Il mistero delle porte di Moria

Se c’è un episodio del «Signore degli Anelli» che è rimasto particolarmente impresso nell’immaginario del lettore tolkieniano è certamente quello rappresentato dall’ingresso alle Miniere di Moria, l’antica Khazad-Dum ormai abbandondata dai Nani centinaia di anni prima che la Compagnia dell’Anello prendesse la decisione – ardita e rischiosa allo stesso tempo – di passare attraverso i suoi sentieri sotterranei per sfuggire alle spie del Nemico che erano sulle tracce dell’Unico. Questo episodio, tra l’altro, è stato reso visibile sul grande schermo, dapprima nel lungometraggio animato di Bakshi (1978) e, in seguito, nel primo capitolo della saga cinematografica di Jackson (2001).

In entrambe le pellicole la Compagnia, giunta alle porte di Moria, è attesa dalla difficile risoluzione di un enigma rivolto all’incauto forestiero: la sua risoluzione permetterà a Frodo & Co. di entrare nell’antica dimora nanica. La natura dell’enigma è ben nota, tanto da diventare materia di meme e altre parodie rintracciabili sulla Rete: sulle porte di Moria, infatti, campeggia la seguente scritta in caratteri elfici: «Le porte di Durin, Signore di Moria. Dite, amici, ed entrate. Io, Narvi, le feci. Celebrimbor dell’Agrifogliere tracciò questi segni». Sia nel romanzo che nelle due opere cinematografiche questo enigma mette a dura prova la Compagnia: nel romanzo, come nella pellicola di Bakshi, è Gandalf a risolverlo, dopo aver riflettuto profondamente (questa è una scena che mi ha spesso rammentato quei giochi di ruolo nei quali il mago o lo stregone si prende un turno di riposo per concentrare le proprie energie mentali per lanciare un incantesimo o decifrare una pergamena magica, a conferma di quanto l’immaginario tolkieniano abbia influenzato l’universo ludico fantasy). Nel film di Jackson, invece, è Frodo a mettere sulla giusta strada lo Stregone Grigio, immaginando (correttamente) che la frase nasconda un doppio senso basato sull’uso delle virgole che sottolineano, in qualche modo, la parola d’ingresso, ossia «Amici» (mellon in elfico). Ad ogni modo, la Compagnia, una volta pronunciata la parola «magica» può dunque proseguire nel suo percorso, non prima di aver evitato l’ira dell’Osservatore dell’Acqua, una gigantesca e mostruosa creatura che vive nello stagno del Sirannon, situato ai piedi delle porte di Moria. Anche in questo caso non posso che apprezzare la sceneggiatura di Bakshi rispetto a quella di Jackson: coerentemente con quanto è narrato nel romanzo, i suoi membri non hanno una chiara e immediata percezione di quanto accaduto; in altre parole, non è subito chiaro se i tentacoli verdi e luminescenti che li hanno aggrediti appartengano a una o a più creature acquatiche; questo «enigma zoologico», infatti, sarà risolto solo alcuni giorni più tardi, quando Gandalf avrà occasione di leggere il Diario di Mazarbul, rendendosi conto in questo modo che si tratta di un mostro solitario al quale i nani della colonia di Balin avevano attribuito il nome di «Osservatore dell’acqua». Jackson, invece, ha preferito puntare decisamente – come in altre occasioni – sulla spettacolarizzazione dell’attacco portato dalla mostruosa creatura nei confronti della Compagnia, mostrando fin dal principio la natura dell’Osservatore, molto simile a quella del Kraken delle leggende norrene.

Ad ogni modo, sia il lettore che lo spettatore si convince facilmente che la difficoltà nella quale si sia imbattuta la Compagnia riguarda principalmente la soluzione dell’enigma linguistico: la presenza della frase incisa sulle porte di Moria è spiegata grazie all’azione dei raggi lunari che rendono visibili i caratteri elfici. Si ha dunque l’impressione – fallace, come cercherò di spiegare in seguito – che ogni notte (o, più correttamente, ogni qual volta la luna o le stelle non siano coperte da nubi) questa scritta di benvenuto brilli nell’oscurità e che all’occasionale visitatore non rimanga altro che risolvere il noto enigma.

Verrebbe da chiedersi, se così fosse, come mai Sauron, che pure attaccò Khazad-Dum nel corso della sua prima guerra contro gli Elfi dell’Eregion sul finire del XVII secolo della Seconda Era, non sia riuscito a sciogliere l’enigma, pur disponendo dei poteri dell’Unico e pur essendo uno stregone di grande potenza e intelligenza. Più in generale, non è possibile restare impassibili dinanzi alla constatazione che qualunque nemico avrebbe potuto risolvere quell’enigma, dal momento che richiedeva essenzialmente una sola competenza linguistica (ossia la conoscenza del Quenya, una lingua elfica la cui importanza per gli Elfi potrebbe essere paragonata a quella del latino nella società odierna).

Come mai, dunque, Sauron non era riuscito a penetrare nelle sale di Khazad-Dum per depredarle delle sue notevoli ricchezze?

La risposta risiede in un passaggio che, purtroppo, è stato eliminato sia nell’opera di Bakshi che in quella di Jackson: «Sono d’intarsi d’ithildin, che riflette solo i raggi di luna e di stelle, e dorme sin quando non sente il tocco di chi pronunzia parole ormai da tempo obliate nella Terra di Mezzo. Io le udii molti anni addietro, e dovetti riflettere profondamente prima di riuscire a rammentarle». Queste sono le parole che Gandalf pronuncia dinanzi alle porte di Moria, rivelando, dunque, come il vero ostacolo per penetrare all’interno della città dei Nani non fosse pronunciare la parola «mellon», quanto apprendere le parole (rimaste sconosciute anche al lettore) che permettevano di leggere, per così dire, «le istruzioni» apposte sulle porte di Khazad-Dum. Questo dettaglio, niente affatto trascurabile, spiegherebbe il segreto dell’invulnerabilità della roccaforte nanica nelle epoche precedenti; neppure Sauron, evidentemente, era riuscito a carpire il segreto delle «parole di comando» che rendevano «sensibili» gli intarsi di ithildin, un metallo la cui formula era noto solo ai Nani e agli Elfi. Allo stesso modo, è interessante notare come Gandalf lasci intendere di essere stato apprezzato ospite, in un passato remoto, dei nani di Moria, al punto da ispirare così grande fiducia da apprendere le parole segrete.

Sedici anni dopo: cosa resta della trilogia di P. Jackson. Analisi di un fenomeno culturale controverso

Interrompo momentaneamente la narrazione degli eventi che condussero alla cattura di Minas Ithil da parte delle armate di Sauron per affrontare un tema sul quale sono stato sollecitato, sia pure indirettamente, dal moltiplicarsi, in questi giorni, di una serie di meme e ricordi condivisi da molti utenti su Facebook in merito all’uscita, nel gennaio del 2004 per il mercato cinematografico italiano, dell’ultima parte della trilogia de “Il Signore degli Anelli”, prodotta dalla New Line, con la regia di P. Jackson.

