Osgiliath cadrà? Scontro finale

Proseguo la narrazione della storia dell’assedio di Osgiliath da parte delle armate di Sauron al termine della Seconda Era. Nell’articolo precedente il Drago del Freddo Bairanax aveva aperto una breccia nelle mura della città: mi rendo conto, tuttavia, che non ho spiegato per quale motivo il Re Stregone avesse reclutato questa specifica specie di drago. Le mura esterne della città era state costruite con il laen, un materiale refrattario al fuoco, ma estremamente vulnerabile nei confronti delle temperature basse. Per questa ragione Sauron desiderava avere nei suoi eserciti i draghi del freddo: essi, infatti, a differenza dei più noti draghi del fuoco, erano in grado di emettere un getto di azoto liquido, avente punto di ebollizione pari a -195,82 gradi celsius, che aveva un effetto deleterio sulle mura di Osgiliath (oltre che sui malcapitati esseri viventi che avessero avuto la sfortuna di trovarsi nei paraggi). Buona lettura!

«Un grande e selvaggio clamore si levò dalle schiere di Sauron ed esse esultarono, ché la città era prossima a cedere; tuttavia, essi non avevano mezzi per superare il profondo canale ed erano riluttanti a immergere le proprie membra nella fredda acqua che lambiva le mura; Angurth allora soffiò sulla sua morbida superficie e la rese rigida, affinché le creature di Mordor potessero attraversarla e recarsi in città. Grida confuse si levarono da Osgiliath e molti capitani, senza che alcun ordine fosse stato dato loro, gettarono le armi e a nuoto attraversarono l’Anduin, raggiungendo in tal modo la sponda occidentale, ove credevano stoltamente non sarebbe giunta la minaccia dei Nazgul; impaurite, le schiere degli alleati arretrarono e la catastrofe sarebbe invero giunta su ali di tenebra, se Erfea non fosse balzato lesto sulla breccia, soffiando nel suo olifante.

Risero gli schiavi di Mordor, ché erano ancora in gran numero e non temevano la collera del Numenoreano; allora Erfea suonò nuovamente e coloro che si davano alla fuga, impugnarono nuovamente le armi e nuovo coraggio e vigore affluì nelle vene dei combattenti dell’Alleanza. Una terza volta risuonò nella notte il corno del Sovrintendente ed era codesta una sfida all’Oscuro Signore e alle sue armate; possente si levò la voce di Erfea ed essa chiamava a duello il Capitano Nero: “Murazor! Murazor! Murazor! Se non hai obliato la ignominiosa caduta dinanzi al cancello di Edhellond, vieni innanzi a me! O forse la parole di Erfea, figlio di Gilnar, colui che chiamano il Morluin, incutono troppo timore nel tuo codardo cuore?” Stupiti si arrestarono allora i soldati di entrambi gli schieramenti, ché non pareva loro possibile che un Uomo osasse sfidare il Capitano degli eserciti di Mordor, il Signore dei Nazgul e Re di Morgul: lame furono abbassate, frecce dall’acuminata punta riposte nelle loro faretre e visiere alzate; per un lungo istante gli schiavi di Mordor dubitarono e le loro membra sembrarono cedere dinanzi alla terribile sfida che il Comandante dei loro nemici aveva lanciato; stupefatti e timorosi, essi si guardavano l’un altro, senza pronunciare parola alcuna; finanche i grigi segugi di Dwar si accucciarono e l’unico suono che si udì nella pianura fu quello dei loro silenziosi guaiti.  Non vi era follia nello sguardo di Erfea, né rassegnazione, ché la morte non gli incuteva timore, avendola scorta infinite volte nel corso della sua vita; rapide, le sue labbra levarono un’ultima preghiera a colui che è sopra le potenze di Arda, infine aspettò che il suo nemico gli si mostrasse e accettasse la sua sfida: non dovette attendere tuttavia a lungo, ché il Capitano Nero tosto apparve. Fosco era lo sguardo del nemico dei Popoli Liberi e nulla era possibile leggervi in esso, eccetto l’odio e il disprezzo: lente riecheggiarono le sue parole e coloro che le ascoltarono furono presi da grande terrore: “Nessuno aveva mai osato pronunciare prima d’ora tale nome, Erfea figlio di Gilnar”. Si interruppe, infine riprese a parlare: “Forti erano le tue membra e lungimirante la tua mente, tuttavia ben m’avvedo come tu sia ora solo un pallido fantasma di quanto un tempo eri. A lungo sei sfuggito alla cattura e ora giungi alla mia lama come un incauto mendicante; se è un destino di morte quello che il tuo cuore ambisce ottenere, ebbene esso non mancherà di essere da me soddisfatto”. Rapida allora levò la possente mazza e stridulo echeggiò nella silenziosa piana un urlo foriero di odio indicibile; saldo tuttavia restò il cuore del Dunadan ed egli con elegante maestria si scansò lesto: allora Sulring si abbatté sul capo dell’oscuro nemico, eppure la ferrea corona attutì l’impatto, sebbene essa stessa finisse in frantumi.

