La saggezza di Nimrilien – II parte (ed ultima)

Care lettrici, cari lettori,
come promesso la scorsa settimana, vi presento il brano che conclude il racconto de «Il Marinaio e le Palantiri», nel quale il nostro paladino, Erfea, avrà modo di superare l’atavica paura della Morte, che le parole di Sauron avevano rafforzato nel suo spirito. Vi rimando in basso ai link utili per comprendere meglio questo brano.

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«Sorrise Nimrilien, e il suo riso era acqua nella gola riarsa del pellegrino affranto: “Ti ho detto che acquisirai la saggezza, e tale rimane il mio giudizio. Non puoi sperare di annientare il Signore di Mordor, non ancora – aggiunse rivolgendosi più a sé stessa che non al figlio. Puoi tuttavia impedire al tuo spirito di soffrire inutilmente, obliando le tue paure, non soffocandole, ma affrontandole”.

A tali parole Erfea si levò in piedi, e nei suoi occhi baluginava la luce dell’ira: “Io ho fallito, madre! Sauron ha annullato la mia volontà. Forse, posso udire il canto lamentoso dei gabbiani giungere dall’oceano tumultuoso o scorgere innanzi a me le profondità dell’animo umano, eppure esse ora paiono inghiottirmi e soffocarmi nella loro tumultuosa esistenza. I miei sensi indeboliti e mutilati sembrano essere sensibili non già alla luce, ma solo al terrore e alla paura”. Lentamente Erfea tornò a sedere, scuro in volto: “Non vi è destino che io non possa scorgere, ma a quale scopo? Nei miei pensieri danza macabra la morte, e nelle sue mani rovinose, io scorgo le vite di coloro che devono ancora essere, disfarsi e consumarsi! Credevo – concluse tremando – credevo che la morte fosse un dono, eppure mi accorgo solo adesso della sua azione letale. I miei giorni trascorrono lenti, e avverto il veleno scorrere lentamente nelle mie vene, impotente nell’agire. Non vi è altro destino che la morte. A che fin compiere valorose azioni? Anch’esse sono destinate a fallire ancor prima di essere concepite”.

Grave divenne allora il volto di Nimrilien; tuttavia ella lo prese per mano e gli sussurrò lentamente: “Mira la morte! Sappi Erfea, figlio di Gilnar, che niente di quanto tu affermi è figlio della tua volontà. Sauron di Mordor ha avvelenato il tuo essere e ingannato i tuoi sensi. Osserva e sii libero!” Lentamente Erfea spostò il proprio sguardo fino ad incontrare quello della defunta signora di Numenor. Meraviglia! La nebbia che avvolgeva il suo cuore, si dissolse ed egli poté nuovamente godere dei dolci profumi della primavera, dilettarsi ascoltando il tripudio dei delfini del mare, rattristarsi per la morte della sua sovrana: e allora pianse lacrime purificatrici, che lavarono via il dolore che ancora sconquassava il suo cuore martiorato. A lungo pianse, infine levato il suo sguardo verso la madre, egli capì e il suo cuore fu pieno di speranza: “Comprendo – mormorò stupito – quanto sia stata saggia colei la cui anima riposa ora al di là del Mondo; se la mia vista non mi ha ingannato, innanzi a me ho veduto il suo spirito, librarsi libero, privo dei dolori che affliggono i mortali. Tristezza non vi era nei suoi occhi, né il dolore albergava nel suo cuore; invero, una grande pace pareva avvolgerla e condurla là ove le menti umane non possono dirigersi. Ho appreso dunque la saggezza degli uomini”.

Nimrilien l’osservò a sua volta, infine, gli prese la mano e la tenne vicino alla sua: “Non chiamare vana la morte! Ella è stata qui, ché la nostra sovrana ha infine compreso il significato profondo del Dono. Colei che ora rimpiangiamo, ha infine stabilito che era giunta l’ora di restituire quanto gli dei le avevano concesso; tale è stata la sua scelta, per cui sofferenza alcuna ha provato ed essa ha lenito anche il tuo dolore. La maledizione di Sauron è spezzata.”