Cosa rimane, sedici anni dopo, del capitolo conclusivo di una saga capace di registrare incassi altissimi e di ottenere, nel complesso, ben 17 statuette degli Oscar, piazzandosi così come la trilogia più premiata (fino ad ora) nella storia del cinema?

Non è semplice dare una risposta che non risenta, inevitabilmente, dei gusti personali di ciascuno, per cui ritengo doveroso avvertire il lettore che questo articolo sarà influenzato da considerazioni a carattere personale. Non me ne vogliate, insomma, se quello che scriverò non dovesse incontrare il vostro favore.

Per scrivere questo articolo, quindi, devo partire da una premessa personale, ma che credo sia ampiamente condivisibile: il rapporto con la trilogia cinematografia risente – almeno a sentire tanti appassionati di Tolkien – da una precisa circostanza, ossia dal ruolo che questa ha avuto nel far conoscere (o meno) allo spettatore il legendarium tolkieniano. Pur senza voler eccessivamente generalizzare, è possibile azzardare una grande suddivisione: da un lato, infatti, ci sono coloro che non avevano mai letto nulla delle opere del professore di Oxford sino a quel momento, ai quali la visione delle pellicole (e non poteva essere diversamente, del resto) ha spalancato le porte di un vero e proprio mondo fantastico e che tendono, dunque, ad apprezzare particolarmente la versione cinematografica del Signore degli Anelli. Dall’altro, invece, ci sono quanti, all’epoca dell’uscita de «La Compagnia dell’Anello» (2002), avevano avuto già modo di conoscere gli scritti di Tolkien e che, in linea di massima (ma anche qui non mancano eccezioni, naturalmente) tendono a sottolineare i limiti dell’impresa di trasposizione cinematografica. Si tratta, spesso, anche di una questione anagrafica: i più anziani, di solito appartengono al secondo gruppo, mentre i più giovani al primo. Esiste poi un gruppo di dimensioni minori che si è avvicinato al Signore degli Anelli grazie alla visione del lungometraggio di animazione di Ralph Bakshi del 1978 (per saperne di più, vi suggerisco di leggere l’esaustiva analisi di Lettrice a questo link: https://wordpress.com/read/blogs/141936457/posts/4473).

Personalmente appartengo a questo gruppo. Non sono così «anziano» da aver avuto la possibilità di vedere l’opera di Bakshi al cinema (anzi, non ero ancora nato nel 1978), ma sono stato «svezzato», per così dire, dalla visione di questo lungometraggio. Non mi dilungherò eccessivamente su questa opera (magari prima o poi, sulla scorta di quanto ha scritto Lettrice, vi dedicherò un articolo anche io), se non per sottolineare un elemento che può apparire forse secondario, ma sul quale, invece, vorrei che i miei lettori potessero riflettere. Se dovessi trovare un aggettivo per definire la sceneggiatura di Bakshi, infatti, al di là delle scelte condivisibili o meno in fatto di resa dei personaggi, direi che un termine molto calzante per caratterizzarla sarebbe quello di «malinconico». Non ci sono momenti particolarmente ilari nella trasposizione di Bakhsi: perfino le parole «Ma io non ce la faccio a correre fino a Isengard!» che pronuncia uno sfinito Gimli, mentre è intento a dare la caccia agli Orchi che hanno catturato Pipino e Merry, possano strappare tutt’al più un sorriso, ma non certo provocare grasse risate. La stessa scena ripresa ne «Le Due Torri» di Jackson, al contrario, sortisce un effetto opposto: si ride di gusto di Gimli che sostiene che «i Nani siano scattisti, pericolosissimi sulle brevi distanze», mentre arranca e sbuffa per tenere il passo dei ben più agili Legolas e Aragorn.

Che «Il Signore degli Anelli» sia un’opera distante anni luce da facili battute e risate, d’altra parte, lo conferma un personaggio del tutto estraneo alle dinamiche tolkieniane e in un contesto del tutto diverso rispetto a quello della Terra della Mezzo. Mi riferisco al romanzo «Matilde», scritto dallo scrittore inglese (ma norvegese di nascita) Roald Dahl, il quale pone in bocca alla bambina protagonista della sua opera queste parole: «Anche i libri di Tolkien non fanno per niente ridere» (p. 75 dell’edizione Salani). Pur non condividendo questa analisi in toto (vedi sotto per quel che concerne lo Hobbit) non si può nascondere che il Signore degli Anelli possa far sorridere in alcune scene – per esempio nella diatriba fra Gollum e Sam intorno alle patate, oppure nel dialogo fra Ioreth e la sua cugina di campagna dopo il ritorno degli eserciti dell’Ovest a Minas Tirith – ma riuscire a far sbellicare di risate il suo lettore, direi proprio di no.

Mi si risponderà: un film (anzi una trilogia) – peraltro di consideravole lunghezza – non può non avere momenti comici. E io sono d’accordo con questa affermazione, ci mancherebbe. Il problema è chiedersi se queste scene, queste battute, possano essere «sovrascritte» nella trasposizione cinematografica di qualunque romanzo, racconto o componimento letterario che si possa immaginare, senza avere lo sgradevole effetto acustico di un gatto che graffi il vetro di uno specchio.
Provare per credere: immaginate Dante che, nel suo viaggio all’Inferno, si fermi a guardare le anime dei trapassati per esclamare: «Questo vale comunque uno!» (Gimli dixit).

Allo scopo di essere più chiaro nella mia analisi prenderò a esempio una scena molto bella che è visibile (o leggibile) sia nel romanzo che nelle due trasposizioni cinematografiche (quella di Bakshi e quella di Jackson, per intendersi). La scena in questione riguarda la tentazione nella quale cade Bilbo dopo aver rivisto, a distanza di anni, l’Unico Anello nelle mani di suo cugino Frodo.

Ecco come è descritta nel Signore degli Anelli: «Bilbo tese la mano; immediatamente Frodo ritrasse l’Anello. Con angoscia e sommo stupore si accorse che non stava più vedendo Bilbo; un’ombra sembrava essere scesa tra di loro, ed egli scorgeva dall’altro lato un piccolo essere avvizzito dal viso avido e dalle ossute mani ingorde. Sentì il desiderio di colpirlo. La musica e i canti intorno a loro parvero svanire, e vi fu un profondo silenzio. Bilbo lanciò un rapido sguardo a Frodo e poi si passò la mano sugli occhi. «Ora capisco», disse. «Mettilo via! Mi dispiace: mi dispiace che tocchi a te sopportare questo peso, mi dispiace tanto. Possibile che le avventure non abbiano una fine? Ma forse no. C’è sempre qualcun altro che prosegue la storia. Ebbene, non vi è altro da fare. Chissà se vale la pena cercare di terminare il mio libro…ma per il momento non pensiamoci, voglio sentire delle vere notizie! Parlami della Contea!» Frodo nascose l’Anello, e l’ombra scomparve lasciando soltanto un vago ricordo. La luce e la musica di Gran Burrone lo circondavano nuovamente».

