[4] I “Thaeng” erano i capitani delle tribù che costituivano la federazione degli Eothraim; ogni dieci anni, essi eleggevano un uomo fra loro che avrebbe dovuto rappresentarli innanzi agli altri popoli della Terra di Mezzo e a costui veniva dato il titolo di “Alto Thaeng”: durante gli anni che opposero gli Alleati alle armate di Mordor, tale incarico fu ricoperto da Aldor Roc-Thalion.

[5] I Logath erano una confederazione di popoli dell’estremo Est, servi di Sauron e discendenti degli Orientali che avevano militato nelle schiere di Morgoth durante la Prima Era; le storie di quell’epoca narrano che essi fossero prevalentemente cacciatori e domatori di bestie, ché le loro terre erano incolte e perennemente battute dal vento. Nel terzo millennio della Seconda Era, subirono l’influenza dei Signori della Guerra Hoarmurath e Khamul e costituirono le avanguardie degli eserciti di Mordor fino alla distruzione di Barad-Dur.

[6] Sotto tale nome erano comprese numerose tribù stanziate presso le coste orientali del Rhun; feroci e rudi d’aspetto, costoro praticavano l’agricoltura, seppure in forma rudimentale e veneravano i Demoni della Natura e le rappresentazioni degli Antenati; superstiziosi e bellicosi, essi militarono nelle schiere di Sauron per tutto il corso della Seconda Era.

[7] Sesto fra i Nazgul; si veda Hoarmurath di Dir, il Re del Ghiaccio, il Sesto.

La caduta di Numenor

Questo brano chiude, idealmente, la tragedia che ho trascritto negli interventi precedenti. Non si tratta di un testo inedito; al contrario, esso era stato già presentato in questo articolo: Erfea dinanzi alle porte di Khazad-Dum, perdendo, tuttavia, la sua drammaticità, a causa della sua collocazione all’interno di una storia che si svolgeva in un contesto molto differente, ossia negli antri profondi di Khazad-Dum. Per questa ragione, prima di riprendere la trattazione dell’assedio di Gondor – che, a ben vedere, non costituisce altro che il prossimo tassello della Storia della Terra di Mezzo nel corso della Seconda Era – ho deciso di riproporre questo brano. Mi piacerebbe, in un futuro spero non troppo lontano, presentare un’illustrazione inedita nella quale, in una sorta di collegamento telepatico fra Erfea e la sua amata e mai troppo rimpianta Miriel, il principe di Numenor possa condividere con lei lo sgomento e la tristezza di chi si accingeva a pagare in prima persona e a carissimo prezzo la scelleratezza dei suoi atti.

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«Poche miglia avevano percorso i compagni, allorché il mondo fu mutato, ché Manwe Sulimo revocò il suo volere dal mondo e Eru Iluvatar scagliò nell’Abisso l’isola di Numenor con i suoi forzieri traboccanti di gioielli. Come è narrato altrove, nessuno, ad eccezione di coloro che veneravano gli Ainu o di coloro che erano fuggiti altrove anzitempo, fu salvato dal cataclisma e lo stesso Sauron, il cui potere vantava essere superiore a quello di Manwe, fu scagliato nel profondo dell’Oceano. Un greve silenzio cadde sui nebbiosi colli degli Emyl Gortayd[1], disturbato solo dal profondo eco di una collera impetuosa; pochi sono i racconti sopravvissuti alla caduta di Numenor, eppure nessuno scritto potrebbe rendere lo sbigottimento e l’angoscia che presero gli esseri della Terra di Mezzo: finanche le feroci belve delle remote giungle del sud si rintanarono nelle loro tane inaccessibili, desiderose di sfuggire la violenza della collera di Eru Iluvatar. È stato detto che perfino i servi di Sauron, acquietati nelle tetre fortificazioni di Mordor abbiano volto lo sguardo l’un l’altro, in preda a grande paura e sgomento; finanche i servi degli Anelli, gli Ulairi, la cui perfidia e malizia erano note presso tutte le genti della Terra di Mezzo, paventarono che fosse giunta sulle ali della tempesta la collera dei signori del Vespro, ed ebbero tema del giudizio dei Vala, fuggendo in luoghi oscuri e privi di speranza.

Una Tenebra senza nome ricoprì l’intero creato, né gli astri del cielo furono visibili, finanche agli acuti sguardi degli Eldar, finché essa non scomparve; grave divenne allora il peso del dolore sui cuori degli orgogliosi numenoreani ed essi compresero alfine quanto la follia del loro signore avesse condotto i loro destini alla follia: eppure, nessuno di loro scampò al giusto castigo, ché trovarono la morte ad attenderli in qualunque pertugio essi si rifugiassero per sfuggire l’ira di Iluvatar. Turbati in volto, i nani esitarono e più non proseguirono, osservando sgomenti quanto accadeva intorno a loro: tetre divennero allora le loro espressioni ed essi non parlavano né osavano respirare, temendo di disturbare la collera del possente Iluvatar. Presto tuttavia gli uccelli presero nuovamente a cantare nelle fronde delle selve e l’aria non fu più satura dell’ira dell’Uno; allora essi sospirarono e volsero il proprio sguardo al Dunadan: egli sedeva su una roccia che il tempo aveva reso simile ad un enorme scranno, e, silente, non pronunciava parola. Perso e vuoto era il suo sguardo, eppure lacrime amare non turbavano il suo viso, ché sebbene fosse grande il suo dolore, nel suo cuore Numenor era svanita anni prima ed essa non era più la sua terra.

Trascorsi alcuni istanti in profonda meditazione, egli si levò dallo scranno, e lasciato cadere il prezioso elmo, rivolse le labbra ad occaso, pronunciando tristi parole di commiato: “Miriel, Tye-mela[2]”; sebbene i nani avessero ascoltato ogni parola, solo Naug Thalion comprese quale doloroso significato esse esprimessero e chinò lo sguardo a terra, colmo di dolore. Lungo tempo trascorse in doloroso silenzio, infine Erfea parlò nuovamente, ché egli aveva compreso quanto era accaduto e non temeva doverlo rivelare ai suoi compagni: “Una nuova era del mondo è prossima ad iniziare, ché Endor è mutata e più sarà visibile Aman agli occhi dei mortali.” Stupefatti allora i nani gli strinsero attorno, ponendogli numerose domande, ma il Dunadan non seppe placare tutti i loro dubbi “ché – si giustificò – non è il mio animo la fonte che ispira tali parole” ed altro non volle aggiungere».

Note

[1] Tale regione collinare, nota anche come la Terra dei Tumuli, si estendeva ad ovest della città di Brea: durante la Prima Era del mondo, numerosi Edain provenienti dall’estremo oriente, avevano eretto numerose costruzioni e fortificazioni sui suoi colli ed ivi avevano riposo i gloriosi corpi dei guerrieri periti durante la Battaglia dell’Ira.

[2] “Miriel, ti amo” nella favella degli Eldar.

 

Akhallabeth – Scena III, parte II: Il dialogo tra Ar-Zimpharel ed Elendil

Care lettrici, cari lettori, in questo articolo proseguo la narrazione della tragedia della Caduta, l’Akhallabeth in lingua adunaica: in questa scena, Ar-Zimpharel (o Miriel, se preferite i nomi elfici), ha un lungo colloquio con Elendil nel quale potrete trovare echi di quello avvenuto, nel Ciclo del Marinaio, fra Erfea e Miriel: per effettuare il confronto, vi invito a leggere questo articolo One last time… e ad ascoltare, come sottofondo, l’omonimo brano dei Dream Theater (ve l’ho detto che prima o poi scriverò qualcosa sul legame tra la musica e il Ciclo del Marinaio, ma, come disse qualcuno, «non è questo il giorno»)

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

(Ar-Zimpharel, dopo il suo monologo avvenuto nella camera da letto, rientra nella sala del trono, accompagnata da una sua damigella).