“Sì – pronunciò lentamente Erfea, assaporando la parola, mentre la pronunciava – ho appreso la saggezza. Sono lieto di aver dato l’ultimo saluto alla sovrana di Numenor, ché, se non l’avessi fatto, per me sarebbe stato vano ogni altro aiuto.”

“Ben dici, figlio mio, quando affermi questo; sappi però che se la tua volontà non fosse stata forte a tal punto da parlare con Sauron, egli ti avrebbe consumato, avvinghiandoti alla sua volontà. Saresti divenuto uno dei Numenoreani Neri, uomini perfidi e arroganti, bramosi oltremodo di assaporare il dolce veleno del potere. Non chiamare vano l’aver guardato nel Palantir, ché se non l’avessi fatto, saresti senza difesa alcuna da Sauron.

Va’ ora figlio mio – concluse Nimrilien – e ricorda quanto hai appreso oggi.”

Detto questo, la signora degli Hyarrostar si levò dallo scranno e scomparve tra le fronde degli alberi, inoltrandosi lungo il sentiero che dalla reggia conduceva al mare; Erfea la seguì con lo sguardo, infine sospirò e si diresse verso la sua dimora, ove impaziente l’attendeva il padre Gilnar.

Tale fu la conclusione della vicenda e non trascorse molto tempo che Erfea divenne noto ai Numenoreani per aver osato, appena compiuta la maggior età, discorrere con il Signore di Mordor, sfidando la sua malvagia volontà. Taluni, nelle epoche successive, quando Numenor era stata ormai sommersa dalle acque del grande oceano, osservarono che la profezia rivelata da Erfea a Sauron, si era davvero realizzata, dal momento che il capitano dei Dunedain sopravvisse alla caduta del discepolo di Morgoth, unico fra gli uomini di quell’era, eccetto Elendil di Andunie, ad aver parlato con l’Oscuro Signore senza essere stato tuttavia privato dell’intelletto e della capacità di giudizio».

Suggerimenti di lettura:

La saggezza di Nimrilien – I parte

Sauron, il filosofo

 

 

La saggezza di Nimrilien – I parte

Care lettrici, cari lettori,
un argomento che è stato toccato marginalmente (almeno fino a questo momento) è rappresentato dalla famiglia di Erfea. Come spiegavo qualche tempo fa a un mio lettore, non abbiamo certezze neppure in merito alla presenza di altri fratelli o sorelle: quello che è certo, infatti, è solamente l’assenza di riferimenti alla loro esistenza. D’altra parte, a complicare la questione, c’è da riconoscere che Erfea in nessuna occasione sostiene di essere un figlio unico. Confesso, come Autore, di non aver le idee chiare su questo aspetto, ragion per cui non sono in grado di offrire ulteriori elementi a favore dell’una o dell’altra tesi. Tornando alla famiglia del nostro paladino, i miei lettori di più antica data ricorderanno almeno i suoi genitori: Gilnar, il principe dello Hyarrostar, e sua moglie Nimrilien la Bianca, parente dei più noti Elendil & Co.
Quanto ai rapporti fra Erfea e i suoi genitori, tuttavia, ho rivelato ancora molto poco: chi ha letto «Il Racconto del Marinaio e del Messere di Endore» sa che suo padre avrebbe voluto fare di suo figlio un Ammiraglio e che questo progetto sia fallito, a causa della predilezione accordata da Erfea all’equitazione. Per il resto, invece, le notizie sono molto scarne: ne «Il Racconto del Marinaio e dell’Infame Giuramento» avrete notato come entrambi i genitori abbiano combattuto a fianco di suo figlio per difendere Miriel dal Colpo di Stato che avrebbe posto fine al suo regno; nello stesso racconto si accenna alla loro morte, che sarebbe giunta poco dopo l’ascesa al trono di Ar-Pharazon il Dorato, cugino di Miriel.
Prima o poi verranno fuori altri dettagli sulla famiglia dei principi dello Hyarrostar…per il momento vi lascio con questo brano che segue a Sauron, il filosofo nel quale avrete modo di riflettere sull’atavica paura della morte che non risparmiò neppure il nostro valoroso paladino e sul ruolo che Nimrilien ebbe nell’aiutarlo a superare questo terrore.