Nella pellicola de «La Compagnia dell’Anello», invece, la scena non avviene all’interno del banchetto offerto da Elrond per la vittoria al guado del Bruinen; al contrario, è stata spostata in un momento successivo, poca prima che la Compagnia si metta in viaggio verso Mordor. Nulla di male in questa «posticipazione», per carità, tuttavia cerchiamo di capire come procedono le cose nella pellicola di Jackson: Frodo, dopo aver ricevuto Pungolo e la cotta di maglia di mithril dall’anziano parente, indossa quest’ultima su suggerimento di Bilbo, lasciando intravedere, per un attimo, l’Anello al suo collo. Di fronte alla richiesta di Bilbo di tenerlo in mano per un’ultima volta, Frodo si richiude la camicia (plausibilmente per non indurlo maggiormente in tentazione) e Bilbo per un secondo si trasforma in una creatura non molto dissimile da Gollum, salvo poi pentirsi immediatamente del suo gesto. A quel punto, dopo essersi scusato per quello che è avvenuto e per il peso dell’Anello che ha lasciato a Frodo (in modo abbastanza simile rispetto a quanto avviene nel libro), scoppia in lacrime, consolato da Frodo che gli pone affettuosamente una mano sulla spalla. La terza «versione», se così si può definire, è quella di Bakshi: in questo caso l’incidente fra i due Hobbit avviene, come nel romanzo, alla festa tenuta in onore di Frodo, e si mantiene abbastanza fedele al romanzo, salvo per la conclusione; in questo caso, infatti, Bilbo scoppia a piangere (come sopra), ma non riceve nessun conforto da Frodo. Anzi, a interrompere il suo pianto è Gandalf che richiama – in modo forse un po’ brusco – i due Hobbit a prendere parte al Consiglio di Elrond.

Come si può vedere, si tratta di tre scene simili ma diverse allo stesso tempo: la vera questione, tuttavia, non è rappresentata da quale sia quella più fedele al romanzo, ma, invece, quale sia quella che ne interpreta meglio lo spirito. Possono sembrare due concetti analoghi, ma non lo sono affatto. Il senso profondo di questa scena, secondo me, è il seguente: Frodo non può mostrarsi troppo accondiscendente verso Bilbo, non perché non gli voglia bene – tutt’altro – ma perché, qualche istante prima, questi aveva tentato di sottrargli l’Unico. Nella casa di Elrond la possessione esercitata dall’Anello nei confronti del suo Portatore non era ancora giunta a quei livelli percepibili al termine del lungo viaggio che avrebbe condotto Frodo a Mordor, tuttavia, è senza dubbio molto forte; lo era già, del resto, quando Frodo si dimostrò riluttante a lanciare l’Anello nel fuoco di Casa Baggins per poter leggere l’iscrizione incisa sulla sua superficie. Può essere dispiaciuto, certo, ma non può perdonare Bilbo di aver provato a toglierli l’Anello. Questa scena, quasi mai trattata negli articoli degli appassionati del mondo tolkieniano, è secondo me invece importante per comprendere gli effetti dell’Unico sugli esseri viventi. Tornando alla questione iniziale, quale scenografia riprende meglio lo spirito del romanzo? Opto per quella di Bakshi, perché pur avendo inserito la figura di Gandalf al termine dell’alterco fra i due Hobbit (assente nel libro in quel frangente) si dimostra, tuttavia, valida nel richiamare alla realtà Bilbo, quasi scuotendolo dai suoi rimorsi per esortarlo, forse anche con una certa durezza, a riprendere il possesso della propria coscienza per combattere il potere dell’Unico.

Da questo primo passaggio, capirete bene perché apprezzi più la trasposizione cinematografica de «Lo Hobbit» all’interno del quale, invece, i momenti comici non mancano: basti pensare a Dori e Nori che si accapigliano intorno al fuoco, oppure alle battute divertenti che si lanciano Bilbo e Dori quando questi è costretto a prendere lo Hobbit sulle sue spalle nelle caverne dei goblin, o ancora alla descrizione che Tolkien dedica ai nani e a Gandalf appesi sui rami del pino delle Montagne Nebbiose, da lui paragonata a una scena natalizia…per tacere, poi, degli Elfi di Rivendell, che sono molto più ilari di quanto non appaiano nel Signore degli Anelli. E potrei continuare a lungo. La scelta di Jackson di calcare in qualche scena questo lato «comico» (i Nani che si lanciano il cibo addosso, mentre sono ospiti di Elrond, per esempio) può essere certamente criticabile (alla fine anche le scene divertenti devono essere dosate con sapienza, a meno che non si tratti di un Cinepanettone, ma questa è, come si suol dire, un’altra storia), ma ciò non toglie che, personalmente, trovi queste scene in grado di rispecchiare più fedelmente lo spirito dell’Hobbit. Gli stessi Nani della Compagnia di Thorin, per esempio, per quanto possano apparire eccentrici (basti pensare a Bifur con l’ascia impiantata nel cranio) in fondo sono rappresentazioni visive di personaggi che, nel romanzo di Tolkien, hanno barbe di colori diversi, anche molto accesi (un dettaglio, quest’ultimo, che si perde del tutto nel Signore degli Anelli). Forse Tolkien desiderava ottenere un effetto comico con quelle barbe colorate? Non lo sapremo mai con certezza, però non si può nascondere che contribuiscano a rendere i Nani molto più comici rispetto a Gimli, uno dei personaggi più malinconici e forse sottovalutati del Signore degli Anelli (basti pensare al dialogo struggente fra lui e Legolas intorno alle sorti degli Uomini per capire come si tratti di un personaggio totalmente diverso da quello rappresentato nella trilogia cinematografica, impegnato in gare di rutti e in battute «facili» come quella sopra riportata).