Ar-Zimpharel: Mia buona Finduilas ti consegno tale missiva, affinché giunga nelle mani del mio parente Elendil; una volta che l’abbia letta in tua presenza, pregalo di giungere ad Armenelos quanto prima.

Finduilas: Ogni vostra richiesta è per me un comando, mia signora.

(Finduilas esce dopo essersi inchinata e lascia Ar-Zimpharel da sola: ella estrae allora un pugnale dalla sua cintura e ne accarezza l’affilata lama, mentre un’espressione disperata le si dipinge sul volto)

Finduilas: Mia signora, Elendil ed i suoi figli chiedono udienza.

(Ar-Zimpharel, non vista dalla sua dama di compagnia, nasconde lesta il pugnale tra le pieghe della sua veste e congedata Finduilas, si accinge a ricevere i suoi cugini)

Elendil (dopo aver chinato il capo): Ci hai fatto chiamare, graziosa e nobile cugina? Ben mi avvedo come il tuo viso sia adesso divenuto più pallido della neve che ricopre la vetta del Menalterma: quali dispiaceri ti angustiano, signora di Numenor?

Ar-Zimpharel: Miei nobili cugini, gravi eventi richiedono questo oggi la vostra presenza a corte; Sauron si è impossessato del cuore del sovrano e io temo per la vita di tutti noi.

Isildur (scuro in volto e con la mano sull’elsa della spada): Dov’è egli ora? Troppo a lungo ho tollerato che i suoi passi riecheggiassero nei corridoi della dimora dei miei avi, troppo a lungo mi sono limitato ad ascoltare e tacere, ma è giunta l’ora in cui questa follia cessi.

Elendil (posando una mano sulla spalla del figlio primogenito per tranquillizzarlo): Non possiamo contrastare l’autorità del signore di Mordor in queste sale, perché siamo solo in tre ed egli, mentre il sovrano dormiva, ha condotto a Numenor rinnegati e mercenari privi di scrupolo provenienti dalle contrade della Terra di Mezo. Cosa faresti, figlio, qualora fossi circondato e incapace di difenderti? Periresti senza aver difeso il tuo popolo dall’aggressore.

Anarion: Sagge parole le tue, padre; se gli eredi di Amandil, nostro avo, dovessero oggi cadere, il potere di Sauron calerebbe su tutta l’isola.

Isildur: Quanto dovrò ancora attendere, dunque, prima che sia fatta giustizia? Vieni meco Anarion, ché le spie del Nemico sono ovunque e questi corridoi hanno orecchie per ascoltare e voci per sussurrare.

(dopo aver rivolto un breve inchino alla regina, i due figli di Elendil escono per montare la guardia alla porta, lasciando soli il Signore di Andunie e Ar-Zimpharel)

Elendil: Una parte della verità mi hai rivelato, tuttavia, Miriel, figlia di Tar-Palantir, non dubito che altre preoccupazioni serbi nel tuo cuore, ché di rado mi è parso il tuo sembiante sì pallido come oggi.

Ar-Zimpharel (sorpresa in volto): Avevo obliato questo nome! Molti dolorosi anni sono trascorsi dacché esso fu pronunciato l’ultima volta e non credevo possibile che qualcuno lo rammentasse ancora. Tuttavia, se Elendil di Andunie l’ha adoperato, un preciso movente l’ha spinto a fare ciò.

Elendil (triste in volto): Letale è il veleno che l’Avversario ha sparso in quelli che una volta erano verdi prati e sorgenti cristalline, ed essi ora marciscono, avvizziti ed infettati; tuttavia, con rabbia percepisco quanto dolore alberghi nel tuo cuore, regina di Numenor.

Ar-Zimpharel (ridendo in modo sarcastico): Regina? Su cosa eserciterei il mio dominio, Elendil? La dignità, l’onore, l’amore, tutto quanto avevo di prezioso mi è stato sottratto con l’inganno; persino il più povero pescatore della costa gode di migliore fortuna. Regina? Direi piuttosto prigioniera delle medesime debolezze che un tempo frenarono la mia volontà ed oggi mi impediscono di commettere atti di valore (così dicendo, Ar-Zimpharel estrae un pugnale da una piega della lunga veste e se lo avvicina al petto).

Elendil (pallido in volto): Non confondere viltà con coraggio, mia Signora! Forse vi è ancora speranza, finché i Valar reggeranno le sorti del mondo.

Ar-Zimpharel (con il volto irato): Ciechi sono i tuoi occhi e sterile la tua fede! Chi impugna adesso corona e scettro? Non è forse Ar-Pharazon, che la mia debole mano fermò dall’ottenere giusta condanna? Dov’è dunque la speranza di cui parli, Elendil figlio di Amandil?

Elendil: Mente angosciata può partorire incubi aberranti; nulla però ti obbliga a prendervi parte. Qualunque sia il tuo parere in questa faccenda, Miriel, resti ancora una donna e non già una schiava.

(Elendil e Ar-Zimpharel si abbracciano e l’oscurità cala sulla scena).

L’Akallabeth: il monologo di Miriel (III Atto)

Care lettrici, cari lettori, vi presento il terzo atto della tragedia intitolata «La Caduta»: a questo link L’Akallabeth: la corruzione di Pharazon (II Atto) potrete trovare la prima parte e la spiegazione della genesi di questa opera. In questo articolo, invece, cercherò di tratteggiare un ritratto intimistico di Miriel, ormai divenuta sposa di Pharazon contro la sua volontà, assumendo il nome di Ar-Zimpharel (come sa bene chi ha letto questo articolo L’Infame Giuramento_IX Parte e ultima (Il trionfo di Pharazon). Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

P.S. Vi piace l’immagine in copertina? Così, personalmente, immagino Miriel…

Scena III, Parte I: il Monologo di Ar-Zimpharel

(Ar-Zimpharel è accanto all’uscio che conduce alla sala del trono; si accerta che Ar-Pharazon e Sauron siano usciti, infine si sfoga)

Ar-Zimpharel (con una voce bassa e roca che cresce tuttavia d’intensità nel tempo): Quanta amarezza nel constatare che il mio destino altri hanno forgiato! Come lo schiavo legato ai ceppi, così io ho atteso questo giorno, con timore, ché ben sapevo quali catene avrebbero soffocato, lentamente, la mia esistenza. Se io non sapessi, almeno potrei vivere nell’illusione della speranza, ma anche tale privilegio mi è stato privato molti anni or sono, allorché con la forza e il ricatto, Ar-Pharazon mi costrinse a cedergli lo scettro e la mia persona; lacrime amare ornavano il mio petto e non perle di mare, il giorno che fummo vincolati e tutto quanto avevo si tramutò in polvere, perfino il ricordo di cose liete, ma ormai trascorse.
Molte volte tentai di condurre alla ragione il mio sposo, ma egli non ha mai voluto ascoltare altro parere che il suo e amari sono stati i miei giorni accanto a lui.

Nessun altro suono ho mai udito in questa gelida reggia, se non l’eco dei condannati a morte salire dal patibolo e il crudele riso dei loro aguzzini; sempre freddo il letto alle prime luci dell’alba, ché il mio signore (queste ultime due parole devono essere pronunciate facendo stridere i denti, come se costituissero un suono sgradevole da pronunciare) dopo aver soddisfatto i suoi sconci piaceri, mi abbandona per concedersi nuovi abusi con le altre schiave, ed io non sono meno legata ai suoi voleri di quanto non lo siano le principesse inviate dai reami della Terra di Mezzo per placare la sua lussuria.

Un figlio ebbi, o perlomeno così mi fu detto: eppure, mai lo sguardo di sua madre si posò su di lui, ché mi fu strappato appena nato e ignoro quale sorte abbia conosciuto, se sia ancora nella mia terra o se sia ormai morto in battaglia.