Cruento fu il duello e nessuno fra quanti vi assistettero ne obliò mai il ricordo: letale era tuttavia il Signore dei Nazgul e la potenza del suo padrone era in lui, mentre il braccio di Erfea era stanco per il gran combattere di quei lunghi mesi, e il suo animo era provato dal dolore e dalla perdita; gioì lo spettro, ché la sua oscura lama affondò nel basso ventre del suo avversario e vicino fu a ottenere la sua vendetta, allorché essa gli sfuggì di mano e un intenso dolore gli attraversò il nero spirito; annebbiata gli divenne la vista, mentre tutt’intorno a lui l’aere brillò e la luce penetrò nelle sue carni. “A use, mol Mordoro! (Fuggi, servo di Mordor)”; sopraffatto da tali parole, il Signore degli Stregoni fuggì lontano e le sue schiere tremarono e si dispersero nella pianura; alto sorse il Sole sul mondo ed esso allontanò le tenebre di Mordor; Glorfindel e Bor furono lesti a impugnare le armi e la loro furia fu tale che nessuno fra quanti combattevano nelle fila dell’Avversario poté resistere loro.

Esamine giaceva Erfea sulle rovine delle mura; per un istante egli obliò ogni cosa e gli parve di intraprendere sentieri che nessun altro essere aveva mai percorso: lucida allora gli parve l’immagine di Elwen dinanzi a sé e nel suo cuore baluginò la speranza che ad altri toccasse l’arduo cammino intrapreso anni prima. Infine tutto disparve ed egli ascoltò nuovamente il lamento delle armature scosse da fredde lame, i gemiti degli Uomini morire nella triste alba e le oscene voci dei Nazgul reclamare la preda perduta: la realtà penetrò allora in lui, simile a un rapido coltello ed egli si scosse ché la guerra lo chiamava alla sua folle danza. Non vi era più traccia della ferita che il nero servo di Mordor aveva inflitto alle sue carni ed egli non avvertiva nel suo cuore più alcuna paura o dolore; lacrime felici gli ornarono il viso, ché aveva compreso a chi dovesse la vita: liete, allora salirono al cielo parole di ringraziamento e di amore ed egli si rizzò in piedi mentre la calda luce parve avvolgerlo nel suo abbraccio. Glorfindel era lesto accorso al suo fianco, allorché lo aveva visto cadere sotto il crudele colpo del Re Stregone e ora lo mirava in volto, stupefatto per quanto era accaduto: per alcuni istanti nessuno parlò fra loro, infine Glorfindel rise e coloro che lo udirono non poterono fare a meno di provare il medesimo sollievo: “Lieto è il mio cuore nello scorgere il Signore dei Dunedain in salute, ché molto avevo temuto per la tua vita; nessuno oblierà quanto compisti per le nostri sorti e il tuo nome risuonerà come un monito per le schiere dell’Avversario”. Rise anche Erfea, infine parlò: “Non fui io a sconfiggere l’oscuro spettro, ma colei che i miei sensi mortali perdettero molti anni fa e che in questa ora buia mi ha salvato da morte certa”. Ristette un istante in silenzio, infine parlò nuovamente e le sue parole echeggiarono chiare per tutta la piana: “Elwen vanimelda, namarie!” (Elwen dolce amata, addio!) Annuì lentamente Glorfindel: “Comprendo quanto le tue parole affermano e il mio cuore gioisce, ché non dovremo temere l’oscuro braccio del Capitano Nero per qualche tempo; temo, tuttavia, che egli non sia stato distrutto e che debbano trascorrere molte altre epoche prima che ciò accada”. “Lungimiranti sono le tue parole, Signore dei Noldor; non sarà per mano di un Uomo che egli perirà, eppure ciò accadrà, quando sarà giunta l’ora. Suvvia, ora rechiamoci dai nostri compagni, ché grave una minaccia pesa ancora su di noi, e la malefica schiatta di Morgoth non è stata ancora abbattuta”.