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L’immagine in copertina è di isalleberecs e si intitola Gilmith. È così che immagino una giovane Nimrilien, madre di Erfea.

«La sfera del Palantir avvampò nuovamente, come se tutte le fiamme dell’Orodruin[1] avessero bruciato nella grande sala; infine l’ira di Sauron decrebbe e le stelle splendettero nuovamente luminose nei grigi occhi di Erfea, figlio di Gilnar. Ithil, la luna, era sorta, e la notte si apprestava ormai a terminare; il giovane Dunadan era esausto e silenzioso dopo la severa prova cui si era sottoposto. A lungo Gilnar attese, finché egli udì Erfea gemere ed accasciarsi al suolo esamine; lesta fu allora la sua reazione ed egli si chinò accanto al figlio. Il freddo abbraccio della morte, tuttavia, non macchiava del suo cinereo marchio il viso di Erfea, né le sue membra erano rigide; solo, dormiva, ed era il suo un sonno benedetto da Elbereth[2], che cancellava in tal modo la ferita e lo sgomento che le parole di Sauron avevano provocato.

A lungo giacque nel proprio letto il giovane capitano, eppure il suo sonno era regolare e la luce dei suoi occhi non era annebbiata dalla follia; infine all’approssimarsi del giorno di Mezza estate, Erfea si ridestò dal suo lungo sonno. Gilnar attese che suo figlio fosse desto del tutto, infine, lentamente, quasi volesse sondare le profondità delle tenebre che salivano da ponente, prese la parola: “Tutto quanto hai appreso, accadrà fin troppo presto credo; sappi però che le Palantiri non mostrano quali sono le vie che le nostre menti e i nostri corpi devono percorrere, per scongiurare il pericolo o propiziarsi i benefici degli dei. Tu stesso dovrai comprendere quale sarà il sentiero migliore, affinché il tuo destino possa essere compiuto; questa è la saggezza dei Numenoreani e degli uomini liberi della Terra di Mezzo, saper esplorare i meandri della propria anima e trarne da essa le risposte. Ricorda quanto ti dico, figlio, ché i dubbi e le certezze sono in te: è compito di ciascuno di noi saperle discernere. Come il contadino separa il biondo frumento dalla sterpaglia avvizzita, così tu devi estirpare il male che è in te: non siamo divinità e la nostra imperfezione è la condizione primaria dell’essere umano.”

Erfea annuì lentamente, riflettendo su quanto il padre aveva detto; infine alzò lo sguardo e rispose adoperando tali parole: “Non credere che io abbia obliato, ché la dolce quiete del sonno ha lavato via solo le ombre dal mio cuore, eppure le mie paure permangono. Tale sarà il mio destino, credo, che dovrò errare a lungo alla ricerca di quanto avrò smarrito: lunghe e dolorose saranno le mie peregrinazioni, e non sempre la mia fatica sarà ricompensata con quanto desidero. Raramente capita che i fini delle azioni degli uomini siano compresi da quanti ne ambiscono il significato. Sono grato agli dei – proseguì – per aver avuto la determinazione e la volontà necessarie per affrontare l’Oscuro Signore; il mio cuore teme però per il destino di questa terra.”

Parole non pronunciò Gilnar, ed i due uomini evitarono di cercare l’uno lo sguardo dell’altro; il signore della casata degli Hyarrostar, era conscio di quali pensieri occulti si celassero nelle ombre vespertine, eppure, nonostante l’aria grave e silenziosa della stanza, il suo cuore non poté fare a meno di gioire, ché comprendeva il valore dell’impresa compiuta dal figlio. Erfea, tuttavia, non rivelò mai a nessun altro uomo quanto avesse scorto nelle profondità del Palantir, ed a lungo il suo cuore rimase turbato.