Tutto questo ignoro, perché io, Principessa erede al trono di Numenor, Miriel, figlia di Tar-Palantir, sono ora schiava di colui che siede al mio fianco ed è mio consorte e cugino; perfino il nome mio fu mutato dal suo tirannico volere ed esso suona estraneo alle mie orecchie ed al mio cuore: Ar-Zimpharel fui chiamata il giorno delle mie nozze, ché io ottenebrassi quanto era accaduto nella mia giovinezza e diventassi succuba della sua perfidia».

 

L’Akallabeth: la corruzione di Pharazon (II Atto)

Bentrovati, care lettrici e lettori. Come vi avevo anticipato nei precedenti articoli, ho deciso di pubblicare nel mio blog il testo di una tragedia che ho scritto ben 14 anni or sono, dedicata alla caduta di Numenor, chiamata anche Akallabeth nella lingua adunaica. Ho esitato a lungo prima di condividere questo testo per una serie di ragioni riconducibili al quesito che qualche tempo fa mi fu posto in sede diverse da Lettrice e da Oscuro Signore in merito ai rapporti intercorsi tra Miriel e Pharazon. In effetti, a ben guardare, nel «Ciclo del Marinaio» l’interazione fra i due personaggi appare sempre molto debole, quasi inesistente. Una prima ragione che posso presentare per giustificare questa mia scelta deriva da una necessità interna alla raccolta dei racconti, il cui punto di vista è sempre quello di Erfea, il quale, per ovvie ragioni, non poteva essere presente nel momento in cui Pharazon seduceva la bionda principessa di Numenor. Non è un caso, infatti, che negli ultimi racconti che ho scritto (e che non sono stati pubblicati all’interno del «Ciclo del Marinaio» perché postumi) abbia provato a servirmi di «punti di vista esterni» rispetto a quelli del principe di Numenor: seguendo questa prassi, dunque, sono stato in grado di descrivere i retroscena che condussero alla caduta di Numenor («Racconto dell’Ombra e della Spada») e di approfondire la relazione amorosa tra Miriel ed Erfea attraverso il racconto che questa narrò ad Anarion («Racconto della Rosa e dell’Arpa»). Nel «Racconto dell’Ombra e della Spada» si descrivono i piani sinistri di Pharazon per impadronirsi del potere, che passano, necessariamente, dalla seduzione di Miriel e dal suo allontanamento da Erfea, ma nulla si dice su come questo avvenne; né, d’altra parte, ho mai sciolto del tutto l’alone di mistero che ancora aleggia sulla paternità di Varaneli, l’unico figlio avuto da Miriel (qui potrete leggere il testo corrispondente: Un erede al trono di Numenor?).

Premesso dunque, che Erfea non avrebbe potuto sapere molto su questa faccenda, essendo all’epoca impegnato a combattere le armate di Pharazon nella Terra di Mezzo, avrei potuto scegliere Miriel come protagonista narrante di questa triste storia della sua vita…tuttavia, credetemi, questa ipotesi mi ha molto turbato. Per citare le parole adoperate da Tolkien a proposito della prigionia di Merry e Pipino nelle grinfie degli Uruk-Hai, credo che la vita matrimoniale di Miriel sia stata caratterizzata da una serie di «sogni angosciosi e veglie ancora più angosciose [che] si fondevano in un unico sentimento di sofferenza, da cui la speranza svaniva sempre più». Senza dubbio, avrei potuto limitarmi a descrivere quello che accadde tra Miriel e Pharazon prima che ques’ultimo fosse incoronato sovrano di Numenor…e non è escluso che prima o poi riuscirò a farlo (per esempio approfondendo l’adolescenza di Erfea, Miriel e Pharazon che dovevano essere tutti più o meno coetanei…vi siete mai chiesti chi affibbiò il soprannome di “Spirito Solitario” al nostro eroe?), perché mi sembra certamente un compito meno cupo rispetto a quello di descrivere ciò che accadde dopo.

Il testo della tragedia della Caduta, pur essendo stato scritto parallelamente al Ciclo del Marinaio, non presenta la figura di Erfea, che risulta senza dubbio il «grande assente» della situazione: non era necessario inserirlo, perché, come vedrete leggendo questo e i prossimi articoli, si tratta di una narrazione che si sviluppa esclusivamente a Numenor, dopo l’arrivo di Sauron, quando Erfea era impegnato in ben altre faccende nella Terra di Mezzo…

Il testo di questa tragedia, dunque, costituisce una prima risposta, seppur ancor abbozzata, a quanto accadde tra Miriel – qui chiamata con il suo nome adunaico Ar-Zimpharel, impostole dal marito – e Pharazon, soprattutto in merito allo stato d’animo che provò la donna dopo la loro forzata unione. Ho preso, dunque, la decisione di pubblicarlo senza effettuare nessuna modifica al testo originale, sperando che possa incontrare il vostro favore. La tragedia si compone di 6 atti: il primo, che qui ometto, affrontava, attraverso la voce narrante di Galadriel, le vicissitudini storiche di Numenor dalla sua origine sino all’incoronazione di Pharazon. Il secondo atto, invece, che presenterò in questo articolo, racconta la corruzione subita dall’ultimo re di Numenor da parte di Sauron…buona lettura, aspetto i vostri commenti!

Atto II

(Ar-Pharazon è seduto sul trono; accanto a lui, Ar-Zimpharel, sua moglie e principessa regnante di Numenor, è in piedi, con il capo chino: una musica triste echeggia nell’aria. Un araldo annuncia l’arrivo di Sauron e Ar-Zimpharel, dopo un breve inchino, si ritira nelle sue stanze)