E veniamo ora a un altro punto ampiamente controverso e criticabile dei film di Jackson: l’Amore. Prima ancora che qualcuno possa solo pensare che io sia ostile alla presenza di relazioni amorose nella Terra di Mezzo, lo invito a leggere (o a rileggersi) la storia fra Erfea e Miriel per dissipare qualunque dubbio: le vicende sentimentali, se ben strutturate, rappresentano una delle colonne portanti della letteratura di ogni tempo, anche di quella fantastica o epica che dir si voglia. Gli esempi sono pressoché infiniti, dal triangolo amoroso Artù-Ginevra-Lancillotto agli struggimenti di Didone per Enea, agli amori extraconiugali di Zeus…e davvero, si potrebbe continuare per pagine e pagine.
Ciò non toglie, tuttavia, che anche questo tema debba essere calibrato per bene rispetto alle vicende interne di un’opera letteraria. Nel romanzo del Signore degli Anelli, per esempio, appare una sola storia d’amore classicamente intesa, vale a dire quella in cui due personaggi si conoscono, si piacciono e magari convolano a giuste nozze e non è certo quella di Aragorn e Arwen attorno alla quale, invece, ruota buona parte di un’importante sottotrama della trilogia cinematografica. Mi riferisco, invece, alla storia fra Eowyn e Faramir, alla quale, forse, si sarebbe potuto attribuire un maggior spazio, ma tant’è.
Anticipo già una buona dose di critica a questa mia osservazione con la seguente auto-accusa: «Eh, ma Tolkien dedicò grande attenzione alla coppia Aragorn-Arwen nelle Appendici del Signore degli Anelli!»
Vero, eppure questa affermazione non fa altro che aprire una questione a mio parere ancora più importante rispetto al modo in cui è stata affrontata la storia d’amore fra i due e riguarda il carattere di entrambi i personaggi. Arwen non è una guerriera, né – cosa forse ancora più importante – deve impegnare particolarmente Aragorn ad accettare la sua scelta di diventare mortale: ricordiamo, infatti, che se fisicamente poteva essere scambiata per un giovane elfa, a un osservatore attento come Frodo non sfuggiva la sua reale età: Giovane era, eppur non tanto. La chioma corvina non era sfiorata dalla brina, le braccia bianche ed il viso limpido erano lisci e vellutati, e miriadi di stelle risplendevano negli occhi grigi come crepuscolo luminoso; ma il portamento era regale e lo sguardo rivelava riflessione e saggezza, apprese attraverso anni di esperienza.

Da questa descrizione appare chiaro che difficilmente, nel momento in cui si svolge la vicenda della guerra contro Sauron, Arwen avrebbe potuto lasciarsi a un rapporto complicato sia con Aragorn che con suo padre: se scontri c’erano stati con Elrond in merito alla sua scelta di diventare mortale (e nel testo non ne troviamo traccia, possono essere solamente ipotizzati), dovevano risalire a molti anni addietro e certamente non sembrano aver intaccato la relazione fra i due innamorati. Dama Arwen, inoltre, non è assolutamente la guerriera impavida che sottrae Frodo alla caccia dei Nove e che addirittura si permette di rinfacciare ad Aragorn di essere più veloce nel cavalcare. Non perché le elfe non potessero gareggiare con i rappresentanti dell’altro sesso, al contrario: nel Silmarillion, per esempio, Tolkien scrisse che Galadriel era così forte ed agile da superare in competizioni sportive molti degli elfi Noldor. Sfortunatamente per la bella figlia di Elrond e Celebrian, tuttavia, l’autore non sembrava pensarla come gli sceneggiatori del film: quando il potere di Sauron sembra ormai rendere i viaggi rischiosi, Elrond la fa richiamare da Lorien, ove era solita recarsi per visitare i suoi nonni materni, perché le strade erano divenute pericolose. Una frase scarna, contenuta peraltro nell’appendice degli Annali della Terra di Mezzo ma sufficiente, secondo me, per far sgretolare l’immagine di Arwen che sfida addirittura il Re Stregone a farsi avanti per strapparle dal grembo un Frodo ormai morente…

Tornando alla storia d’amore fra il Ramingo e la mezzelfa, inoltre, non deve sfuggirci un punto importante: per quanto Aragorn amasse teneramente Arwen e potesse essere spinto nella sua missione di contrastare Sauron anche per effetto della promessa fatta al suo patrigno – nonché padre della sua amata – che l’avrebbe presa in sposa solo se fosse divenuto re di Arnor e Gondor, implicando questo risultato la sconfitta di Sauron, non c’è dubbio che Aragorn avesse ben chiaro che nella guerra contro l’Oscuro Signore c’era in ballo «il destino di tutta la Terra di Mezzo», tanto per usare una frase fatta. Non avrebbe mai smesso i panni del Ramingo per assumere quelli dell’erede di Isildur solo per amore di Arwen: da persona saggia e avveduta com’era, credo che avrebbe messo il massimo impegno in questa lotta anche se non fosse stato fidanzato con la mezzelfa. Inoltre Aragorn non vide mai una contrapposizione fra l’essere ramingo e l’erede di Isildur: raminghi erano semplicemente quegli eredi del popolo di Arnor che erano sopravvissuti alla sua caduta nell’anno 1974 della Terza Era e si erano dati a un’esistenza errabonda, perché troppo pochi per riportare il loro reame all’antico splendore. Tanto è vero che i discendenti di Arvedui, l’ultimo re di Arnor, presero il titolo dei Capitani del Nord, proprio a sottolineare, da un lato, il loro basso profilo assunto dopo la fine del Regno, e dall’altra la volontà di non spezzare un lignaggio che non aveva pari tra quelli umani nella Terra di Mezzo, in attesa che giungessero tempi migliori.

Personalmente trovo che l’amore tra i due, così come appare nelle pagine del Signore degli Anelli, sia struggente e romantico allo stesso tempo: Aragorn, pur nel vortice di eventi che accadono attorno a lui, non manca di prendersi un attimo per ricordarla, come avviene nel suo ingresso a Lorien (una scena che, confesso, avrei voluto tanto vedere anche nella pellicola cinematografica). È un amore profondo, che riesce a sopravvivere a tutto quello che accade intorno a loro, ma che trova poche attinenze con quello raccontato nei film; soprattutto, non riesco a capire perché Sauron dovesse mettere a rischio la vita di Arwen, suvvia! L’Oscuro Signore non sapeva neppure chi fosse l’erede di Isildur e quando lo scoprì era troppo tardi per pensare a eventuali rappresaglie «emotive».

Un film può preservare lo stesso spirito del romanzo anche – paradossalmente – con una sceneggiatura che, a prima vista, potrebbe non collegarsi in alcun modo alle pagine dell’opera in questione. Per rifarmi a un esempio concreto, prenderò in esame l’Anabasi, un’opera scritta nel IV secolo a.C. dallo storico ateniese Senofonte. Questi, nelle sue pagine, narrò le vicende dell’armata di 10.000 mercenari greci che, postisi al servizio del principio persiano Ciro il Giovane per usurpare il trono al fratello Artaserse, furono abbandonati a sé stessi dopo la morte del loro mecenate e l’eliminazione – a tradimento – della maggior parte dei loro comandanti. Attraverso un difficile viaggio in terre inesplorate e ostili, i superstiti di quell’armata riuscirono infine a raggiungere il Mar Nero. Questo romanzo è stato ripreso nell’opera letteraria «I Guerrieri della Notte» (1965), scritto da Sol Yurick, e poi nell’omonimo film del 1979. Ebbene, in questa pellicola, i membri di una gang di New York, ripercorrono le stesse gesta degli antichi greci pur in un contesto che non azzarderei a definire del tutto slegato al mondo classico antico: eppure, nonostante le ovvie diversità, il film mantiene intatto lo spirito non solo del romanzo cui si ispira, ma anche quello della sua fonte più antica, l’Anabasi di Senofonte.