Lunghi giorni trascorsero ed egli di rado si dimostrava loquace, immerso nelle silenziose angosce che le ferite del suo animo gli procuravano; infine, desideroso di fuggire la malinconia e la tristezza che l’affliggevano, si recò dalla madre, Nimrilien di Andunie, signora degli Hyarrostar, nota in tutta Numenor per la sua conoscenza delle antiche arti della guarigione.

Affranto e teso parve Erfea a Nimrilien, quando questi gli fu innanzi; eppure parole non pronunciò, ma fattogli cenno di seguirlo, lo condusse nella camera da letto della sovrana. La luce del luminoso sole rischiarava le vele delle navi, ormeggiate nel vicino porto, eppure Erfea poté scorgere le ombre annidarsi nella silenziosa dimora della regina di Numenor: una forte paura si levò in lui, l’atavico terrore che scuote gli uomini, quando si trovano innanzi alla propria fine; eppure la donna che aveva innanzi a sè non sembrava turbata, né affranta.

Una benedetta malinconia le incorniciava il viso, mentre le sue labbra levavano silenziose parole al cielo; l’azione del tempo corruttore non aveva deturpato con i suoi miasmi il corpo della sovrana, splendido ricordo della gloria trascorsa.

Nimrilien osservò per qualche istante ancora il volto sorridente della sovrana, poi sospirò: “Non hai fallito, figlio! Lunga e dolorosa sarà la tua guarigione, tuttavia, quando sarà giunta a termine, tu avrai ottenuto la saggezza. Sappi però che un’altra prova dovrai affrontare, ché solo in tal modo non temerai più la morte.” Erfea avvampò per la rabbia: “Non ho superato indenne la prova! Perché mi dici questo? Perché vuoi prolungare la mia agonia? Non di nuove sofferenze il mio cuore necessita, ma di parole di conforto.”

Mestamente Nimrilien si levò, sfiorando con le affusolate dita le bionde chiome di Silwen, consorte di Tar-Palantir: “Non temere le tue angosce, Erfea. Sauron di Mordor ha allungato il suo artiglio grifagno sul tuo spirito, ferendolo: non è vergogna o codardia riconoscere la propria debolezza; neanche il più saggio e lungimirante tra noi può prevedere quali saranno i fini ultimi delle nostre azioni. Non rimpiangere la scelta di sfidare la volontà del Palantir; molti eventi i tuoi sensi mortali hanno percepito, e ad essi prenderai parte, quando sarà giunta l’ora. Tuttavia, sebbene coraggio e valore tu abbia dimostrato nel parlare con Sauron, sappi che non puoi sconfiggere la sua nera essenza, né piegare al tuo valore il Palantir, senza doverne subire le conseguenze: la tua giovane età ti impedisce di agire con maggior saggezza.”

“Ero consapevole dei rischi, madre – la interruppe Erfea, triste in volto – ma nonostante ogni mio sforzo ho fallito.”»


[1] Un vulcano situato nella contrada di Mordor, noto presso le genti di Gondor come Amon Amarth, “monte della sorte”.

[2] Altro nome di Varda

[conclusione nella prossima puntata]

Ritorno a Numenor

Continuo in questo articolo la narrazione delle avventure che Erfea visse nella Terra di Mezzo durante la sua giovinezza, fino al suo ritorno a Numenor per essere insignito del titolo di cavaliere.