Araldo: Mio signore, Sauron chiede udienza.
Ar-Pharazon: Che entri e nessuno osi disturbare il nostro colloquio.
(L’araldo si inchina ed esce di scena, contemporaneamente ad Ar-Zimpharel).
Sauron: O Re degli Uomini, prestami ascolto! (genuflessione di Sauron). A lungo ho esitato, ché a volte le parole che sgorgano da un cuore saggio, facilmente possono essere traviate e distorte, eppure, invero nobile è la stirpe dei numenoreani e ancor più splendente è la stirpe di Ar-Pharazon, il Dorato! Onore e gloria ai suoi eserciti!
Invero, mai nessun altra schiatta è stata sì degna di riguardo nella storia della Terra di Mezzo e certo mi perdonerai se ho osato attendere a lungo prima di aprirti il mio cuore, ché orecchie indiscrete sono all’opera e l’ipocrisia dei Fedeli è lungi dall’essere stata debellata.
Ar-Pharazon: Sagge sono le tue parole, ma dubito che tu sia giunto qui per parlarmi di quanto io già conosco: qualunque uomo parlerebbe come te, se fosse dinanzi a me in questo momento. Non è forse vero che non esiste altra creatura in grado di contestare la mia autorità? Non ho forse condotto, qui, nella mia dimora, il Signore di Mordor? Chi altri potrebbe ora opporsi al mio volere?
Sauron: Il sovrano di Numenor ha parlato e ogni suo desiderio è un ordine per me; tuttavia, sebbene il suo nome sia temuto in ogni angolo della Terra di Mezzo ed i suoi vascelli rechino nei suoi forzieri scrigni traboccanti di oro e di argento, pure egli saprà che le glorie umane sono caduche e destinate a terminare.
Ar-Pharazon (seccato e con tono di voce più alto): Fossero esse come tu dici, pure non verrebbero sminuite dall’ignavia di uomini falsi e traditori. Forse tu puoi rendermi immortale, stregone?
Sauron: Non io, mio signore, ché non sono nel novero di coloro che detengono tale facoltà e risiedono nelle aule di Valinor.
Ar-Pharazon: False parole hanno consegnato al glorioso popolo di Numenor gli araldi dei Valar e la loro codardia è stata ben ripagata dalla indifferenza che la mia gente nutre adesso per la loro maestà.
Sauron: Ben detto, mio Signore; sappi, infatti, che i Valar mentirono per timore dei possenti uomini. Sei re tra i re e la tua parola è legge: raduna la tue truppe e marcia deciso contro coloro che ti voltarono le spalle.
Ar-Pharazon (ridendo): Se anche seguissi i tuoi consigli, cosa ne ricaverei? Bruciate le dimore degli Elfi di Valinor, avrei accresciuto solo i miei forzieri e non reso immortale la mia esistenza.
Sauron: Pure, vi sono altre volontà che potrebbero condurti al tuo obiettivo. Vi sono altri poteri al mondo e non tutti seguono lo stolto volere dei Signori dell’Occidente. Sappi, infatti, che io servo colui la cui parola è fonte di saggezza e la volontà maestra per coloro che intendono apprendere la saggezza dei forti, ché, gli uomini possenti reclamano quanto è loro tramite vie che ai deboli sono precluse.
Ar-Pharazon: Chi è dunque il tuo signore?
Sauron: Egli è Melkor, colui che, nella loro follia, i Valar gettarono al di là del Mondo; pure, coloro che non muoiono ancora ne ricordano il nome e ne temono la maestà, ché invero possente è Melkor il Grande.
Ar-Pharazon: Come può aiutarmi colui che non è più?
Sauron: Non temere, signore di Numenor! Grande sarà la ricompensa per coloro che seguiranno la volontà di Melkor, ché egli è padrone di ogni sorte.
Ar-Pharazon: Dovrei forse seguire colui che fu tanto stolto da lasciarsi condurre all’esilio eterno? Seguendo la sua volontà, non diverrei forse a mia volta uno schiavo? Tale ruolo non si addice certo al Re degli Uomini!
Sauron: Mai Melkor desidererebbe che il nome del più glorioso signore di Numenor, fosse gettato nel fango e nel disonore della schiavitù. Egli è paladino di colui che richiede per sé la capacità di discernere il bene del male, anziché seguire i precetti che esseri indegni hanno appreso per paura e codardia.
(breve attimo di silenzio; Ar-Pharazon si tocca il mento, lo sguardo ormai perso nella perfidia delle parole di Sauron, poi riprende a parlare)
Ar-Pharazon (con voce irata e rosa del dubbio): Chi sei tu, dunque, che debba parlarmi in questo modo?
Sauron (con voce bassa e suadente): Io sono colui che segue il proprio volere e desidera che anche il suo grazioso signore possa essere liberato dalle immonde catene che gli Elfi e i Valar gettarono su di lui: immortalità e libertà, i due desideri che i Signori dell’Occidente negarono così a lungo agli Uomini, Melkor potrebbe concedere loro senza richiedere nulla in cambio, ché la sua magnanimità è grande.
Ar-Pharazon (con voce incerta e stanca, coprendosi gli occhi con il palmo della mano): Cosa io ho dunque fatto? Umiliai colui che può darmi la salvezza e rendere immortale il mio spirito? Invero ciechi sono divenuti i miei occhi, se all’epoca non presi coscienza del mio errore!
Sauron: Suvvia, mio signore, non temere! Sauron di Mordor non desidera che la sua amicizia gli venga meno, ché la scorsa notta il mio maestro mi parlò a lungo nel sogno e mi pregò di farti partecipe di quanto altre menti non comprenderebbero, ché possente è il tuo spirito ed esso saprà certo comprendere quanto gli è stato rivelato.
Ar-Pharazon: Cosa avverrebbe, dunque, se le mie armate giungessero trionfanti a Valinor?
Sauron: I signori dell’Ovest prendebbero coscienza della forza che è nell’animo dei Numenoreani, Signori fra gli Uomini, e concederebbero a te e a coloro che seguiranno il tuo volere, quanto il vostro cuore ambisce ottenere. Tuttavia vi sono, finanche nel Consiglio dello Scettro, Uomini la cui cupidigia e infamia è pari solo a quella che dimostrarono i Valar: Elendil ed i suoi due figli, Isildur e Anarion, non hanno forse preso parte ai complotti che i Fedeli organizzarono allorché tuo zio, Tar-Palantir morì e alcuni sussurrarono che non dovessi acquisire, per diritto della forza, lo scettro di Numenor? Il mio maestro, Melkor, è preoccupato per la sorte infausta che la tua isola conoscerebbe, se alfine questi spregevoli uomini trionfassero.
Ar-Pharazon: Saggio è invero Sauron di Mordor. Potrai mai perdonarmi per averti umiliato dinanzi al mio popolo?
Sauron (ridendo ed inchinandosi al re): Mio signore, se il tuo volere condurrà Numenor alla vittoria, allora il mio animo non rimpiangerà di aver trascorso lunghi anni in esilio presso la tua gente.
Ar-Pharazon: La vittoria sarà nostra, allorché tutti coloro che a torto si fanno chiamare Fedeli, saranno banditi dal mio regno e da tutti quelli che seguono la mia legge; or dunque, amico tra gli amici, ti affido la sovrintendenza di Numenor, che in precedenza fu di Amandil, affinché i buoni servigi che mi hai oggi reso, siano ampiamente ricompensati dalla mia generosità. Comando e voglio!

(Sauron, dopo essersi inchinato un’ultima volta ad Ar-Pharazon, esce dalla sala del trono, seguito subito dopo dal re)

Ritratti – Miriel ed Erfea…e un nuovo racconto

Bentrovati! In attesa di poter ammirare Annatar, il Signore dei Doni, sono lieto di mostrarvi due illustrazioni che, seppure non inedite nelle loro linee essenziali, sono state ora rivisitate dalla ormai nota Anna Francesca per mostrarvi i due protagonisti principali del «Ciclo del Marinaio»…Erfea e Miriel! Spero possano piacervi almeno quanto sono piaciuti a me, specialmente la bella Miriel! Se vi state domandando a quale età sono stati ritratti i due Numenoreani, la risposta potrete leggerla (o rileggerla) nel «Racconto del Marinaio e del Messere di Endore», nel quale i due giovani si rincontrano dopo la lunga assenza di Erfea da Numenor, alla festa di compleanno di quest’ultimo: Uccidete Miriel! Complotto a Numenor. Sono emozionato, inoltre, nell’accompagnare queste due bellissime immagini con alcune righe di un nuovo scritto (a cui attualmente ho dato il titolo di «Il Racconto della Rosa e del Ragno») che sto scrivendo, dopo anni di silenzio. Posso solo anticiparvi che tratterà di un aspetto che finora non è stato molto approfondito, ossia i motivi che spinsero Miriel a mentire sulla sua reale identità a Erfea in occasione del loro primo incontro…