La trilogia cinematografica del Signore degli Anelli, invece, è andata oltre la trama stessa del libro, quasi riscrivendola per la prima volta: anzi, si può dire che sia stato proprio il grande successo di questi film a decretare una sorta di contrapposizione fra la resa cinematografica e l’originale letterario. Non è infrequente, infatti, imbattersi in rete in fan della saga di Jackson pronti a giurare che ogni azione, ogni scena e perfino ogni battuta del film corrispondano a quelle descritte nel libro. Alcune settimane fa ho cercato inutilmente di far comprendere a uno di questi fan che Tolkien non ha mai disegnato nessun Balrog, né tantomeno ha edito una versione illustrata del Signore degli Anelli e che doveva aver ritenuto che le immagini di John Howe fossero state disegnate da Tolkien stesso. Credetemi, non c’è stato verso di fargli cambiare idea: per lui, il Balrog del film doveva per forza essere stato disegnato da Tolkien stesso non per un semplice e banale errore di attribuzione – che avrei compreso perfettamente – quanto per la convinzione che fosse così ben riuscito da non aver mai potuto, lo scrittore inglese, immaginare un altro tipo di Demone. Al termine di un’estenuante quanto inutile discussione, mi sono ricordato di un episodio che mi aveva colpito molti anni fa e che riguardava la ricezione, negli Stati Uniti, del film «Troy» (2004, quindi coetaneo al «Ritorno del Re» di Jackson); ebbene, per aiutare la vendita di un’opera quale l’Iliade che, diciamolo pure, non è mai stata considerata un best-seller (non solo negli Stati Uniti, ma anche nella cara vecchia Europa) un editore statunitense aveva pensato bene di ricorrere a uno stratagemma che doveva aver certamente considerato molto ingegnoso. Sulla copertina della versione americana dell’opera omerica, infatti, aveva inserito questo logo: «Il libro tratto dal kolossal Troy». A quel punto il povero Omero si doveva essere disintegrato nella sua tomba (ovunque egli riposi). Intendiamoci: a me il film Troy è piaciuto e pure molto, ma lo ritengo una liberissima resa del capolavoro epico greco e, soprattutto, al di là dei gusti personali, non penserei mai di rileggere le vicende di Achei e Troiani basandomi sugli eventi trattati nel film!

Concludo questa lunga dissertazione esprimendo il mio giudizio finale su questa trilogia cinematografica: l’opera di P. Jackson, acclamata da critica e pubblico (anche se Cristopher Tolkien, figlio dello scrittore inglese e recentemente scomparso, non la pensava così e questo dovrebbe far riflettere, dal momento che chi meglio di lui poteva giudicare le rese cinematografiche del romanzo paterno, considerato l’impegno profuso nel valorizzare le opere di cotanto genitore?) ha finito col creare – difficile dire se l’abbia fatto esplicitamente o meno – un «Signore degli Anelli» alternativo all’opera prima. Si è trattato, come accennato nel titolo di questo articolo, di un fenomeno culturale che ha finito coll’influenzare profondamente l’opinione pubblica: qualche mese fa, discutendo con Angelo Montanini (uno dei più grandi artisti italiani che si siano cimentati con l’opera tolkeniana, autore, fra l’altro, di due illustrazioni di Erfea e Miriel che potrete vedere qui: Ritratti) abbiamo entrambi constatato come l’apparato iconografico e simbolico post-2004 sia stato irremediabilmente egemonizzato dalla trilogia di Jackson: ormai Aragorn, tanto per fare un esempio, non può che avere le fattezze di Viggo Mortensen, Legolas non può che ricordare Orlando Bloom e così via. Si badi bene; non ho nulla contro l’interpretazione fornita da questi due bravissimi attori, ma è avvilente constatare che non ci sia più spazio per illustrazioni diverse. Negli anni Ottanta e Novanta, invece, le rappresentazioni di personaggi, luoghi ed eventi ispirati al legendarium tolkieniano erano diversissime fra loro, permettendo all’osservatore – cosa non trascurabile – di avere una vasta platea di soggetti fra i quali scegliere «la propria» rappresentazione di questo o quel personaggio tolkieniano. La potenza evocativa dei film, purtroppo, ha creato una situazione di assoluto monopolio alla quale, solo recentemente, si sta iniziando a porre rimedio, anche grazie a una nuova generazione di illustratori meno influenzati dall’immaginario scaturito dalla trilogia cinematografica di Jackson.

Le lettere di Tolkien e le origini della guerra civile numenoreana

Care lettrici, cari lettori,
dedico questo articolo a uno degli aspetti meno conosciuti, ma per questo non meno importanti, della genesi del mito di Numenor in Tolkien. Avrei dovuto, in realtà, scrivere questo articolo presentandolo come una sorta di «cappello introduttivo» all’ultimo racconto che ho iniziato a trascrivere in questi giorni (potete leggerne le prime pagine in Numenor: Game of Thrones (I)), ma impegni vari non mi hanno permesso di rispettare questa scadenza.
In questo articolo saranno analizzate alcune lettere di Tolkien incentrate su una serie di aspetti particolarmente importanti per spiegare non solo le ragioni profonde che furono alla base del conflitto civile, scoppiato nell’anno 3255 della Seconda Era, tra i sostenitori della regina legittima Tar-Miriel e i seguaci di suo cugino Pharazon, ma anche per indagare sulla ritrosia che caratterizzò Tolkien in relazione al mancato approfondimento di queste ragioni, potremmo dire, a carattere «storico-sociale». Questo tema, in parte, è stato affrontato dal sottoscritto, per la prima volta, negli articoli: Scrivere degli Uomini. Un limite di Tolkien? e Scrivere degli Uomini (II parte) Tolkien vs Dante, ovvero l’impossibilità dell’allegoria che vi invito a leggere (o rileggere).
L’analisi delle lettere di Tolkien è di grande importanza per chi desideri approfondire le ragioni che spinsero l’autore del «Signore degli Anelli» a compiere alcune scelte precise in merito al dipanarsi della trama (o forse sarebbe più corretto riferirsi, data la vastità degli argomenti trattati nei suoi racconti e romanzi, alle trame) di quel lungo percorso che, fin dalla creazione del Mondo Secondario, avrebbe condotto molti millenni più tardi, all’ascesa e poi alla caduta di Numenor, l’isola del Dono. Per comodità mia (e di chi mi legge) ho deciso di suddividere questo articolo in due paragrafi, corrispondenti a ciascuno degli argomenti presi in esame nel corso di questa trattazione.