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«Lesti trascorsero i mesi, e gli anni, né alcuna notizia giungeva da occidente; pure, sebbene nel suo cuore Erfëa fosse lieto e nulla gli fosse venuto meno, egli avvertì crescere nel suo animo una profonda nostalgia della sua gente e della sua dimora. Esitava, tuttavia, ad abbandonare il regno del Lindon, ché egli era convinto di non aver mostrato ai suoi ospiti sufficiente gratitudine per quanto aveva ricevuto ed avrebbe voluto compiere per il suo anfitrione gesta valorose.
Yavië[1] era giunto e ancora nessun’occasione per mostrare il suo valore gli si presentava, allorché Gil-Gilad gli parlò: “Giovane figlio di Gilnar, il tuo animo è insoddisfatto, perché inebriato dai racconti che ha udito in queste sale. Ambisci ottenere la gloria imperitura che i bardi riservano a quanti compiuto grandi gesta; pure, non aver fretta di voler dimostrare il tuo valore, ché questi sono ancora giorni di pace e se essi verranno meno, il tuo spirito sarà lesto a dolersi”.
“Mio signore, poiché tu mi hai esposto il tuo pensiero, lascia che io possa essere sincero con te: ho appreso quanto desideravo conoscere ed ho duellato con maestri d’arme quali non ci sono nella mia patria; pure, sebbene io ti sia profondamente grato per quanto hai permesso che io imparassi, il mio animo è invero insoddisfatto, ché esso brama la gloria dei miei avi”.
Un’ombra apparve allora sul volto di Gil-Galad ed egli sospirò a lungo; infine, avvedendosi che l’erede di Gilnar era impaziente di misurare la sua abilità, così gli parlò, tentando di dissuaderlo:
“Erfëa, se anche tu potessi affrontare in singolar tenzone Sauron, l’Oscuro Sire di Mordor in persona, credi che il tuo animo recupererebbe quella pace che invano cerchi? Non è in tal modo che si ottiene la vera gloria, ché essa risiede nella nostra capacità di servire la potenza di Ilúvatar. In tempi di pace, Uomini ed Elfi dovrebbero godere della vita così come era prefigurata prima che Melkor intonasse un canto nuovo e diverso, orribile ad udirsi”.
L’ira avvampò nel cuore del Númenóreano ed egli a stento la dominò: “Mio sire, se Morgoth ha reso irrequieti i cuori degli Uomini, non è ignorando le sue azioni che potremo conoscere pace e letizia! Concedimi, dunque, di stanare le sue creature che ancora dimorano nel vasto mondo, affinché io sia degno delle potenze di Arda”.
Secca fu la replica di Gil-Galad: “Non ho alcun potere su di te, Erfëa, figlio di Gilnar, e se ti ho aperto il cuore è per evitare che tu cadessi vittima delle tue stesse debolezze. Va’ pure, se lo desideri, non sarò io a contrastarti: possano i tuoi passi non tradirti”.
Erfëa si inchinò dinanzi al sovrano, e lasciò la sua dimora, sebbene il suo cuore fosse dubbioso ed egli temesse le parole che il Sovrano dei Noldor aveva pronunciato; pure, non avrebbe rinunciato a portare a termine la sua missione, per paura che la sua codardia risultasse maggiore della sua vergogna. [continuare la lettura del racconto con l’articolo Il Messere di Endore]
[…] Erfëa non rispose e, voltatosi, si incamminò ove ricordava di aver subito l’assalto del servo di Morgoth; trovata l’immonda bestia, si appropriò della sua nera pelle. Dopo alcuni giorni di cammino giunse finalmente alla dimora di Gil-Galad. Lieti furono i Priminati allorché lo scorsero; timoroso in volto, il principe di Númenor si inchinò dinanzi al sovrano degli Eldar e gli donò quanto la sua caccia aveva procurato. Sorrise, allora, Gil-Galad, ché il cuore del suo ospite aveva allontanato l’ombra che ne incupiva l’animo, mostrandosi pentito.