Discesero i due capitani e a lungo Glorfindel serbò nel suo cuore le parole del Numenoreano, senza che nessun altro ne venisse a conoscenza; Uomini, Elfi e Nani andavano adunandosi innanzi a loro, ché la speme era tornata a fiorire nei loro cuori e sebbene i quartieri orientali di Osgiliath fossero stati invasi dalle armate di Mordor, pure il ponte sull’Anduin non era caduto e la fortezza che su esso era stata edificata al principio della fondazione della città restava sotto il loro controllo: lesti, dunque, essi accumularono travi annerite e qualunque altro materiale fosse reperibile e si accinsero a fortificare l’accesso che dava ai quartieri occidentali e a Minas Anor. Barricate furono innalzate nelle strade che conducevano alla cittadella e i soldati corsero a recuperare le armi e altro materiale bellico che, nella confusione della prima rotta, erano stati incautamente abbandonati: severi erano i loro sguardi, ché più non avvertivano la disperazione nei loro cuori e sebbene la difesa della città fosse ora molto più difficoltosa che in partenza, pure erano fiduciosi e i loro animi privati dall’Ombra che il Capitano Nero aveva portato fra loro.

Un messaggero a cavallo giunse lesto e chiese udienza al Sovrintendente, ché aveva da consegnargli novelle di buon auspicio; giunto che fu innanzi a lui, il messo così parlò: “Mio signore, l’isola di Cair Andros è stata sguarnita dalle truppe di Mordor, ché essi si ritirarono seguendo la direzione che conduce alle steppe della Dagorlad e ai Cancelli Neri; quali sono i tuoi ordini? Il guado è ora incustodito”. Lesto rispose Erfea: “Invero liete sono tali novelle e il tuo nome, othar, non sarà obliato: conduci innanzi a me Aldor Roch-Thalion, Signore dei Cavalli e Herim l’Impavido, affinché essi siano pronti a una sortita a cavallo”. Un breve inchino seguì la richiesta di Erfea ed ecco che i due capitani dei Popoli Liberi furono da lui: “Miei signori, per un motivo a me ignoto, le schiere di Mordor fuggono a Nord, lasciando sguarnita Cair Andros: è giunto dunque il tempo di caricare sul fianco destro l’esercito di Sauron, ché nessuno si opporrà a noi durante l’attraversamento dei Guadi e la sorpresa tra le armate del nemico sarà totale, ché essi non sospettano nulla. Celere deve però essere la nostra manovra, ché se fossimo individuati e scoperti, allora ogni nostra resistenza sarebbe vana”. Annuirono i due capitani degli Uomini, e riunirono i loro battaglioni, ai quali si aggregarono anche i cavalieri elfici comandati da Edheldin; giunti che furono innanzi alla porta occidentale, Erfea chiamò a sé Aldor e lo pregò di restare in città, ché nel suo cuore sorgeva grave una nuova minaccia e non avrebbe desiderato che Osgiliath rimanesse del tutto sguarnita di capitani di valore, ché sebbene grande fosse la sua fiducia nelle genti di Khazad-Dum, pure sapeva che essi non avevano mai sostenuto un assedio di tali dimensioni e non erano soliti combattere all’aperto.

Seppur a malincuore, ché molto gli premeva cavalcare contro le immonde schiere che minacciavano la sua gente, Aldor accettò tale ordine e, raggiunti Bor e Glorfindel, prese il comando delle schiere rimaste in città. Penose furono le ore che seguirono, ché gli schiavi di Sauron, dopo l’iniziale smarrimento seguito alla scomparsa del loro Capitano, si erano radunati nuovamente e ora marciavano contro i soldati dell’Alleanza; antichi palazzi e maestosi minareti, edifici ricolmi di antichi tomi recuperati a Numenor, nulla fu risparmiato dalla furia dei guerrieri di Mordor ed essi appiccavano il fuoco ovunque: non potettero però fare prigionieri, ché i loro nemici si erano ritirati al di là del fiume ed essi non avanzarono oltre, ché una fitta pioggia di frecce scese sulle loro avanguardie ed essi si ritirarono nei quartieri che avevano conquistato, mentre alcuni fra loro inviavano messaggi a Khamul, ora comandante delle schiere dell’Occhio, perché egli conducesse i superstiti draghi del freddo all’attacco finale.

Mai giunse tale messaggio all’Orientale, ché esso fu intercettato dalla cavalleria alleata, e invero fu un bene che ciò accadesse perché, in caso contrario sarebbero affluiti notevoli rinforzi alla città; i Vermi di Morgoth, tuttavia, resisi conto di quanto era accaduto, si mossero lesti e le loro minacciose sagome proiettarono inquietanti ombre sugli edifici della città: stridule e possenti le loro urla riecheggiarono nei vicoli deserti di Osgiliath, eppure tali malvagie creature non incutevano lo stesso timore che aveva colto impreparati i Figli di Iluvatar in precedenza, sicché i loro cuori restarono saldi e non temettero.