I sovrani di Numenor ispirati al mito egizio dei faraoni?

Nella lettera 156, datata verso la fine del 1954, Tolkien si sofferma sulla figura del sovrano di Numenor. I lettori delle opere del professore di Oxford sanno che la linea regale che resse il trono dell’Isola del Dono affondava le proprie radici nell’unione fra Uomini, Elfi e Maia, ossia spiriti angelici: questa, dunque, è la ragione per cui, ancora nella tarda Terza Era, Denethor, Sovrintendente di Gondor, lamenterà al proprio figlio maggiore, Boromir, come il ruolo dei sovrani di quel Paese (a loro volta discendenti di un ramo «cadetto» dei sovrani numenoreani) non avrebbe mai potuto essere soppiantato, per così dire, dai Sovrintendenti, nonostante fossero ormai trascorsi più di mille anni dalla scomparsa dell’ultimo sovrano del Reame Meridionale. È evidente, dunque, che il lignaggio dei sovrani di Numenor sia una delle prerogative fondamentali per tramandare questa importante carica senza soluzione di continuità; è sufficiente dare un’occhiata alla cronologia dei diversi re dei Dunedain, posta nel volume «Racconti Incompiuti», per rendersi conto, infatti, di come non appaiano mai altri sovrani provenienti da diversi lignaggi (sia pure all’interno dei numenoreani). Certo conosciamo molto poco (per usare un eufemismo) delle mogli dei sovrani di Numenor, però sembra evidente che la linea di successione sia costituita da eredi diretti di Elros, primo re di quell’isola e fratello di quell’Elrond che scelse di essere immortale come gli elfi e si stanziò, invece, nella Terra di Mezzo. Nella lettera che segue, Tolkien si sofferma sugli attributi sociali e, allo stesso tempo, religiosi, che contribuivano fortemente a rafforzare l’autorità del sovrano numenoreano:

«I Numenoreani cominciarono così una nuova grande epoca, e come monoteisti; ma come gli Ebrei (ancora di più) avevano un unico centro fisico di venerazione: la sommità della montagna Meneltarma «Pilastro del Cielo» […] Anche quando i Re si estinsero non restò più niente di simile al sacerdozio: le due cose per i Numenoreani erano equivalenti» (La Realtà in Trasparenza, lettera 156)

L’analogia con gli antichi Egizi è ripresa nella lettera 211, laddove Tolkien, approfondendo la caratterizzazione dei Gondoriani, confessa che questi

«erano orgogliosi, particolari e strani, e penso che la cosa migliore sia raffigurarli come (diciamo) Egizi. Assomigliano agli Egizi sotto diversi aspetti – la passione per, e la capacità di costruire, opere gigantesche e massicce (Ma naturalmente non per la loro teologia: rispetto alla quale assomigliavano più agli Ebrei, anzi erano persino più puritani – ma questo sarebbe troppo lungo da spiegare: spiegare perché praticamente non esiste una religione manifesta, o piuttosto atti o luoghi o cerimonie religiose fra i «buoni» o anti-Sauriani, all’interno del Signore degli Anelli» (La Realtà in Trasparenza, lettera 211).

Ancora sulla figura del sovrano numenoreano tipico, Tolkien, nella lettera 244 aggiungeva, infine, che:

«un re Numenoreano era un monarca, con il potere assoluto di decidere durante una discussione; ma governava il regno rispettando l’antica legge, di cui era amministratore (e interprete), ma non autore» (La Realtà in Trasparenza, lettera 244).

Ciò che mi sembra importante sottolineare, sulla base della lettura di questi documenti, è che il sovrano numenoreano, nelle intenzioni di Tolkien, doveva essere una guida non solo politica e amministrativa (come ogni altro capo di Stato, del resto), ma anche religiosa e, direi, simbolica. Ricordate come riescono gli abitanti di Minas Tirith a capire che Aragorn è il re tanto atteso? Dalle sue capacità di guaritore. Senza dubbio, anche i suoi antenati dovevano essere in grado di praticare queste arti mediche benefiche. Questa figura di sovrano, che troviamo anche in contesti storici (per esempio, si riteneva che gli antichi re francesi fossero in grado di guarire i loro sudditi da alcune malattie semplicemente imponendo loro le mani sul capo) ha però un limite evidente: diventa di grande utilità nel momento in cui una società è rigidamente organizzata da un punto di vista sociale (come doveva essere Numenor nella sua prima fase di esistenza), oppure all’interno di società profondamente in crisi (come il regno di Gondor alla fine della Terza Era), tuttavia può risultare «scomoda» nel momento in cui una società si articola maggiormente e compaiono, per così dire, «centri alternativi di potere» rispetto a quelli regi. Un esempio, sotto questo punto di vista, può essere costituito dal Consiglio dello Scettro, che affiancava il sovrano nelle sue scelte: secondo una nota scritta dallo stesso Tolkien a margine del racconto di Aldarion ed Erendis, questo organismo nel tempo aveva profondamente mutato la sua forma, diventando di fatto un potere alternativo rispetto a quello del sovrano. Nei secoli centrali e finali della Seconda Era, d’altra parte, si nota un’evoluzione degli stessi sovrani numenoreani: progressivamente, infatti, a parte alcune eccezioni significative, essi sembrano tralasciare i loro doveri regali, per concentrarsi unicamente sull’accumulo di ricchezze oppure su ricerche erudite. Sembra evidente, dunque, che, con il trascorrere dei secoli, il potere effettivo sia stato distribuito fra più soggetti, molti dei quali, si può supporre, avessero fatto fortuna grazie alla colonizzazione della Terra di Mezzo.

Una lotta di classe alla base del conflitto civile a Numenor?