A lungo il figlio di Gilnar parlò dinanzi al suo sovrano di quanto i suoi occhi avevano scorto nelle remote selve che si estendevano nelle contrade al di là delle montagne. Nel suo sguardo vi erano ancora meraviglia e stupore, ché mai avrebbe obliato l’anziano e gaio Messere della foresta e la sua graziosa dama del fiume. Al termine del racconto, Gil-Galad si levò dal suo scranno ed estratta una pesante chiave dalla sua veste, si diresse verso un antico forziere che giaceva in fondo alla sala: apertolo, ne estrasse una lama quale gli uomini di Númenor più non ricordavano, essendo le loro menti molto più rapide ad obliare di quanto non lo siano quelle dei Primogeniti. Stupito, Erfëa la osservò con fanciullesca curiosità: non gli sembrava possibile che una simile lama fosse stata forgiata, finanche dai fabbri dei Noldor, i quali avevano appreso l’arte da Fëanor il Grande, l’artefice dei Silmaril[2] e delle Palantíri.
Un’elegante elsa stringeva nel suo forte pugno l’Alto Sovrano dei Noldor ed essa era arricchita da delicati intarsi in ithildin[3], i quali rappresentavano le sette porte che un tempo custodivano Gondolin la Segreta dalla malizia dell’Oscuro Nemico. Il forte pomo in acciaio era attraversato da sottili fili di mithril: pareva risplendere di luce propria allorché un raggio di sole o di luna si posava sulla sua chiara superficie. Quale arte fosse stata in grado di concepire una simile meraviglia, Erfëa non avrebbe saputo dire: perfino le orgogliose lame dei suoi padri gli parevano poca cosa, se paragonata all’arma che Gil-Galad impugnava.
La guardia, solitamente realizzata in bronzo, era invece fabbricata in acciaio cavo, risultando leggera nell’impugnarla. La lama, la cui luminosità, perfino in una giornata soleggiata, era tale da abbagliare coloro che l’avessero mirata troppo a lungo, si estendeva per cinquanta pollici: sulla sua lucida superficie, rune di grande potere rilucevano splendenti.
Sorrise il Sovrano dei Noldor: “Sappi, Dúnadan, che questa lama fu forgiata da Curufin, figlio di Fëanor, celebre fabbro, agli albori della Prima Era, quando il mondo era giovane e gli Edain ancora dormivano. Donata al sovrano di Gondolin[3] Turgon la spada servì i Signori della sua casata, finché non essi non perirono durante la sua caduta. Idril, figlia del re, la trasse in salvo dal disastro e la condusse con sé allorché fuggì da Gondolin; attraverso gli anni giunse agli eredi di Eärendil e giacque a lungo nei forzieri di Imladris la Nascosta, che un giorno, forse, visiterai tu stesso. Elrond mi ha chiesto di consegnarla nelle tue mani, come dono degli Elfi a colui che si accinge a divenire cavaliere di Númenor. Io la rimetto al fianco di Erfëa, figlio di Gilnar e principe di Númenor, con profonda commozione: possa essere per te un valido sostegno, come il nodoso bastone lo è per il viandante”.
Grande fu la gioia che si dipinse allora sul volto di Erfëa, ché non credeva possibile che un simile dono fosse destinato ad un mortale: “Mio grazioso signore, se l’artefice della lama stessa reclamasse quanto la sua arte ha forgiato, pure mi mostrerei riluttante nel concedergliela, ché essa sembra non già la creazione di uno dei Figli di Ilúvatar, quanto quella del Signore dei Fabbri, Aulë il Vala. Per tale motivo, il mio braccio è troppo debole per impugnare una simile lama; pure, se tale è la volontà del Sovrano degli Eldar, io la accetterò, ché possa essere mia fedele compagna negli anni a venire”. Con prudenza, il Dúnadan accettò la spada eppure, nelle sue esitanti mani, essa parve prendere vita. Erfëa non avvertì più alcun timore, e gli sembrò che la lama fosse fiera del suo padrone. Raggiante in volto, il principe di Númenor la lanciò in aria e ripresala al volo, lesse ad alta voce le rune che vi erano impresse, chiamandola con il nome che l’artefice aveva scelto per lei:
“Sulring di Gondolin, avversaria dell’Oscuro Nemico del Mondo e dei suoi immondi servi”. Inspirò profondamente: “Possa la sua lama incutere terrore agli eserciti di Sauron, il crudele signore di Mordor”.