Sovente Aldor e Glorfindel accorrevano laddove il pericolo era maggiormente presente e coloro che li osservavano erano colti da stupore, ché parevano fratelli di antica data; eppure, nessun combattente ricevette tanti elogi quanti il figlio di Bor, Groin Hroa Sarna: saldo era infatti rimasto il suo cuore perfino quando era stata aperta la breccia nelle mura ed egli era l’erede di una stirpe spietata. In preda al panico, Orchi e altre creature delle tenebre fuggivano dinanzi alla sua ascia bipenne ed egli tenne la sua posizione senza arretrare di un solo passo. Glorfindel non pronunciava parola, né verso i suoi nemici, né nei confronti degli alleati, eppure la sua sola vicinanza procurava agli Uomini diletto e pace e nessun ombra si allungava su di lui; frecce erano scagliate dal suo arco ed egli sovente ricorreva alla sua maestosa spada allorché gli Orchi osavano avvicinarsi troppo; beltà e saggezza erano impressi sul suo volto, a gloria della maestà dei Signori degli Eldar dei tempi remoti. Aldor Roch-Thalion combatteva con una grande violenza e finanche i pesanti fanti dei Numenoreani Neri non osavano incrociare le loro larghe lame con quella del capitano degli Eothraim; alti si levavano i suoi gridi di guerra e gli Orchi erano atterriti dalla sua furia cieca; Bairanax lo scorse sul ponte, possente figura, ergersi su quanti tentavano vanamente di contrastarlo e il suo soffio gelido si abbatté su di lui, senza tuttavia scalfirlo, ché nel suo animo era scesa la forza di Orome il Cacciatore, che il suo popolo chiama Bema, ed egli non temeva alcun nemico; rapido, il Theng si scagliò allora contro il drago e balzato agilmente sul suo dorso, vi piantò la lancia in frassino che impugnava nella sua mano sinistra, gridando parole di vittoria, ché nel suo cuore non si era spento l’eco del sacrificio di Ariel ed egli desiderava ottenere giusta vendetta.

Terribile fu l’agonia di Bairanax e il suo grido di morte echeggiò per molte miglia intorno; infine si accasciò al suolo e tutte le creature di Mordor si riversarono fuori dalla città, ché temevano la furia di Aldor e non osavano avvicinarsi a lui; un grande numero di fanti si radunò tuttavia dinanzi alla Città delle Stelle e tosto si disposero nuovamente per l’assalto, ché si avvidero essere in superiorità di almeno uno a venti e non temevano le mortali frecce dei Numenoreani, né le letali asce di Khazad-Dum.

Solitario risuonò allora nella piana un olifante e un cavaliere apparve all’orizzonte; risero, le infami schiere del nemico, ché non temevano la sua sfida; allora l’olifante del cavaliere risuonò ancora e il dubbio si insinuò nel cuore degli Orchi, ché non avevano obliato il figlio di Gilnar e alcuni fra loro affermavano essere tale cavaliere il loro mortale avversario; eppure, essi erano in numero tale che non potevano temerne l’ardore e la collera e tosto l’arroganza subentrò nuovamente nei loro cuori. Lesti, però, centinaia di corni echeggiarono nuovamente e sembrava che l’intera armata dei Vanyar fosse giunta alla Terra di Mezzo su ali intessute di rugiada; tremarono gli Orchi e si diedero alla fuga, ché la cavalleria degli alleati era giunta su di loro ed essi si avvidero che la loro fine era prossima.

Nessuno udì le parole che Erfea figlio di Gilnar pronunciò prima di condurre le sue schiere alla carica, eppure, egli non abbisognava che di un solo cenno per guidarne l’assalto, ché grande era nei cuori dei soldati la stima per il Sovrintendente di Gondor e lo avrebbero seguito ovunque egli avesse condotto i loro destrieri; rapidi dunque cavalcarono i Figli di Iluvatar e nelle prime ore del mattino spezzarono le linee degli eserciti di Mordor. Nessuno poté resistere alla loro carica impetuosa; i selvaggi Esterling, i possenti Haradrim, finanche gli enormi Troll delle caverne ondeggiarono e caddero; simili a ciottoli che i flutti della marea sommergono con violenza impetuosa, così i bianchi cavalieri dell’Ovest calpestarono i nemici che si ergevano pateticamente innanzi a loro, mentre altri inseguivano coloro che tentavano di scappare.

Un giorno di gloria fu dunque quello, ché non solo l’assedio cessà e la battaglia fu vinta, ma avvenne anche che il sovrano Anarion, scosso dal suo profondo sonno dall’eco di infiniti corni nella piana, si riscuotesse e, essendo balzato fuori dal suo giaciglio, conducesse i fanti gondoriani alla vittoria ed essi combatterono lieti, ché il figlio di Elendil era tornato a nuova vita. Canti furono uditi quel giorno echeggiare nella città di Osgiliath, e sebbene altri pericoli dovevano sopraggiungere a Gondor, pure le sue imponenti mura non furono mai più minacciate nel corso di quell’era e la vittoria arrise a coloro che mai avevano disperato in essa».

Il Ciclo del Marinaio, pp. 303-310