«Nel silenzio, interrotto solo dal lento crepitio del fuoco nel caminetto, entrambi serbavano gelosamente i propri pensieri, incapaci di proferire parola: infine, non riuscendo a soffocare le emozioni nel proprio cuore, simili agli scrosci di una cascata impetuosa, gonfiata dalle acque del disgelo primaverile, la voce della fanciulla si levò alta, rivelando la natura della sua eccitazione adolescente che né consigli, né pareri avrebbe tollerato, ma solo chiedeva di potersi specchiare nel suo inganno: “L’ho conosciuto, padre. Il figlio di Gilnar, l’erede al trono dello Hyarrostar. Camminava poco oltre la scogliera, nei grandi giardini in rovina di Armenelos, ove più nessuno della nostra gente si reca da molti anni: fu lì che i nostri percorsi si incrociarono. Tuttavia – riprese dopo alcuni istanti, a voce più bassa, come se la luce nel suo animo si fosse offuscata e l’inganno al quale aveva ciecamente creduto sino a qualche tempo fa si fosse dissolto improvvisamente – questo tu lo sai già, nevvero? I tuoi servi sono ovunque, né io posso evitare la loro costante e severa sorveglianza”. L’entusiasmo che inizialmente aveva caratterizzato la sua voce stava ora svanendo, lasciando il posto a una lamentela che l’uomo non poté fare a meno di trovare irritante, sebbene fossero stati i suoi ciechi desideri di controllarla all’origine del suo malcontento: alzò impaziente una mano, nel tentativo di rabbonirla, sebbene il suo intento non fosse quello di calmarla, quanto di incoraggiarla a proseguire nella sua narrazione: “Con quale nome ti sei presentata a lui, questa volta? Certo, non avrai adoperato quello che ti ho affidato quando ancora eri in fasce”. La bionda fanciulla si fermò, esitante: non era certa di comprendere le sue intenzioni, tuttavia la fiducia nella saggezza paterna era tale da rimuovere le paure dal suo cuore: così rise per l’inganno al quale aveva sottoposto il principe dello Hyarrostar, eppure non vi era malizia nella sua voce, né menzogna nelle sue affermazioni, ché ella era invero una fanciulla saggia per quanto l’età e il carattere glielo permettessero. Gaio ed acuto era il suo animo; per lei il nome e il casato del giovane uomo con il quale aveva discorso durante il luminoso meriggio non avevano alcuna importanza e se serbava in cuor suo un gran segreto non era per compiacere il padre o la madre. Al contrario, era in lei un sentimento di felicità misto al timore di non essere in grado di conoscere le sue paure a spingerla ad agire con quella condotta: simile a un vino ancora acerbo, nel cui sapore resinoso e forte il proprietario della vigna riconosce la bontà lenta a maturare del frutto del suo lungo e duro lavoro, così l’animo della fanciulla era pervaso dell’ebbrezza della menzogna, alla quale non voleva né intendeva sottrarsi, volendo assaporare, lentamente e di nascosto, il sapore acre e genuino del suo animo e del suo corpo che maturavano in quegli anni. Anelava al potere e all’autorità che le venivano da quella menzogna, non vi era dubbio; tuttavia se in tali maliziosi pensieri la sua mente si soffermava, pure non avveniva perché fosse incapace di parole e gesti sinceri; al contrario, per lei aveva importanza solo il suo essere finalmente libera dai rigidi lacci che un’educazione severa aveva gettato su di lei. “La fanciulla del mare – rispose infine, senza celare più il suo pensiero – Gli ho detto che sono figlia di pescatori e che la mia dimora è lungi da Armenelos, nella lontana regione di Andunie”. I suoi azzurri occhi brillavano mentre pronunciava queste parole: eppure, nonostante le sue affermazioni lasciassero trapelare la sua gioia, ella non aveva ancora raggiunto il culmine della sua eccitazione. Passò una mano velocemente sui propri capelli, quasi a voler cacciare via un pensiero molesto, indi proseguì: “Il figlio di Gilnar ha un nome insolito, per essere uno dei Pari dell’Isola. Egli ha nome Erfea, che nella lingua degli Elfi d’Occidente significa “spirito solitario”. “Non è forse questa padre – concluse la fanciulla, ebbra del suo trionfo – la ragione per cui mi hai spinto a cambiare vesti questa mattina, abbandonando lo scuro broccato e il bianco tintinnare dei diamanti a favore dell’umile argento e delle semplice vesti di chiaro cotone intessute?” L’uomo assentì lentamente, più rivolto a sé stesso che alla figlia: infine sospirò e il suo animo si rasserenò. Sua figlia aveva superato la prova, dunque».

L’Infame Giuramento_IX Parte e ultima (Il trionfo di Pharazon)

Cari lettrici e lettori, siamo ormai giunti all’ultima parte del «Racconto dell’Infame Giuramento e del Marinaio». Il finale si annuncia amaro e triste, né, come spiegavo nel precedente articolo, avrebbe potuto essere diverso.
Per comodità di chi leggerà questo epilogo, riassumo brevemente le vicende fin qui intercorse.

Palantir, ormai anziano e reso sconfortato da un popolo che non mostra, nel suo insieme, segni di ravvedimento dalla sua scelta di allontanarsi dagli Elfi e dai Valar, decide di abdicare al trono di Numenor, lasciando la corona e lo scettro alla sua unica figlia, la bellissima principessa Miriel, e chiedendo ad Erfea, uno dei principi numenoreani a lui fedeli, di aiutarla nella sua missione governativa. Pharazon, cugino della nuova sovrana, sostenuto da un numeroso gruppo di principi e capitani, si ribella alla scelta di Palantir e decide di intraprendere una guerra civile per prendersi il trono. Consapevole che la sua forza militare e le sue ricchezze da sole non saranno sufficienti per impadronirsi dello scettro di Numenor, Pharazon si rivolge ad alcuni potenti alleati della Terra di Mezzo, Er-Murazor, Adunaphel e Akhorail, senza sospettare che in realtà essi, sotto le loro spoglie mortali, sono gli Spettri dell’Anello, i Nazgul, che agiscono per conto di Sauron, intenzionato a distruggere Numenor. Nelle grotte dell’isola, in un luogo deputato al culto di antiche divinità senza nome, ha luogo una drammatica riunione del partito sostenitore di Pharazon che si conclude con la sconfitta e la morte dei capi della fazione più moderata di questo schieramento e la scelta di sostenere Pharazon nell’ascesa al trono di Numenor. Le linee programmatiche sono quindi fissate: Miriel e i Paladini, tra i quali Amandil, suo figlio Elendil e il nipote Isildur, Erfea e Brethil, non dovranno essere toccati, per evitare la reazione del popolo. Pharazon, dunque, dovrà muoversi su un duplice piano: vincere la guerra civile, ma senza uccidere i capi della fazione avversa. Tra i Numenoreani seguaci di Pharazon si segnala un giovane ammiraglio, Eargon, figlio del tesoriere Morlok, che diventa l’amante di Adunaphel, sperando con il suo aiuto in una rapida ascesa nella sua carriera politica e militare. Una volta scoppiata la Guerra Civile, i Paladini di Numenor, impegnati a contrastare le armate di Pharazon nella Terra di Mezzo, scoprono di essere stati traditi dalla loro regina, che li invita ad abbandonare le armi e a riappacificarsi con il loro nemico; dopo aver votato per continuare la guerra agli ordini di Amandil, essi fanno ritorno a Numenor, dove sono invitati a prendere parte a una riunione del Senato che si rivelerà determinante per il futuro dell’Isola del Dono. Nel corso di un drammatico consesso, si scopre che Miriel era stata tenuta in ostaggio dai numenoreani fedeli a Eargon: questi, tramite un sotterfugio, scatena un Colpo di Stato, trovandosi ben presto faccia a faccia con Erfea, ferito da una freccia, con il quale inizia un feroce duello…

Non so quale potrà essere la vostra reazione dinanzi alle righe che vi apprestate a leggere. Può essere che vi piacciano, vi sconfortino o, più semplicemente, non incontrino il vostro gusto. Ci sta, fa parte del «gioco» che si instaura, inevitabilmente, tra autore e lettore. Mi permetto, ad ogni modo, di suggerirvi una chiave di lettura per approcciarvi all’epilogo di questo racconto: il fattore temporale. Nella vita reale così come in quella cartacea, i personaggi devono sempre fare i conti con il tempo dato loro a disposizione. Nella maggior parte dei casi si tratta di un tempo breve, che costringe i personaggi a fare i conti con la propria mortalità, nel tentativo di riuscire a soddisfare i propri obiettivi nel minor tempo possibile. In altri casi (e questo accade principalmente nei racconti fantasy), i personaggi possono disporre di un tempo maggiore e, in alcuni casi, anche di una salute e di una giovinezza che perdurano più a lungo di quanto non accada nel mondo reale. Ragion per cui tenete conto del fattore temporale nel leggere questo epilogo…

Buona lettura, aspetto i vostri commenti!