Congedatosi dal sovrano dei Noldor e da quanti erano nella sua corte, Erfëa si accinse a fare ritorno alla terra natia: erano ormai trascorsi sedici anni dalla sua dipartita e molto era cresciuta nel suo cuore la nostalgia per coloro che aveva abbandonato allorché, ancora giovinetto, si era imbarcato alla volta della Terra di Mezzo. Nel viaggio di ritorno lo seguì Arthol: grande amicizia era stata stretta fra i due principi ed essi, sovente, aprivano l’un l’altro i reconditi segreti che i loro cuori custodivano.
Al termine di una lunga traversata, il marinaio di vedetta sulla coffa, annunciò essere prossime le spiagge di Rómenna, il porto orientale di Númenor. Alte grida di giubilo si levarono dall’equipaggio: lesti, i marinai si accinsero ad ammainare le vele, ché il vento era caduto ed essi avrebbero dovuto proseguire a remi, né questo parve lavoro troppo grave a chi era imbarcato; la vicinanza della propria dimora, infatti, aveva accresciuto in tutti la forza e le notti insonni parevano un ricordo del passato.
Spronata da una simile forza, la nave giunse dunque al porto di Elenna, ove fu accolta da una folle festante. Da alcuni giorni, infatti, si era sparsa la voce che avrebbero fatto ritorno alla terra natia i giovani principi. Ritto sulla fiancata della nave, Erfëa scorse Gilnar e Nimrilien attenderlo e il suo cuore fu colmo di gioia; sbarcato sul pontile, il giovane principe dell’Hyarrostar fu accolto dal suo popolo ed essi lo mirarono stupiti, ché Erfëa era divenuto invero un uomo quale pochi fra loro erano, ed alto e bello a vedersi era il suo sembiante. Parve a molti, abbigliato come era nelle vesti che gli Eldar della Terra di Mezzo gli avevano donato, che Erfëa fosse divenuto simile ai Primogeniti.
Lungo il tragitto che lo condusse a Minas Laurë, sua città natale, molte domande gli posero i suoi genitori, pregandolo di soddisfare la loro curiosità; eppure, ora che il figlio di Gilnar aveva mirato i volti cari, nel suo cuore era delusione ed essa trapelò nel suo volto. Questa non sfuggì, tuttavia, a Nimrilien ed ella così gli parlò:
“Nobile figlio, devi essere davvero molto stanco, dal momento che la tua lingua è muta e non presti attenzione alle domande che ti sono poste. Il tuo spirito è affranto ed il tuo sguardo spento”.
Silente e scuro in volto, così Erfëa le rispose: “Veneranda madre, ogni tua parola corrisponde a verità; io però non intendo rivelare quale sia l’origine del mio male, per paura che il mio dolore possa sembrarmi maggiore, se fosse rivelato qui innanzi a voi”.
Scuro in volto divenne allora Gilnar: egli non gli pose più alcuna domanda, né alcun suono si levò dalla sua bocca, ché oscure gli parevano le parole del figlio ed egli non ne comprendeva il significato.
Nei giorni successivi, crebbe l’inquietudine nel cuore di Erfëa ed egli prese a vagabondare da solo, sicché a molti parve che non avrebbe potuto scegliere nome migliore. Si recava sovente nei giardini di Armenelos, ove, qualunque fosse l’intento che lo conducesse in tale luogo, pure non sembrava appagato. L’umore di Erfëa mutò solo quando si sparse la voce che Numendil avrebbe invitato tutti i pari del Regno nella sua dimora: egli manifestò allora grande impazienza, sebbene nessuno riuscisse a comprenderne il motivo».

Note

[1] L’Autunno.

[2] Le “pietre veggenti” affidate, secondo la tradizione, dagli Eldar ai Númenóreani; si veda anche “Il Racconto del Marinaio e delle Palantíri”.

[3] Una lega metallica composta da alluminio e mithril, riflettente i raggi della Luna.

[4] Gondolin, dimora del re elfico Turgon, fu costruita nei recessi di una remota valle occultata dai monti del Dorthonion, nel Beleriand settentrionale. Per secoli la sua ubicazione fu nota solo a pochi tra gli Eldar: tuttavia, al termine della Prima Era, Maeglin, il traditore, desideroso di vendicarsi di Idril, principessa di tale città e da lui a lungo amata invano, rivelò tale segreto all’orecchio di Morgoth che ordinò alle sue armate di raderla al suolo.