Mi rendo conto che questo titolo può sembrare un po’ provocatorio, e non ho nessuna difficoltà ad ammetterlo. Come i lettori di Tolkien sanno (o dovrebbero sapere) molto bene, questo autore non volle mai accostare le storie della Terra di Mezzo a quelle che riguardavano il Mondo Primario, vale a dire la nostra cara e vecchia Terra, né volle cercare accostamenti di tipo politico, di nessun genere. A un lettore, per esempio, che gli chiese se Mordor corrispondesse all’Unione Sovietica, data la collocazione geografica ad Oriente di entrambi i territori (e l’idea, sottesa a questa affermazione, che Sauron e Stalin fossero considerati entrambi i nemici dell’Occidente, sia di quello fantastico, che di quello reale) Tolkien replicò fermamente che simili accostamenti non avevano alcun senso. Proprio per queste affermazioni contenute nelle lettere del professore di Oxford, non sfugge dunque l’importanza di questa lettera, perché cerca di andare oltre la dicotomia «religiosa» fra Fedeli e Uomini del Re.
In questa sede, dunque, voglio chiarire un concetto che ho toccato marginalmente nel corso di alcuni commenti scritti a margine di articoli precedenti: i Numenoreani Neri, in origine, non erano i seguaci di Pharazon. O almeno, non lo divennero fin quando non furono tutti quanti (a cominciare da Pharazon stesso) corrotti da Sauron, al punto tale da adorare Morgoth e praticare apertamente la Magia Nera. Il Numenoreano Nero più famoso, senza dubbio, è la Bocca di Sauron, che si presume discendesse da quei Numenoreani che si erano stanziati lungo le coste della Terra di Mezzo perché avidi di scienza malefica praticata da Sauron. Prima dell’arrivo dell’Oscuro Signore a Numenor, tuttavia, coloro che si opponevano ai Fedeli all’amicizia con gli Elfi, e al culto dei Vala e dell’Unico, erano noti come «Uomini del Re»: questa designazione indicava, dunque, quei Numenoreani che seguivano l’orientamento sempre più marcatamente imperialistico che i sovrani di quel popolo, nella fase centrale e finale della Seconda Era, finirono con il rendere l’obiettivo primario della loro politica. Questo non vuol dire, naturalmente, che alcuni di loro non avessero già deciso di lasciarsi corrompere da Sauron (come dimostra la storia dei tre Nazgul di origine numenoreana, accennata, ma mai ampiamente approfondita nel Silmarillion); tuttavia, è bene ribadirlo, la grande differenza tra questi e i Fedeli consisteva nel progressivo allontanamento dei primi dalla religione dei Valar, alla quale, tuttavia, almeno fino all’arrivo di Sauron nella loro isola, non si sostituì il culto di Morgoth. Questa differenza, se da un certo punto di vista può sembrare di scarsa influenza (dopotutto, gli Uomini del Re possono essere considerati, anche da un punto di vista «genetico», per così dire, gli antenati diretti dei Numenoreani Neri), appare invece di grande importanza nel momento in cui si esaminano le cause della decadenza di Numenor e il ruolo che Sauron svolse in questo processo. Un ruolo che, a ben vedere dalle parole che Tolkien adoperò in questa lettera, assomigliava sempre più a quello di «leader politico» oltre che, naturalmente, religioso e che finì coll’interagire apertamente con una serie di interessanti problematiche che, ancor prima della comparsa di Sauron a Numenor, dovevano avere provocato uno stato di crescente tensione sociale nell’isola del dono.

«Nella seconda fase, i giorni dell’orgoglio e della gloria e del risentimento contro il Divieto, cominciano a cercare il benessere piuttosto che la beatitudine. Il desiderio di sfuggire alla morte ha prodotto il culto delle morte ed essi profondono ricchezza e arte sulle tombe sui monumenti funebri. Ora incominciano a insediarsi sulle coste occidentali, ma questi insediamenti assomigliano sempre più a fortezze e ad abitazioni signorili, e i Numenoreani diventano raccoglitori di tributi, portando dal mare una quantità sempre maggiore di ricchezze nelle loro grandi navi». (La Realtà in Trasparenza, lettera 131)

Ancora più indicativo è questo breve estratto dal Silmarillion, che dimostra a quale livello fosse giunta la tensione sociale presente nell’isola di Numenor:

«E accadde in quei giorni che uomini dessero mano ad armi, trucidandosi a vicenda per motivi insignificanti, poiché s’erano fatti pronti all’ira e Sauron o coloro che questi aveva legato a sé andavano per il paese aizzando gli animi, sì che la gente mormorava contro il Re e i signori ovvero contro chiunque avesse qualcosa che essi non avevano; e coloro che disponevano di potere traevano crudele vendetta» (Il Silmarillion, pp. 344-345)

Da questo brano appare come Sauron, oltre ad avere velleità di tipo «politico» sia stato caratterizzato da Tolkien come una divinità che gli antropologi non esiterebbero a definire «trickster», ossia imbroglione, truffatore, come lo era, per esempio, Loki. Curiosamente, si può osservare come in questo brano Tolkien riprenda in parte la caratterizzazione che Sauron aveva quando era stato concepito come Tevildo, il Signore dei Gatti: una creatura perfida, tendente a fare il doppio gioco (cfr. «Racconti Perduti», dove questo personaggio appare in una versione primitiva del racconto di Luthien e Beren; per inciso, è in questo racconto, poi abbandonato dall’autore, che si spiega l’ostilità fra gli Elfi e i Gatti). Sembra evidente come a Sauron non importi assolutamente nulla della questione sociale legata agli «squilibri» derivati, con ogni probabilità, dalla concentrazione di ricchezze nelle mani di una ristretta cerchia di numenoreani: il suo obiettivo, infatti, era quello di approfondire il solco già esistente tra i diversi gruppi sociali dell’Isola del Dono, facendo leva ora sul desiderio dei ceti più diseredati di riappropriarsi di una parte delle ricchezze che dovevano essere loro state sottratte dalle élites, ora sui ricchi numenoreani che, spaventati da una possibile rivolta (o addirittura una rivoluzione?), avrebbero volentieri fatto ricorso alla forza per soffocare ogni tentativo di sovvertire i rapporti di forza esistenti.