«Non so dire quanto tempo trascorse; infine, a causa della spossatezza che la ferita procurava alle mie carni, Eargon riuscì, con un abile colpo a disarmarmi; allora la rabbia si impadronì della sua mente ed egli perse totalmente ogni barlume di ragione, gridando oscure parole, incomprensibili ai più; alta levò la lama e funesto sarebbe stato il mio destino se Tar-Miriel, pallida nel volto, ma ferma nella sua volontà, non gli si fosse parata dinanzi, pronunciando parole di sfida:
“Tocca quest’Uomo e la tua lama dovrà macchiarsi di un doppio crimine!”; sì bella appariva la sovrana di Numenor, nonostante la ferita sul capo ottenebrasse la calda luce dei suoi capelli, che finanche il Numenoreano Nero arrestò la sua lama, colto dal dubbio e dal rimorso; allora, impugnata Sulring – la quale, fortunatemente, giaceva non lungi da me – vibrai con disperazione un unico colpo verso l’alto, mentre con l’arto ferito spingevo Tar-Miriel lontano dal Numenoreano Nero. Eargon arretrò, stupefatto, e si toccò il petto ferito; allora mirò la grande carneficina che era in corso nella sala in basso e il suo sguardo espresse sconforto misto a pentimento.
Levatomi, mi approssimai allora alla sua figura che giaceva non lungi dalla balaustra; egli, respirando a fatica, ché la morte era prossima a sottrargli il soffio vitale, rantolò tali parole: “Hai combattuto valorosamente, figlio di Gilnar; sebbene sia l’artefice delle mia morte, non nutro verso di te alcun sentimento di rancore. A lungo ho errato e forse mai alcuna parola o gesto potrà cancellare le colpe di cui si è macchiato il mio onore; lascia, tuttavia, che io ti sveli chi è l’artefice di questo inganno, ché, se io fui l’esecutore, egli ne fu lo spietato artefice”. Prossimo era a rivelarmi il nome del mandante di quella vile strage, quando il suo volto mutò espressione e fu preda dell’angoscia; con orrore, mi avvidi allora che anche gli altri Numenoreani erano impauriti e molti striscivano via, occultandosi dietro i massicci scranni in quercia: una piccola schiera aveva fatto il suo ingresso nella sala e alla loro testa erano quattro guerrieri imponenti.
Colui che marciava innanzi ai suoi commilitoni era Pharazon, la cui armatura sontuosa recava impressi numerosi ornamenti; non fu però il suo sembiante a riempire di terrore l’animo di tutti, ché erano con lui tre guerrieri il cui volto era occultato da ampie cappe nere; ovunque essi volgessero il capo, i Numenoreani posavano le armi e non osavano rivolgere loro alcuna parola. Giunti che furono dinanzi allo scalone che conduceva alla terrazza ove ero, uno fra essi avanzò e fui finalmente conscio della sua identità, ché egli era uno degli Ulairi, gli immortali schiavi dell’Oscuro Signore; il Nazgul levò in alto il suo lungo braccio pronunciando parole che non mi arrischierò a pronunziare in questi giorni sì tristi e parve ai miei attoniti occhi che i labbri della ferita di Eargon si aprissero sempre più; costui, allora, non potendo tollerare oltre modo un sì grande dolore, raccolte le ultime forze che ancora gli restavano, si scagliò contro il suo aguzzino, pronunciando un’unica parola: “Adunaphel!” Il Nazgul, tuttavia, fu più svelto e la sua lama tranciò il misero corpo del Numenoreano, con una forza tale che i suoi resti si sparsero per tutta la sala. Infine, fu il silenzio a regnare sovrano.

I compagni di Erfea, che avevano ascoltato tutto senza proferire parola alcuna, rabbrividirono allorché udirono della orrenda morte del figlio di Morlok; infine Elrond parlò: “Credi che il Numenoreano avesse così voluto fornirti il nome che era sul punto di rivelarti prima che gli Ulairi facessero il loro ingresso nella sala? E se tale fosse il tuo parere, ritieni che egli conoscesse quali informazioni possedessi sui Nazgul?”
Lenta echeggiò la voce del principe di Elenna, che in tali termini si espresse: “Non vi è risposta certa alle tue domande, Signore dei Noldor; forse, in qualche modo che io ignoro, Eargon era giunto a conoscenza del mio viaggio sino alla fortezza degli Ulairi nell’estremo Harad e sapeva che avrei dunque compreso un nome che risuonava oscuro ai più; o forse, egli voleva solo imprecare contro colei che l’aveva privato di quanto un Uomo non dovrebbe mai perdere”.
Tacque un attimo, indi riprese a parlare: “Allorché il Nazgul ebbe rinfoderato la sua lama, e si fu allontanato dallo scalone, io ne discesi a fatica gli alti gradini, aiutato in questo da Tar-Miriel che si ergeva accanto a me. Triste fu lo spettacolo che si stendeva sotto i nostri occhi: decine di corpi giacevano riversi sul pavimento o chini sugli scranni presso i quali inutilmente avevano tentato di trovare la salvezza; una aria greve sembrava esalare dal basso e i nostri sguardi erano penosi. La schiera di Pharazon, giunta per sedare la ribellione, si era ormai ritirata, lasciando solo alcune guardie nella sala; esse ci rivolsero deferenti inchini, esortandoci a riunirci con quanti ancora dei Fedeli sopravvivevano: mio padre e mia madre, seppure feriti e spossati, erano con i Signori della Casa di Andunie, anch’essi salvi. Brethil comparve alle mie spalle ed io mi avvidi che era incolume; tuttavia, prima che potessi parlargli, apparve Pharazon ed egli chinò il suo capo, rivolgendomi queste parole: “Mi duole, principe dello Hyarrostor, vedervi sì provato da una simile disgrazia; forse ora comprenderete quanto le mie parole fossero nel giusto, allorché esortai il Consiglio dello Scettro a cedere il comando ad un Uomo di maggior ingegno e prudenza dotato”.
“Avete condotto in questo luogo, un tempo sacro, gli schiavi immortali dell’Oscuro Signore! La follia si è impadronita della vostra mente!” Con rabbia aveva pronunziato tali parole, ma la mia voce era ormai ridotta ad un rantolo confuso; Pharazon non mostrò di averla udita, oppure, se intese le mie parole, pure le ignorò: fummo condotti via, ché il cugino della sovrana addusse quale scusa per allontanarci esservi ancora presenti implacabili nemici. Tar-Miriel, tuttavia, fu trattenuta ed io non potetti far nulla, ché molto sangue avevo perso e dei Fedeli erano pochi quelli ancora in grado di impugnare un’arma.