Conclusioni: un epilogo già annunciato

L’influenza diretta di Sauron sulle genti numenoreane si ebbe solo a partire dalla sua finta sottomissione ad Ar-Pharazon, avvenuta nell’anno 3262 della Seconda Era. Le lettere di Tolkien citate in questo articolo, tuttavia, mettono in luce alcuni interessanti elementi che vale la pena di riassumere in questo paragrafo conclusivo e che ci consentono di sostenere la tesi secondo cui la fine del regno numenoreano era già stata avviata ben prima della guerra civile che portò al potere Pharazon.
1) La figura del sovrano di Numenor, così come appare nella prima lettera citata in questo articolo, possedeva valenze sia politiche che religiose. La rinuncia della maggior parte dei Numenoreani al culto dei Vala e di Eru rese la sua figura probabilmente più debole, da un punto di visto simbolico, accentuando, al contrario, il potere dei nobili che circondavano il sovrano e che siedevano al Consiglio dello Scettro e che potevano contare su maggiori ricchezze e (probabilmente) su un numero maggiori di soldati che dipendevano dai loro ordini e che si erano distinti nel saccheggio e nell’occupazione della Terra di Mezzo.
2) Esisteva a Numenor una fortissima contrapposizione tra le classi sociali: se è vero, infatti, che, nel suo complesso, la società numenoreana era diventata più ricca e potente, non mancavano, tuttavia, forti differenze al suo interno (basti vedere quello che succede nella società odierna, per rendersene conto). Sauron approfittò di questa divisione per i suoi fini, tuttavia non fu lui a crearla dal nulla.
3) Si fa presto a contrapporre Fedeli ai Seguaci di Pharazon: in realtà, dovevano esserci diverse posizioni all’interno di questi schieramenti, alcune più «moderate», altre più «radicali», legate, probabilmente, anche a fattori di natura sociale ed economica. A questo proposito va ricordato come lo stesso Pharazon, pur essendo ovviamente un personaggio squallido e corrotto, non aveva alcuna intenzione di sottomettersi a Sauron (almeno queste erano le sue intenzioni, quando preparò la sua flotta per conquistare Mordor). Per Pharazon, come per tanti altri suoi seguaci, Sauron era anzitutto un avversario «politico» in quanto le sue azioni aggressive minacciavano il dominio numenoreano nella Terra di Mezzo. Che Sauron fosse «anche» il discepolo di Morgoth doveva sembrare, per molti Numenoreani, un argomento trascurabile. Avrebbero reagito allo stesso modo se, per assurdo, Gil-Galad avesse deciso di intraprendere la conquista della Terra di Mezzo; state pur certi che non avrebbero esitato a dichiarargli guerra! Questa crisi insita nella rappresentazione della figura del monarca numenoreano è stata poi sviluppata nel mio «Racconto del Marinaio e dell’Infame Giuramento», al cui interno, partendo da questi scarni elementi presentati da Tolkien, mi sono spinto oltre, interrogandomi su una questione affascinante, destinata, naturalmente, a restare senza risposta: e se i tempi a Numenor, prima della Guerra civile, fossero divenuti maturi per una evoluzione radicale della forma monarchica di quella nazione? Cosa sarebbe accaduto se, oltre a porre in crisi la figura (debole) di Tar-Miriel, una parte dei Fedeli avesse avanzato riserve sull’istituzione monarchica in quanto tale?

Il Ciclo del Marinaio

Il ciclo del marinaio, ispirato alle vicende narrate nei Racconti Incompiuti e nel Silmarillion di J.R.R. Tolkien, è l’affresco della storia della grande isola di Numenor, dalla sua ascesa alla gloria sino alla sua caduta; testimone e insieme artefice degli eventi della sua epoca è il principe Erfea, del quale il libro presenta le eroiche e sovente dolorose vicende.

Dalla nascita sino alla morte, nell’arco della sua lunga esistenza, Erfea avrà modo di interagire con i personaggi già noti al pubblico amante dell’epica tolkieniana: Sauron, l’Oscuro Sire di Mordor; i suoi crudeli servi, gli Spettri dell’Anello e il loro malvagio capitano, il Re Stregone; i saggi elfi, tra cui spiccano Elrond e Galadriel; i valorosi nani di Moria e altri ancora.

Omaggio alla voluminosa opera dello scrittore inglese, Il Ciclo del marinaio costituisce anche una rivisitazione dell’epos cavalleresco e classico, approfondendo la psicologia dei protagonisti e non mancando di sottolinearne le contraddizioni e le profonde inquietudini, servendosi di un linguaggio antico per trattare le universali tematiche della nostra civiltà e della nostra epoca.

Qualche consiglio utile per la lettura: se sei interessata/o a scoprire quale sia stata la genesi del mio romanzo, «Il Ciclo del Marinaio», ti suggerisco di leggere questi due articoli: In principio era…Othello, ovvero come nacque il Ciclo del Marinaio e …e arrivò il Marinaio! Corto Maltese, Aldarion ed Erfea.
Se, invece, preferisci addentrarti subito nella lettura dei vari racconti, puoi sfogliare le categorie che si riferiscono ai vari racconti, iniziando dall’articolo più in alto nella cronologia per finire a quello più recente. Per aiutarti nella lettura di questi racconti e agevolare la comprensione di nomi ed eventi notevoli, ti consiglio di leggere questi articoli: Cronologia della vita di Erfea e dei racconti del Ciclo del Marinaio e Dizionario dei personaggi de «Il Ciclo del Marinaio».
Infine, se vuoi apprezzare altre immagini come quella posta in evidenza in questo articolo, ti invito a dare un’occhiata alla categoria «Illustrazioni».
Per approfondire aspetti legati al pensiero e alle opere di Tolkien, puoi leggere gli articoli presenti nella categoria «Personaggi, luoghi e storie delle opere di Tolkien»; se hai apprezzato le versioni cinematografiche de «L’Hobbit» e del «Signore degli Anelli», ti suggerisco la lettura degli articoli inclusi nella sezione «Settima Arte».
Resto a tua disposizione per qualunque informazione e ti auguro buona lettura!

Da Numenor alla Terra di Mezzo: benvenuti, lettori de «Il Ciclo del Marinaio»!

Apro questo blog per scrivere, discutere e apprendere storie, canti e racconti ispirati alla Seconda Era della Terra di Mezzo, così come è stata concepita e descritta dallo scrittore inglese J.R.R. Tolkien. Qualche consiglio utile per la lettura: se sei interessata/o a scoprire quale sia stata la genesi del mio romanzo, «Il Ciclo del Marinaio», ti suggerisco di leggere questi due articoli: In principio era…Othello, ovvero come nacque il Ciclo del Marinaio e …e arrivò il Marinaio! Corto Maltese, Aldarion ed Erfea.
Se, invece, preferisci addentrarti subito nella lettura dei vari racconti, puoi sfogliare le categorie che si riferiscono ai vari racconti, iniziando dall’articolo più in alto nella cronologia per finire a quello più recente. Per aiutarti nella lettura di questi racconti e agevolare la comprensione di nomi ed eventi notevoli, ti consiglio di leggere questi articoli: Cronologia della vita di Erfea e dei racconti del Ciclo del Marinaio e Dizionario dei personaggi de «Il Ciclo del Marinaio».
Infine, se vuoi apprezzare altre immagini come quella posta in evidenza in questo articolo, ti invito a dare un’occhiata alla categoria «Illustrazioni».
Per approfondire aspetti legati al pensiero e alle opere di Tolkien, puoi leggere gli articoli presenti nella categoria «Personaggi, luoghi e storie delle opere di Tolkien»; se hai apprezzato le versioni cinematografiche de «L’Hobbit» e del «Signore degli Anelli», ti suggerisco la lettura degli articoli inclusi nella sezione «Settima Arte».
Resto a tua disposizione per qualunque informazione e ti auguro buona lettura!

Suggerimenti di lettura:

In principio era…Othello, ovvero come nacque il Ciclo del Marinaio

…e arrivò il Marinaio! Corto Maltese, Aldarion ed Erfea

Dizionario dei personaggi de «Il Ciclo del Marinaio»

Cronologia della vita di Erfea e dei racconti del Ciclo del Marinaio