Lacrime di rimorso scivolarono allora via dalle gote di Erfea, e il suo tono si incrinò, tuttavia egli proseguì nella narrazione: “Nei giorni successivi, le ferite che ci erano state inferte furono sapientemente guarite dagli Erboristi della nostra dimora; eppure, la vita pareva aver abbandonato i corpi di mio padre e mia madre ed essi, sebbene riacquistassero coscienza, pure si spensero lentamente e, alla fine dell’anno, io rimasi l’unico Signore dello Hyarrostar e fui anche l’ultimo a onorare un simile titolo.
Nei mesi successivi, Pharazon intensificò il suo potere a corte e condannò a morte gli ultimi sostenitori di Eargon che ancora gli resistevano; infine, una calda sera di luglio, egli inviò messaggeri presso tutti i nobili del Regno, invitandoli a prendere parte ad un evento quale mai prima i loro occhi avevano mirato.
Giunti che fummo ad Armenelos, ci avvedemmo quanto fossero rimasti in pochi ad innalzare gli antichi vessilli di Numenor, ché la maggioranza dei soldati recava le insegne nere e dorate di Pharazon; allorché egli si avvide che i suoi ospiti avevano preso posto, si levò dal suo scranno e due oscure figure avanzarono ai suoi fianchi; infine, giunto dinanzi alla balaustra che si affacciava sul grande piazzale che occupavamo, levò il braccio destro e chiese la parola.
“Numenoreani! Gli eventi di recente accaduti mi hanno dimostrato che solo un Uomo dotato di possente volontà e sorretto da amici valorosi ed equi, può condurre i nostri destini verso un avvenire glorioso; non crediate, tuttavia, che questo sia un incarico al quale mi approssimo inconsapevole: alcuni anni fa, come molti fra voi ricorderanno – e qui il suo sguardo cadde ironico su di noi – certuni sostennero che la regina Tar-Miriel avrebbe agito saggiamente, sconfiggendo i nostri nemici; eppure, una serie di ribellioni sono state provocate, le une causate dalla sua incompetenza nella difficile arte di governare, le altre da ingenui comandanti privi di ogni lungimiranza e prudenza.
Non vi sembra, dunque, che tale corso infausto degli eventi molte sofferenze abbia arrecato al nostro popolo? Mirate, o Numenoreani, le tristi sembianze di coloro che subirono le orribili cicatrici della guerra e le sventure della miseria! Mirate le oscure carceri ove furono racchiusi pericolosi ladri e biechi assassini, le cui azioni l’imbelle sovrana non seppe frenare! Mirate i lussuriosi postriboli, ove giace, oziando, la nostra gioventù! Mirate tutto questo, o Numenoreani, e domandate ai vostri animi chi è il responsabile del degrado che fino ad oggi ha imperato sulla nostra isola!”
“Tar-Miriel, Tar-Miriel!” prese ad urlare la folla, accompagnando il suo nome con osceni epiteti che non riferirò qui dinanzi a voi; allora, Pharazon levò nuovamente il braccio e chiese la parola:
“Se io fossi, Amici, un Uomo quale questi tempi oscuri hanno generato, tosto avrei chiesto la testa della sovrana ed essa sarebbe stata esposta qui, innanzi a voi; tuttavia, poiché la mia stirpe affonda le sue origini nella notte dei tempi, ecco che vengo a voi come salvatore della patria e della sua sventurata regina; dal momento che il risanamento dell’isola passerà attraverso quello dei suoi abitanti, ecco che io prendo, dinanzi a voi tutti, Tar-Miriel come mia sposa ed ella regnerà al mio fianco”.
Un grande mormorio di stupore si levò dal popolo; ma esso fu presto sommerso da frenetici applausi che si levarono da ogni dove; una quarta figura comparve allora sul palco reale ed ella era colei che un tempo avevo amato. Invano tentai di scorgere meglio il sembiante della figlia di Tar-Palantir, ché mi parve il cielo essere oscurato da una fuligginosa caligine; ratto, allora, mi voltai e scorsi Brethil che singhiozzava, versando amare lacrime accanto a me; fu solo allora che, stupito, mi accorsi anche io di piangere: molto morì in me in quel momento.
A lungo piansi, né ero il solo; distante pochi passi da me, il volto contorto da una smorfia di rabbia, era anche Isildur; tuttavia, se le sue lacrime erano dettate dall’impotenza e dall’ardore giovanile represso e tosto sarebbero state sostituite dal cieco desiderio di vendetta, le mie avevano un sapore più amaro, ché sancivano il definitivo addio agli anni della mia verde Primavera.
Infine, la figura più alta posta accanto al sovrano, calò la sua cappa ed io la riconobbi: Er-Murazon, il Signore dei Nazgul, era giunto a Numenor per celebrare la vittoria del suo padrone. L’oscuro servo di Mordor levò in alto la corona forgiata per l’occasione, ché mai prima di allora vi era stato un sovrano che avesse posto sul proprio capo un simile cimelio, e la collocò su quello di Pharazon, pronunciando simile parole: “Egli sarà sovrano con il nome di Ar-Pharazon il Dorato e la sua sposa sarà nota come Ar-Zimraphel. Lunga vita ai sovrani di Elenna!”

Il popolo accolse il nuovo re con gran tripudio ed infinite esclamazioni di giubilo; quanto a me, avevo preferito abbandonare quel triste luogo per fare ritorno alla mia contrada, tosto imitato dagli altri Signori dei Fedeli: giunto dinanzi alla città di Minas Laure, invitai presso la mia dimora Brethil ed egli accettò con gioia e gratitudine, ché le sue genti erano state completamente annientate ed egli era l’ultimo della sua casata.
Alcuni mesi dopo Ar-Pharazon inviò i suoi araldi presso i Signori dei Dunedain, chiedendo loro di sottomettersi alla sua maestà: nessuno fra noi firmò la sua richiesta e grande invero fu la sua ira, sicché fece giuramento sul padre che avrebbe condotto alla rovina coloro che gli si erano ribellati; dei trentatré Signori che erano sopravvissuti alla guerra e che non erano ancora fuggiti alle colonie della Terra di Mezzo, ben ventidue furono accusati di alto tradimento e condannati al patibolo; sette subirono la pena dell’esilio e quattro furono privati di qualunque carica avessero posseduto fino a quel momento; quanto a Brethil, accolse il dono di Iluvatar prima che fosse emanato il decreto di colpevolezza nei suoi confronti ed egli fu sepolto accanto ai corpi dei miei avi.

Lungo era stato il racconto di Erfea ed era ormai giunta l’alba quando la sua voce si spense fra il frinire delle prime cicale; profondamente commossi, i compagni allora gli si inchinarono ed egli condusse i loro passi ad una radura poco distante dal luogo ove avevano udito il resoconto di quei lontani anni: al suo interno, accanto a una gaia fonte, era posta una grande roccia, che mani abili avevano scolpito simile ad una pergamena aperta. Vi erano dei nomi incisi sulla sua superficie ed i compagni vi lessero, fra gli altri, quello di Erfea Morluin, di Amandil, di Elendil e dei suoi due figli, Isildur e Anarion.
Ancora oggi tale pietra è visibile ad Orthanc e si narra che neppure le corrotte arti di Saruman il Bianco, le oscene grinfie degli Orchi o ancora la furia dell’Isen allorché la valle fu allagata, riuscirono a spezzarla o ad insudiciarla: grandi onori le tributò Re Elessar allorché la scorse e ne decifrò le iscrizioni, ché essa era ivi posta a testimonianza imperitura del coraggio e della lealtà dei Numenoreani Fedeli al loro popolo e agli antichi vincoli di alleanza con le altre liberi genti».

Fine del racconto.

L’Infame Giuramento_VIII Parte (Il colpo di Stato di Eargon)

Scrivere sulle orme di un grande autore del genere epico e fantastico come lo è stato J.R.R. Tolkien non è semplice. Non si tratta solo di una questione di stile, o di conoscenza delle lingue della Terra di Mezzo o, ancora, della Storia dei popoli che l’abitarono. La difficoltà più grande da superare è costituita dal rispetto che al suo legendarium chiunque dovrebbe portare; indubbiamente possono esservi passaggi o scelte che non condividiamo (quanti di noi avrebbero voluto che Thorin o Theoden non morissero? E che dire della sorte di Frodo, incapace di riacquistare la pace al termine delle sue sventure, che pure avevano salvato la Terra di Mezzo?), ma ritengo sia giusto accettarli così come sono stati descritti dal loro autore. Non lo sostengo solo per una questione di rispetto: si tratta, invece, di una questione di coerenza, più facile da distruggere di quanto superficiamente si possa credere. Ogni evento, se trasformato, può produrre una serie di conseguenze che rischiano di mettere a repentaglio tutta la materia tolkieniana, alla quale l’autore – non bisogna mai dimenticarlo – ho dedicato tutta la sua esistenza.
Questa lunga premessa mi serve per introdurvi alla conclusione de «Il Racconto del Marinaio e dell’Infame Giuramento», nella quale, come avrà intuito chi ha letto le parti precedenti, il destino di Erfea, Miriel e dello stesso Pharazon, naturalmente, conoscerà una svolta drammatica.
Non si può nascondere che non ci sarà un lieto fine. Avrei voluto, certamente, che Miriel non cedesse alle lusinghe e alle minacce di suo cugino Pharazon; tuttavia, così facendo, avrei cambiato l’intero corso della Storia e non era questa la mia intenzione.
Che l’ascesa di Pharazon abbia inizio, dunque…non prima, tuttavia, che avvenga un vero e proprio colpo di scena…

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«Giunti che fummo innanzi ai cancelli del palazzo reale, il Maggiordomo del Palazzo venne da noi, ordinando di deporre le armi che recavamo seco: “Signori dello Hyarrostar, nessuno meglio di voi dovrebbe conoscere le leggi di questa contrada; certamente, rimembrerete che mai alcun Senatore o Membro del Consiglio dello Scettro abbia fatto il suo ingresso alla sala del trono adorno di simili cimeli!”
Fredda fu la mia risposta: “Né, tuttavia, si era mai visto che un membro della famiglia reale osasse usurpare il trono al legittimo sovrano; se grande è la nostra colpa, piccola essa sembrerà dinanzi a simili crimini. Perché dunque non rivolgesti le medesime ammonizioni ai Neri, che osarono fare il loro ingresso in questo palazzo, sprezzanti di qualunque autorità?”
Il Maggiordomo, allora, chinò il capo e più non parlò, ché grande era in lui la vergogna; i pesanti battenti furono aperti e facemmo il nostro ingresso nella Sala Circolare, ove si tenevano le riunioni del Senato e del Consiglio dello Scettro nei rigidi mesi invernali: due ordini di scranni correvano lungo tutto il muro, aprendosi solo dinanzi all’ingresso. Al centro, vi era un alto trono in marmo, posto su di un’ampia predella che si levava dal basso verso gli scranni della seconda fila; sappiate, amici, che codesti erano i posti assegnati a coloro che appartenevano alla fazione sostenitrice del Sovrano; grande perciò fu la nostra inquietudine, allorché l’Araldo del Sovrano diede disposizione affinché occupassimo la prima fila di scranni.
Nessuna parola fu pronunciata, né inchino mostrato; silenti e scuri in volto, prendemmo posto accanto ai nostri congiunti; ivi eran anche Amandil, Elendil ed Isildur, seguiti da Brethil l’Orbo: allorché si avvide che i Principi dello Hyarrostar erano con lui, Elendil prese a sussurrare al mio orecchio parole intrise di timori e rancori: “Erfea, questa è una trappola! Mai avremmo dovuto seguire i consigli di chi, per ingenuità o per follia, esortò i nostri voleri a prendere una decisione che arrecherà infinite disgrazie alla fazione dei Fedeli!” Isildur, tuttavia, mostrando infinito sprezzo del pericolo, accarezzò cupo l’elsa della sua nobile lama e parlò: “Fosse anche come tu dici, padre, pure vi sono qui campioni che i seguaci di Pharazon si pentiranno di aver convocato dinanzi a loro!”

Il primo oratore, dopo aver atteso che il brusio dei presenti fosse scemato, si inchinò dinanzi ai senatori e ai principi del Consiglio dello Scettro, dichiarando che la seduta era aperta; fu allora che mi accorsi quanto ciascun Uomo presente in quella sala, sia che egli sostenesse la causa di Numenor, sia che ambisse esercitare il potere su di essa, nutriva nel suo cuore le medesime paure ed ambizioni; non vi era nessuno, infatti, che non mostrasse apertamente le proprie armi. Alcuni senatori giunsero a pronunciare i propri discorsi impugnando con la sinistra le preziose pergamene sulle quali erano trascritti e posando la destra sull’elsa della lama che recavano seco.
Infine, allorché gli oratori appartenenti agli ordini più bassi ebbero terminato di parlare, un minuscolo uscio sulla sinistra fu aperto e Tar-Miriel fece il suo ingresso nella sala.

Erfea tacque per qualche attimo, rimembrando lo sconforto che l’aveva preso allorché i suoi occhi l’avevano veduta dopo lungo tempo; infine, proseguì la sua narrazione e la sua voce mutò, divenendo remota agli orecchi dei Signori dei PopoliLiberi:
“Ridotta a poco più di un pallido fantasma anelante alla vita, la figlia di Tar-Palantir sedette sul trono marmoreo al centro della sala; così esile era divenuta, che i massicci monili dorati, mai indossati prima di quel momento, parevano ceppi ai quali era ancorata, anziché tesori di inestimabile valore; gelido ed impassibile fu il mio animo in quell’ora, eppure non potetti distogliere lo sguardo dal suo sembiante ed ella fu consapevole della mia presenza; allora uno spento sorriso le illuminò il volto e in esso erano visibili tutti gli anni della nostra giovinezza, quando non ancora il nome di Pharazon era stato udito a Numenor e si ascoltavano canti lieti echeggiare in quelle medesime volte ove adesso regnava il Terrore.
La regina ascoltò con estrema attenzione le richieste dei suoi sudditi ed essi parevano indifferenti a quanto era accaduto di recente; si discusse della cattiva stagione del grano e del farro, e si stabilì un calmiere per i generi di prima necessità; tuttavia, non una voce si levò dagli scranni ove sedevano i membri del partito dei Fedeli, avvedendosi che codesta era solo una farsa; eppure, le sventure più gravi dovevano ancora giungere.

A metà mattinata, prima che le campane suonassero la quarta ora dopo il sorgere del sole, Eargon, che parimenti si era astenuto dall’intervenire sino a quel momento, chiese udienza presso la sovrana, domandandole che un suo capitano potesse far ritorno dall’esilio ove era stato confinato alcuni anni prima; nonostante il diniego che Tar-Miriel oppose a tale richiesta, egli insistette e si approssimò al trono; giunto dinanzi alla sovrana, continuando a scongiurarla di mutare parere, ecco che afferrò l’argentato scettro e lo inclinò verso il basso: come ci avvedemmo in seguito, quello era il segnale della rivolta.
Con una forza che sorprese tutti, Tar-Miriel afferrò l’Uomo, mentre la sua voce si levava alta nella sala, pronunciando queste parole in Quenya: “Dannatissimo Eargon, cosa fai?” Quello, allora, per tutta risposta, sguainò la sua lama e, rivolto ai Neri che erano sovra di lui, così parlò in Adunaico: “Fratelli, aiutatemi!”
Un gran numero di arcieri apparve allora sugli spalti interni e presero a colpire i senatori della nostra fazione; ancor prima che essi, però, facessero il loro ingresso nella sala, Isildur comprese quanto era in procinto di accadere: con un urlo, egli impugnò la spada e balzò in avanti, consapevole che i Neri avrebbero impiegato alcuni istanti per discendere dagli scranni superiori, appesantiti com’erano dalle armature che indossavano; giunto che fu dinanzi al figlio di Morlok, tentò di trucidarlo con un colpo ben assestato. Eargon, tuttavia, essendo più esperto ed accorto, scansò abilmente il fendente del suo avversario e lo abbatté con lo scettro che aveva sottratto alla regina, colpendo allo stesso tempo il capo di Tar-Miriel con l’elsa della spada; tutt’intorno, intanto, le spade mulinavano e le frecce fischiavano. La Sala Circolare, che mai aveva conosciuto la follia degli Uomini, divenne teatro di una grande carneficina; io combattevo al fianco di mio padre Gilnar e molti dei Neri giacevano caduti ai nostri piedi; infine, mi avvidi che Eargon si apprestava a trascinare il corpo esamine della sovrana in alto, lì ove occhi indiscreti non avrebbero potuto scorgere le nefandezze che il suo animo oscuro avrebbe desiderato soddisfare con la sua prigioniera: con un balzo imperioso, gli fui accanto, sbarrandogli la strada. Una freccia fischiò nell’aria, conficcandosi nella mia spalla destra; ferita non letale, ma profonda, sicché fu con immenso dolore che mi apprestai a duellare con il figlio di Morlok; egli sorrise compiaciuto allorché si avvide della mia ferita e levò in alto l’elsa della sua spada, i cui rubini rischiarati dalla tremula luce delle torce, parvero illuminare la lama di una sinistra aura rossastra; Sulring rispose allora con il suo azzurro baluginare ed il duello ebbe inizio».